È verità comunemente ammessa die l’econo¬
mia politica o, senz’altro, l’economia sia una scien¬
za sociale. Questo vuol dire ch’essa non studia
1’/ionio ceconomicus e i fenomeni economici, quali
si possono immaginare in uno stato presociale o an¬
tisociale, ma considera invece gli aspetti economi¬
ci della vita sociale nella sua organicità essenziale.
Ed è chiaro che in tanto può studiarli e inten¬
derli sistematicamente in quanto la vita sociale
abbia essa stessa un’unità, un ordine, una di¬
sciplina: sia, in altri termini, non uno stato
di natura bensì un organismo politico, uno Stato.
Fondamento, dunque, di ogni scienza sociale e del-
l'eeonomia in particolare è il concetto di Stato, con
il correlativo problema dei rapporti tra Stato e in¬
dividuo. Per intendere la storia dell’economia po¬
litica e le vicende degli indirizzi predominanti
(economia liberale ed economia socialista) è ne¬
cessario indagare come le diverse scuole abbiano
impostato e risolto tale problema.
Se si guarda all'economia classica e in gene¬
re all’economia più comunemente intesa come
scientifica, si deve convenire che essa è stata via via
costruita e perfezionata dal secolo XVIII a oggi tra¬
scurando, qualche volta in modo assoluto e sem¬
pre in modo essenziale, il problema dello Stato. Dal-
reconomia del baratto fino a quella complicatissi¬
ma delle banche e dell’industria contemporanea,
tutti i trattati sono stati concepiti in rapporto a una
vita economica in cui dello Stato non si sente qua¬
si mai il bisogno di occuparsi, come se fosse real¬
tà estrinseca e irrilevante ai fini di una vera co¬
struzione scientifica.
La spiegazione di questo fatto, evidentemente
in antitesi con la qualifica di scienza sociale con cui
si caratterizza l’economia, va trovata nella partico¬
lare concezione dello Stato teorizzata dalla scienza
politica e giuridica dal secolo XVIII in poi, e classi¬
ficata ormai globalmente con l’epiteto di liberale.
Essa sorge come reazione ai vecchi sistemi politici,
per i quali lo Stato era una realtà diversa dagli indi¬
vidui che lo componevano e sì rappresentava quin¬
di ai loro occhi conte un’autorità meramente arbi¬
traria, con fini propri e opposti a quelli dei sud¬
diti: sorge come bisogno di distruggere un potere
estrinseco e dannoso, e con tale esigenza non può
far altro che rivendicare i sacri diritti dell’indi¬
viduo, nella cui celebrazione si vede l’unico scopo
così della vita sociale come della ricerca scientifi¬
ca. Allo Stato, che storicamente appariva come un
limite e un ostacolo, anziché come essenza e vita
deirorganismo sociale, si opponeva una negazione
perentoria destinata a mutare radicalmente non solo
i rapporti politici, ma anche i fondamenti di ogni
scienza sociale. Si può anzi affermare che, solo in
seguito a questa violenta ribellione, il pensiero
— 5 —
scientifico acquista la libertà indispensabile per uno
studio sistematico dei fenomeni sociali, e ciò vale a
spiegare perché le cosiddette scienze sociali si rin¬
novino sostanzialmente, si costituiscano e cerchino
di organizzarsi tra loro soltanto dopo la prima metà
del Settecento. L’esigenza immediata era quella del¬
l’assoluta negazione, dalla quale ci si ritrasse uni¬
camente per le necessità irriducibili di una vita po¬
litica organizzata: il ritorno alla natura non poteva
essere altro che il grido nostalgico di un ideologo.
Ma se la negazione non poteva divenire totale, essa
tuttavia si spinse al massimo limite consentito dai
tempi, e, in sede scientifica, alla realtà dello Stato
non si riconobbe se non la funzione del tutto estrin¬
seca di salvaguardare le sfere di arbitrio dei singoli
individui, Se unica realtà e unico valore sono quelli
dell’individuo, se al mondo non c’è altra finalità
oltre quella che l’individuo si pone nel suo chiuso
egoismo, ne consegue che allo Stato deve spettare
1 unico compito di determinare i confini tra quegli
infiniti regni costituiti dai singoli cittadini e di
sorvegliare la loro pacifica convivenza: esso non
entra nella vita dell’individuo, ma ne resta al mar¬
gine come garante.
Ora è chiaro che uno Stato così concepito non
deliba trovar posto nella maggior parte delle scien¬
ze sociali: esso è più una realtà di diritto che non
una realtà di fatto, e la sua considerazione tende
a esaurirsi nelle indagini di carattere giuridico. Va¬
lori e fini sociali sono quelli dell’individuo, che si
affermano e si negano indipendentemente dallo Sta¬
to, il quale ha il solo scopo di non farne turbare il
libero svolgimento. Di questa funzione di tutore le
scienze sociali possono e debbono, dunque, disinte*
— 6 —
ressarsi, in quanto essa non modifica la realtà dei
fatti sociali, ed anzi rende possibile la loro genuina
attuazione.
A tali presupposti ideologici e politici si deve
ricondurre in particolar modo lo svolgimento della
scienza economica classica. Facendo sua questa so¬
luzione del problema circa i rapporti tra individuo
c Stato, essa dà allo Stato un valore positivo solo
in quanto garante della libera concorrenza, ma lo
ritiene perturbatore e distruttore di ricchezza ogni
volta che intervenga attivamente nella vita econo¬
mica: assume poi ad oggetto della propria indagine
1 unica realtà dell individuo, considerato nella sua
vita immediata e mosso esclusivamente dai suoi par¬
ticolari interessi. L homo asconomicus è per defini¬
zione extrastatale.
Di qui l’equivoco fondamentale di tutta la
scienza economica quale è pervenuta fino a noi. Se
la scienza, infatti, non deve studiare l’organismo
sociale (lo Stato) perché questo, in quanto organi¬
smo, non ha un significato e un valore proprio, non
avrà, per ciò stesso, nulla da dire all’individuo sin¬
golo che di quell’organismo fa parte. L’individuo
scisso dall’organismo è per definizione anarchico, e
norma della sua vila non potrà essere che il suo ar¬
bitrio affatto soggettivo: la scienza non può inse¬
gnargli niente perché non può saperne niente. Per
saperne qualcosa bisogna che un individuo esca
dalla sua particolarità, si esprima, entri in relazione
con gli altri individui e venga, dunque, a far parte
di una vita sociale organica : dello Stato. Solo allora ;
solo, cioè, quando Yhomn ceconomicus è diventato
cittadino, la sua attività diventa intelligibile e su¬
scettibile d’investigazione scientifica.
Ma la scienza economica si è voluta ostinare
in questo assurdo, di considerare l’individuo pre¬
scindendo dallo Stato; e non è potuta giungere die
a risultati mediocrissimi : le sue soluzioni sono, in
fondo, tutte negative, e si riassumono sostanzial¬
mente nel dogma della libera concorrenza. Il quale,
se ben si riflette, vuol dire solo cbe la scienza si ri¬
mette all arbitrio degli individui, e che la soluzione
più perfetta del problema economico è quella che
scaturisce dal cozzo indisciplinato di tutti gli infi¬
niti interessi particolari. Allo Stato la scienza dice:
non fare; all'individuo: fa quel che ti pare. Questa
l'essenza dell’economia classica.
1 tentativi fatti per uscire dal circolo vizioso
del liberalismo tradiscono tutti il bisogno di supe¬
rare una soluzione affatto negativa del problema
della scienza economica. Se non che l’incapacità
di abbandonare il presupposto individualistico non
ha consentito di giungere a una sistemazione scien¬
tifica che non fosse nella massima parte illusoria.
E infatti, una volta ammesso il fondamento soggetti¬
vistico dell’economia, null’allro restava da fare al¬
l’economista se non aggirarsi all’infinito in quella
contraddizione in termini in cui si risolve ogni ten¬
tativo di conoscere le leggi sistematiche dell’arbitrio.
Se al puro e semplice « fa quel che ti pare », lo
scienziato ha voluto aggiungere una sola parola
di carattere positivo, lo ha potuto fare soltanto illu¬
dendosi di entrare nel mondo ermeticamente chili-
so del soggetto. Così si spiega il sorgere della scuola
psicologica e matematica, con la quale si è creduto
di attingere il maximum della scientificità e si è
condotto all assurdo il postulato classico dell'indi-
vidualismo. Scuola psicologica : e cioè costrizione
dell’anima umana entro schematismi arbitrari, con¬
cepiti da chi non aveva nessuna dimestichezza con
gli studi di psicologia; riduzione dell’/iomo cero-
nomicus all’edonista, o all’egoista, o all’altruista, e,
in ogni caso, a un’etichetta di cui non sì sarebbe
potuto dare nessuna giustificazione: livellamento
dei soggetti e cervellotica costruzione del tipo, che
rendesse uniforme e perciò intelligibile la multi¬
forme vita individuale; negazione, insomma, del
vero mondo della soggettività e sostituzione ingiu¬
stificabile di una formula meramente fantastica alla
realtà che si pretende conoscere. Scuola matema¬
tica: e cioè quantificazione di quegli stessi elementi
soggettivi illusoriamente determinati: comparazio¬
ne di dati incomparabili perché essenzialmente di¬
versi; processo astrattivo sorto su illegittime astra¬
zioni e perciò irriducibile alla concretezza della
vita; formule algebriche, dunque, che non potranno
mai vestirsi di numeri effettivi.
L indirizzo psicologico e matematico, sorto a
correzione ed integrazione di quello liberistico, è
valso solo a mettere in luce l’errore fondamentale.
Gli individui nella loro particolarità sono esseri
necessariamente eterogenei: i gusti, i bisogni, gli
interessi, le finalilà non sono paragonabili: nessuno
potrà mai dire quante volte il profumo di un fiore
vale per una signora aristocratica più che per una
popolana, ed io stesso, che presumo di conoscermi,
non potrò mai dire quante volte il godimento da-
tomi da una sensazione corrisponda a quello procu¬
ratomi da un altra, o dalla stessa in un momento
diverso. Nessun tentativo dì approssimazione può
essere concepito seriamente e perciò tutta la cosid¬
detta economia marginalistica non è suscettibile di
alcuna interpretazione di carattere pratico. Conclu¬
dere, come fa 1 economia liberale, che il massimo
dell utilità sociale equivale alla somma dei massimi
delle utilità individuali significa dire una cosa senza
senso, se è vero che di addendi incomparabili —
come sappiamo dalla più elementare conoscenza
matematica non è possibile fare la 6omma.
Con il tentativo di passare dal massimo benes¬
sere individuale a quello sociale, si chiude il ciclo
dell economia classica o liberale, e la vanità del ten¬
tativo ne conferma il definitivo dissolversi. Di un
inondo concepito coinè moltitudine caotica di in¬
dividui, vivente ognuno sotto il solo impero del pro¬
prio arbitrio, è insensato voler fare la scienza. Scien¬
za vuol dire disciplina, e l’individuo che non è an¬
cora cittadino è senza disciplina; vuol dire norma,
c 1 individuo non può riconoscerne alcuna oltre il
suo gusto del momento; vuol dire, soprattutto, co¬
noscenza obiettiva e universale, e l’individuo del li¬
beralismo è soggettività particolare. A tale indi¬
viduo l'economista si volge solo per constatarne la
natura e garantirne la primitività: lungi dal gui¬
darlo e disciplinarne gli interessi, lo abbandona al
cozzo brutale della domanda e dell’offerta, in cui
tutto il suo ideale si riassume. È la scienza dell’a¬
narchia.
— 10
All’economia liberale si è opposta quella so¬
cialista. Tutti i presupposti della prima sembrano
negati dalla seconda, che all’individuo sostituisce
la classe, la società, lo Stato. Ma lo Stato di cui
parla il socialismo ha lo stesso difetto di origine
di quello liberale: esso, cioè, è sempre considerato
come una realtà diversa dall’individuo, come limite
dell’attività individuale e sua condizione estrinseca.
La situazione si è invertita, ma il problema è ri¬
masto impostato nella stessa maniera, poiché l’anti¬
nomia individuo-Stato in entrambi i casi è risolta
sacrificando uno dei due termini all’altro; e, in
quanto il termine sacrificato ha conservato un mi¬
nimo di validità, esso rappresenta una limitazione,
sia pure necessaria, della realtà del termine iposta¬
tizzato. Limite deirindividuo è Io Stato nel libera¬
lismo, limite dello Stato è l’individuo nel socialismo.
L’incapacità di risolvere l’antinomia con l’iden¬
tificazione di individuo e Stato ha condotto il so¬
cialismo a concepire lo Stato burocraticamente. Se
lo Stato infatti non è la realtà stessa della Nazione,
ma viene entificato e opposto alla Nazione, esso
non può concepirsi se non come un organismo a sé
e con organi propri. Quando il socialismo nega la
proprietà privata e dichiara che i mezzi di produ¬
zione appartengono allo Stato, evidentemente attri¬
buisce a questo una personalità giuridica ed econo¬
mica distinta da quella dei privati: ed è chiaro che,
se lo Stato ha una personalità distinta, deve avere
i
— 11 —
anche il motlo di vivere ed agire distintamente, at¬
traverso quei determinali organi che costituiscono
appunto la burocrazia. È così che la teoria socia¬
lista, negando l’individuo nello Stato, sostituisce al¬
l'economia individuale quella burocratica e fa dello
Stalo, in quanto realtà giuridica diversa dagli indi¬
vidui, il proprietario, il datore di lavoro, il rispar¬
miatore, il distributore, e via dicendo.
La critica violenta e altezzosa che reconomia
classica ha opposto all’economia socialista è sostan¬
zialmente giusta e irrefutabile. Se contro il libera¬
lismo ha ragione il socialismo in quanto richiama
l’attenzione dall’individuo allo Stato, contro il so¬
cialismo ha egualmente ragione il liberalismo clie
rivendica la superiorità dell’economia individuale
rispetto a quella statale. L’economia statale è per
definizione un’economia monca e patologica, poiché
essa non solo accentra e quindi limita la vita eco¬
nomica, ma ne affida la direzione a un organo relati¬
vamente estrinseco quale è la burocrazia. Quando
il liberale afferma che lo Stato è cattivo ammini¬
stratore, ha perfettamente ragione, perché per Sta¬
to s’intende appunto una realtà sopraordinata e
non costruttiva della cosa amministrata. In altre pa¬
role si vuol dire che l’industriale, il quale nasce c
vive con la sua industria facendo di essa la stessa
ragione della sua vila, farà prosperare la sua azien¬
da indubbiamente meglio del burocrate, che nell’in¬
dustria a lui affidala vede solo la contingente espres¬
sione del suo dovere di funzionario.
Ma più che antieconomica l’economia statale
è livellatrice e mortificatrice delle attività indivi¬
duali. che lulte sì debbono uniformare al meccani¬
smo burocratico e perdere quella libertà di movi-
12 —
menti la quale costituisce la condizione prima della
loro iniziativa. La comune opinione del carattere
tradizionalista e conservatore della burocrazia è la
più evidente conferma della sua incapacità a rinno¬
varsi con quel ritmo acceleratissimo che è proprio
della industria contemporanea : l’economia statale
tende per sua natura a diventare economia statica.
Il dualismo di individuo e Stato, che ha reso
inadeguate le soluzioni dell’economia classica e di
quella socialista, non è stato superato neppure dai
tentativi compiuti, specialmente in questi ultimi de¬
cenni, per la costruzione della cosiddetta economia
nazionale o di Stato (la Volkswirtschaft o Staats-
wirtschafi dei Tedeschi). Anche quando tali tenta¬
tivi non si sono ridotti a concepire la vita della Na¬
zione come la somma delle vite dei singoli indivi¬
dui, e si è voluto invece considerare l’organismo so¬
ciale con caratteristiche e finalità proprie, l’econo¬
mia pubblica è rimasta sempre accanto all’econo¬
mia privata e la necessità della loro assoluta iden¬
tificazione non è stata mai dimostrata, né da socio¬
logi né da nazionalisti. I sociologi, infatti, tutti com¬
presi dal compito di descrivere le varie forme della
vita, si sono preoccupati soltanto di analizzare le
diverse economie, dall’individuo alla famiglia, alla
classe, alla Nazione ecc., di classificarle e di studiar¬
ne estrinsecamente i rapporti; i nazionalisti, poi,
infatuati dall ideologia della Nazione, non hanno
saputo far altro che ipostatizzarla come una realtà
— 13 —
superiore all’individuo, affermando in conseguenza
la superiorità deireconomia nazionale e la subordi¬
nazione a essa di quella individuale. In entrambi
i casi lo Stato è rimasto come una delle forme, sia
pure la massima, della vita sociale; e l’economia ad
esso relativa come una delle forme, sia pure la su¬
prema, delle possibili economie. E in tal guisa il —
pensiero scientifico e andato oscillando dall’ideolo¬
gia anarchica del liberalismo a quella statolatria
del socialismo e del nazionalismo, senza mai cogliere
l’essenza del problema. Respinto a volta a volta
dagli assurdi di uno dei due estremi, si è ritratto
acriticamente dalle conseguenze ultime delle opposte
concezioni, ed è al solito scivolato verso i mezzi ter¬
mini dell’eclettismo: il concetto di Stato è penetrato
di straforo nei trattati deireconomia scientifica, e
quello di individuo e di libera iniziativa nelle co¬
struzioni ideologiche degli statalisti.
La soluzione integrale del problema è delinea¬
ta, se pur non ancora esplicitamente chiarita, nel-
Tordinamento corporativo del regime fascista. Si
tratta per ora di un’intuizione politica più che di
vera consapevolezza scientifica, e anzi la lettera di
alctine disposizioni legislative consacra ancora il
dualismo di individuo e Stato. Nella stessa formula¬
zione della Carta del Lavoro, alcune espressioni di
principi, e soprattutto il famoso articolo 9, legitti¬
merebbero le vecchie interpretazioni liberali e so¬
cialiste, di cui abbiamo discorso. « L’intervento del-
— 14 —
lo Stato nella produzione economica — dice infatti
1 articolo 9 — ha luogo soltanto quando manchi
o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano
in giuoco interessi politici dello Stato. Tale inter¬
vento può assumere la forma del controllo, dell'in¬
coraggiamento o della gestione diretta ».
Nulla di strano che questo articolo abbia pro¬
dotto i più svariati malintesi nell'interpretazione
dell'economia corporativa. I liberali vi hanno visto
a ragione la conferma delle loro dottrine, poiché
gli stessi classici più ortodossi hanno sempre soste¬
nuto che, per motivi eccezionali o per superiori in¬
teressi politici, lo Stato può e deve intervenire nella
vita economica del paese. 1 filosocialisti, insistendo
sul maggior intervento statale che la Carta del La¬
voro promuove, 1 hanno legittimamente interpre¬
tata come un passo decisivo verso Tordinamento
socialista. Gli eclettici hanno piaudito entusiastica¬
mente. illusi di veder consacrata la solita via dei
mezzi termini. Gli economisti della cattedra, infine,
hanno dato un'occhiaia distratta e hanno senten¬
ziato senz’altro che Teconomia corporativa non esi¬
ste, risolvendosi essa in una mera prassi politica
contingente.
E che Leeonoinia corporativa non esista par¬
rebbe, infatti, dimostrato dal fatto che i tentativi
finora compiuti per defi nirla e sistemarla scientifi¬
camente hanno condotto alla riduzione del nuovo al
vecchio n alle sterili soluzioni di compromesso tra
liberalismo e socialismo. Ma fortunatamente l’infe¬
lice esito dei tentativi è dovuto soltanto aU’inoppor-
tuno zelo degli interpreti, i quali, per malinteso
ossequio alla lettera, si sono lasciati sfuggire lo spi¬
rito più profondo della Carta del Lavoro e del fa-
seismo in generale. L’imperfetta dizione dell'art. 9
fii spiega proprio per la mancanza di una sistema¬
zione scientifica del nuovo concetto dell’economia
e gli interpreti avrebbero dovuto capire che la
Carta del Lavoro, per il suo carattere rivoluziona¬
rio, costituisce un punto di partenza più che un
punto dì arrivo, e che alla scienza spetta appunto il
compito di rendere esplicita e sistematica quella
visione che in essa è intuitiva. L’articolo 9, dunque,
non può essere considerato come la chiave di volta
e il criterio infallibile del sistema, sihbene come
una delle proposizioni da interpretarsi e coordinarsi
alla luce delle nuove esigenze. Le quali trovano
piuttosto la loro esatta formulazione nell'articolo 1.
per cui « la Nazione italiana... è una unità morale,
politica ed economica, che si realizza integralmente
nello Stato fascisla »: nell’articolo 2, per cui « il la¬
voro. solto tutte le sue forme intellettuali, tecniche
e manuali, è un dovere sociale e soprattutto nel-
1 arlicolo 7, per cui « l’organizzazione privata della
produzione essendo una funzione di interesse na¬
zionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile
deH’indirizzn della produzione di fronte allo Sta¬
to )). È qui il motivo più profondamente rivoluzio¬
nario del fascismo, per cui si afferma l’identità so¬
stanziale di interesse pubblico e privato, di benes¬
sere dei singoli e potenza nazionale. Certo, nella
Carta del Lavoro, questa identità alle volte si spezza
e riappaiono i due termini dell’antinomia, ma al
nuovo bisogna guardare e non al vecchio, con gli
occhi ben intenti all’avvenire. Quando l’articolo 7
proclama il privato responsabile di fronte allo Sta¬
to della sua vita economica, vale a dire di ciò che
per la tradizionale mentalità politica e scientifica
16 —
si ritiene il più geloso attributo della sfera di arbi¬
trio dell’individuo, rende finalmente Fuorno citta¬
dino, lo trasforma in organo costitutivo dello Stato,
e distrugge alla radice ogni differenza tra ciò che è
privato e ciò che è pubblico. Il cittadino risponde
di tutta la sua vita allo Stato cui appartiene, per¬
ché il fine della sua vita è quello stesso dello Stato;
e, in quanto ne differisca, in quanto vi si opponga,
o anche in quanto si presuma indipendente da esso,
è illegittimo.
Ma, perché Firnificazione della sfera pubblica
e di quella privata sia effettiva e non illusoria, è
necessario avere dello Stato un concetto heu più
adeguato di quel che non abbiano i socialisti e. tanto
meno, i liberali. Chi ritenesse che lo statalismo che
propugna la Carta del Lavoro sia sostanzialmente
sullo stesso piano dell ideologia socialista non sa¬
prebbe poi come spiegare la riaffennazione della
proprietà privata. Se questa non è una contraddi¬
zione vuol dire che Ira socialismo e corporativismo,
e cioè tra queste due forme di statalismo, v’ha una
differenza essenziale che occorre chiarire. E il chia¬
rimento dovrebbe già risultare da quanto è stato
detto sul carattere burocratico dello Stato sociali¬
sta, concepito tuttavia come entità distinta dagli in¬
dividui. Il vero Stato è, al contrario, la stessa realtà
dell’individuo e sì esprime quindi, non in partico¬
lari organi e istituti, sibbene nella vita stessa di ogni
cittadino. La proprietà deve rimanere privata, per¬
ché essa è già assurta a finalità e caratteri pubblici
con 1 elevazione del proprietario a organo costitu¬
tivo dello Stato. Credere che la proprietà da privata
diventi pubblica solo se essa venga amministrata
direttamente dallo Stato, significa identificare lo
Stato con la burocrazia, e opporlo all’individuo; si¬
gnifica insomma arrestarsi all’ideologia liberale e
socialista.
Lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non
ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annien¬
tare l’individuo e vivere della sua ^istruzione: al
contrario esso si potenzia col potenziamento dell’in¬
dividuo, della sua libertà, della sua proprietà, della
sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei
rapporti con gli altri individui. E tutto ciò è pos¬
sibile, in quanto 1 individuo non è più un mondo
particolare e la sua libertà non si chiama più ar¬
bitrio, ma e individuo sociale che nella prosperità
dell’organismo statale vede il proprio fine. I/indi-
vidualisino del liberalismo e lo statalismo del socia¬
lismo sono superati, perché sono trasvalutati i ter¬
mini di individuo e Stato che avevano condotto ai
due assurdi opposti.
Avere coscienza precisa di tale trasvalutazione
non è davvero cosa molto facile, soprattutto perché
occorre vincere continuamente il pregiudizio tra¬
dizionale che ci porta a entificare lo Stato, a opporlo
a noi stessi, a riconoscerlo soltanto in determinati
organi e funzioni. La vecchia concezione intellettua¬
listica è ormai così radicata in noi e la stessa termi¬
nologia che siamo costretti a usare è così aderente
al concetto dello Stato come personalità trascen¬
dente i cittadini, che non ci riesce agevole sfuggire
a tutti i paralogismi del senso comune. E in siffatto
modo si spiega l'accusa di metafisicheria che si vuole
— 18 —
rivolgere, anche da persone non sciocche, all’iden-
tificazione di Slato e individuo. Ma bisogna resistere
all apparente evidenza di queste critiche e persua¬
dersi che quando un concetto ha davvero fonda¬
mento speculativo è per ciò stesso il più pratico, e
vale a risolvere anche quelle difficoltà di carattere
tecnico, che invano si cercherebbe di rimuovere con
i vaghi concetti del senso comune, se pur questi
sembrino agli occhi degli inesperti i più precisi, i
più certi, i più assiomatici possibili. Negate infatti
questa metafisicheria che è l'identità di individuo e
Stato, e vi accorgerete che, volendo precisare sul
serio il concetto apparentemente lapalissiano dello
Stato e dei suoi limiti, ogni definizione riesce ina¬
deguata. e quella che sembrava una salda realtà di¬
venta un nome senza consistenza.
11 concetto, dunque, fondamentale e sistema¬
tico dell economia corporativa è la statalità di tutti
i fenomeni economici. Economia individuale ed eco¬
nomia statale sono termini assolutamente identici.
Questa conclusione, così netta e perentoria,
sembrerà paradossale e assurda a ogni economista
che abbia tuttavia nel cervello i! più piccolo pregiu¬
dizio classicista e individualista: ma, per chiunque
voglia riflettervi su, con mente aperta e con buona
volonlà, dovrà pure apparire come la verità più lo¬
gica ed evidente.
Le obiezioni che si possono sollevare sono prin¬
cipalmente due: Luna di carattere psicologico, la
19 —
seconda in particolar modo tecnico-economica. Se¬
condo la più ovvia osservazione psicologica sembra
che tra il mio interesse di privato e quello pubblico
dello Stato vi sia non solo differenza, ma spesso op¬
posizione. Il cittadino, ad esempio, che investe in un
modo piuttosto che in un altro i suoi risparmi, fa
gli interessi propri, e le sue decisioni in proposito
sono indifferenti allo Stato: il cittadino, poi, che
cerca di sfuggire alle imposte fa gli interessi suoi
e si oppone a quelli dello Stato.
Ecco dunque due economie ben distinte e con
finalità differenti: l’una individuale e l’altra statale.
Senoncbé basta saggiare appena la fondatezza di
queste opinioni per convincersi della loro superfi¬
cialità: e infatti è chiaro che il modo d’investire
i risparmi dei cittadini non può essere indifferente
allo Stato, perché non può essere indifferente allo
Stato che l’indirizzo economico sia tino piuttosto
che un altro, che certe industrie siano favorite o
neglette, che le forze produttive siano armonica¬
mente finanziate: quanto poi airopposizione dì in¬
teressi individuali e statali che si verifica nel caso
del cittadino che si sottrae alle imposte, è non me¬
no evidente ch’esso dimostra soltanto il lato abnor¬
me della vita economica e noii può essere assunta
a criterio distintivo di due economie. Non si nega
che il dualismo tra individuo e Stato esista, ma si
vuole affermare ch’esso rappresenta l’aspetto nega¬
tivo e non quello positivo della vita sociale. Questa,
nella sua essenza, importa l’unità dei due termini e
può scientificamente studiarsi alla luce di tale uni¬
tà: il dualismo sempre risorgente — e necessaria¬
mente risorgente per la stessa dialettica della vita
umana, che è perfezionamento e non perfezione —
indica ii Iato patologico, l’ostacolo «la rimuovere, e
insomma l’arbitrio fuori della legge e fuori della
scienza. Cbi ipostatizza il dualismo e lo legittima
facendone il fondamento di due economie, indivi¬
duale e statale, confonde il positivo col negativo,
la legge con la sua infrazione, e costruisce infine
due simulacri di scienza.
L obiezione di carattere tecnico, che sembra
legittimo sollevare contro l’assoluta identificazione
di individuo c Stato, concerne la possibilità d’inter¬
vento dello Stato nell'economia individuale. Appa¬
re, infatti, evidente che, se lo Stato alle volte in¬
terviene a controllare, incoraggiare, gestire, ecc.,
e alle volte invece si disinteressa completamente,
vuol dire eb’esso rappresenta una realtà diversa
da quella su cui esercita il controllo: la possibilità
dell intervento è la conferma ad oculos del dualismo.
Eppure a una analisi più appropriata del pro¬
blema una simile rappresentazione dei fenomeni
economici deve risultare fondamentalmente errata
ed equivoca. Se infatti lo Stato non vien concepito
in forma mitologica, come un organo o un insieme
di organi sui generis, ma come la stessa Nazione
nella sua organicità (giuridicità) essenziale, è chia¬
ro ch’esso non può intervenire perché è sempre
presente, immanente in ogni manifestazione, sia pu¬
re la più trascurabile, degli individui costitutivi
della Nazione. Si può intervenire negli affari degli
altri, ma intervenire in quelli propri è cosa senza
— 21 —
senso. Ogni atto economico da me compiuto s’inne¬
sta nel sistema economico della Nazione cui ap¬
partengo (vedremo poi come nella Nazione entri
anche il mondo internazionale) e risulta quindi da
esso condizionalo, anche se nessuna particolare nor¬
ma lo regoli esplicitamente. Questa sistematica di¬
sciplina, per cui il mio atto economico si realizza
nell’organismo statale, costituisce il così detto in¬
tervento dello Stato, il quale è, per ciò stesso, asso¬
lutamente sostanziale. Pensare che possa esistere un
fenomeno economico che si sottragga a questa di¬
sciplina e che viva in un mondo extrastatale, è pen¬
sare l’assurdo. Fenomeni antistatali potranno es¬
servi, e saranno appunto gli atti di arbitrio dell'in¬
dividuo che si oppone alla disciplina statale, ina fe¬
nomeni extrastatali no, perché fuori dello Stato v’c
il nulla.
Da un punto di vista assoluto, dunque, è illo¬
gico parlare di intervento dello Stato. Ma dell’asso¬
luto — ci oppongono gli empirici — noi non ci oc¬
cupiamo: noi intendiamo spiegarci un fenomeno
molto concreto e innegabile, e cioè quello dello Sta¬
to che pone un dazio, un calmiere, sovvenziona una
industria e via dicendo: di uno Stato, in altre paro¬
le, che ha una personalità distinta da quella degli
individui e che, come soggetto economico diverso,
compie degli atti che gli individui non possono com¬
piere. E credono così, codesti empirici, di aver ta¬
gliato la testa al toro, senza accorgersi invece che di
ogni problema non ci sono due soluzioni, una filo¬
sofica e lina empirica, una assoluta e una relativa,
sibbene una soluzione sola e propriamente quella
giusta. La quale, in questo caso, consistendo nell as¬
soluta identità di individuo e Stato, dà a quello Stalo
22 —
di cui parlano gli economisti un significato molto
meglio determinato ch’essi non pensino, e cioè il
significato di una delle particolari espressioni della
vita dello Stato. Nessuno si sogna di negare quella
realtà di fatto che è lo Stato nell’accezione più co¬
mune del vocabolo: nessuno quindi pretende nega¬
re che esista un’amministrazione centrale con un
bilancio proprio (il bilancio dello Stato), con fina¬
lità sui generis, e con fenomeni economici peculiari:
si vuol soltanto affermare che questa realtà non è
lo Stato, bensì uno degli elementi dello Stato, la
cui vita effettiva è nell’organismo integrale della
Nazione, ipostatizzare quell’elemento, e vedere sol¬
tanto in esso lo Stato, significa precludersi la via a
un’intelligenza adeguata dei fenomeni economici.
Gli empirici, al solito, potranno esserci indul¬
genti e concederci di aver ragione circa il modo di
intendere il concetto di Stato: ma — essi continue¬
ranno a opporci — sia pure elemento lo Stato di
cui parliamo, noi intendiamo discutere appunto di
esso quando ci riferiamo al suo intervento nella vita
economica. Senonché tale soluzione del problema
sarebbe affatto illusoria, come quella che ridurrebbe
a una questione di parole la più sostanziale delle
questioni. Ammettere, infatti, che lo Stato di cui
parlano gli economisti sia un elemento dello Stato
e non esaurisca la realtà di questo, significa ricono¬
scere ch’esso è appunto elemento di un organismo
dal quale non può scindersi, ovvero ch’esso è coes¬
senziale a ogni altro elemento dell’organismo me¬
desimo.
Per tradurre questo concetto nei termini usua¬
li, è facile osservare che il bilancio dello Stato vive
in un’unità indissolubile con la vita economica del-
— 23 —
la Nazione, sì che nessun fenomeno economico sfug¬
ge a un rapporto diretto o indiretto con esso. Quan¬
do lo Stato fissa un’imposta, non modifica soltanto
l’economia dei colpiti dall’imposta, ma anche di
quelli non colpiti: così quando lo Stato stabilisce
un dazio protettore, non muta soltanto le condizio¬
ni dell’industria protetta, ma contemporaneamente
quelle di tutte le altre. Ogni intervento dello Stato
è globale.
Credo che non vi sia ormai nessun economista
che voglia contestare una verità tanto lapalissiana:
ma purtroppo da essa non si è tratta ancora in ma¬
niera veramente esplicita la conseguenza inevita¬
bile, e cioè che lo Stato, per il fatto stesso di essere,
interviene sempre; e che discutere quindi si può su
questa o su quella forma di intervento, ma non sulla
legittimità ed economicità deirintervento. Tutti gli
infiniti tomi che si sono dedicati alla discussione del
problema circa il valore economico dell’intervento
statale, e tutta la secolare opposizione dei liberisti a
ogni forma di intervento, riposano su un colossale
equivoco, dipendente appunto dall’errato concetto
di Stato. Discutere se sia lecito o no l’intervento
dello Stato e nello stesso tempo riconoscere la ne¬
cessità del bilancio dello Stato —- vale a dire, per
l’Italia, di un movimento annuo di decine di mi¬
liardi — è un assurdo che può non risultare sol¬
tanto alla cecità degli economisti puri. I quali non
sanno quel che si dicano quando affermano che 1 i-
deale della vita economica sarebbe quella della più
perfetta libera concorrenza. Se una Nazione è tale
in quanto è Stato, la libera concorrenza, quale è
concepita dagli economisti, non solo non è raggiun¬
gibile, ma è negata nel modo più perentorio. Per
— 24 —
conseguire que! presunto ideale bisognerebbe spez¬
zare 1’organismo. negare lo Stato e tornare al cozzo
violento dell’anarchia di natura. 11 progresso di una
Nazione, al contrario, è segnato dalla sua organi-
cita sempre maggiore, e cioè dalla sempre più con¬
sapevole realtà dello Stato; il quale, in conseguen¬
za, tende a diventare sempre più immanente alla
vita degli individui e sempre più costitutivo di ogni
loro manifestazione. L’intervento dello Stato, in al¬
tri termini — se ancora d’intervento può parlarsi
— è di fatto, e tende a diventarlo anche nella co¬
scienza comune, la realtà stessa della vita econo¬
mica. E se la scienza dell’economia auspica il trion¬
fo dell ideale opposto, è troppo palesemente fuori
di strada.
Allorché la Carta del Lavoro, dunque, dice
all’articolo 9 che « l’intervento dello Stato nella pro¬
duzione economica ha luogo soltanto quando man¬
chi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando
siano in giuoco interessi politici dello Stato », parla,
evidentemente, un linguaggio d’altri tempi.
Se lo Stato interviene sempre, perché è sem¬
pre presente e i suoi interessi politici investono
tutta la vita della Nazione con cui si identifica, è
chiaro che tutta l’economia tradizionale deve spo¬
stare il suo centro di indagine e trasformarsi fin
dalle fondamenta. Il suo problema era, infatti, quel¬
lo della libera concorrenza (economia individuale),
e della convenienza o meno, in certi casi, dell’inter¬
vento statale (economia prevalentemente monopo*
listica): oggi diventa quello delle forme statali del-
l’intervento e della organizzazione dell’economìa,
nazionale. 11 binomio di libera concorrenza e mo¬
nopolio non ha più significato, e i due termini si
risolvono in uno solo, quello della unità organiz¬
zata della vita economica, in cui la stessa concor¬
renza viene disciplinata. Cade così l’argomentazione
degli economisti, cbe affermano essere tutte le for¬
ine della vita economica riconducibili alle due sole
ipotesi della libera concorrenza e del monopolio. La
forma è unica ed è quella lìbera e monopolistica
insieme, in un’unità tale per cui il concetto di li¬
bertà e quello di monopolio sono radicalmente Ira¬
sformati e resi inintelligibili in quanto distinti. Gli
schemi non servono più perché non rispondono a
nessuna approssimazione alla realtà, e sono anzi
nella loro essenza opposti alla realtà. Liberi sono
gli individui, ma nella Nazione, in questo colossa¬
le monopolio in cui la loro concorrenza si effettua:
questa è la realtà a cui invano si opporrebbe il
tradizionale dilemma.
Né si creda di sfuggire a questa conclusione
passando dall’economia nazionale a quella interna¬
zionale, poiché la Nazione non va concepita anti¬
storicisticamente come un’entità limitata dai suoi
confini e, nei suoi rapporti con le altre Nazioni,
alla stessa guisa dell’uomo di natura rispetto agli
altri individui. La Nazione include in sé il mondo
internazionale, e lutto ciò cbe costituisce la vita
di questo mondo non ha altra sede appunto che nel¬
la Nazione, unità suprema di là dalla quale non
esiste che l’unità astratta, perché non dialettica, del¬
l’umano genere. Il compito che si deve perciò pro¬
porre la scienza è, sì, la costruzione sistematica del-
- 26 —
1 economia nazionale, nia intendendo questa come
unità concreta ne] mondo internazionale, che non
e, neppur esso, riconducibile alPideologia anarchi¬
ca del liberalismo, in quanto rientra nella discipli¬
na e nel sistema della Nazione. È al sistema che bi¬
sogna tener sempre fissi gli occhi, specialmente oggi
che 1 organizzazione della vita economica sta in¬
cendo passi giganteschi e che, dinanzi al rapido pro¬
cesso di unificazione delle industrie, del commer¬
cio, dei mercati e delle banche, diventa sempre più
anacronistico e irrisorio lo schematismo individua-
listico della tradizionale economia pura.
Riassumendo, possiamo ormai determinare i
capisaldi della nuova economia, facendoli tutti de¬
rivare dal concetto fondamentale della statalità dì
ogni fenomeno economico :
1) Subordinazione di ogni fenomeno econo¬
mico al fine statale (essenziale politicità o storicità
dell’economia).
2) Interdipendenza dei fenomeni economici,
considerata in funzione del fine statale ( sistematicità
o organicità della vita economica).
3) Carattere pubblicistico della proprietà
privata e della vita economica individuale.
4) Obiettività dei fenomeni economici data
dall obbiettività del fine statale, e quindi loro intel¬
ligibilità scientifica, in contrapposizione alla sogget¬
tività dell individualismo (ofelimità).
■') Critica dei concetti di libera concorrenza
— 27 —
e monopolio, e affermazione di un’effettiva e più
profonda libertà economica (negazione del liberi¬
smo anarchico e del vecchio statalismo burocratico).
6) Carattere internazionale della Nazione e
unità essenziale del mondo economico.
Questa Veconomia corporativa o senz’altro la
economia. Poiché è bene intendersi una volta per
sempre, ed escludere perentoriamente quel mostruo¬
so tentativo di concepire la scienza economica come
una forma astratta, da adeguarsi a una qualunque
delle infinite ipotesi economiche. L’ipotesi è nna sola
e, cioè, quella interpretativa dell’effettiva realtà sto¬
rica: il resto non è che fantasia di puristi, abituati a
scambiare le formule con la vita. La scienza dell’e¬
conomia non può essere che una, perché una è la
vita ch’essa studia: e non ha bisogno dì aggettivi.
Quando contrapponiamo l’economia corporativa a
quella liberale o socialista o nazionalista, non inten¬
diamo dichiarare una nostra preferenza rispetto a
questi possibili sistemi economici, ma vogliamo pro¬
prio affermare la scientificità della prima rispetto
al carattere ideologico ed arbitrario delle altre: l’ag¬
gettivo corporativa , che noi aggiungiamo all’econo¬
mìa, ha il solo scopo di distinguere la vera dalla
falsa economìa, e non un’economia da un’altra. Che
poi essa si chiami corporativa e non altrimenti, vuol
dire non ch’essa si identifichi immediatamente —
e perciò in modo contingente — con l’ordinamento
corporativo, ma soltanto che in questo ordinamen-
— 28 —
lo la consapevolezza delle sue verità si è resa più
esplicita ed evidente. Che lo Stato sia costitutivo
essenziale della vita individuale non è verità che si
instauri col regime corporativo, né è limitata alla
vita politica deiritalia di oggi : ma mai come nel¬
l’Italia di oggi questa verità è stata esplicitamente
affermata : mai si è concepita la vita economica na¬
zionale come un’unità così saldamente organica.
L’epiteto di corporativa non è dunque arbitrario,
né menoma comunque la dignità della scienza a cui
si applica oggi ai soli fini polemici contro il libera¬
lismo, il socialismo, il nazionalismo ecc. Poiché, se
1 economia corporativa è senz’altro l’economia, Io
stesso non si può dire, ad esempio, di quella pre¬
sunta economia pura che è la quintessenza dell’eco¬
nomia liberale. A chi, seccato della qualifica di libe¬
rale attribuita al suo metodo scientifico, ha prote¬
stato di volersi porre al di là dei particolari indirizzi
e di voler fare solo della scienza, oggi è possibile da¬
re una smentila categorica. E la smentita suona così:
— fino a quando sulla prima pagina dei trattati di
economia non figurerà, a guisa di postulato fon¬
damentale, il concetto di Stato, sarà vano parlare
di scienza e sarà stolto negare il preconcetto seco¬
lare del liberalismo individualistico.
La scienza, abbiamo detto, è una: e tutti gli
indirizzi scientifici dal mercantilismo alla scuola
fisiocratica e dal liberismo allo storicismo, al so¬
cialismo, al corporativismo non sono che i momenti
del suo unico processo storicamente determinato.
L economia corporativa vuol rappresentare soltanto
lo sladio più avanzato del processo, in cui tutti i
precedenti debbono risolversi trasvalutandosi. A chi
fosse troppo preoccupato del pericolo di subordi-
— 29 —
ilare la scienza a fenomeni politici contingenti, pos¬
siamo rispondere che la politica non profana la
scienza quando a essa ci s’avvicini con la fede dello
scienziato e non con l’anima del politicante. TI pa¬
vido si ritrae per falso pudore, e nega l'obiettività
della scienza col volerla troppo salvaguardare: il
ricercatore spregiudicato non teme, invece, di fissar
gli occhi nella realtà di cui viviamo, e di scoprire
l’eterno nel contingente.
II
L’IDENTIFICAZIONE DI INDIVIDUO E STATO
La difficoltà maggiore, che si è incontrata nel¬
la comprensione della tesi dell’identità di indivi¬
duo e Stato, è derivata generalmente dal non aver
approfondito i concetti di individuo e di Stato che
si ponevano a fondamento del rapporto di identifi¬
cazione. È chiaro che. prima di discutere sulla va¬
lidità di tale rapporto, occorre rendersi conto del
significato dei termini che si confrontano, perché,
se si suppone noto il significato stesso, si insiste evi¬
dentemente in quella concezione dell’individuo e
dello Stato, che ha condotto, nello sviluppo storico
del pensiero, airantinnmia da noi contestata. Stori¬
camente, vale a dire nel processo della attività spe¬
culativa come di quella pratica e politica, è certo
che lo Stato si è configurato a guisa di un ente con¬
trapposto e sovrapposto all’individuo: e si è par¬
lato, quindi, di autorità di fronte a libertà, di sovra¬
nità di fronte a sudditanza, di arbitrio politico di
fronte a interesse economico, e via dicendo. Lo Sta¬
to, insomma, era una sovrastruttura, sia pur neces¬
saria, della vita degli individui, e si esauriva nel
compimento di particolari funzioni, dette appunto
— 31 —
statali. Ne derivava che lo Stato poteva individuarsi
in determinati organi e in determinate persone, cui
erano attribuiti determinati compiti, entro una sfe¬
ra esplicitamente circoscritta e non coincidente che
in minima parte con la sfera d’azione degli indivi¬
dui. A questo Stato, così concepito, gli economisti
negavano e negano tuttora la possibilità di un inter¬
vento benefico nella vita economica degli individui.
Ed avevano ed hanno perfettamente ragione; così
come hanno torto quegli altri economisti che, senza
persuadersi del mutato concetto di Stato, accedono
tuttavia ecletticamente all’opinione della possibi¬
lità benefica di un certo intervento statale nell’eco¬
nomia individuale. Se lo Stato trascende, sia pure ri¬
spetto a una zona soltanto, il campo d’azione del-
l’individuo, esso non può non turbarne Tequilibrio
ogni volta che vi porti un mutamento. Ammettere
la possibilità di un intervento benefico, di un solo,
di un transitorio, di un limitatissimo, del più pic¬
colo tra tutti gli interventi immaginabili, significa
ammettere la possibilità che lo Stato alteri vantag¬
giosamente con quel suo intervento tutto il sistema
generale dell’equilihrio economico della vita degli
individui, e cioè faccia coincidere, non limitatamen¬
te all’oggetto del particolare intervento, ma nella
totalità delle determinazioni, la propria realtà con
quella degli individui. Se si vuol restare nell’ipotesi
che Stato e individuo siano due realtà diverse, an¬
che solo parzialmente diverse, la conclusione logica
non può essere che una, e precisamente quella del
liberismo intransigente: lo Stato non deve interve¬
nire mai e per nessuna ragione; il suo intervento,
implicando sempre un’alterazione dell’equilibrio na¬
turale, non può essere che nocivo.
— 32 -
Se non che la concezione storica dello Stato,
che ha dato luogo a tali conseguenze nel campo del¬
la scienza economica, ha cominciato a modificarsi
profondamente proprio quando, nella seconda metà
del secolo XVIII, i classici dell’economia iniziava¬
no una sistemazione della loro scienza con la consa¬
pevolezza critica del carattere negativo di uno Stato
trascendente. Sì che tutta la scienza dell economia
si è venuta costruendo sul presupposto dell’antitesi
di Stato e individuo, in funzione di quel concetto di
Stato che rispondeva alla realtà storica anteriore al
processo di trasformazione. E a poco a poco —
quasi senza nessuna consapevolezza — si è giunti al
paradossale risultato di uno svuotamento progressi¬
vo della scienza delFeconomia, svuotamento non do¬
vuto ad errore nella critica dello Stato trascendente,
ma solo aU’illusione di credere ch’esso davvero esi¬
stesse e che esistesse perciò quell’individuo extra¬
statale, su cui la scienza aveva costruito il castello
delle sue astrazioni. Il fondamento liberistico di
tutta l’economia classica e della migliore economia
contemporanea, e l’atteggiamento antistatale che
l’accompagna, costituiscono certamente l’interna lo¬
gica e il principio sistematico di questa scienza: e
possiamo aggiungere che, se lo Stato fosse quella
realtà che gli economisti immaginano e se l’indivi¬
duo fosse quel soggetto economico che la scuola psi¬
cologica ha caratterizzato spingendo all’assurdo il
concetto già implicito nelle teorie dei classici, la
scienza dell’economia avrebbe raggiunto un grado
notevole di perfezione, forse il più alto grado rag¬
giungibile sulla base di tali presupposti. Ma il guaio,
o meglio la fortuna è che così quello Stato come
qucll’individiio non esistono in realtà, e che col
— 33
mancare dei presupposti si vanifica inesorabilmen¬
te tutla la costruzione faticosamente elaborata. È
quell ìntimo anacronismo di principi e finalità che
caratterizza la crisi della scienza economica con¬
temporanea, sia pure attraverso gli sforzi che da
più parti si vanno facendo per superare -— in modo
peraltro molto empirico — l'antinomia di cui si
comincia ad avere coscienza. Né la colpa può at¬
tribuirsi completamente agli economisti, -se è vero
che ancor oggi si stenta ad acquistare familiarità
con i nuovi concetti fin nel campo più rigorosamen¬
te speculativo, e solo ìin'infima minoranza di gius-
pubblicisti comincia a porsi con qualche precisio¬
ne problemi del genere. Tuttavia è tra gli economi¬
sti soprattutto che si nota la maggiore riluttanza ad
occuparsi della questione, o addirittura l'ignoranza
della sua esistenza : tra gli economisti che, per tra¬
dizione di specialismo scientifico, disdegnano di va¬
licare in qualsiasi senso gli arbitrari confini della
loro scienza e credono di contaminare la purezza
della economìa coordinandola con il processo della
speculazione, della politica e del diritto. Si spiega
perciò come essi possano tener fede dogmaticamen¬
te a concetti tanto controversi, accontentandosi di
dar loro un significato empirico rispondente a pre¬
supposti teorici di altri tempi: si comprende infine
come possa suonar loro strana, e anzi impertinente,
la pretesa di chi chieda loro il significato dei con¬
cetti di Stato e di individuo.
L’economista — essi rispondono — non pre¬
tende porsi e risolvere scientificamente questi pro¬
blemi; egli accoglie questi termini nel significato
corrente e a tutti noto, e su essi costruisce i teoremi
deH'economia. Che poi il significato corrente non
3 - Sunna
— 34 —
sia rigoroso e sia anzi suscettibile di critiche più o
meno radicali, è questione cbe reconoinista non di¬
scute, perché relativamente indifferente alla sua
scienza: a lui hasta richiamarsi con quei termini a
una realtà di fatto riconoscibile facilmente da
chiunque. ') E il ragionamento non farebbe una
grinza se potesse esserci veramente un significato
comune precisamente determinato dei concetti di
Stato e di individuo, se, cioè, noi potessimo sul se¬
rio sostituire mentalmente a quelle parole una qua¬
lunque realtà di fatto a confini netti. Ma, al contra¬
rio, è facile accorgersi cbe. quando ciò si volesse
fare con sincerità, ogni sicurezza vacillerebbe, e a
poco a poco all’illusione della certezza subentrereb¬
be la certezza dell’illusione, i termini diverrebbero
ambigui e la presunta realtà di fatto andrebbe allar¬
gandosi o restringendosi arbitrariamente fino a com¬
prendere tutto o a ridursi a un misero moncone.
Sottigliezze — si obietterà ancora incredulamente,
— questioni di lana caprina, da cui resta turbato
soltanto chi è abituato a spaccare in quattro il ca¬
pello, ma che non possono preoccupare sul serio
ehi guarda alla realtà nelle sue manifestazioni es¬
senziali: se tutti parliamo di Stato e c’intendiamo
perfeLtamente, vuol dire che, in sostanza, sappiamo
*) Questo è, in sostanza, l'appunto che mi fece il Gotitii nel eno
(apporlo al Congresso di Bolzano (settembre 193(1). o Lo Sialo, si
disse, non può intervenire in un dato momento, perché è presente
sempre. Ma non bisogna prendere la parola intervento in senso di¬
verso da quello che ormai è di uso comune » (Il procedimento spe¬
rimentale dell’economia corporativa, in « Giornale degli econo¬
misti», otlohre 1930, pag, 8741. La risposta alle obiezioni del Gobbi
dovrebhe risultare abbastanza chiara da lutto il contenuto di que¬
sto capitolo, che vorrei porre come pregiudiziale di ogni ulteriore
discussione sulla validità dei principi della scienza economica.
— 35 —
tutti che cosa esso sia. o per lo meno che cosi
crediamo che sia.
Ebbene, a rischio di apparire banali, abban¬
doniamo per un momento il terreno più propria¬
mente scientifico della discussione, trascuriamo cioè
le attuali controversie dottrinarie, e scendiamo an¬
che noi a quel senso comune cui ci richiamano pe¬
rentoriamente alcuni economisti, quasi avessimo
perso il contatto con la terra per la velleità di cor¬
rere inutilmente per i cieli. Scendiamo, dico, a ra¬
gionare all ingrosso e a determinare su per giù que¬
sto comunissimo concetto dello Stato: vediamo, in¬
somma, se è possibile giungere a una conclusione
pralica qualsiasi, che ci autorizzi poi a rimanere
fedeli a ciò che gli economisti dicono quando parla¬
no di Stato e individuo, di intervento, di libera
concorrenza, di monopolio, ecc. Se vi perverremo,
se potremo comunque pervenirvi, ogni ragione di
dissenso sarà tolta, e ognuno potrà proseguire in
pace il suo cammino; ma se, per avventura, ciò non
fosse possibile, bisognerebbe pure che gli econo¬
misti si decidessero ad affrontare tutte le conseguen¬
ze e a mettere cioè in discussione tutti i principi
della loro scienza.
Tra le diverse risposte che potrebbero darsi
alla domanda: «che cosa è lo Stato?», credo che
un economista finirebbe col preferire quella che si
ricollegasse al concetto di bilancio dello Stato:
Stato è 1 ente il cui bilancio si chiama appunto bi¬
lancio dello Stato. E sarebbe ima risposta precisa,
— 36 —
inequivocabile., perfettamente individuata nell’or-
ganismo di un sistema scientifico, sì cbe ogni ulte¬
riore discussione sulla sua legittimità dovrebbe ap¬
parire inutile. Ma se gli economisti danno allo Sta¬
to questo significalo ristretto di amministrazione
centrale, non è certamente a esso che si limitano
quando parlano di intervento statale nell’economia
individuale. Nessuno infatti crede di dover distin¬
guere l’intervento dello Stato strido sensu da quel¬
lo, ad esempio, della provincia, o del comune, o di
un ente pubblico in genere: e nessuno pensa a un
rapporto necessario tra intervento politico e bilan¬
cio dello Stato quando si stabilisce, ad esempio, lina
riduzione del numero delle osterie. Ci deve essere,
dunque, un altro criterio per determinare i confini
di quella realtà cbe gli economisti chiamano Stato,
e studiano in rapporto ai fenomeni della libera
concorrenza. A tal riguardo, oggi Stato in Italia
sono senza dubbio anche l’organismo corporativo
e il partito nazionale fascista, che di gran lunga tra¬
scendono la particolare vita del bilancio statale, e
da cui nessuno potrebbe senza arbitrio prescinde¬
re per spiegarsi l’attuale vita economica della na¬
zione. E dunque lo Stato si allarga necessariamen¬
te, anche se ci limitiamo a questa prima considera¬
zione empirica del problema, daH’ammiiiistrazione
centrale a quella periferica, da pochi organi deter¬
minati a una molteplicità indefinita di poteri rego¬
latori. Sì che l’economista deve tornare a porsi il
problema da capo e andare alla ricerca di un crite¬
rio comprensivo di questa più vasta realtà cui deve
riconoscere la qualifica di Stato.
Non più tecnicamente rilevabile attraverso un
particolare fenomeno economico come quello del
- 37 —
bilancio statale, la distinzione di Stato e individuo
deve a questo punto trascinare l’economista di là
dai confini della sua scienza, e indurlo a ricercare
nel campo del diritto e della politica quel concetto
di Stato che gli è necessario per costruire scientifi¬
camente una teoria degli effetti economici dell’in¬
tervento statale. Lo sconfinamento è, al solito, in
gran parte inconsapevole e la soluzione del proble¬
ma resta, nella letteratura della odierna scienza eco¬
nomica, affatto indeterminata ed equivoca. All’in-
grosso si può dire che l’economista contrappone
Stato e individuo intendendo contrapporre governo
e governati. E anche questa distinzione potrebbe
reputarsi precisa e perentoria, se fosse possibile in
realtà individuare non arbitrariamente il concetto
di governante; se fosse possibile, in altri termini,
distinguere di fatto i governanti dai governati, os¬
sia la volontà e 1 azione economica dei governanti
dalla volontà e dall’azione economica dei governa¬
ti. Se lo Stato, in effetti, è sinomino di governo, l’in¬
tervento statale non potrà concepirsi se non come
quello esercitato da un’autorità governativa, ma,
anche qui, nessun economista può essere tanto in¬
genuo da identificare tale autorità con la persona
del sovrano e con il gabinetto. Anche qui è neces¬
sario scendere dal governo strido sensu al potere
governativo esteso a tutte le autorità centrali e pe¬
riferiche, da quelle dei ministri a quelle degli enti
locali, delle federazioni, dei sindacati, del partito,
ecc. E il problema di nuovo si allarga in modo in¬
definito, senza che alEeeonomia sia possibile em¬
piricamente raggiungere i limiti dell’attività gover¬
nativa e degli uomini che la impersonano. Di gerar¬
ca in gerarca si scende tutta la scala dell’ organismo
38 —
sodale, senza die sia mai possibile arrestarsi e tro¬
vare sul serio l’individuo che sia governato senza
governare. Quando anche si sia scesi fino al fondo
della scala e si sia raggiunta la massa degli indivi¬
dui che sembra non abbia altro compito sociale se
non quello di lavorare e di obbedire, si deve pur
riconoscere, e lo Stato moderno lo riconosce di fat¬
to, che la massa stessa si articola, si eleva, si spiri¬
tualizza e fa cioè sentire la sua volontà. In quanto
essa è qualche cosa nel mondo sociale, è azione, e
cioè governo, così come lo stesso ordinamento giu¬
ridico riconosce allorché a essa affida il compito di
votare, vale a dire di porsi a tu per tu con la supre¬
ma autorità governativa, e riconoscerla o discono¬
scerla, darle o toglierle il governo, e quindi condi¬
zionare e disciplinare tutta l’azione governativa.
Governo e governati vengono perciò a fondersi nel
circolo della vita polìtica, e gli ultimi toccano i pri¬
mi, in un organismo unico armonicamente costitui¬
to. Quest’organismo, che tutti li comprende e che
si esprime in una volontà unica, è appunto e sol¬
tanto lo Stato, con il quale l'individuo, in quanto
animale sociale, non può non coincidere assolu¬
tamente.
A questo nuovo concetto e a questa nuova real¬
tà dello Stato, per cui l’antinomia di Stato e indi¬
viduo si è venuta via via risolvendo, si è pervenu¬
ti a traverso un processo storico che qui non è il
caso di illustrare in modo particolare. Basti dire
ch’esso è il processo dello spirito umano, del pen¬
siero del secolo XÌX e dei primi decenni del XX,
39 —
della critica della vecchia trascendenza e dell’ul-
tima sua forma concretatasi neìl’individualisino il¬
luministico : è il passaggio del liberalismo dalla sua
forma irrazionale e anarchica a quella organica e
disciplinata, è il trasformarsi dell’opposizione più
o meno radicale all’autorità e alla realtà dello Sta¬
to nel riconoscimento del suo universale valore im¬
manentistico. Naturalmente le fasi dello sviluppo
non si possono individuare con facilità e anzi di
esse non è dato aver coscienza, se non quando si sia
pervenuti alla piena comprensione dei risultati rag¬
giunti: sono fasi riconoscibili solo dall’occhio esper¬
to del cultore di studi storici e filosofici, che sa ri¬
salire alle fonti del nuovo orientamento speculati¬
vo e determinarne la necessità logica, ragione del-
rineluttabile shocco nella vita pratica. E allo sto¬
rico solo è, quindi, consentito di volgersi con piena
consapevolezza alla presente realtà politica per
adoperare in senso non occasionale termini ed
espressioni relativi a un’esperienza anch’essa non
occasionale. Quando si parla, non ciarlatanesca¬
mente, di economia corporativa, non s’intende par¬
lare né di una speciale forma di economia relativa
a una contingente esperienza politica, né di una
esperienza politica arbitraria da ordinare scientifi¬
camente. S’intende, invece, riconoscere storicamente
e scientificamente un ulteriore sviluppo della scien¬
za economica, ossia l’erroneità di certi suoi presup¬
posti e la necessità di sostituirli con altri: e s’inten¬
de, insieme, riconoscere la razionalità di uno svi¬
luppo politico, dovuto agli stessi motivi spirituali
dello sviluppo scientifico e tutt’uno con esso. Stato
corporativo ed economia corporativa sono, in altri
termini, frutti imprescindibili dello spirito moder-
— 40 —
no ed espressioni del massimo livello da esso rag¬
giunto : qualunque sia la forma clic verrà assumen¬
do 1 idea eorporativa, è eerlo che essa, per il su¬
periore concetto di Stato che rappresenta, informe¬
rà tutta la scienza e la politica deH’avvenire.
Ma perché la previsione non riesca fallace è
necessario saper discernere bene ciò che vi ha di
essenziale nel movimento corporativo, e non con¬
fondere la sua realtà positiva con le particolari for¬
me, con i molteplici tentativi e anche con le inevi¬
tabili deviazioni della complicata prassi politica. Il
che vuol dire che non bisogna considerare i fatti
nella Ioto immediatezza indistinta, bensì valutarli
alla stregua di un criterio storico che ne spieghi la
necessità logica. Se essi sono frutto della storia non
possono intendersi se non attraverso la storia, os¬
sia attraverso lo sviluppo del pensiero che nella
storia si esprime, e debbono essere avviati verso
quegli ulteriori ideali che sorgono dalla consapevo¬
lezza storica e scientifica. Allora l’idea corporativa
può venire sul serio individuata e resa intelligi¬
bile, cioè elevata alla considerazione scientifica, non
a titolo di nuovo oggetto di studio, ma come ra¬
gione interna dello stesso processo scientifico. Allo¬
ra l’idea corporativa esce dalla vaga formulazione
propria di un’esperienza politica in rapidissimo
movimento e si riconosce in una verità storica che
è frutto di una secolare elaborazione dottrinaria e
pratica : l’identità di Stato e individuo.
Ora, se guardiamo all’ordinamento corporati¬
vo da questo superiore punto di vista, dobbiamo
convenire che il suo effettivo significato storico sta
appunto nel tentativo di rendere sempre più con¬
creta l’organicità statale della vita della nazione, e
41 —
cioè di rendere lo Stato sempre più immanente alla
vita dell’individuo. Nel regime corporativo lo Stato
è destinato a perdere la caratteristica di un ente tra¬
scendente, a non contrapporsi, cioè, agli individui
che sono soggetti alla sua autorità, ma ad estendere
via via i propri confini scendendo dal vertice alla
base e ricomprendendo senza residui tutta la realtà
sociale. L’autorità dello Stato non è più una disci¬
plina che si impone ai cittadini dall’esterno, ma è
la stessa disciplina con cui lo Stato si organizza nel
suo interno: poiché nella corporazione si incontrano
di fatto Stato e individuo, e reciprocamente si tra¬
sformano in un rapporto dialettico che dà significato
a entramhi i termini. Cosi nel diritto come nell’eco¬
nomia rincontro, naturalmente, si esprime con la
identificazione progressiva del pubblico e del pri¬
vato, e basta guardarsi intorno per convincersi del¬
la radicale e rapidissima trasformazione die questi
concetti vanno subendo in tutti i rapporti della vita
sociale. Parlare oggi, ad esempio, di proprietà pri¬
vata, senza riconoscere anche ad essa un sostanziale
carattere pubblicistico, è un assurdo che risulta evi¬
dente a ogni giurista non fossilizzato. E, se dal con¬
cetto base della proprietà scendiamo agli altri infi¬
niti che a esso si ricollegano, tanto dal punto di vi¬
sta giuridico quanto da quello economico, è facile ac¬
corgersi che tutti acquistano un significato statale al
quale nella realtà non possono sottrarsi. Costi, prez¬
zi, salari, iniziative, imprese, banche, negozi, com¬
merci, ecc., tutto è ormai, non solo implicitamente
come sempre, ma anche con progressiva consapevo¬
lezza ed esplicita volontà, subordinato a una disci¬
plina statale di cui sarebbe assurdo voler segnare
i confini. Ed è proprio questa impossibilità che or-
mai rende chiaro, anche sul terreno della realtà
politica, il progressivo svuotamento delle locuzioni
tanto abituali nella letteratura della vecchia eco¬
nomia. Che cosa può mai significare oggi intervento
statale nell economia individuale, quando si è reso
esplicito anche ai più ciechi che non esiste alcun
atto economico che non sia condizionato dall’or-
ganisnio statale? Finché lo Stato si personificava in
un ente e si esauriva nell opera di una burocrazia,
esso poteva intervenire in una realtà che era fuori
dell ente e della burocrazia: ma oggi che Io Stato
non è, neppure in apparenza, un ente, né si limita
a una huroerazia, perché si estende attraverso la vita
sindacale a tutti gli individui, oggi finalmente è
scomparso il soggetto stesso dell’intervento facendo
scomparire con sé tutte le proprie particolari ma¬
nifestazioni.
Per chi continuasse a sorridere scetticamente
sarà opportuno portare un esempio molto noto:
quello del calmiere. Non so se molti hanno riflet¬
tuto sulle vicende che ha subito il calmiere in Ita¬
lia in questi ultimi anni: a chi non lo avesse fatto
e si domandasse 6e oggi in Italia esistono tuttavia
dei calmieri, dovrebbe apparire chiara una sola ri¬
sposta e cioè che oggi in Italia la parola calmiere
non ha più significato, è diventata anacronistica
e ha seguito la sorte di quella concezione politica
ed economica che il fascismo viene liquidando. An¬
cora fino a qualche anno fa si parlava di bardature
economiche e della necessità di sopprimerle, an¬
cora si contrapponeva l’intervento alla libertà e si
discuteva quindi sulla legittimità o meno dei cal¬
mieri. Oggi la questione è superata, non risolta né
nell’uno né nell’altro senso, ma vuotata di conte-
— 43 —
mito attraverso la consapevolezza acquisita dell’as¬
soluta unità della vita economica italiana. Che si¬
gnificato dar piu alla parola calmiere quando in po¬
chi giorni prezzi e costi sono mutati in tutto il paese
in virtù di una sola parola d’ordine? Quando con¬
tratti collettivi, stipendi, salari, prezzi di vendita
all’ingrosso e al minuto, ecc., sono tutti legati da una
ferrea disciplina nazionale? Che non è, si compren¬
de bene, una disciplina arbitraria e quindi antigiu¬
ridica e antieconomica, ma, almeno nella sua realtà
migliore, il disciplinarsi stesso, e dairinterno, della
vita economica d^l paese vista in funzione di un
unico fine statale^ È lo Stato che coincide con l’indi¬
viduo e lo risolve nella propria organicità : è l’indi¬
viduo che vede nello Stato la sua ragion d’essere e
lo risolve nella propria volontà.
La tesi dell'identità di Stato e individuo, che
teoricamente e storicamente si è venuta delineando,
può ancora andare incontro — come si è già accen¬
nato — a una obiezione di carattere empirico, fon¬
data sulla constatazione di un reale contrasto tra
l’attività e le finalità economiche dell’individuo e
quelle dello Stato. È vero — ci si può opporre e ci si
oppone in effetti da più parti — che in teoria, ossia,
idealmente. Stato e individuo coincidono, ma nella
concreta vita sociale è pur vero che l’opposizione
o almeno la differenza c’è, e con il suo solo esserci
non può non smentire la teoria. O voi dunque — si
continua — vi contentate di restare in un’atmosfera
— 44 —
di pura idealità io cui la teoria si esaurisce com¬
piutamente in se stessa, e allora potrete avere an¬
che ragione: o voi invece volete che la teoria si ade¬
gui alla realtà e serva ai suoi fini, e allora dovete
riconoscere che la vita è radicalmente diversa da
quella che voi andate teorizzando. Nel primo caso
fate una metafisica, nel secondo lina cattiva
economia.
Prima di rispondere esplicitamente a questa
obiezione, sarà opportuno ricercare le ragioni effet¬
tive del contrasto indubbiamente esistente e sempre
risorgerne nella vita sociale tra fine pubblico e fine
privato. Tale contrasto — diciamo anche noi — c’è
e sarebbe stolto negarlo o porlo comunque in dub¬
bio, tanto evidente esso è nella vita di ogni giorno e
nella coscienza intima di ognuno di noi. Se diminui¬
scono gli stipendi e io sono uno stipendiato, posso
logicamente convincermi della necessità e quindi
dell’utilità economica nazionale della riduzione, ma,
se mi fosse lecito sottrarmi alla legge comune, e ot¬
tenere che il mio stipendio sfuggisse al provvedi¬
mento generale, con molta probabilità sarei lieto
dell’eccezione e agirei perché essa si verificasse. Il
che vuol dire che in realtà tra il mio fine indivi¬
duale e quello stalale c’è un contrasto esplicito e che
l’agire economico mio non è identificabile con quello
dello Stato. Ma se così è, non bisogna tuttavia arre¬
starsi al riconoscimento e occorre spiegarsi la con¬
traddizione Ira ciò che sarebbe logico e ciò che è
reale. E basta appena porre il problema in questi
termini per accorgersi che la ragione dell’indiscu-
libile fatto è appunto contraria alla logica, è essen¬
zialmente. profondamente illogica. Il contrasto, in
altri termini, c’è, ma è dovuto a una deficienza, a
— 45 —
una negatività; esso rappresenta il lato patologico
dell’effettiva realtà sociale, ossia l’elemento disgre¬
gatore e non quello unificatore della società.
Se poi volessimo renderci conto della radice
del male e ricercare in'quale dei due termini del
rapporto Stato-individuo si verifica la ragione del
contrasto, dovremmo riconoscere che non a uno
solo di essi può limitarsi la colpa, poiché a fon¬
damento di entrambi è sempre una attività umana
suscettibile di degenerare nelFegnismo antisociale,
l’identità si spezza o almeno si attenua ogni volta
che l’individuo si fa diverso dallo Stato: ogni volta
insomma che lo Stato diventa sopraffattore o che
l’individuo diventa ribelle. Alcune brevi osserva¬
zioni potranno chiarire il duplice modo del sorgere
dell'antitesi.
E cominciamo dallo Stato, contro il quale ge¬
neralmente si appuntano le critiche degli economisti,
insofferenti del contrasto soltanto quando l’azione
statale ne sia la fonte. Chi può negare un qualsiasi
fondamento alle critiche dei liberisti contro gli in¬
terventi dello Stato nel campo dell'economia indi¬
viduale? E se non è possibile una negazione pe¬
rentoria, come si spiega il verificarsi di interventi
dannosi e antieconomici? Per rispondere in modo
scientificamente esatto bisogna convenire che l’azio¬
ne economica statale è nociva soltanto quando lo
Stato non è veramente tale, e cioè quando rinnega
la sua realtà universali zzatrice e si parti eoi arizza
in determinati individui o in una determinata classe.
Il modo, poi, in cui il particolarizzarsi dello Stalo
può effettuarsi è duplice, a seconda che lo Stato si
differenzia dalla nazione per ignoranza o per inte¬
resse. Nel primo caso lo Stato — o, per non equi-
— 46
vocare, il governo in senso stretto, o, meglio ancora,
gli individui che lo impersonano — interpreta ar¬
bitrariamente la volontà della nazione e agisce in
senso antieconomico perché rompe l’organismo so¬
ciale, imponendo una volontà affatto individuale,
disgregatrice di quella universale. È il governante
che vuole agire per lo Stato, ina che in effetti opera
contro lo Stato per l’incapacità di dare valore uni¬
versale alla propria volontà.
Nel secondo caso, in cui il governante agisce
per interesse proprio, non solo manca la capacità
di universalizzarsi e di assurgere veramente a Sta¬
to, ma c è addirittura la volontà di particolarizzatsi
anteponendo dolosamente la propria individualità
allo Stalo. È il caso del tiranno o della classe diri¬
gente che abbassa la nazione a strumento dei propri
fini particolari.
Ora, è chiaro che tanto nel primo quanto nel
secondo caso la tesi dell’identità d’individuo e Stato,
lungi dall essere scossa e compromessa, è lumino¬
samente confermata nella sua assolutezza. Il duali¬
smo infatti è possibile in entramhi i casi non per
la contemporanea esistenza di due realtà distinte che
sarebbero l’individuo e lo Stato, nia per la inesi¬
stenza di una vera volonlà statale. Sono individui
(Stato) che si contrappongono a individui (sudditi)
in un contrasto anarchico di fini particolari: l’unità
di individuo e Stato non può effettuarsi, perché
inanca quella realtà universale in cui i due terniini
debbono incontrarsi e sintetizzarsi; manca — rigo¬
rosamente parlando — lo Stato. E l’individuo si
oppone allo Stato non perché veda in esso uno vo¬
lonlà e un fine universali contrastanti con la propria
volontà particolare, ma solo perché vi scorge una
— 47
volontà anch essa particolare che non ha alcuna
ragione intrinseca di prevalere.
Queste stesse osservazioni, fatte per dimostrare
1 origine patologica del dualismo di Stato e indivi¬
duo, valgono, presso a poco negli stessi termini, per
il caso che la colpa di esso debba attribuirsi all’in¬
dividuo. È vero che 1 individuo spesso concepisce il
proprio fine e il proprio interesse come contrastanti
con quelli dello Stato, ma la ragione va trovata an¬
che qui o nell'ignoranza del valore del fine statale
o nella volontà di sopraffare lo Stato abbassandolo
a strumento del proprio interesse particolare e vio¬
lentando la volontà degli altri individui. In entram¬
bi i casi la sua condotta non si spiega con l’esistenza
di due realtà distinte: individuo e Stato, ma solo con
la negazione di uno dei due termini. È rindividuo
che non riconosce lo Stato. Se per poco lo riconosces¬
se, se ne ritenesse giustificata l’esistenza e lo sentisse
come valore da difendere, diverrebbe sua preoccupa¬
zione quella di conformare la propria volontà alla
volontà dello Stato, di coordinare cioè il proprio
mondo con quello dello Stato in un'unità superiore
in cui i due termini si risolvessero. E insomma an¬
cora una volta si deve concludere che se di Stato può
propriamente parlarsi, se lo Stato non è un nome ma
una realtà effettiva, esso non può che coincidere con
l’individuo. L’antinomia sussiste e sempre sussisterà,
ma come il male nel processo dello spirito, vale a
dire come la volontà di negare ciò che ha valore uni¬
versale, di sopprimere o di menomare lo Stato.
Forse neppure dopo l’analisi del contrasto tra
Stato e individuo possono ritenersi definitivamente
combattute le obiezioni che si fanno alla tesi della
identità dei due termini. Ebbene — ci si potrebbe
ancora dire — sia pur giusto quanto voi sostenete e
sia pur vero che il contrasto denota soltanto la man¬
canza o la menomazione della realtà dello Stato,
ma intanto, comunque, il contrasto c’è ed è fonda-
mentale, sì che da esso non è lecito prescindere, sen¬
za abbandonare la realtà concreta e smarrirsi dietro
un utopistico ideale. Noi dobbiamo fare la scienza
della vita quale essa storicamente ci si presenta, e
non quella di un mondo astratto, fosse anche il più
celestiale dei mondi possibili.
A evitare ogni timore di tal sorta potremmo
richiamarci al carattere radicalmente storicistico del
nostro assunto: nessuno più di noi può aver l’in¬
tenzione di aderire alla realtà e di trovare in essa e
soltanto in essa la norma scientifica. E perciò sarà
opportuno dichiarare senz’altro perentoriamente
che nessuno più di noi è convinto deH’esistenza del
contrasto; che nessuno più di noi è disposto a rico¬
noscere l’impossibilità dell’eliminazione totale, sia
pur fantasticata nel più lontano futuro, del contrasto
stesso. L’antinomia c’è e sempre risorgerà, perché
essa è nella dialettica della vita, sì che sopprimerla
davvero per sempre significherebbe sopprimere con
essa la vita. La quale non è perfezione ma processo
I
;
di perfezionamento, e perciò non identità statica dì
individuale e universale, vale a dire non conquista
definitiva del valore, ma sforzo continuo di adegua¬
mento dell’individuale all'universale, ossia conqui¬
sta di valori sempre più alti. Per adeguarsi allo Sta¬
to l'individuo deve vincere se stesso, superare la
propria particolarità, dominare gli impulsi, rinun¬
ciare all’arbitrio, disciplinarsi insomma attraverso
una serie di sforzi, in cui il dualismo riaffiora
continuamente e non può mai dirsi risolto per
intero.
Ma se questa è legge di vita, anzi la vita stes¬
sa nel suo svolgimento, occorre poi saper distin¬
guere entro il processo i due termini dialettici e non
confondere il negativo con il positivo. L’individuo
è veramente tale, è cioè una realtà positiva o un
valore spirituale solo per quel tanto che riesce a
universalizzarsi nello Stato: per quel tanto invece
per cui resta al di qua dello Stato egli è non valore,
irrazionalità, mero arbitrio disgregatore della real¬
ta sociale; è particolarità chiusa in se stessa e inca¬
pace di divenire comunque termine di rapporto,
lira, è chiaro che un soggetto il quale sfugga alla
possibilità di un rapporto con gli altri soggetti —
se non sfuggisse, la sua particolarità sarebbe con ciò
«lesso superata, e quindi l’ipotesi negata — è asso¬
lutamente negativo, ossia assolutamente inintel¬
ligibile. Volerlo considerare oggettivamente, fa¬
cendolo assurgere a contenuto di scienza, è im¬
presa tanto disperata e assurda, quanto quel¬
la di voler fare scienza dell irreale: e purtroppo
in questa assurda fatica si è cimentata finora la
scienza dell’economia per quel tanto per cui ha vo¬
luto tener fede ai suoi presupposti e assumere veste
^ • SniJTtì
50 —
sistematica. 11 così detto homo aeconomicus è ap¬
punto l’ipotesi astratta dell’individuo visto, non in
un particolare aspetto della sua attività di uomo
— come erroneamente è stato ritenuto dagli econo¬
misti —, bensì nella mera negatività del soggetto
considerato come particolare. Esso, dunque, non
è un’ipotesi scientifica — per astratta cbe la si vo¬
glia pensare — ma proprio l’ipotesi negativa della
scienza: se esistessero di fatto gli homines aecono¬
mici, il loro agire, per definizione, non sarebbe su¬
scettibile di sistemazione scientifica.
Per quel tanto, invece, per cui l’uomo entra
in rapporto con gli altri e supera la propria parti¬
colarità nell’opera di collaborazione, per quel tanto
appunto esso diventa intelligibile e logicamente
considerabile. La sua azione trascende, infatti, l’ar¬
bitrio e si razionalizza, il suo procedere si discipli¬
na secondo norme determinate e la sua soggettività
si risolve neH’organismo della vita sociale, nello
Stato. Per quel tanto, insomma, per cui individuo e
Stato si identificano, il soggetto economico — In
Stato cbe è individuo o l’individuo che è Stato —
diventa una realtà positiva, e l’azione economica
diventa suscettibile di considerazione scientifica. O
si fa scienza e si riconosce l’identità sostanziale dei
due termini, o si ipostatizza l’individuo consideran¬
dolo positivo nella sua particolarità e si rinuncia
alla scienza. Ogni via di mezzo è fatalmente desti¬
nata all’equivoco e all’errore.
A illustrare l’argomentazione potrà forse valere
un esempio tratto da altre discipline: la gramma¬
tica o la sintassi. Sono discipline cbe ci indicano
le leggi del parlare e dello scrivere; leggi non fis¬
sate arbitrariamente, ma ritrovate nella realtà di
coloro die parlano e scrivono. Se non che, così co¬
me nel rapporto tra individuo e Stato nella vita
economica, anche qui l’individuo non si adegua
sempre all universale della legge e comunemente
sgrammatica. Anche qui il parlar secondo gramma¬
tica è un ideale che di fatto non è mai raggiunto,
né sarà mai raggiunto; eppure a nessuno viene in
mente di fare la grammatica dell’individuo e di
porre a fondamento di essa l’arbitrio di parlare co¬
me si desidera. Se si vuol fare scienza occorre pur
considerare l'elemento positivo e non quello nega¬
tivo: occorre cioè determinare l’universale in cui
gl'individui convengono e non il particolare che non
riescono a superare. Ora, la scienza deH’economia
ha mirato proprio a fare la grammatica dell’indivi¬
duo, e, quando non è stata arrestata lungo la china
dalla forza imperiosa della realtà, è precipitata ad¬
dirittura nell unica conseguenza possibile, quella
dell ideale della libera concorrenza, che, mante?
nendo ancora il paragone, vai quanto l’ideale del
lihero parlare, ossia del parlare senza gram¬
matica.
Ma potrebbe forse osservare a questo punto
I economista a fondo positivisteggiante — noi non
vogliamo indicare norme di vita. Noi vogliamo, cioè,
indicare nella libera concorrenza non un ideale
economico, ma un ipotesi economica : se si raggiun¬
gesse I ideale della lihera concorrenza quali feno¬
meni si verificherebbero? — ecco il problema. Eb¬
bene, rispondiamo ancora una volta, l’ipotesi non
ha senso come non avrebbe senso lo sforzo del gram¬
matico che volesse studiare la grammatica di un
ipotetico paese in cui ognuno parlasse un linguag¬
gio proprio. 0 la libera concorrenza ha una qual-
siasi disciplina e si compone nella vita statale, e al¬
lora si può analizzare entro l’ambito di tale disci¬
plina; o la libera concorrenza è davvero l’incontro
irrazionale di soggettività particolari, e allora non
può essere cbe abbandonata a se stessa.
Nelle osservazioni che precedono si è cercato
di dare un concetto preciso della tesi dell’identità
di individuo e Stato, e di mostrarne il carattere sto¬
ricistico, che la pone non a fondamento di una qual¬
siasi opinione scientifica, bensì come principio in¬
formatore necessario della nuova scienza economica,
in quanto la si renda adeguata al livello speculativo
e politico della vita contemporanea. A quali conse¬
guenze il nuovo principio conduca nella costruzione
sistematica dell’economia non è possìbile illustrare
se non costruendo appunto la nuova scienza; tutta¬
via deve già a questo punto risultar chiaro che le
conseguenze non possono essere di carattere acces¬
sorio o particolare, ma tali da trasformare radical¬
mente la fisionomia della dottrina economica. Spo¬
stare il soggetto economico daWhomn cecoiwmicus,
ossia dall’individuo particolare, all’individuo visto
nella sua identità con lo Stato, significa mutare nb
imis i concetti di valore, di utilità, di benessere, di
bene economico, di ricchezza, di libera concorrenza,
di monopolio, di intervento statale, ecc. : di tutti i
concetti fondamentali, cioè, dell’economia quale
si è venuta costruendo da secoli. Sarà una trasfor¬
mazione lunga e faticosa, e tanto più ardua quanto
— 53 —
piu ci si andrà avvicinando alla trattazione dei prò-
blem, particolari, in cui è facile smarrire la coscien-
za c ei presupposti e degenerare in un falso tecnici¬
smo. Ma sarà una trasformazione assolutamente ne-
cessarla, alla quale converrebbe che aprissero fin da
ora gli occhi quegl, economisti che si cullano tutta-
via nella illusione di possedere leggi e teoremi di
inoppugnabile certezza.
BENESSERE INDIVIDUALE E
BENESSERE SOCIALE
Uno dei problemi fondamentali dell’economia,
in cui la tesi dell’identità di individuo e Stato può
Irovare la conferma del suo valore critico e rico¬
struttivo, è certamente quello del benessere. Preoc¬
cupazione costante della scienza è stata la ricerca
delle condizioni necessarie per il raggiungimento
del massimo benessere individuale e del massimo
benessere sociale, e a questo supremo fine si può
dire siano subordinate tutte le particolari teorie
e indagini degli economisti, anche quando essi ri¬
pudiano come antiscientifico il concetto di disci¬
plina normativa. Se essi confrontano, infatti, le di¬
verse ipotesi economiche e ne studiano, sia pure
astrattamente, le peculiari conseguenze, debbono
avere, per il fine stesso che si propongono, un cri¬
terio di confronto, e debbono poter esprimere un
giudizio comparativo di valore (economico). Vero è
che Feconomista, a cui oggi si domandi se sia mi¬
gliore il regime di libera concorrenza o quello di
monopolio, risponde di non potersi pronunziare in
merito dovendosi limitare scientificamente a espor-
— 55 —
re 1 andamento dei fenomeni economici nei due
casi indicati, ma è pur vero che tali fenomeni —
presi almeno a uno a uno, — non possono chiarirsi
e determinarsi se non in funzione di un concetto
quantitativo (più o meno utile, maggiore o minore
reddito, aumento o diminuzione della produzione,
ecc.) che è implicitamente valutativo o normativo.
Si potrà non concludere in favore dell’uno o del-
1 ahro regime, ma ciò dipenderà esclusivamente dal¬
l’impossibilità di sommare con esattezza tutti i prò
e tutti i contro delle diverse ipotesi, non dal¬
la rinuncia a determinare i singoli prò e i
sìngoli contro. Così, quando l’eoononiista afferma
che la moneta cattiva scaccia la buona, condan¬
na, limitatamente al fenomeno preso in esame, la
emissione di moneta cattiva, anche se poi, tenendo
presenti altri fenomeni, riconosce che in determi¬
nati casi l’emissione di moneta cattiva possa essere
necessaria. E deve allora risultare chiaro che la
rinunzia dell economista a far diventare normativa
la sua scienza va attribuita unicamente all’incapa¬
cità di una visione sistematica dei fenomeni eco¬
nomici e all impossibilità di decidersi fra regimi
economici non bene determinati in tutte le conse¬
guenze. Un’economia veramente sistematica, seb¬
bene fondata su un principio affatto negativo, era
1 economia rigorosamente liberistica, che assumeva
a fondamento logico della scienza la libera concor¬
renza e vedeva in essa l'ideale normativo della pras¬
si politica. Ma quando la negatività del principio si
è andata a poco a poco rivelando anche ai più orto¬
dossi, il rigore sistematico si è affievolito e la scien¬
za è scivolata inavvertitamente nel frammentari¬
smo di indagini contradditorie. La ricerca è diven-
— 56 —
tata più complessa e meno dogmatica, e in tal senso
sì è accostata maggiormente alla vita e alle esi¬
genze dello storicismo, ma, per l'incapacità di domi¬
nare il mondo in la] guisa allargato, è caduta in un
relativismo scettico scientificamente disorganico e
praticamente inutile e dannoso. Si che, se oggi ci 6Ì
volgesse intorno e si domandasse agli economisti
quale sia la strada da percorrere per giungere al
massimo benessere individuale e a quello sociale,
non si potrebbero ascoltare che risposte monche,
indeterminate e, peggio ancora, evasive. Gli uni ci
direbbero che il problema riguarda la distribu¬
zione e non la produzione, e tenderebbero perciò
a convertire il problema economico in un proble¬
ma di politica economica, per lavarsene le mani e
rimettersi al prudente arbitrio delluomo polìtico;
allri ci risponderebbero che la soluzione teorica è
sempre quella della lihera concorrenza, la quale in
aslratto garantisce il massimo di ofelimità indivi¬
duale e SQciale: ma poi aggiungerebbero che tale
soluzione teorica ha bisogno, per una quantità di
ragioni determinabili o indeterminabili, di correttivi
più o meno radicali; altri ancora distinguerebbero
tra benessere individuale più propriamente econo¬
mico e benessere sociale, determinato, invece, da
motivi in gran parte di natura extraeconomica : al¬
tri, infine, si smarrirebbero nella casistica del con¬
tingente e accumulerebbero risposte su risposte,
senza venire a capo di nulla. Ma tutti poi
eviterebbero di affrontare o sommariamente ri¬
solverebbero il problema fondamentale di determi¬
nare sul serio il concetto di benessere individuale
e sociale, e quindi tutti si porrebbero nell’impos¬
sibilità di dare una risposta scientificamente rigo-
— 57 —
rosa. Poiché, al solito, l’incapacità degli odierni eco¬
nomisti di dar veste sistematica alla loro scienza sta
proprio nel sorvolare sui presupposti della costru¬
zione e nell impelagarsi in una congerie disastrosa
di questioni oziose o addirittura inesistenti, smar¬
rendo la nozione stessa del problema che pur si
vuole affrontare. E perciò ancora una volta occorre
fermarsi al limitare, e domandarsi con precisione
che cosa vuol dire benessere individuale, che cosa
benessere sociale, e che cosa infine il rapporto tra le
due specie di benessere.
Vediamo anzitutto quale significato hanno pre¬
teso di dare e quale significato hanno effettivamen¬
te dato al concetto di benessere gli economisti indi¬
vidualisti o liberali, nel tentativo più sistematico
da essi compiuto per la soluzione di questo pro¬
blema. Vogliamo riferirei in particolar modo alla
interpretazione soggettivistica del concetto di uti¬
lità, e quindi alla cosiddetta ofelimità massima indi¬
viduale e statale. Credo che, anche limitando a que¬
sta teoria la nostra indagine critica, nessun econo¬
mista vorrà accusarci di unilateralità, perchè nessu¬
no potrebbe sul serio affermare resistenza nella
scienza economica contemporanea di una conce¬
zione più comprensiva del problema in esame.
Con il concetto di ofelimità la teoria classica
dell economia individuale ha raggiunto il massimo
rigore che le era consentito. Se il soggetto econo¬
mico è 1 individuo singolo con finalità proprie estra-
nee a quelle degli altri individui, la nozione oggetti¬
va di utile va necessariamente cangiata in quella
soggettiva di ofelimo: nessuno potrà affermare in
astratto Futilità di un bene, perché beni per se stessi
utili non esistono, essendo la loro utilità in funzione
dei gusti e dei relativi bisogni degli individui, L u-
tilità di un bene varia perciò da indivìduo a indivi¬
duo da momento a momento della sua vita: quello
stesso bene cbe oggi è al sommo delle mie aspira¬
zioni e cbe m’induee a sacrifici notevolissimi, può
diventare domani affatto irrilevante e tale da co¬
stringermi addirittura a nuovi sacrifici per disfar¬
mene. Vano era dunque il tentativo dei vecchi eco¬
nomisti di determinare il valore dei heni e di spie¬
gare obiettivamente le ragioni della loro utilità:
utile è soltanto Fofelimo, vale a dire ciò cbe ri¬
sponde al gusto contingente e arbitrario di dii com¬
pie la scelta economica.
Tutta la cosiddetta economia marginalia ha
preso le mosse da questo presupposto fondamen¬
tale e si è trascinata fin qui nell'illusione — non
sempre cieca e totale — che nel puro soggettivi¬
smo fosse tuttavia possibile alla scienza di porre un
certo ordine, frazionando idealmente in unità ele¬
mentari i vari beni di un individuo e confrontando
le unità ultime di ciascun bene tra loro. Se sog¬
gettivo è il concetto di utile, entriamo pure nell’ani¬
ma del soggetto e facciamo la sintesi delFeeonomia e
della psicologia: così hanno pensato i più coerenti
tra gli individualisti, giungendo infine alla conclu¬
sione alquanto lapalissiana che di veramente certo
nella logica di ogni indivìduo non v’è che il biso¬
gno di procurarsi beni economici in quantità tali da
rendere eguali le soddisfazioni procurate dalle uni-
0
— 59 —
tà ultime dei diversi beni. Il ragionamento, a prima
vista impeccabile, si è svolto in questi termini: se
io vado al mercato a comprare pane e vino è chiaro
che comprerò tanto pane e tanto vino da far coin¬
cidere il piacere che potrà procurarmi l’ultima parte
del mio pane con quello che potrà venirmi dall’ulti¬
ma parte del mio vino. Se l’ultimo boccone del mio
pane avesse per me maggiore o minor valore dell’ul-
timo sorso del mio vino, la mia opera sarebbe illo¬
gica, perché rinuncerei senza ragione al massimo di
utilità possibile, facendo acquisto di troppo vino
o di troppo pane. Estendendo il ragionamento a tut¬
ti i miei beni e misurando la quantità di ognuno
posso giungere a determinare il valore relativo di
essi: posso cioè avere una nozione sperimentale
del mio equilibrio economico. E se infine dalla mia
persona passo a quella degli altri individui che for¬
mano la collettività, posso sempre sperimentalmente
e oggettivamente giungere alla nozione di un equili¬
brio generale, che è tuttavia la risultante di molte¬
plici mondi assolutamente soggettivi. Si compie in
tal guisa il miracolo della trasformazione di un’eco¬
nomia psicologica in un’economia matematica, e
ciò che sembrava l’espressione di un arbitrio inaf¬
ferrabile e indeterminabile diventa elemento rigoro¬
samente determinato in una formula algebrica.
Ma la matematica è in questo caso una cattiva
consigliera e conviene aver la forza di resistere al
suo fascino, per non essere trascinati in un mondo
tanio più fantastico quanto più tecnicamente per¬
fetto. E dalle sue equazioni vogliamo per un istante
ritrarre lo sguardo per ritornare all’mdividuo eco¬
nomico e vedere se tanta scienza possa comunque
illuminarlo nel suo cammino e se, soprattutto, pos-
ea comunque illuminargli la strada che gli altri
individui percorrono con lui.
Ora è chiaro che l’economia marginalista non
può dare all’individuo nessun criterio orientativo
nel mondo economico, poiché l’azione economica,
qualunque essa sia, è sempre, per definizione, la
migliore possihile. Se vado al mercato, compro quel
hene, in quella quantità, e a quel prezzo che rispon¬
dono nel modo più infallibile all’unico criterio logi¬
co eh io possa in queiristante seguire: al criterio
cioè del mio gusto e del mio bisogno. Fare libera¬
mente una cosa che non piaccia è evidentemente
una contraddizione in termini, e se dunque fonda¬
mento dell’economia è l’ofelimità, ogni atto eco-
mico, in quanto compiuto senza costrizioni, e ne¬
cessariamente perfetto. E se perfetto è ogni atto,
perfetto sarà pure il sistema degli atti ossia tutta la
vita economica, si che ogni individuo, che agisca
lìberamente, non può non vivere lina vita rispon¬
dente al più allo ideale economico e non esser sem¬
pre nello stato del massimo benessere possibile.
Se non che una perfezione così a buon mer¬
cato ha già dato qualche sospetto a taluno degli
economisti più intelligenti e c’è stato chi, sia pure
di sfuggita, dando uno sguardo più profondo alla
vita del soggetto, si è accorto nientemeno che le ofe¬
limità marginali non sono confrontabili tra di loro,
neppure nello stesso individuo e neppure nello stes¬
so istante. E poi si è notato che il marginalismo im¬
plica la possibilità per lo meno ideale di frazionare
in unità elementari ogni bene economico e che in¬
vece tanti beni economici sfuggono necessariamen¬
te a tale procedimento. Obiezioni queste che, ag¬
giunte a molte altre, hanno cominciato a scuotere la
— 61 —
fede che dai pm si aveva nel rigore del principio
escomi» \f a non tanto si sarebbe avvertita lL-
surdita della posizione, se non si f osse tornali al
p . aggio, dapprima inconsapevolmente ritenuto le-
fanello* dall’equilibrio individuale
a quello collettivo e cioè dal benessere del singolo a
quello della società. Posto, infatti, l’individuo a
centro del sistema, il massimo di ofelimità gene¬
rale non ai e potuto trovare che nella somma dei
massimi delle ofelimità individuali, e allora logica¬
mente il p rmin problema è sparito, in quanto rias-
?.°. r lt0 Senza ^e ® 1 l du, nel secondo: ogni individuo
ubero raggiunge il suo massimo e con ciò stesso rag-
giunge la somma massima la società di cui egli fa
parte. Al a scienza non resta da far altro che pren-
der atto del migliore dei mondi possibili.
Se la scienza volesse comunque uscire da que¬
sto suo atteggiamento dì completa passività di fron¬
te al problema del massimo benessere individuale e
sociale, il primo scoglio contro cui i suoi sforzi do¬
vrebbero necessariamente infrangersi sarebbe quello
del confronto tra il benessere di due individui di-
yersi. Abbiamo già accennato allbbiezione di chi
ha dichiarato inconfrontahili le ofelimità margina-
h di due beni per uno stesso individuo, ma in quel
caso si era tuttavia nell’ambito del soggetto econo¬
mico e la possibilità del paragone restava in qual¬
che modo suscettibile di discussione. Ma quando si
tratta di confrontare il benessere di due individui
e lo stesso presupposto psicologico soggettivista che
nega a P” 01 ; 1 °8 ni senso alla ricerca ed esclude la
possibilità di un qualsiasi risultato. E basta appena
accennare a questa conseguenza della teoria per ac¬
corgersi che la presunta soluzione del problema è
affatto verbalistica e vuota. Se dire massimo di be¬
nessere sociale vuol dire somma di massimi indivi¬
duali, questa somma deve pur concepirsi possibile e
gli addendi debbono pur potersi confrontare. Ma
confrontare vuol dire conoscere il rapporto quanti¬
tativo della soddisfazione che un medesimo bene
procura a due persone diverse e tale rapporto è pur¬
troppo impossibile per definizione. Dunque? Dun¬
que il circolo vizioso è senza uscita di sorta e occor¬
re impostare diversamente il problema.
Né, d’altra parte. l’economista potrebbe rinun¬
ziare al confronto, attenendosi per astrazione a un
tipo medio di uomo, che rendesse omogenei gli ad¬
dendi da sommare. In tal caso, infatti, l’unica so¬
luzione del problema sarebbe di eguagliare tutti i
redditi individuali e di presumere in tal guisa rag¬
giunto il massimo benessere sociale. Il che, oltre
tutto, sarebbe in netta antitesi con il criterio di li¬
bera concorrenza, che è a fondamento, assoluto o
relativo, dell’economia marginalista.
Ma il guaio peggiore di questa ingarbuglia-
tissima situazione viene a porsi in evidenza allorché
l’economista è costretto a passare dall’economia in¬
dividuale a quella della collettività (Stato, enti pub¬
blici, sindacati, società, ecc.) L’agnosticismo dello
scienziato trova qui un limite assoluto ed egli non
può più evitare di rispondere con precisione ai pro¬
blemi che scaturiscono dalla coesistenza delle due
economie. Se lo Stato deve stabilire un’imposta, qua¬
li industrie e quali redditi colpirà e con quale cri¬
terio? È chiaro che il criterio economicamente non
può essere che uno e cioè quello del massimo be¬
nessere sociale: ma intanto tale massimo può con¬
cepirsi solo in regime di libera concorrenza e Firn-
posta è estranea per definizione a tale regime, e
slugge necessariamente alla logica del suo sistema.
imposta Sara scelta esclusivamente con criteri ex¬
tra-economici e l’economista, al solito, non solo non
potrà dire la sua parola, ma non riuscirà poi in al¬
cuna maniera a misurare gli effetti di un imposta
dal punto di vista del benessere sodale: egli non
potrà, cioè, giudicare né a priori né a posteriori del¬
la bontà di un’imposta.
Lo stesso ragionamento può ripetersi a propo¬
sito di qualsiasi intervento statale nella vita econo¬
mica del paese: anzi lo stesso problema dell’inter¬
vento acquista una nuova fisionomia e rende vana
ogni attività dello scienziato in questo campo. Quan¬
do gli economisti si sono poco o molto allontanati
dalla tesi rigorosamente liberista e hanno ammes¬
so la possibilità, in determinate condizioni, di un in¬
tervento statale economicamente vantaggioso, han¬
no dato, senza avvedersene, un colpo mortale alla
teoria dell’ofelimità, rendendo oggettivo ciò che
avevano perentoriamente affermato come soggetti¬
vo, e confrontando, sia pure in astratto e in linea
di mera ipotesi, il benessere procurato da due si¬
tuazioni economiche diverse. 0 si tien fede al ca¬
rattere soggettivo della ofelimità e allora bisogna
lasciare 1 individuo arbitro incondizionato della sua
vita economica e giudice incontrollato del suo be¬
nessere; o si ammette, anche per un attimo e con
ogni sorta di limitazioni, la confrontabilità delle
soddisfazioni, e allora si deve rinunziare a costrui¬
re la seienza sul fondamento della scuola psicologi¬
ca. Ma intanto convien pure riconoscere, con i sog¬
gettivisti, che il benessere procurato da una sterlina
a un povero è maggiore di quello procurato a un
ricco e che, in tesi generale, uno stesso bene procu¬
ra soddisfazioni diverse a diversi individui; come
pure bisogna riconoscere, contro i soggettivisti, che
qualunque indagine relativa ai problemi economici
implica inesorabilmente la determinazione obietti¬
va di un rapporto tra diversi stati di benessere: e
ingomma è necessario concludere che tra soggetti¬
vismo e oggettivismo economico esiste un'antinomia
radicale, sulla quale non si è fatta la debita luce, e
che perciò rende infecondi tutti gli studi e i tenta¬
tivi compiuti dagli economisti per giungere a una
costruzione veramente sistematica.
Il problema che vien fuori dalle considerazio¬
ni precedenti è, dunque, quello di trovare un crite¬
rio con il quale superare Tantinomia di ofelimo e
utile, ossia di soggettivo e oggettivo, e dare in con¬
seguenza un significato intelligibile e non contrad¬
ditorio ai concetti di massimo benessere individuale
e massimo benessere sociale. La via da seguire deve
essere naturalmente quella prescelta dagli stessi
economisti che hanno posto la nozione di ofelimità
a fondamento della scienza, vale a dire l’analisi
psicologica del soggetto economico. E non sarà cer¬
tamente colpa nostra se i confini della particolare
scienza economica saranno valicati, come non è sta¬
ta colpa dei puristi che sono scesi su questo terreno,
anche se oggi fanno la voce grossa a chi osa parlare
di rapporti tra scienza e filosofia. La distinzione tra
ofelimo e utile domina ormai tutta la scienza eco-
— 65 —
nomica e ne spiega 1 attuale struttura: se non si
vuol dunque accoglierla come le colonne d’Èrcole
dello scienziato, bisogna pur che i tecnici si abbas¬
sino a discuterla, lasciando per un poco di ammi-
rare e perfezionare i maestosi castelli matematici
che vi hanno fondato sopra. 3 )
La teoria soggettivista considera l'individuo
economico, che fa una scelta, come dominato im¬
mediatamente da un gusto o da un bisogno che è
quello che è: essa non si rende conto né si vuol
render conto del perché di quel gusto, né del rap¬
porto tra un gusto e un altro dello stesso individuo.
Vero è che di tale rapporto si parla quando si con¬
frontano tra loro le utilità marginali dei diversi be¬
ni acquistati da un individuo e si afferma ch’esse
sono eguali, ma il rapporto si limita a una scelta
economica puntualizzata in un dato momento della
vita di un individuo e non vale in alcuna maniera
a chiarire il passaggio da un equilibrio di gusti a un
altro equilibrio di gusti, o, più semplicemente, da
un gusto all altro. Inoltre, anche quando il rappor¬
to lo si supponga puntualizzato in una data scelta,
esso non può tradursi in un’eguaglianza quantita¬
tiva se non attraverso Tarhitrio dello scienziato, per-
che di fatto l’ofelìmità dei diversi beni non è con¬
frontabile dal soggetto, se per definizione questo si
intenda dominato da una mera molteplicità di gu¬
sti. Per dosare un gusto e il bene atto a soddisfarlo
è necessario rendersi conto di rapporti logici deter-
v-u L V n S Ca de “ dlst,nzi .°. ne è stala da noi fatta nel saggio
Tr ' r ?oi°n P * j 610 ’ m L, ‘ crltlca dell’economia liberale, Milano,
re\es, Ì9ó0. Ad essa quindi rimandiamo il lettore che volesse ap¬
pio on ire. la questione: qui ci limitiamo a presupporla e inten¬
tino insistere invece sui criteri ricostruitivi cui essa dà luogo.
* -
— 66 —
minabili con criteri che non possono ridursi al gu¬
sto stesso: in guanto semplici gusti, il gusto di un
profumo e quello di un colore non sono confron¬
tabili. E fin qui è arrivato lo stesso Pareto.
Se oggi vado al mercato e acquisto una deter¬
minata quantità di beni, in tanto posso far questo
consapevolmente in quanto pongo un ordine nei
miei gusti, e li determino e li graduo in una visione
complessiva della mia vita. Così non mi abbando¬
nerò al primo capriccio cbe ini verrà in mente e
non esaurirò il imo avere nella soddisfazione del
primo bisogno apparentemente imperioso, ma va¬
glierò 1 oggi e il domani, i bisogni che mi è lecito
soddisfare e quelli al cui appagamento debbo ri¬
nunziare, i capricci e i doveri, e insomm 3 mi spie¬
gherò la ragione dei miei gusti e agirò con la coe¬
renza logica che avrò saputo raggiungere. Sarà buo¬
na o cattiva la mia logica, ma pensare che i miei
gusti possano guidarmi a caso, senza alcuna logica
che li leghi, è pensare l’assurdo.
Ma dire logica, significa già dire soggettività non
immediata né irrelata: significa dire vita unificata
e universale, significa vedere i miei gusti in rela¬
zione con quelli degli altri cbe con me vivono.
Lungi daH’essere inconfrontabile, ogni mio gusto
si spiega soltanto in funzione degli altri miei gusti
e dei gusti degli altri, e nelPintimo della mia co¬
scienza è un continuo confronto attraverso cui i
miei gusti sorgono e si modificano. E vado allora al
mercato e compero dei beni economici che servono
per me e per i miei, perché è anche un mio gusto
e un mio bisogno che i miei soddisfino i loro gusti
e i loro bisogni: e la mia scelta economica, allora,
sarà certamente mia e in rapporto aH’ofelimità che
— 67 —
i diversi Leni per me rappresentano, ma io non
sono più il soggetto che immaginano gli economisti,
chiuso in una sfera assolutamente impenetrabile,
bensì un individuo in rapporto ad altri individui e
perciò attore di lina vita economica che si svolge in
virtù di tale rapporto. Se poi cerchiamo di determi¬
nare meglio la natura del rapporto e di precisarne i
limiti, ci accorgiamo ch’esso non solo lega la mia
persona alla mia famiglia, ma anche agli amici, ai
compagni di lavoro, alla classe, al paese e infine
allo Stato in cui la mia vita si disciplina e sì potenzia.
Nel mio agire economico, come in tutto il mio
agire, mi propongo, dunque, un fine che è mio e
che risponde ai miei gusti, ma questo fine non è ar¬
bitrario e si spiega solamente inquadrandolo nella
vita dello Stato; sì che, se altro fosse lo Stato, altre
sarebbero le condizioni di vita in esso esistenti, al¬
tri i gusti dei cittadini e altro, insomma, il fine che
ciascuno di essi potrebbe porsi e in effetto si por¬
rebbe. Se io non sono un ladro o un farabutto, se
cioè il mio agire economico non ha un valore ne¬
gativo, il fine che io ho in vista deve essere in ar¬
monia con quello dello Stato, e non perché lo Stato
me lo comanda dall’esterno, ma perché la mia stessa
vita individuale non ha significato senza lo Stato,
e tanto più significato ha quanto più con lo Stato si
identifica.
Appena l’uomo supera la mera animalità e diffe¬
renzia i suoi gusti da quelli della fiera, sorgono bi¬
sogni che hanno un’origine affatto sociale: nessuno
dei tanti beni economici che si son venuti creando
nella storia dell’uomo sarebbe stato mai prodotto
senza il fondamento della collaborazione. E collabo-
rare vuol dire appunto tendere a un medesimo fine
— 68 —
e cioè avere un medesimo gusto e un medesimo bi-
sogno. Se 1 utile economico fosse veramente l’ofeli-
mo, nessun bisogno potrebbe soddisfarsi, che, se mi
viene il gusto di avere un’automobile, h soddisfa¬
zione di esso mi è possibile solo in quanto lo stesso
insogno e stato inteso dalla società in cui vivo e in
cm esistenza delle automobili, perciò, si è resa pos¬
sibile. h S e, al contrario, l’utilità delle automobili
rappresentasse soltanto una mia particolare ofeli-
mita, nessuna forza al mondo potrebbe valere ad ap-
pagare il mio gusto, perché nessuno coìlaborerebbe
con me al raggiungimento del fine propostomi. An¬
che quando da me solo, estraneo a tutti, mi costruissi
un oggetto atto a soddisfare un mio specialissimo
gusto non potrei rinnegare la natura sociale di esso
e porlo m rapporto al giudizio di approvazione o
disapprovazione degli altri individui, che sono sem¬
pre presenti nella mia coscienza di uomo, nonostante
il mio proposito di prescinderne assolutamente. So¬
no quel che sono in forza del processo storico che
m me s individua, e la mia azione deve avere sem¬
pre il carattere di universalità che è proprio della
stona. Utile e ofelimo coincidono nel modo più ri¬
goroso e 1 illusione della loro differenza può sor¬
gere soltanto considerando l’aspetto negativo del-
I uomo che si oppone alla logica della vita, e quindi
allo Stato che di quella logica è l’espressione con¬
creta. Ma in quanto si oppone alla logica, l’ofelimo,
al solito, non può essere oggetto di scienza e resta
a indicare il limite della scienza come il limite della
vita. L antinomia tra soggettivismo e oggettivismo
economico si risolve negando ogni positività al sog¬
gettivismo che non coincida con l’oggettivismo, e
cioè al procedimento puramente arbitrario e irre-
— 69 —
lativo dell’individuo. I gusti e i bisogni di cui l’eco¬
nomista può e deve occuparsi sono quelli cbe si
rendono intelligibili nell organismo della vita sociale
e cbe rispondono quindi a finalità essenzialmente
sociali: gli altri non sono veramente gusti né biso¬
gni, bensì piuttosto manifestazioni patologiche di
un attività antisociale e vanno perciò considerati
unicamente da questo punto di vista. Parlare in un
Iratlato di economia dell ofelimo in quanto diverso
dall'utile vai quanto occuparsi del furto o del ri¬
catto come mezzi razionali di produzione.
Risolta l’antinomia tra individuo e Stato, ossia
Ira ofelimo e utile, è possìbile tornare al problema
del massimo benessere senza incontrarsi nelle diffi¬
colta che rendevano assurda ogni soluzione. Il con¬
cetto stesso di benessere si sposta dalla soddisfazio¬
ne del gusto immediato a quella di un gusto consa¬
pevole e logicamente determinato: il benessere non
è più in relazione a uno stato naturale cbe va appa¬
gato per il fatto stesso di essere, ma in relazione a
un fine da raggiungere e da far valere nell’organi-
smn della vita statale. È quindi dallo Stato, e non
dall’individuo in quanto concepito senza lo Stato,
cbe occorre prender le mosse per intendere quale
significato possa avere la ricerca del massimo be¬
nessere individuale e sociale. Non dallo Stato, tut¬
tavia, concepito come somma di individui, bensì
dallo Stato cbe è volontà unica e unica finalità, ogni
giorno storicamente determinata e in continuo pro¬
cesso di superamento.
Ma domandarsi che cosa sia e come si raggiunga
il massimo benessere dello Stato vai dunque quanto
chiedersi che cosa sia e come si raggiunga il massi¬
mo ideale dello Stato stesso: ed è chiaro che a un
tale quesito non nuò seguire che una sola risposta,
e cioè che l’ideale di una Nazione è esso stesso pro¬
cessuale e diventa più grande e più alto via via che
10 si raggiunge, così come il massimo benessere che
una Nazione può proporsi non ha limiti di sorta e
s ingigantisce via via che il benessere aumenta. Se
non che non ci si potrebbe arrestare a questa con¬
statazione, che pur è Tunica logica e incontroverti¬
bile, senza eliminare addirittura il problema da ri¬
solvere e senza eludere quel tanto di legittimo che
pur si cela nella affannosa ricerca delle vie per rag¬
giungere il massimo benessere. Occorre, dunque, che
quesla stessa constatazione si traduca in termini di
scienza economica, dando una risposta non effimera
a un problema sia pur malamente impostato.
Se muoviamo dal concetto dell’unità dell’orga-
nisnio statale, possiamo agevolmente convincerci che
11 valore dei beni economici varia, aumenta, dimi¬
nuisce, o addirittura si annulla, col variare del fine
dello Stato. Se una legge stabilisce l’uso di una mer¬
ce considerata pressoché inutile fino alla formula¬
zione della legge stessa, quella merce acquista im¬
provvisamente un valore economico che nessuno
prima si sarebbe mai sognato di attribuirle. È lo
Stato, che con un atto di volontà ha creato un va¬
lore economico, e conseguentemente ima ricchezza
già prima esistente, ma non come ricchezza. Le quali
considerazioni, si badi bene, non hanno una por-
71
tata ristretta al caso di una legge vera e propria,
ché anzi con il termine legge si vuol significare ogni
espressione della vita sociale, sia cli’essa giunga alla
determinatezza di una norma giuridica, sia ch’essa
si limiti alle vaghe linee di una opinione, di un
uso, di una moda, di una convenzione, ecc. Basta
assistere a una vendita all’asta per accorgersi delle
vicende, a volte stranissime, dei beni economici:
ciò che un tempo rappresentava un grande valore,
è caduto in disuso e buttato via come cosa inutile,
o di nuovo è tornato in gran pregio rispondendo a
diversi bisogni spirituali. Ma è chiaro che questa
vicenda non è l’espressione di un arbitrio indivi¬
duale, sibbene di un processo storico che ha una
logica. Anche la moda più strana e più insulsa non
si afferma se non risponde direttamente o indiret¬
tamente a un’esigenza dell’epoca e delle particolari
condizioni in cui fa la sua apparizione. Quest’esi¬
genza è appunto la legge che dà vita ai valori eco¬
nomici, come a tutti i valori della vita, e fa nascere
gusti e bisogni che non sono individuali senza per
ciò stesso essere collettivi. Ne deriva che tutti i beni
pennoniici, e quindi la ricchezza di una nazione,
sono concepibili e sono determinabili unicamente
in funzione della volontà e del fine statale. Nulla
esiste che sia un bene economico in sé, bene è solo
in quanto tale lo fa essere la volontà dello Stato; e
la ricchezza di una nazione, quindi, può variare e
varia in effetti continuamente, anche senza che muti
la quantità dei beni esistenti. Il che, espresso in al¬
tri termini, vai quanto dire che non esiste una na¬
zione povera o una nazione ricca in senso assoluto,
ma povera o ricca ogni nazione diventa a seconda
del valore attribuito ai Leni ch’essa possiede o che
— 12 —
essa è in grado di produrre. In questo senso ogni
nazione può essere ricca, perché la ricchezza di¬
pende esclusivamente dalla sua volontà.
Ora, se si conviene in queste considerazioni,
e in parte almeno di esse convengono, sia pure in¬
direttamente, molti economisti, il quesito circa la
via per raggiungere il massimo benessere sociale
può ricevere una risposta precisa anche dal punto
di vista più particolarmente economico. E la via da
seguire è appunto quella che vien rivelata dalla de¬
terminazione storica dell ideale economico della
nazione: determinazione cui si perviene studiando
il problema economico in rapporto al problema po¬
litico e che si esprime perciò in un programma non
aprioristicamente fissato una volta per sempre, ma
in continuo sviluppo e perfezionamento. Il pro¬
gramma naturalmente si concreterà in un indirizzo
d insieme e in direttive particolari ben precisate, e
tutti i suoi aspetti si integreranno a vicenda in modo
sistematico, sì che le diverse manifestazioni dell’at-
tività economica non abbiano a contrastare tra di
loro. E l’indirizzo potrà essere, ad esempio, preva¬
lentemente agricolo o prevalentemente industriale,
tendente all incremento o alla limitazione demo¬
grafica. favorevole o contrario all’emigrazione, e via
dicendo; tutto in relazione all’avvenire del paese,
alla sua individualità e alle sue condizioni: le quali
consentiranno poi di determinare in qualche manie¬
ra le direttive generali che dovranno essere seguite
nell'attuazione delle tante iniziative della vita eco¬
nomica e come in ognuna di esse debba aversi sem¬
pre di mira il fine comune. Si comprenderà, in tal
guisa, come e perché siano da favorirsi certe indu¬
strie e da vincolarsi certe altre, siano da potenziarsi
73 —
al massimo le industrie più specificamente nazio¬
nali e siano da trascurarsi quelle più rispondenti ai
fini e alle risorse di altri paesi; siano, infine, da
crearsi gusti, bisogni diretti ai beni economici che
più conviene produrre. Poiché bisogna ben convin¬
cersi che il problema del massimo benessere socia¬
le non si risolve solo creando il modo di soddisfare
al massimo i gusti e i bisogni esistenti, ma soprat¬
tutto modificando, correggendo, creando gusti e bi¬
sogni in relazione all’ideale economico — ed eco¬
nomico in quanto politico — della nazione. E si
comprende che quest’opera non deve svolgersi uni¬
camente entro i confini dello Stato, ma divenire il
programma della stessa politica economica interna¬
zionale, che soprattutto airestero conviene far na¬
scere il gusto di ciò che è prodotto dell’industria na¬
zionale: possibilità questa di cui purtroppo gli Ita¬
liani hanno parecchi esempi in casa loro, dove tan¬
ti usi stranieri si son lasciati attecchire e con essi
l'importazione di tante merci che fanno passare in
seconda linea le nostre.
Né questo solo aspetto, più propriamente pro¬
duttivo. va considerato del problema, che anzi ad
esso è strettamente collegato quello distributivo, in
quanto in un’economia dinamica — e può esistere
un’economia non dinamica? — ripartizione dei red¬
diti e determinazione della produzione sono pre¬
cisamente la stessa cosa. È chiaro che in un’econo¬
mia nazionale ben consapevole la ripartizione dei
redditi avverrà favorendo gli uomini e le industrie
la cui attività produttiva sarà più in armonia con
l’ideale economico del paese. Questo ideale deter¬
mina il valore dei beni e questo stesso ideale deve
determinare la scala dei valori umani, clie sono in
— 74 —
rapporto con quei beni. Beni e uomini che ven¬
gono perciò ad acquistare un significato economico
solo nel] organismo statale di cui sono espressioni,
e che perciò possono essere valorizzati davvero solo
se nell organismo statale sia chiara la consapevolez¬
za della loro particolare funzione e la volontà che
essa si adempia nel miglior modo.
Se poi, dal problema de] massimo benessere
sociale, passiamo a quello del massimo individuale,
la soluzione ci dovrà apparire logicamente impli¬
cita nel già detto. Sì è visto che ogni individuo vive
la sua vita individuale come vita statale, e che an¬
che ciò che sembra più proprio della sua persona¬
lità ha un significato e un valore in quanto è in rap¬
porto con l’organismo sociale. Ne deriva, dunque,
che il fine di ogni individuo — così politico come
economico — non può essere che quello di poten¬
ziare al massimo la propria personalità in funzione
del fine politico ed economico della nazione. Se
sono un buon cittadino, vale a dire se la mia attività
non è antisociale e negativa, il mio massimo ideale
è quello di esser degno della mia nazione e di fare
lutto il possibile per esserne degno. La ricchezza cui
tenderò non sarà in antitesi con questo ideale, ma
la consacrazione delFessermi reso degno, più dei
non ricchi, della mia nazione. Se cosi non fosse,
tenderei alla ricchezza senza preoccuparmi del mez¬
zo, vi tenderei soprattutto col furto. Ma se così è, le
condizioni per raggiungere il mio massimo benes¬
sere individuale non possono essere che due, e cioè
in primo luogo la mia decisa volontà di adeguarmi
al fine statale e di contribuire nel modo migliore alla
realizzazione di esso: in secondo luogo, poi, il rico¬
noscimento sociale della mia attività e il relativo
— 75 —
compenso proporzionato. Sì che volendo giungere a
una definizione : imissimo benessere dell’individuo
è quello che gli proviene dall adeguazione perfetta
del compenso della sua opera al valore della sua
personalità vista in funzione del fine supremo dello
Stato.
Se poi volesse conoscersi come e quando il mas¬
simo benessere individuale possa effettivamente
conseguirsi, sarebbe da osservarsi che, di fatto, esso
è sempre raggiunto perché ogni individuo ha quel
che si merita, dato l’ideale consapevole cui è per¬
venuto il suo Stato, ina che poi non è mai raggiun¬
to una volta per sempre, in quanto il livello spiri¬
tuale dello Slato è in continuo sviluppo e con esso
la capacità di riconoscere più adeguatamente In¬
pera dell’individuo. Se, ad esempio, ci proponessi¬
mo il problema di conoscere se gli attuali stipendi
dei professori rispondono al massimo benessere in¬
dividuale di questi, dovremmo convenire eh essi
rispondono perfettamente alla consapevolezza che
lo Stato ha del valore di questa funzione in rappor¬
to alle altre della vita sociale, ma dovremmo altresì
augurarci, e contribuire con la nostra opera a rag¬
giungere, la realizzazione di uno Stato, in cui la
funzione culturale fosse maggiormente valorizzata
e perciò meglio compensati fossero i professori a
confronto di altre categorie di lavoratori. C’e sem-
pre uno St a to reale e uno S ta to ideale nella 3iaiet -
tica della storia, e il p roblem a del massimo bencs-
sere, c osì social e come individuale, d eve av ere una
soluzione che viva in questa dialettica.
— 76 —
Basta impostare in tal guisa il problema del
massimo benessere per accorgersi del significato che
nella sua soluzione può avere lo Stato corporativo;
il quale si differenzia dallo Stato liberale così co¬
me dall’economia liberale si differenzia la nuova
economia. La soluzione scientifica non può diffe¬
rire da quella politica perché scienza e politica non
possono essere che le manifestazioni di una stessa
vita spirituale. Allo Stato liberale non poteva ac¬
compagnarsi che l'ideale scientifico dell’uomo ceco-
nomicus, del massimo benessere sociale come som¬
ma dei massimi individuali, dell’ofelimità che si
differenzia dall’utilità; allo Stato corporativo deve
dar significato il principio dell’identità di individuo
e Stato, del massimo benessere sociale come mas¬
simo benessere nazionale e individuale, deH’utilità
che si identifica con l’ofeìimità.
LA LIBERTÀ ECONOMICA
11 problema della libertà non può avere che
un unica soluzione, sia che lo si consideri dal punto
di vista filosofico, politico e giuridico, sia che lo
si traduca in termini di scienza economica. Coloro
che parlano della libera concorrenza come di una
ipotesi scientifiea apolitica da porsi accanto alla
opposta ipotesi del regime monopolistico, anch’essa
- apoliticamente considerata, dimostrano soltanto di
aver smarrito completamente la nozione storica dei
concetti che adoperano, e soprattutto dei concetti di
individuo, di Stato, di benessere individuale e so¬
ciale, sui quali la scienza economica deve poggia¬
re come sui suoi fondamenti primi. Avendo già di
essi largamente discusso, basterà farli riaffiorare nel¬
la determinazione del concetto di libertà, quale può
venir dato dall esame il più immediatamente ade¬
rente alla vita effettiva della socielà economica.
Il modo comune di intendere la libertà è quel¬
lo individualistico di arbitrio, per cui ogni uomo
si considera veramente libero quando ha la possibi¬
lità di fare lulto ciò che desidera, senza subordinare
o comunque legare la sua volontà a quella di qual-
— 78 —
siasi altro. Perché ciò sia logicamente possibile è
necessario che 1 individuo, per dirla in termini rous-
seauiani, sia unità intera e non unità frazionaria :
occorre cioè che egli non faccia parte di un orga¬
nismo sociale, ma viva allo stato selvaggio, soddi¬
sfacendo da solo a tutti i suoi bisogni. Ne deriva,
dunque, che l’usuale nozione di libertà si adegua
soltanto all idea presociale dell’uomo-fiera.
Facciamo invece il caso di due uomini o di
piu uomini che, insoddisfatti dì una vita puramente
animale, decidano — e anche qui restiamo nei ter¬
mini di Rousseau — di legarsi in società, divider¬
si il lavoro, e migliorare con l’unione delle forze
il tenore della vita. Allora la situazione cambia ra¬
dicalmente e i collnhnralori debbono anzitutto porsi
il fine comune da raggiungere, a esso subordinando
le singole attività. Se prima, ad esempio, l’uomo
svegliandosi al mattino poteva andare a caccia o
restare ili riposo rinunciando per un giorno al cibo,
ora, invece, a caccia deve andarvi in ogni caso, per¬
ché il sistema piu perfezionato di ricerca e cattu¬
ratone degli animali esige ch’egli sia al suo posto
pronto ad aiutare gli altri individui con i quali si è
unito in società. S’egli restasse a riposare, gli altri
dovrebbero rinunziare alla sua collaborazione, e la
società si spezzerebbe, perché il fine comune per cui
si è costituita non potrebbe essere raggiunto. Il pas-
saggio dalla fiera all’uomo implica dunque: 1) la
costituzione di un organismo sociale; 2) la determi¬
nazione di un fine comune; 3) Fideiitità di questo
fine comune con ì fini dei singoli; 4) l’elevazione
del fine comune a legge della società e la subordina¬
zione a essa dei singoli membri; 5) la conseguente
necessità dell’attuazione della legge e la trasforma-
— 79 —
zione dell’organismo sociale in Stato; 6) l’identità
del benessere individuale e di quello statale; 7) la
rinunzia definitiva alla libertà intesa come arbìtrio.
Si apre a questo punto un dilemma, al quale
non vedo come si possa seriamente sfuggire: o la
vita civile non è conciliabile con la libertà o della
libertà occorre formarsi un concetto che non sia
quello di arbitrio individuale.
Prima di risolvere il dilemma, occorre elimi¬
nare ogni dubbio circa la possibilità di un terzo ter¬
mine. e precisamente di quel terzo termine escogi¬
tato dalla stessa teoria contrattualistica, secondo cui
il necessario vincolo imposto dalla vita sociale do¬
vrebbe essere il minimo possibile e tale da lasciare
la più ampia sfera all’arbitrio dell’individuo. È que¬
sta la teoria ebe è a fondamento dello Stato liberale
e, secondo essa, l'unico arbitrio vietato al singolo
sarebbe quello dell invadenza nella sfera di arbi¬
trio degli altri individui: il contenuto sociale o sta¬
tale sarebbe appunto la garanzia dei particolari ar¬
bitri. Ma e chiaro che questa teoria, equivocando
sui termini di società e Stato, sposta il problema,
ponendolo in termini affatto fantastici: io Stalo
vien concepito come un ente distinto dalla società
e la legge è ridotta al significato formale e negati¬
vo di limite. Se riportiamo, invece, la questione nei
termini concreti dell’agire economico, è facile con¬
vincersi che la legge non è un limite formale, bensì
una esplicita norma di produzione e di distribuzio¬
ne. che non si esaurisce in un divieto di sconfina¬
mento. ma impone un determinatissimo lavoro. Se
voglio far parte della società, debbo in modo asso¬
luto occupare il posto che mi spetta e fare tutto
quello che il mio posto esige. Quando sono entrato
— 80 —
in società con il mio simile, non Tho fatto per di¬
videre la mia sfera dalla sua e segnare i confini della
mia proprietà (legge limite, Stato carabiniere, ecc.)
ma l'ho fatto per condurre con esso una vita mi¬
gliore, per produrre più e meglio, per raggiungere
risultati impossibili alle mie sole forze (legge di
azione, Stato etico). Sì che il confine posto tra la pro¬
prietà mia e quello degli altri non ha neppure esso
un valore négàlivojjfi^pura“difesa''tjrrisTTpi^e^de'-
ter ni ina li va-del-campo _in cui esercitare la mia ope¬
ra di collaborazione: non indica la sfera del mio
arbitrio, ma il mio posto di lavoro.
Né quello che io faccio, vincolato dalla società,
può stare comunque accanto ad altro ch’io fac¬
cia all’infuori di questo vincolo, perché all’infuori
del vincolo io non ho altra realtà oltre quella dell’a¬
nimale, e tutto quanto daH’aniinale mi distingue ho
conquistato nella società, collaborando, ossia sotto¬
mettendomi alla legge del fine comune. Se oggi v’è
apparentemente la possibilità di separare un’atti¬
vità libera da un’altra obbligatoria, ciò avviene solo
per un equivoco di valutazione, che consiste nel
considerare alcuni elementi sociali scissi dalla vita
da cui sono stati originati. Ma, a guardar bene, biso¬
gna pur convincersi che nulla della nostra condotta
sfugge alla legge della convivenza sociale e che an¬
che nelle questioni propriamente personali, noi
agiamo secondo una volontà comune, individuale e
sociale insieme, in piena identità di termini. Se mi
vesto, posso apparentemente abbigliarmi come mi
detta la fantasia, ma in realtà debbo pur seguire
le leggi, gli usi, le tradizioni, il gusto, ecc., della so¬
cietà in cui vivo; e se, ad esempio, posso mettermi
una cravatta rossa ovvero una grigia, anche questo
— 81 —
arbitrio non è un arbitrio, ma un operare entro quel¬
la legge che nell’attuale momento storico impone
varietà di colori nelle cravatte.
Questa è la realtà della vita sociale, e, quanto
più progredita e complicata essa diviene, tanto più
ferrea è la disciplina cbe la governa e die deve ren¬
dere possìbile l’armonia di tanti elementi disparati.
Le leggi, i regolamenti, le mode, gli usi, le conven¬
zioni, gli orari ecc. ecc., investono sempre più me¬
todicamente tutta la nostra vita quotidiana, da un
minimo cbe è lasciato alle forme rudimentali di vi¬
ta (vita dei campi) a un massimo elle caratterizza
l’azione dei maggiori esponenti della politica, della
cultura, dell’industria e del commercio. Sì che as¬
senza di arbitrio e massimo di civiltà divengono via
via termini equipollenti, e la vita del più civile
uomo di domani non può immaginarsi se non attra¬
verso un’adeguazione sempre più perfetta della vita
e della volonlà del singolo a quella dello Stato.
Ma, dunque, si potrà obiettare dai nostalgici
del liberalismo vecchio stile, la vita deve diventare
una schiavitù, un procedimento meccanico e ineso¬
rabile, al quale non sia possibile sottrarsi a nessun
costo, per rivendicare la spensierata felicità di chi
si leva al mattino arbitro incondizionato della pro¬
pria giornata? È dunque questa la vera civiltà o non
conviene buttar tutto all’aria e tornare all’imme¬
diatezza della natura?
Questione vecchia cotesta, almeno quanto l’o¬
pera di quel Rousseau cbe ci ha dato In spunto per
discuterla : e, appunto perché vecchia, orinai risolta
e superata, se pur la soluzione non abbia ancora
avuto modo di pervenire agli orecchi degli econo¬
misti. Essi amano indulgere tuttavia al miraggio di
d ■ Spinila
— fe¬
lina libertà individualisticamente intesa, e non si
sono neppure domandati se ormai occorra, o se sia
comunque possibile, che la scienza economica dia
anch'essa un altro significato al termine tradiziona¬
le. Poiché di un altro significato deve ben potersi
parlare, dato che al dilemma sopra proposto non
si può rispondere, evidentemente, eoi negare addi¬
rittura la libertà.
Notiamo anzitutto che la libertà dei liberali
è. per loro stessa eonfessione, una libertà a mezzo,
la quale lia sempre qualcosa da invidiare alla com¬
pleta libertà dello stato di natura. A quell’assoluto
arbitrio si è dovuto rinunziare per necessità di vita
e per sicurezza reciproca, ma intanto di una rinun¬
zia pur sempre si tratta, che fa assaporare con vo¬
luttà quel giorno felice in cui, per il superiore livel¬
lo della comune moralità, sarà possibile abolire lo
Stato e la sua funzione di inutile gendarme. La li¬
bertà del liberale, dunque, nessuna maggiore pro¬
fondità e spiritualità acquista con lo svolgersi della
storia, che anzi essa ha lasciato alle sue spalle il pro¬
prio modello perfetto e immodificabile. Basterebbe
questa considerazione per farci diffidare della giu¬
stezza della comune soluzione del problema: se li¬
bertà è sinonimo di valore, la sua realtà non può
essere che nel suo approfondirsi e spiritualizzarsi
continuo, sì che il suo modello possa brillare della
luce dell’ideale da instaurarsi e non perdersi nel
buio della preistoria.
— 83 —
La giusta soluzione, dunque, dovrà ricercarsi
nel concetto di una libertà che non si è persa, ma
cbe si deve conquistare; di una libertà non sei-
vaggia, ma identificabile addirittura con la vita ci¬
vile. E la via ci è indicata dalla stessa ipotesi con¬
trattualistica, da cui volutamente abbiamo preso le
mosse per restare nell’ambito dei problemi cari agli
ideologi del liberalismo. Quando due o più uomini
deliberano di unirsi in società per migliorare le loro
condizioni, liberamente si sottopongono alla legge
del comune lavoro, e questa legge diventa, per ciò
stesso, il contenuto del loro atto di libertà. Libertà
e legge, lungi dairescludersi, si identificano senza
residui. Ma la loro identificazione, si badi bene, non
è accidentale, bensì essenziale, perché, se contenuto
dell atto di libertà non fosse la legge, la libertà stes¬
sa tornerebbe ad essere arbitrio. Quel che distingue
infatti la liberta dall arbìtrio è appunto l’univer¬
salità della prima di fronte alla particolarità del se¬
condo: il selvaggio può agire in un qualsiasi modo;
1 uomo civile, invece, deve agire secondo una volontà
che, pur essendo sua, abbia insieme un valore uni¬
versale {la legge).
Costitutivo, insomma, del nuovo concetto di li¬
bertà deve essere la sua identificazione con la legge,
ossia la identificazione della volontà particolare con
quella universale, dell’individuo con In Stato.
Né si creda che il libero processo secondo cui
gli individui si costituiscono in società si esauri¬
sca nell’atto della costituzione — il quale anzi non
esiste ebe nella fantasia dei contrattualisti — poiché
esso si perpetua in tutta la vita sociale e ne ca¬
ratterizza ogni momento. La legge cbe lega gli indi¬
vidui nel comune lavoro non si determina una volta
84 —
per sempre meccanicizzando l’attività da essa rego¬
lata, ma si rinnova continuamente in virtù della
stessa forza d’iniziativa che l’ha fatta sorgere. Ogni
individuo, infatti, è indotto a perfezionare l’organi¬
smo sociale ed escogita nuovi procedimenti e ricerca
nuove vie, sempre insoddisfatto dei risultati conse¬
guiti e sempre pronto a conseguirne di nuovi. Ma
si comprende che in questo processo ogni iniziativa
del singolo deve inserirsi nel processo unitario della
vita sociale: la sua volontà deve diventare la vo¬
lontà di tutti e la sua libertà di attuarla deve coin¬
cidere con la legge che ne impone l’attuazione. Che
se l’iniziativa restasse particolare e si giustapponesse
a infinite altre iniziative ancli’esse particolari, tutte
si intralcerehbero a vicenda spezzando l’organismo
della socielà e portandolo fatalmente alla disgrega¬
zione aiomistica.
Questa identificazione iniziale e processuale
della volontà e libertà del singolo con l’universa¬
lità della legge risulta molto evidente dalla consi¬
derazione del funzionamento di una qualsiasi as¬
sociazione. Anche se prendiamo ad esempio il
caso limite dell’associazione a delinquere, dobbia¬
mo convenire ch’essa si costituisce con un atto di
libertà dei singoli membri, volonterosi di sottoporsi
alla sua disciplina; che i singoli tendono al benes¬
sere dell’associazione vedendo in esso il proprio;
che ogni particolare iniziativa di un membro è su¬
bordinata all’approvazione degli altri; e che insom¬
ma l’associazione tanto meglio vive, ed è capace di
conseguire il fine che i singoli si sono proposti nel
formarla, quanto più unitaria è la sua volontà e
quanto più rigorosa la sua disciplina. Ma se dall’e¬
sempio di una singola associazione, passiamo a quel-
85 —
10 della grande società che è lo Stato, l’evidenza della
identità si attenua, i termini del problema diven¬
gono indecisi e la questione arbitrariamente si spo¬
sta dando luogo agli equivoci propri dell’individua¬
lismo liberale. Ogni cittadino nello Stato, come ogni
delinquente nell’associazione di cui abbiamo di¬
scorso, 6arà tanto più degno di appartenere alla so¬
cietà quanto più saprà far coincidere la sua libera
volontà con quella sociale. Che se nel caso del citta¬
dino par ci sia differenza tra il benessere proprio
c quello dello Stato, la ragione va trovata solo nel
fatto che, per la maggiore estensione e complessità
dello Stato rispetto all’associazione a delinquere, più
facilmente il cittadino smarrisce la coscienza dell’or¬
ganismo e più facilmente è indotto a frodare gli al-
Iri membri della società cui appartiene. Ma per ciò
appunto il contrasto tra le due volontà rappresenta
11 lato negativo e non quello positivo della vita
dello Sfato e tutte le forze debbono essere impegnate
a eliminarlo. Anche nell’associazione a delinquere
uno dei membri può sottrarsi alla disciplina sociale
e averne i vantaggi senza gli oneri, ma egli sarà ap¬
punto il prepotente, l’elemento disgregatore della
società e finirà col fare il danno di essa e quello
proprio.
In tal guisa considerata la libertà, si compren¬
de come si sia decisamente sorpassata l’ambigua so¬
luzione del problema data dal liberalismo. Il citta¬
dino non si sdoppia più in due attività opposte,
nell una delle quali si conserva la libertà originaria
dell' uomo di natura e nell’altra invece si riconosce
Tobbligatorietà della legge: il cittadino è libero in
ogni sua manifestazione a patto che tale libertà sap¬
pia conquistare dimostrando il valore dei suoi atti e
facendo 1 ! perciò riconoscere dalla società di cui fa
parte. La libertà per esser vera deve costare, e il
suo costo è dato appunto dallo sforzo necessario a
trasformarla da volontà particolare in volontà uni¬
versale.
Abbiamo ora gli elementi cbe ci sono indispen¬
sabili per discutere il tormentatissimo problema del¬
la libera concorrenza e del monopolio.
Secondo i termini tradizionali la libera con¬
correnza si esercita Ira individui cbe cercano il
massimo benessere individuale, senza alcuna preoc¬
cupazione del fine sociale. L'ideale della perfetta
concorrenza è appunto quello dì un giuoco di for¬
ze individuali autonome, la cui autonomia o irre¬
latività sia assoluta, 6Ì cbe il fenomeno economico
scaturisca dall’incontro indisciplinato di interessi
diversi e opposti. Ogni limite sociale, ispirato dalla
visione di un fine che trascenda quello dell’arbitrio
dei singoli, è considerato come una menomazione
della concorrenza e come una forza antieconomica.
Si consacra in tal modo nel campo delFeconomia
l’assolutezza del principio della libertà come arbi¬
trio, cbe aveva dovuto trovare un limite nel ricono¬
scimento della necessità giuridica dello Stato.
Quando tuttavia da questa concezione ideolo¬
gica ritorniamo all’analisi dell’effettivo processo del¬
la vita sociale, dobbiamo riconoscere cbe un tal mo¬
do di intendere l’ideale economico è intimamente
incongruente. Se la società, infatti, è costituita al
fine di collaborare, essa implica, come abbiamo vi-
sto, una disciplina comune, una legge che neghi gli
arbitri dei singoli, e cioè i loro interessi individuali
in quanto altri da quelli sociali. Ne viene di conse¬
guenza che o bisogna ripudiare la libera concorren¬
za come un fenomeno essenzialmente antisociale o
bisogna intenderla e promuoverla in un senso ra¬
dicalmente diverso da quello comune.
Per rendere più evidente la questione sarà
opportuno ritornare un momento all’esempio del-
l’associazione a delinquere, e vedere in questa for¬
ma rudimentale di società il sorgere della concor¬
renza e il suo adeguarsi al fine unico della colletti¬
vità. Determinate le mansioni dei sìngoli membri,
a qualcuno di essi può sembrare dì avere attitudini
speciali per un compito assegnato a un altro. In tal
caso egli fa la proposta di mettere a confronto le
due capacità e di decidere chi dei due debba essere
adibito a quel compito o anche se debbano esservi
dedicati entrambi. Si inizia così nell’ambito della
società un fenomeno di concorrenza, ma esso ha il
peculiare carattere di essere voluto dalla società
stessa e per un fine sociale: volontà e finalità che
ne costituiscono l’intima legge e l’unica ragion d’es¬
sere. Lungi dall’affermarsi come un contrasto di in¬
teressi particolari, esso si realizza e sì giustifica in
virtù del criterio fondamentale della società, per il
quale ogni atto dei singoli membri è integralmente
libero e insieme integralmente necessitato.
Né diverso deve apparire l’opposto caso del
monopolio, che, secondo l’interpretazione corrente,
rappresenterebbe l’antitesi netta della libera con¬
correnza, perché toglierebbe ai singoli la libertà di
far valere i propri interessi particolari. Ritornando
anche qui all’esempio dell’associazione a delinquere,
è facile dimostrare che, quando uno dei suoi com¬
ponenti abbia rivelato qualità speciali per Tadempi-
mento di una funzione, l’attribuirgliene il mono¬
polio è atto libero di tutti, e, né più né meno della
libera concorrenza, fondato sulla comune volon¬
tà. Libera concorrenza e monopolio, dunque, visti
nella loro effettiva origine e giustificazione, si ri¬
velano dotati della stessa libertà e della stessa neces¬
sità, e nessun elemento essenziale può comunque ca¬
ratterizzarne una differenza logica. La molteplicità
dei concorrenti nell’un caso e l’unità del monopoli¬
sta nell’altro sono affatto apparenti, poiché la vo¬
lontà che agisce in entrambi i casi è quella di tutti,
e identici ne sono gli effetti.
Questa tesi, teoricamente ineccepibile, può ap¬
parire smentita dalla realtà della vita economica,
in cui concorrenza e monopolio troppo evidente¬
mente si differenziano nei caratteri costitutivi e nel¬
le conseguenze immediate. È esperienza molto ele¬
mentare quella che ci insegna il diverso determinar¬
si dei prezzi nei due casi, né alcun ragionamento
potrà mai riuscire a convincerci che si tratti di un
unico processo. Bisogna trovar, dunque, la ragione
della differenza e vedere in che modo essa possa
conciliarsi con i risultali cui siamo pervenuti.
Caratteristica della libera concorrenza è l’ar¬
bitrio dei singoli non vincolati da alcuna necessità,
caratteristica del monopolio la necessità eliminatri-
ce di ogni libero procedimento : due fenomeni op¬
posti, entrambi in antitesi con il carattere fondamen¬
tale della società, quale è stato fin qui chiarito. Il
che può subito farci avvertiti che i due fenomeni, in
quanto si differenziano, non rispondono al regolare
effettuarsi della vita sociale, ma ne rappresentano
— 89 —
la radicale alterazione e trasformazione. Libera
concorrenza e monopolio sono i casi limiti, patolo¬
gici e assurdi, della normale vita economica caratte¬
rizzata dairidentificazione della libertà e della legge.
La prova più evidente della contraddittorietà e
anormalità dei due fenomeni opposti può esserci
data dalla constatazione della impossibilità di una
loro effettuazione integrale. Anche il liberista più
convinto è oggi d accordo nel ritenere che una vera
libera concorrenza non è mai esistita né potrà mai
esistere e, anche guardando ad essa come al perfetto
ideale, egli si arresta alla solita soluzione a mezzo
del liberalismo politico, che in tal guisa riaffiora in
economia attraverso questo riconoscimento di fatto :
è tutto il mondo della necessità che grava suH’arbi-
trio dei singoli e finisce col distruggerlo o con Tele-
vario alla vera libertà. Né altrimenti avviene per il
monopolio, costretto sempre a far i conti con una
concorrenza potenziale, sempre limitato dalla for¬
za della legge o dalla pressione delTopinione pubbli¬
ca, spesso evitato per vie traverse o collaterali. È la
realtà effettiva che reagisce sulle sue deformazioni
e lentamente o violentemente finisce con Taverne
ragione. I$|W
La libertà economica, dunque, non può conce¬
pirsi se non come la perentoria negazione degli op¬
posti arbitri rappresentati dalla libera concorrenza
e dal monopolio, ovvero dalTanarcbia e dalla tiran¬
nia economica. E basta porre in questi termini rigo¬
rosi il problema per comprendere tutta la vanità de¬
gli sforzi compiuti dagli economisti per riportare i
loro teoremi a quelle due ipotesi scientifiche. Lungi
dall’essere scientifiche, quelle ipotesi esprimono la
più radicale istanza antiscientifica e conducono ne-
— 90 —
cessariamente a una generale, continua miscompren-
sione dell’essenza della vita economica. Né vale op¬
porre che tali ipotesi sono soltanto schemi irreali ed
astratti, ai quali lo scienziato perviene per intende¬
re fenomeni economici in prima approssimazione:
ciò che a quegli schemi si rimprovera non è l’astrat¬
tezza, bensì la netta opposizione alla realtà effettiva
dei fenomeni economici sociali, i quali si svolgono
normalmente fuori di quelle ipotesi e vi tendono
solo in quanto degenerane*. Perché la scienza econo¬
mica possa darci il tipo astratto del fenomeno eco¬
nomico occorre che abbandoni decisamente la via
finora percorsa e, al di sopra dei concetti negativi
dj libera concorrenza e monopalio, ponga quello evi¬
dentissimo e concretissimo di collaborazione ,
Resta ora da esaminare come l’ideale della vera
libertà economica debba intendersi nelle sue deter¬
minazioni pratiche e quale via debba seguirsi per
la sua più profonda attuazione. Se il nuovo concet¬
to è fondato stili identità di liberta e di legge, è chia¬
ro che instaurare una maggiore libertà economica
vuol dire rendere sempre più rigorosa tale identità
e cioè considerare 1 individuo sempre più identico
allo Stato, così nei fini della vita come nei mezzi per
raggiungerli. L ideale della vita economica e di quel¬
la sociale in genere dovrà condurre a una lotta più
consapevole contro tutte le forme dualistiche ten¬
denti a separare il mondo dell’individuo dalla real¬
tà dello Stato, e dovrà insemina imporre il capo-
— 91 —
volgimento delle ideologie individualistiche del li¬
beralismo politico e del liberismo economico. Il che
nel campo più strettamente economico si traduce
nell'istanza scientifica e pratica di combattere con
ogni mezzo 1 individualismo che ispira il dogma del¬
la libera concorrenza e insieme lo statalismo che per
10 più è a fondamento delle forme, monopolistiche.
Consentire ancora che gli individui si esauriscano
in una lotta destinata al soddisfacimento di parti¬
colari interessi, e non ricondurre la lotta stessa ai
fini dello Stato, significa indulgere tuttavia alla più
immorale e antieconomica forma di vita politica,
riaffermando inconsapevolmente il trionfo del più
egoistico arbitrio. Se lotta deve esserci e rimanere
a fondamento del progresso, occorre ch’essa si im¬
pegni per la conquista di un più alto fine statale, e
sempre con la coscienza di tendere a un benessere
individuale che sia il benessere sociale: non lotta
dunque di individui contro individui per il trionfo
degli uni sugli altri, bensì lotta tra gli individui per
11 trionfo di un unico fine che rappresenti il massi¬
mo bene di tutti. Non si tratta di eliminare la con¬
correnza, ma di intenderla nel solo significato giu¬
sto, che è quello dell’affermazione dell’iniziativa in¬
dividuale nella ricerca del bene comune. Essa deve
svolgersi nello Stato e per lo Stato, con ì limiti, la
disciplina e la volontà dello Stato: la statalità deve
costituirne l’essenza e il fine.
Ma se convien combattere l’individualismo tra¬
dizionale della lihera concorrenza occorre poi eli¬
minare con non minore energia tutte le forme sta¬
tali che tendono a differenziarsi dagli individui.
Come 1’individiio degenera nell’egoismo, così lo Sta¬
to degenera nel particolarismo della classe o degli
— 92 —
uomini dominanti: allora esso diventa lina forza
contro altre forze, un’entità contro altre entità, e
il dualismo di benessere individuale e benessere sta¬
tale si riafferma come differenza di arbitri e di
egoismi. Così si spiega e si giustifica incontroverti¬
bilmente la critica del liberalismo alle forme sta¬
tali monopolistiche o comunque di intervento. Quan¬
do il monopolio, o l’azione economica dello Stato,
è ispirato da una volontà trascendente quella dei
cittadini, quando lo Stato si differenzia dalla Na¬
zione e diventa burocrazia o governo o oligarchia o
comunque un ente particolare con volontà autono¬
ma, allora 1 intervento statale è antieconomico e il
monopolio distruzione di ricchezza. All’arbitrio de¬
gli individui abbandonati nella lotta egoistica si so¬
stituisce l’arbitrio di un governo che impone un pro¬
prio fine altrettanto egoistico : e in entramhi i casi
la libertà economica è radicalmente legata. Il perfe¬
zionamento della vita economica non potrà essere
che in forme sempre più unitarie di collaborazione,
con il progressivo allargarsi degli organismi produt¬
tivi e il disciplinarsi delle varie forze nell’unico si¬
stema statale. Questa è l’intuizione fondamentale
dello Stato corporativo, destinato a realizzare con
progressiva consapevolezza la compenetrazione e
identificazione assoluta di individuo e Stato, ossia
della volontà e dell’iniziativa dell’individuo con il
fine supremo dello Stato.
ECONOMIA NAZIONALE ED ECONOMIA
INTERNAZIONALE
La critica dell’econoinia liberale e la tesi del¬
l’identità di individuo e Stato, che di quella critica
è la inevitabile conclusione, hanno condotto a una
impostazione radicalmente diversa dei problemi tra¬
dizionali. E la differenza fondamentale va trovata
nella sostituzione del concetto di molteplicità di sog¬
getti economici — gli individui o gli homines (Econo¬
mici, arbitri del proprio mondo particolare, limita¬
to solo dalle sfere di arbitrio degli altri individui —
con quello di organismo economico unico, con unica
volontà e unico fine, quello statale. Nell’economia
liberale la molteplicità degli individui è sostanziale
e costituisce il valore base della costruzione: l’uni¬
tà del mondo economico risulta solo dalla giustap¬
posizione e conciliazione estrinseca delle diverse vo¬
lontà e dei diversi fini. Nell’economia nuova, invece,
l’unità dell’organismo politico è il presupposto im¬
prescindibile, e la molteplicità degli individui è ri¬
solta in essa senza dualismi di alcuna sorta. Si nega,
cioè, che oltre al fine statale abbia ragion d’essere
un qualsiasi fine economico individuale. Naturai-
— 94 —
mente questa differenza teorica tra le due economie
ha una conseguenza pratica anchessa fondamenta¬
le, che può, all ingrosso, determinarsi contrappo¬
nendo al concetto di concorrenza e di lotta, che do¬
mina la vecchia economia individualistica, quello di
collaborazione e di organizzazione che è caratteri¬
stico della nuova. La concorrenza e la lotta sono an-
ch essi concetti trasvalutati : non cozzo violento di
interessi diversi e contrastanti, ma sforzo e compe¬
tizione per il miglior raggiungimento deirinteresse
unico.
La stessa nozione di equilibrio viene ad essere
intimamente corretta, in quanto non si pensa più
ad una risultante meccanica, ma a un processo in¬
telligentemente voluto e guidato. Dove i soggetti
sono molti, Limita è secondaria e fatale: dove il
soggetto è uno, l’unità è originaria e intelligente.
Ma ima grave obiezione può sollevarsi a que¬
sto punto, ed è stata difatti sollevata a difesa del¬
l’economia individualistica. Ammesso pure, si dice,
che la concezione unitaria del soggetto economico si
dimostri giusta e irrefutabile, quando si consideri a
fondo la realtà di un'economia nazionale, non per
questo il ragionamento può estendersi all’economia
internazionale. Se Stato e individuo si identificano,
facendo con ciò diventare unico il soggetto economi¬
co, resta tuttavia sempre una molteplicità di stati,
che non possono non concepirsi come molteplicità
di soggetti economici. Ne consegue — si conclude
perentoriamente — che, se l’economia individua¬
listica non ha più valore per lintelligenza dei feno¬
meni economici nell’ambito di una Nazione, essa è.
ciò non ostante, l'unica che ci consenta di compren¬
dere i fenomeni dell’economia interstatale. Gli sta-
I
— 95
ti, infatti, diventano essi individui economici e la
toro azione va considerata alla stessa stregua di
quella degli individui dell’economia liberale, Crite¬
ri fondamentali per l’intelligenza della loro vita eco-
nemica saranno quelli di concorrenza e di lotta :
secondaria e necessaria sarà l'unità della vita econo¬
mica: meccanico e fatale l’equilibrio delle diverse
forze contrastanti.
E il ragionamento, a prima vista, sembra im¬
peccabile, sì da rendere vana o almeno solo parzial¬
mente valida la tesi dell’idemità di individuo e Sta-
to: la struttura dell'economia liberale e individua¬
listica resta quella che è, almeno per ciò che riguar¬
da la vita internazionale. Ma fortunatamente il ra¬
gionamento non resiste a un’indagine più accurata
e profonda, e la stessa critica rivolta all’individuo
cittadino finisce per valere per l’individuo Stato-
I economia individualistica non può reggere in nes¬
sun caso, perché non può reggere il principio natu¬
ralistico su cui essa è fondata.
Per chiarire adeguatamente la questione è ne¬
cessario approfondire il concetto di Stato e di rap-
porto interstatale quale si è venuto delineando at¬
traverso la speculazione e il diritto pubblico con¬
temporaneo, Occorre precisare alcuni presupposti
teorici c e servano a illuminare la concreta prassi
nella vita economica.
Di organismo economico inteso come unità es¬
senziale, se pur in modo affatto meccanicistico, si è
— % -
già parlato dai sociologi, i quali, muovendo dall’in-
dividuo isolato, son passati alle diverse forme dei
gruppi sociali (famiglia, tribù, società, comuni, re¬
gioni. nazioni, umanità) tutti ponendoli su di un
unico piano ed eliminando ogni differenza qualita¬
tiva tra i gruppi stessi. E si parlato, quindi, di eco¬
nomia individuale, familiare, nazionale, sociale,
mondiale, ecc., riconoscendo la possibilità di tante
economie quante sono le forme sociali o di un unica
economia che tutte le comprenda. Pur ammessa,
perciò, la necessità di considerate i fenomeni eco¬
nomici nell’organismo della vita sociale, sembrereb¬
be. dal punto di vista della sociologia, affatto in¬
giustificata Videntificazione di individuo e Stato, e
la riduzione dell’economia a economia statale. Per¬
ché mai arrestarsi o sollevarsi allo Stato per ricono¬
scervi il fondamento della scienza economica, se è
possibile concepire una vita economica sia di grup¬
pi inferiori allo Stato sia dell’umanità che gli Stati
tutti comprende?
L’obiezione, anche qui, sembra inconfutabile
e decisiva ; e finisce per congiungersi all’altra dell'e-
conomia individualistica, in quanto riconosce, essa
pure, la molteplicità degli individui sociali, o come
persone fisiche o come gruppi di persone. Al solito,
l’esigenza sociologica antindividualistica, e perciò
antiliberale, è condotta dai suoi presupposti natu¬
ralistici agli stessi risultati della tesi che vuol su¬
perare. Ma l’obiezione, anche qui, è destinata a ca¬
dere definitivamente quando si abbia la forza di
sollevarsi a un punto di vista più alto, dal quale e le
persone e gli enti possano essere considerati nella
loro vera essenza unitaria. Unità che non può esser
data né dall’individuo particolare, in quanto uno
— 97 —
Ira ì tanti, né dall’umanità, in quanto sommaNi^^ wU
tanti, bensì dallo Stato in cui l’individuo e Fuma-
nità acquistano la loro effettiva concretezza.
Il superiore punto di vista nel quale occorre
metterci per giungere a questo risultato è dato dal¬
la concezione storicistica o dialettica della vita so¬
ciale, per cui allo Stato e soltanto allo Stato è con¬
sentita quella vera individualità ebe coincide con
la vera universalità. E la ragione è questa: che tut¬
ti gli individui (persone o enti) che sono nello Sta¬
to, vivono, appunto, nello Stato, e sono perciò in
esso risolti come momenti della sua vita; laddove al
di sopra degli stati non può concepirsi un’umanità
che sia organismo unitario (Stato o superstato) sen¬
za annullare, per ciò stesso, il concetto di Stato. Lo
Stato, infatti, ha questo di caratteristico rispetto a
tutte le altre unità sociali storicamente esistenti: di
essere la suprema unità dialettica della storia, in
quanto è unità differenziata rispetto alla moltepli¬
cità degli stati e non ha al di sopra nessuna unità
differenziata. Lo stato-umanità è una contraddizio¬
ne in termini in quanto unità senza molteplicità, e
perciò unità statica, indifferenziata e indifferenzia¬
bile, sottratta a ogni dialettica spirituale. Lo Stato
non può essere che unità-molteplicità, ossia vera¬
mente sovrano, per il fatto di avere una sovranità
riconosciuta dagli altri stati: se non ci fossero gli
stati a riconoscere lo Stato, Io Stato non sarebbe
perché non avrebbe coscienza della sua sovranità,
non avendo ragione di essere sovrano. In tanto lo
Stato può dettar legge ai cittadini, in quanto deve
fonderli in un unità che viva e si affermi nella mol-
leplicità: che, se questa molteplicità non esistesse,
lo Stato non avrebbe un fine suo, ma vivrebbe per i
" ■ Svinilo
— 98 —
fini degli elementi che lo compongono: non sarebbe
perciò sovrano ma strumento, e la vera sovranità
competerebbe agli organismi (persone o enti) cbe vi¬
vono nello Stato; sollevati al grado di vero indivi¬
duo, unità-molteplicità, o unità dialettica.
Questo primo risultato della nostra indagine ci
consente di rifiutare ristanza sociologica di più eco¬
nomie sociali, a seconda delia qualità dei gruppi
considerati, o di un’unica economia sociale, coinci¬
dente con l’economia dell’umanità. La vera unità
storicamente concreta è quella dello Stato, e perciò
l’economia scientifica non può essere cbe statale. Ma,
se ! istanza sociologica è superata, non altrettanto
sembra quella individualistica, cbe si fonda appunto
sulla molteplicità degli stati. Che, anzi, questa se¬
conda obiezione pare rafforzata dal riconoscimento
esplicito die abbiamo fatto della molteplicità degli
stati, e addirittura del carattere essenziale e impre¬
scindibile di tale molteplicità. Se non cbe, guardan¬
do più a fondo, si deve convenire cbe il nostro rico¬
noscimento non può avere lo stesso significato di
quello su cui si fonda l’obiezione individualistica,
per il fatto cbe nel caso nostro si tratta di nna mol¬
teplicità essenziale soltanto ai fini deirunità. E la
unità è lo Stato, ossia l’individuo concreto, in cui
gli stati, in quanto molteplicità, si risolvono senza
residuo.
Per intendere con precisione questo carattere
di interiorità degli stati rispetto allo Stato, occorre
m
— 99 —
ritornare al concetto di sovranità, cui abbiamo pri¬
ma accennato. Perché lo Stato sia sovrano è neces¬
sario che tale sovranità sia riconosciuta dai cittadi¬
ni, ma è necessario insieme che venga riconosciuta
dalla molteplicità degli stati. Il che vuol dire che
la sovranità ha due aspetti egualmente impresce-
scindibili: uno interno e 1 altro esterno, rispetto
ai cittadini e rispetto agli stati. E se di fronte ai
primi la sovranità si esprime con ridentificazione
dei fini individuali col fine statale, è necessario che
anche di fronte ai secondi la sovranità abbia la stes¬
sa ragion d’essere. In altri termini, nella vita inter¬
nazionale lo Stato deve vedere negli stati altrettanti
elementi del proprio organismo unitario, vale a dire
altrettanti strumenti del proprio fine. Il che, si badi
bene, non va inteso nel senso assurdo di un nazio¬
nalismo cieco, bensì in un senso affatto spirituale
e perciò il più internazionalistico possibile. Come i
cittadini, invero, sono strumenti dello Stato, non
sacrificando i propri fini particolari a quello dello
Stato, bensì riconoscendo che i primi si identificano
col secondo e lottando per un sempre maggior ri¬
conoscimento di tale identità, così gli stati debhono
trovare nel fine dello Stato gli stessi loro fini par¬
ticolari e dare incremento a una vita che, se è po¬
tenziamento dello Stato, è, per ciò stesso, potenzia¬
mento della collaborazione internazionale.
Se così non fosse, se cioè lo Stato non fosse so¬
vrano così verso i cittadini come verso gli stati, non
si avrebbe sovranità di sorta, perché la stessa sovra¬
nità, esercitata sui cittadini non sarebbe sovra¬
nità, in quanto necessariamente condizionata dalla
realtà degli altri stati. Il che sanno bene quei giu¬
risti i quali non ammettono che il diritto interna-
— 100 —
zionale sia un diritto superstatale, di natura diversa
dal diritto interno. Due modi, insoninia, ni sono di
intendere la vita internazionale: uno, che può dirsi
liberale o individualistico, per cui esistono gli stati
nella loro molteplicità atomistica, legati da un rap¬
porto estrinseco concepito come risultante della
coesistenza degli stati stessi; un altro, invece, che
potremmo denominare idealistico o storicistico, per
cui esiste Io Stato nella sua unità assoluta, che ri¬
solve in sé dialetticamente la molteplicità degli stati,
legati da un rapporto sostanziale e intrinseco che è
il fine stesso dello Stato. Da una parte una vita in¬
ternazionale che è quella che è, bruto incontro di
forze eterogenee e di fini particolari contrastanti;
dall’altra un organismo internazionale che ha un
fine consapevole e un unico centro : lo Stato.
Ora, se applichiamo questo concetto dello Stato
e della vita internazionale alla scienza dell’econo-
mia, possiamo ripetere in questa sede la critica già
svolta a proposito deireconomia liberale o indivi¬
dualistica. 0 si accetta la concezione atomistica della
vita internazionale, e allora bisogna riconoscere che
una scienza deireconomia non può esistere, in quan¬
to i fenomeni economici internazionali hanno la
stessa illogicità (itnprevedibililà) dei fenomeni eco¬
nomici dell’individuo soggettivisticamente inteso e
non possono sottrarsi alla sfera del puro arbitrio ;
o, invece, si crede che una scienza deireconomia
possa esistere, e allora bisogna riconoscerne il fon¬
damento in un organismo intelligibile, che è, così
nella vita economica nazionale come in quella in¬
ternazionale, lo Stato nella sua concretezza storica
e nella sua consapevole attualità. E lo Stato in nes¬
sun caso può venir superato o sostituito, come prin-
101 —
cipio primo della scienza, senza annullare la scien¬
za stessa nella sua possibilità teorica e nella sua
validità pratica. Ancora una volta l’identità di in¬
dividuo e Stato segna il punto di arrivo delle scien¬
ze sociali in genere e deireconomia politica in par¬
ticolare.
Risolto il problema dei rapporti tra economia
nazionale ed economia internazionale, riconducen¬
dolo al più vasto problema del concetto dello Stato,
occorre ora mostrarne le conseguenze più partico¬
larmente economiche e vedere in quale senso le con¬
clusioni cui finora è pervenuta la scienza vadano
rivedute e corrette.
È opportuno anzitutto precisare il significato
che per la scienza tradizionale ha il concetto di eco¬
nomia interstatale. Purtroppo tale precisazione non
può avere che un carattere tulio negativo, in quanto
a rigore per reeonomia classica un problema eco¬
nomico interslatale non può neppure sussistere. Da¬
to, infatti, il concetto di homo ce conomicus come
presupposto fondamentale della scienza, tutta l’in¬
dagine si esaurisce in un’economia individualistica
nella quale non v’è posto alcuno per lo Stato. Quan¬
do lo Stato ha fatto sentire la sua esigenza impre¬
scindibile, airesigenza stessa si è tentato soddisfare
individuando lo Stato in un ente particolare, con
un fine e una vita economica propri, diversi da
quelli degli individui. Ne è derivata, nella migliore
delle ipotesi, una sottoscienza sui generis cui si è
dato il nome di scienza delle finanze. Ma lo Stato
vero, quello che si identifica con l’individuo, e ne
costituisce la vita logica, quello non è entrato mai
in questione e i fenomeni economici sono stati stu¬
diali in quanto fenomeni interindividuali. La vita
economica naturale esclude lo Stato e si esprime
tutta nella libera concorrenza delle forze partico¬
lari, sì che rintervento statale può essere studiato
lutt’aì più come causa di deviazione dal corso na¬
turale, ossia come uno degli ostacoli alla libera
estrinsecazione delle forze in contrasto. E questa
conclusione non varia col passare dall’economia na¬
zionale all’economia internazionale, per il fatto stes¬
so che lina nazione o uno Stato come unità econo¬
mica è negato a priori nel modo più categorico.
Come neirambito dello Stato i fenomeni econo¬
mici si svolgono indipendentemente dallo Stato, così
si svolgono pure quelli che si verificano nel più
vasto mercato mondiale. Non sono, infatti, gli stati
che contrattano fra loro, sibbene gli individui o i
gruppi di individui che ne fanno parte, e che agi¬
scono economicamente così quando si trovano ad
appartenere a una stessa nazione, come quando so¬
no cittadini dì stati diversi. I fenomeni economici
che ne risultano sono precisamente gli stessi, e la
scienza non ha ragione di porre un qualsiasi pro¬
blema al riguardo.
Problemi diversi nascono invece quando tra
slato e stato si elevano delle.barriere che distìnguo¬
no il mercato interno da quello esterno. Sono le
barriere doganali, espressioni tipicamente statali,
che alterano tutti gli scambi facendo sorgere, anche
nell’economia classica, la specifica teoria del com¬
mercio internazionale. Tuttavia bisogna star bene
attenti alla natura del problema, e non credere che
103
la scienza tradizionale abbia con ciò abbandonato
o comunque menomato il presupposto individuali¬
stico. Lo Stato di cui, anche qui, discorre la teoria,
è sempre quello che è oggetto della scienza delle
finanze e cioè un ente a sé con particolari fini e fun¬
zioni. E la scienza in tanto lo prende in considera¬
zione in quanto esso fa deviare l'economia naturale
dal suo libero corso. Se, infatti, si analizzano le co¬
muni teorie del commercio internazionale, è facile
avvedersi come tutto il loro contenuto si risolva, per
un verso, in un’istanza negativa, implicita o espli¬
cita, contro l'intervento degli siati (soppressione
delle barriere doganali), e, per un altro verso, nel¬
l’indagine delle conseguenze che il sussistere delle
barriere doganali ha nell economia degli individui
appartenenti ai diversi stati. In ogni caso si resta
ligi al presupposto d eWhomo ceconomicus , unico
centro e ragione della vita economica, e si resta con¬
seguentemente ligi al vecchio concetto di Stato, in¬
teso come una superfetazione, sia pur necessaria, e
un limite più o meno grave della libera vita dell’in¬
dividuo.
Una vera economia internazionale può nascere
solo col sorgere del concetto di Stato, come organi¬
smo economico di carattere universale ; lo Stato,
cioè, come soggetto economico in cui si fonde tutta
la vita economica dei cittadini. In che cosa consista
la differenza essenziale dei due concetti di Stato
nella concreta prassi economica potrà risultare molto
agevolmente da un esempio notissimo. In Italia si
produce meno grano di quel che non si consumi:
non solo, ma io posso trovar convenienza a rinun¬
ziare alla coltivazione del grano e a importarlo dal-
1 estero. Secondo la dottrina liberale, della conve-
— 104 —
nienza economica di produrre grano o di importar¬
lo, sono giudice assoluto io solo: lo Stato è tenuto
a disinteressarsene completamente. Nel caso di un
suo intervento, questo è dovuto o a ragioni politiche
concepite come extraeconomiche o al bisogno di
provvedere, mercé i proventi di un dazio doganale,
alle spese inerenti alle sue peculiari funzioni. 0 un
problema politico, dunque, o un problema di scien¬
za delle finanze: e l’economia scientifica, in ogni
caso, non ne è toccata, racchiusa come essa è nel-
Tindagine dello scambio tra me, produttore e consu¬
matore, e il produttore straniero. Ma quando lo
Stato cessa di essere un ente particolare per dive¬
nire la stessa nazione nella sua unità, il problema
del grano diventa problema economico solo in quan¬
to problema nazionale. E come quello del grano 6Ì
impostano tanti e tanti problemi — a rigore tutti i
problemi economici — che non hanno significato al¬
cuno per l’economia fondata sul presupposto del-
Vhomo ceconomicus. Che significato, infatti, posso¬
no avere per una concezione individualistica pro¬
blemi come quelli della ruralizzazione o industria¬
lizzazione, dell’incremento demografico, deH’emigra-
5 ) Quando considero la scienza delle finanze lucri dell'economia
politica non intendo parlare di un'estraneità assoluta, bensì rela¬
tiva al particolare concetto di Stalo sul quale la scienza delle fi¬
nanze finora è stata costruita. Dato uno Stalo —- essa dice — else
ba particolari funzioni (pubblica sicurezza, giustizia, esercita, ecc.l,
esso deve pur avere un proprio bilancio; e le sue entrale e le sue
spese, come pure la loro influenza sulla vita economica dei citta¬
dini, devono esser studiate dalla scienza economica: tuttavia la vita
economica dello Stato è altra cosa dalla vita economica dei citta¬
dini, sì che scienza delle finanze ed economia politica non coinci¬
dono. Cbi invece crede allo identità di indivìduo e Stato deve ne¬
cessari ante me intendere tale identità come fondamento di quella
di scienza delle finanze ed economia. Ma sul problema della riforma
della scienza delle finanze avremo modo di tornare in altra sede.
— 105 —
zione, ecc.? A ognuno, secondo i suoi gusti e le sue
capacità, risponde Peconomia pura, perché per essa
tali problemi sono tanti quanti gli individui. Ognuno
al suo posto secondo il fine unico dello Stato, ri¬
sponde la nuova economia, perché per essa tali pro¬
blemi si risolvono in uno solo. E i gusti si educano
e le capacità ci creano: sì che al posto di tanti cen¬
tri economici se ne mette soltanto uno, e all’incon¬
tro di tanti mondi si sostituisce un organismo con¬
sapevole.
Organizzazione: ecco la grande realtà della vita
civile in genere e della economia in particolare; ma
organizzazione vuol dire organismo e l’organismo
non può essere che unico: lo Stato.
V’è poi l’organizzazione internazionale e sem¬
bra vi sia anche un organismo internazionale. E di¬
fatti esso esiste, ma in un senso diverso da quel
che comunemente si crede. Se lo Stato ha un fine
da raggiungere, risolve a suo modo tutti quei pro¬
blemi economici cui abbiamo prima accennato, ri¬
solvendo la vita economica dei cittadini in quella
della propria unità. Ma è chiaro che il fine non sa¬
rebbe raggiunto se lo Stato non operasse egualmente
con gli stati, che tutti, direttamente o indirettamen¬
te, entrano in rapporto con esso. Scendendo anche
qui a un esempio concreto, possiamo notare come
l’Italia per industrializzarsi deve importare alcune
materie prime e trovare i mercati di esportazione
per i manufatti. 11 che è possibile solo in quanto
altri stati siano disposti a darci quelle e a comprare
questi; vale a dire a divenire strumento di raggiun¬
gimento del fine che ci proponiamo. Ora, le condi¬
zioni necessarie perché gli altri diventino mezzi
per il nostro fine sono essenzialmente due. Prima:
che il fine che ci proponiamo sia davvero propo¬
sto, e cioè sia un fine consapevole; seconda: che
si abbia la capacità di far divenire tale fine il fine
economico degli altri stati. Perché la prima con¬
dizione si verifichi è necessario che lo Stato si iden¬
tifichi con l’individuo, ossia con la nazione, e sia
organismo unico, soggetto economico unico. Perché
si verifichi la seconda è necessario che lo Stato si
identifichi con Tumanità, ossia con la vita interna¬
zionale, risolvendo nel proprio organismo l’organi¬
smo internazionale. La forza dunque che ci può
consentire di raggiungere il nostro fine è forza or¬
ganizzativa di noi e degli altri, ossia la forza di col¬
laborazione, in cui la lotta e la concorrenza vengano
risolte come momenti dialettici.
Vi sono, infatti, due modi di concepire la lotta
e la concorrenza economica — come, in genere, ogni
sorta di lotta —: l’uno per il quale il fine della
lotta è la distruzione dell’avversario, l’altro, invece,
per cui il fine è l’unificazione delle volontà. TI pri¬
mo è puramente negativo e infecondo, il secondo,
momento necessario di ogni sviluppo e progresso.
Ora, nel campo economico internazionale una lotta
intesa nel primo senso non potrebbe avere alcuno
scopo intelligibile all’ìnfuori di quello del distrug¬
gere per il distruggere. E ciò non può lasciar dub¬
bio di sorta se si pensa che lo stesso effetto della
distruzione sarebbe raggiungihile senza il minimo
sforzo chiudendo i confini e facendo divenire l’eco-
nomia nazionale un’economia chiusa. Se i confini
restano aperti, è segno che gli altri stati non sono
ostacoli da abbattere, ma forze da utilizzare, e uti¬
lizzare vuol dire coordinare le proprie forze per
procedere in un’unica direzione. Allora la concor-
107
rema diventa — così come nel campo nazionale —
voluta, disciplinata e subordinata al fine nazionale
da raggiungere: il suo scopo non è più quello di
eliminare delle forze avverse, ma di convertirle a
una funzione che risulti più rispondente ai bisogni
dell’organismo. 11 che si ottiene non lasciando che
i concorrenti si urtino a vicenda seguendo i propri
fini particolari, ma regolando la competizione verso
la più opportuna divisione di lavoro.
Che le conclusioni, cui siamo pervenuti, noti
siano arbitrarie e utopistiche, lo dimostra, a chiun¬
que abbia gli occhi per vedere, la trasformazione
sempre più rapida del mondo economico nella di¬
rezione indicata. All’interno il processo di unifica¬
zione della vita economica ha fatto passi gigante¬
schi e tutto fa pensare che il cammino sarà an¬
cora più notevole nel prossimo avvenire. Il concetto
di organismo economico va sostituendosi, nella real¬
tà ancor prima che nella scienza, a quello di indi¬
viduo o di homo o economicus, tra svalutando soprat¬
tutto i concetti di monopolio e di libera concorren¬
za. Sul terreno internazionale poi le intese e gli ac¬
cordi economici sono sempre più frequenti e l’esa¬
sperazione della lotta doganale va richiamando sem¬
pre più l’attenzione generale sulla necessità di una
organizzazione più salda e profonda delle forze eco¬
nomiche dei diversi stati. E anche qui la concorren¬
za va di fatto mutando i caratteri arbitrari di una
volta, per rientrare nel circolo di un sistema dalla
— lofi -
cui logica unità viene incanalata e corretta. È una
disciplina certamente più ardua e instabile, data la
immensità del mercato e la molteplicità degli ele¬
menti da controllare, ma solo i ciechi potrebbero
negare 1 abisso che corre tra l’atomismo economico
di alcuni decenni fa e l’ingranamento odierno d’in¬
finiti centri economici in giganteschi organismi a ca¬
rattere internazionale. Né l’urto e l’esasperazione di
tanti nazionalismi sorti o rafforzati nel dopoguerra
riescono ad arrestare questo processo di collabora¬
zione internazionale, che è, d’altronde, l’unico stru¬
mento di un nazionalismo non illusorio. L’economia
individualistica o liberale ha fatto il suo tempo e la
realtà ce lo insegna additandoci le necessità della
vita economica dentro e fuori i confini. Al dogma
del liberismo e alla fede nella lotta incondizionata
degli arbitri dei singoli va sostituendosi la convin¬
zione critica dell’apriorità dell’organismo economi¬
co coincidente con la realtà dello Stato. E con la
realtà deve ormai procedere la scienza, che, non
avendo più a suo oggetto una molteplicità caotica e
inintelligibile come quella presupposta dal liberi¬
smo. può cominciare a veder chiaro nella logica del-
1 organismo economico e trovare quei fondamenti
sistematici che ha invano perseguito per due secoli.
LIBERISMO E PROTEZIONISMO
Dopo aver precisato il concetto di libertà eco¬
nomica e i rapporti tra economia nazionale ed eco¬
nomia internazionale è possibile procedere all’ana¬
lisi della secolare antinomia tra liberismo e prote¬
zionismo. Nessun problema della scienza economica
e stato tanto dibattuto come questo e l immensa let¬
teratura sull argomento continua di giorno in gior¬
no ad arricchirsi di nuovi saggi, che sostanzialmente
si esauriscono nella ripetizione dei motivi fonda-
mentali addotti dai fisiocrati in poi in favore del-
1 una o dell altra tesi. Ma, nonostante tutta questa
mole di studi, sta di fatto che l'antinomia è rimasta
teoricamente e praticamente insoluta, sì che liberi¬
sti e protezionisti continuano tuttavia ad accusarsi
a vicenda di sproposilare nel campo scientifico e di
rovinare, in pratica, l’economia della nazione.
La soluzione classica del problema — confor¬
me al motivo fondamentale della scienza dell’econo¬
mia quale si è venuta configurando dal secolo XVI1T
a — è quella rigorosamente liheristica. Muo¬
vendo dal presupposto del carattere naturale della
vita economica, si è giunti a fil di logica alla eonclu-
sione che. così negli scambi interindividuali come
in quelli internazionali, le varie forze vadano la¬
sciate affatto libere nel loro giuoco e che il risultato
dell’anarchico incontrarsi e scontrarsi sia quello
della loro più perfetta composizione. A tale teoria
naturalistica degli scambi internazionali ha dato poi
— come si è detto — nuova forza la scuola psicolo-
gico-matematica, che, giungendo, col Pareto, al con¬
cetto di ofelimità e frantumando, in tal guisa, il
giudizio della economicità delle azioni nella molte¬
plicità dei soggetti economici postulati, ha sottratto
alla sfera di competenza dello scienziato e a quel¬
la dell’uomo politico la stessa possibilità di un giu¬
dizio obiettivo di valore. Intervenire negli scambi
non si può perché si ignorano in modo assoluto le
utilità soggettive di coloro che scambiano.
L'opposta tesi protezionistica, invece, non ha
mai trovato un fondamento ideologico così deciso
e preciso e, sebbene confortata dal costante esem¬
pio storico di una politica più o meno antiliberisti-
ca, è rimasta nel campo scientifico in condizioni di
evidente inferiorità. Il che spiega come essa nella
maggior parte dei casi non abbia assunto le carat¬
teristiche di una vera e propria teoria, ma si sia li¬
mitata a contemperare il rigore della concezione li-
beristica, mettendo capo a varie forme interme¬
die. E il compromesso ha finito, in sostanza, col
trionfare nella letteratura scientifica più recente,
sia per l’impossibilità di eliminare in modo assolu¬
to i motivi della tesi protezionistica, sia per la sem¬
pre maggiore coscienza storicistica dei cultori del¬
l’economia, costretti, volenti o nolenti, ad avvici¬
narsi alle nuove concezioni speculative.
I tentativi di conciliazione si possono raggrup-
— Ili —
pare intorno a due tipi principali. Gli ortodossi bau-
no mantenuto fede al postulato Veristico limitali-
dosi a confinarlo nel campo della così detta econo¬
mia pura. Da un punto di vista astrattamente eco¬
nomico, essi dicono, resta incontrovertibile che ogni
dazio protettore distrugge ricchezza: ciò non vuol
dire, tuttavia, che in pratica sia da eliminare sem¬
pre e dovunque ogni sorta di barriere doganali;
possono esservi, infatti, altre ragioni di carattere
politico che consiglino l’intervento protettivo non
ostante il danno economico da esso prodotto. Ma
accanto agli ortodossi vi sono ormai parecchi esem¬
pi di economisti che, nello stesso ambito dell’eco¬
nomia pura, ammettono la possibilità di un dazio
proficuo. Secondo essi, l'economia pura non può
stabilire a priori se un dazio sia economicamente
vantaggioso o dannoso: in certi casi la protezione,
lungi dal distruggere ricchezza, è condizione neces¬
saria per il suo accrescimento.
A chi, direttamente o indirettamente, segua le
tracce della vecchia economia sembra verità di ca¬
rattere addirittura lapalissiano che con le soluzioni
del problema ora prospettate si siano esaurite tutte
le alternative possibili. 0 liberismo, o protezioni¬
smo o forme intermedie di compromesso: e la ve¬
nta va cercata eliminando due di queste soluzioni.
Ma chi ormai ci ha seguito nella critica della scien¬
za economica e nella riduzione dei diversi indi¬
rizzi a quello classico liberale, può agevolmente
112
rendesi conto dell’impossibilità di giungere a un
risultato davvero conclusivo accettando i termini
della questione e limitando l’indagine a una sem¬
plice scelta. Se il problema ha messo capo a queste
tre alternative e fra di esse si è dibattuto per due
secoli, è segno cb'esso è rimasto aderente a una de¬
terminala concezione scientifica e cbe è vano ten¬
tare ancora di risolvere l’antinomia, senza superare
quella concezione e porre la questione in termini
affatto diversi. Ma perché il superamento non sia
illusorio e perché l’antinomia appaia nella sua as¬
soluta irriducibilità, è necessario anzitutto chiarire
la sostanziale identità dei due termini opposti. Oc¬
corre, in altre parole, dimostrare che liberismo e
protezionismo non sono due soluzioni cbe si ripor¬
tano a due diverse concezioni della vita economica,
sì che l’errore dell'uno possa significare o per lo
meno possa non escludere la verità dell'altro, ben¬
sì che l’uno e l’altro scaturiscono da uno stesso prin¬
cipio informatore e rappresentano Tantinomia in¬
terna di esso. L’errore dell’uno è lo stesso errore
dell'altro, ed entrambi si spiegano con l’errore del
principio di cui sono espressioni.
Il principio, s’intende, è quello solito dell’in¬
dividualismo economico. Si parte dal presupposto
che le forze reali siano gli indivìdui nella loro au¬
tonomia e si pretende ch’essi soddisfino i loro bi¬
sogni nel libero giuoco della concorrenza, Nel caos
in cui si scontrano le infinite forze individuali ognu¬
na salvaguarda come può i propri interessi e cerca
di trarre il massimo profitto possibile. Così come
per la naturalistica legge della selezione, i migliori
si affermano e trionfano, i peggiori sono travolti
e soccombono: né mai altro equilibrio o compo-
- 113 —
sizione delle forze si instaura che non sia quello de¬
rivante dall urto disorganico e disordinato. Ora, in
questa concezione liberistiea o individualistica del-
1 economia, la teoria protezionistica, se appare co¬
me una contraddizione alle leggi di natura e però
sostanzialmente illogica dal punto di vista scienti¬
fico ortodosso, è tuttavia escogitata per servire allo
stesso sistema della concorrenza di cui apparente¬
mente è la negazione. Quando un’industria chiede
un dazio protettore lo fa esclusivamente per vince¬
re la concorrenza, e il dazio si risolve in un aiuto a
una delle forze concorrenti e non in una forza eli-
minatrice della concorrenza. Anche nel caso di un
dazia proibitivo il fine ultimo è quello dì spostare
e non di eliminare la concorrenza: i dazi, insonuna,
non sono che altrettante forze gettate sul mercato
per meglio resistere allumo e vincere nella lotta.
Ma, con o senza dazi, la vita economica resta sem¬
pre quella primitiva o naturale di una bruta molte¬
plicità di elementi contrastanti. Nel mercato inter¬
nazionale come nel mercato interno si incontrano
soggetti economici diversi, reciprocamente estranei
fino al momento deH’incontro e che dal solo atto
deirincontro debbono trarre norma per l’ulteriore
difesa di propri fini particolari. Ragione della con¬
correnza è quindi il persistere di una molteplici¬
tà atomistica incapace di unificarsi, e il mercato,
che è appunto la classica espressione delFeeonomia
liberista, rappresenta il campo di lotta di individui
(persone o nazioni) fino allora chiusi in mondi non
comunicanti.
8 ■ Ambita
— 114
Il carattere primitivo della vita economica fon¬
data sul principio della concorrenza (compreso in
questo termine l’intervento protezionistico) è do¬
vuto, dunque, alla sua disorganicità o irrazionalità.
Come il liberalismo politico di cui è la necessaria
conseguenza, essa è il punto di partenza per il cam¬
mino della civiltà e non l’ideale della civiltà stessa.
Il trionfo assoluto della concorrenza, lungi dal rap¬
presentare, come pensano i liberisti, un ideale da
raggiungere allorché sarà superata ogni sorta di
pregiudizi antiscientifici, è soltanto una realtà che
si perde nella notte del primitivo stato di natura,
in quello stato precontrattuale che vagheggiava la
mente del ginevrino.
Il carattere irrazionale della vita economica
fondata sulla concorrenza e sul protezionismo è da¬
to appunto dalla irrelatività primitiva degli uomini
e dei paesi, i quali rimangono gli uni fuori degli
altri e non possono o non vogliono fondersi in un
organismo unico. Credere che ogni forza economica
possa rimanere autonoma e tuttavia ottenere il mas¬
simo di utilità possibile nello spontaneo equilibrio
di tutte le altre forze, significa cadere nella più
grossolana delle contraddizioni, in quanto si pre¬
tende far derivare la razionalità da un processo non
razionale. Se razionalità vuol dire universalità, os¬
sia unità di volere e di fine, è chiaro che il modo
migliore di raggiungere il fine non potrà esser quel¬
lo di ignorarsi reciprocamente e di procedere per
vie diverse. La scienza deH’economia che finora ha
— 115 —
teorizzato la libera concorrenza o la protezione è
caduta in un errore che ha tutto compromesso.’in
quanto ha cercato di dare le leggi di ciò che è ex
ege.. e ha lasciato fuori proprio la vita economica
razionale. Libera concorrenza e protezione sono al
di qua di ogni norma per il fatto stesso che sono al
di qua di ogni organismo: esse rappresentano rat¬
inino, la natura, il male, il frammentarismo, la ne¬
gatività, msomma, della vita; e fare scienza di esse
vai quanto fare scienza del caso. La vera vita eco¬
nomica e quindi la vera scienza può sorgere soltan¬
to allorché si comincia a uscire comunque dalla ir-
relatività e a unificare i mezzi e i fini da raggiun¬
gere. Se, in apparenza, la vita degli individui e
quella delle nazioni è stata finora denominata dalla
concorrenza e dal protezionismo e tuttavia ha pro¬
ceduto nel cammino della civiltà, ciò è dovuto in
realtà al fatto che, di là da ogni liherismo e prote¬
zionismo, si è andata sempre più affermando una
intesa e una collaborazione di forze completamente
sfuggita alla miopia degli scienziati.
Accordo, collaborazione, organismo: ecco ì
termini del problema, una volta superato il pre¬
supposto irrazionale deH’individualisnio. E tanto
più è necessario porsi per questa via quanto mag¬
giore è lo sviluppo della vita economica e dei suoi
elementi essenziali. Se, infatti, si resta nei limiti di
iorze individuali o quasi, la cieca competizione dà
luogo a danni meno appariscenti e profondi: ma
quando, come nella vita contemporanea, gli orga¬
nismi economici sono diventati tanto complessi e
grandiosi, andare avanti ignorando quel che fa¬
ranno gli altri significa esporsi a crolli improvvisi
e spaventevoli. Superate in gran parte nella vita
— 116 —
economica interna le forme dell’individualismo e
divenute normali le forme delle società anonime,
delle banche, dei trust , ecc., continuare a tener fe¬
de all’individualismo nei rapporti internazionali di¬
venta sempre più assurdo e pericoloso. La crisi eco¬
nomica mondiale è l’espressione più evidente e con¬
vincente di tale assurdo.
Dunque: né liberismo, né protezionismo; nes¬
suna, insomma, di quelle soluzioni che presuppon¬
gono l’autonomia radicale delle forze economiche.
Anche qui l’obiezione più facile sarà quella
che deriva da una grossolana ipostasi della lotta e
della dialettica della vita.
Ma, anche qui, è facile rispondere che c’è lot¬
ta e lotta, e che il cammino della civiltà sta appunto
nel rendere sempre più elevata e spirituale la com¬
petizione e sempre più abnorme ed eccezionale la
guerra. E della guerra e non della competizione han¬
no proprio i caratteri la concorrenza economica e
la protezione, in quanto tendono a sopraffare e non
a collahorare con l’avversario. La competizione che
si deve instaurare è quella che ha per fine l’incie-
mento dell’organismo e si svolge quindi nell’ambito
deU’organismo, non quella che ha, invece, per fine
l'incremento dell’individuo (persona o nazione)
visto nella sua particolarità irrelata.
Dalia tesi teorica è molto facile scendere alla
pratica applicazione nella vita politica. La realtà
urge da tutte le parti e sta già facendo giustizia dei
vecchi dogmatismi scientifici. Dobbiamo renderce-
- 117 —
ne 9empre più consapevoli e affrettarne il procedi¬
mento.
Le forme concrete di realizzazione sono na¬
turalmente quelle die tendono all’unificazione del-
1 organismo economico mondiale. In primo luogo,
lo studio internazionale delle forze economiche dei
diversi paesi e delle vie più adatte alla loro colla¬
borazione e fusione. E, in conseguenza, la politica
degli accordi industriali e commerciali atti a rea¬
lizzare quella fusione.
La traduzione in pratica della tesi non avver¬
rà tanto facilmente, né mai in forma assoluta. Ma,
se questa è la mèta cui tendere, bisogna die il pe¬
riodo di transizione sia informato alla coscienza del
punto d arrivo. Voglio dire che nell’organizzare l’e¬
conomia della nazione occorre dalle fin d’ora quella
fisionomia che più risponde alla sua funzione spe¬
cifica nel sistema dell’economia mondiale. Elimi¬
nando, per quanto è possibile, ogni sterile concor¬
renza, deve cercarsi un’affermazione dell’industria
che assuma un’importanza essenziale nella vita del
nostro e degli altri popoli. 11 nostro orizzonte deve
allargarsi e non si può più pretendere di giovare
alla nostra economia senza con ciò stesso giovare al-
1 economia degli altri. Questa è la legge di ogni or¬
ganismo e a questa legge deve essere informata an¬
che la politica economica di un paese che voglia
guardare sul serio all’avvenire.
V è, abbiamo detto, una concorrenza superiore
a quella comunemente intesa; ed essa si vince oggi
ponendosi all avanguardia nel processo dell’unifica¬
zione. La grandezza economica di una nazione si
instaura col darle un posto di primo ordine nell’or¬
ganismo internazionale: chi ha la consapevolezza
— Ufi —
della via da seguire può concorrere più decisamen¬
te degli altri alla creazione di un organismo in cui
far valere al massimo le proprie energie. Ma a que¬
st'azione politica internazionale va accompagnata,
s intende, una trasformazione adeguata della vita
interna in modo da porla all’altezza di quella vita
mondiale del cui rinnovamento ci si fa promotori.
Per uscire dai termini generali e scendere al-
1 esempio pratico del nostro Paese, che dei fonda¬
menti della nuova economia ha tentato prima e più
degli altri una concreta attuazione, è facile preci¬
sare alcune conseguenze imprescindibili da cui trar¬
re norma per l’avvenire. L’Italia è la prima na¬
zione — si può aggiungere la Russia, ma per essa
dovrebbe farsi altro discorso — cbe ba proceduto
alla formazione di un sistema economico nazionale,
attraverso l’ordinamento corporativo: ma i suoi
sforzi, per quanto innovatori e fecondi, non posso¬
no raggiungere un risultato decisivo finché il suo
sistema rimarrà un centro organizzato in mezzo a
una vita mondiale disorganizzata. La vera vittoria
del fascismo o del corporativismo si avvererà il gior¬
no in cui avremo fascistizzato o eorporativizzato
tutto il mondo. Fino a quel giorno avremo la pos¬
sibilità di resistere un po’ meglio degli altri ai ma¬
rosi dell’oceano, ma rimarremo in gran parte in ba¬
lìa di essi. Primo compito, dunque, quello di per¬
suadere il mondo della verità dell’economia corpo¬
rativa e di farsi iniziatori di un sistema corporati¬
vo internazionale. Ma questo fine, a sua volta, im¬
plica la necessità di considerare fin d’ora il sistema
corporativo italiano, non come un sistema a sé,
chiuso e sufficiente nella sua autonomia, bensì co¬
me il sistema in cui si risolve tutta la vita econo-
— 119 —
mica mondiale. E alla realtà di questo più ampio
sistema bisogna volgere gli occhi per la soluzione
degli infiniti problemi propri della nostra nazione.
Se, per esempio, nella soluzione del problema
del grano consideriamo il sistema economico na¬
zionale come un sistema chiuso, è chiaro che spin¬
geremo al massimo la produzione fino al punto da
non importare più un quintale dall’estero; ma se,
al contrario, badiamo al sistema corporativo mon¬
diale, i nostri sforzi tenderanno a raggiungere una
produzione massima per ettaro coltivato, ma insie¬
me a ridurre progressivamente la superficie colti¬
vata. È evidente che una produzione che per reg¬
gersi ha bisogno di un dazio di 75 lire a quintale
oltre a varie altre provvidenze legislative, e che
non può sperare di modificare sensibilmente que¬
ste condizioni nell avvenire, deve rappresentare uno
stadio provvisorio nel processo dell’organismo mon¬
diale. Ben diverso è il problema dell’industria si¬
derurgica e delle industrie meccaniche nella cui
soluzione non si può affatto convenire con i teorici
del liberismo. (Tanto è vero che l'economia corpo-,
rativa è di là da ogni liberismo o protezionismo).
Le industrie siderurgiche e meccaniche sono al fon¬
damento di tutta la più alta industria moderna, e
una nazione che vi rinunci, si suicida. Ma anche
qui occorre non perdere d’occhio il sistema mon¬
diale e quindi indirizzare tali industrie verso quelle
forme superiori in cui il tecnicismo (preparazio¬
ne e ingegno dei dirigenti e bontà della mano d'o¬
perai diventi fattore di produzione predominante
fino a rendere trascurabile il maggior costo delle
materie prime.
— 120 -
Alla visione dell’avvenire, verso cui certamen-
te si cammina a gran passi, contrasta la politica
dell’oggi con altissime barriere doganali e con la
sfrenata concorrenza. Ma se la logica è dell’avveni¬
re -— ci dicono ancora gli scettici — intanto come si
va innanzi? Dobbiamo togliere le barriere e dar ra¬
gione ai liberisti, ovvero dobbiamo elevarne anco¬
ra e difenderci a tutti i costi?
La vita economica sociale, si è detto, è cono¬
scibile scientificamente solo in quanto razionale e
organica. Se il problema resta posto nei termini
consueti della concezione individualistica, nessuna
risposta può darsi ebe abbia valore di norma. Li¬
berismo e protezionismo sono le soluzioni di uno
stato di guerra, di un urto violento e indisciplinato;
e in guerra, si sa, ci si difende come si può. Se un
individuo viene affrontato, deve uccidere o deve
corazzarsi? Tutte e due le soluzioni sono buone,
ma certo sarebbe meglio che i due casi fossero eli¬
minati e ebe gli avversari si dessero la mano, ri¬
solvendo in modo logico la ragione del contrasto.
E così oggi nella vita economica internazionale:
cerchiamo di affrettare il processo di razionalizza¬
zione, e intanto andiamo avanti con o senza bar¬
riere doganali, secondo l’urgenza del momento e le
particolari condizioni economiche e politiche.
L'ORDINAMENTO CORPORATIVO DELLA NAZIONE
E L’INSEGNAMENTO DELL’ ECONOMIA POLITICA
(Lettera operici di Rodolfo Berlini al prof. Ugo Spirilo)
Chiarissimo Professore,
Intorno ai problemi dell’Economia corporativa ai è
formala in breve tempo una vasta letteratura, ma di ca¬
rattere — oom Ella afferma — piuttosto giornalistico,
mentre i tentativi di rigorosa sistemazione scientifica
della nuova materia sarebbero scarsi o poco notevoli. Di
tale condizione di cose Ella chiama responsabili gli eco¬
nomisti della cattedra, i quali evitano di parlare di quei
problemi, considerandoli pertinenti ad un indirizzo an¬
tieconomico e, per ciò stesso, estraneo alla scienza.
Richiesto cortesemente del mio avviso, non voglio
chiudermi in un silenzio che potrebbe essere interpretato
come un adesione al modo di fare e di pensare, da Lei
attribuito ai miei autorevoli eollegbi. Veramente, il mio
tacere avrebbe avuto piuttosto lo scopo di prender tem-
po, innanzi di esporre un’opinione molto radicale, la cui
elaborazione non è forse arrivata a termine nel mio pro¬
prio pensiero. Ma, se non è arrivata a perfetto termine,
essa ha già fatto tal cammino, che il discorrerne non
parrà intempestivo o inopportuno. Le persone di spirito
non la troveranno neppure irritante.
Io consento in quasi tulle le riflessioni da Lei svolte
— 124 —
nell’articolo: «Verso l’Economia corporativa» 11 — ma
vado più diritto alla sede del male. Dico dunque, senza
ambagi, che alcuni economisti fanno dell'Economia teo¬
rica una mezza scienza. Non « mezza » nel significato po¬
co riguardoso di scienza superficiale, dalle conclusioni
mal cucite alle premesse; ché anzi (io lo riconosco vo¬
lentieri) da certe cattedre fluiscono ragionamenti, i quali
partecipano del rigore delle matematiche. Dico mezza
scienza nel significato dimensivo dei termini, ossia dot¬
trina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato
il seme di questioni che pur le appartengono; questioni
di vita della stirpe o di potenza della Nazione; questioni
di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rap¬
porti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di
parLiti economico-politici. Certo, ogni buon professore
sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedi¬
cate alla politica economica, alla storia delle dottrine,
ecc.; ma altro è che ne discorra fuori sistema, per la col¬
tura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a
farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne di¬
scorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enun¬
ciati, previdentemente inseriti in uno schema introdut¬
tivo della disciplina.
Ora, il problema dell’ordinamento corporativo, al
pari di altri consimili, non è discusso affatto (a quanto
sembra) o è discusso « fuori sistema » a titolo semplice¬
mente informativo. Esso appartiene alla... seconda metà
della scienza — quella che non s’insegna come scienza,
ma piuttosto come storia — e invano ne cercheremmo
nella prima metà i cardini d’attacco o i motivi prenio-
nilorii.
Ciò dipende anzitutto, a mio avviso, dalla ripugnan¬
za che provano non porhi economisti ad accogliere nei
loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale
fattore della produzione. Tale disposizione d'animo non
si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è
la risultante di due fasci di forze componenti : l’attività
individuale, singola o associata, e l’attività dell’organiz-
’) Cfr. La critica dell'economia liberale. Milano, Treves, 3930,
pag. 730.
— 125 —
zazione politica, di cui lo Stato è l’espressione suprema.
I punti d'applicazione di queste forze (diciamoli cosi per
completare la similitudine coi fatti della meccanica) son
da ricercare nella stessa ricchezza esistente al momento
iniziale del processo — ricchezza in gran parte d’origine
ereditaria, cioè prodotta da anteriori generazioni. Fa
della scienza a metà colui che si ferma alla prima com¬
ponente e tace della seconda o l’assume come « costante »
lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo
Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza,
alla giustizia, alla viabilità, all'istruzione, ecc., e trasfor¬
ma così buona parte della ricchezza privata in potenza
collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore con¬
tinuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di
stretta complementarità coi beni, servizi e ordinamenti
dell’iniziativa privata. E come questi secondi si svilup¬
pano in quantità e varietà, col progredire dell incivili¬
mento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi o dif¬
ferenziati tra gli individui o i gruppi, così i primi, cioè
i loro complementari forniti dallo Stato, non hanno co¬
lonne d’Èrcole che li fermino ad un punto obbligato.
Lo Stato è coevo all’uomo, ché la prima famiglia
umana fu in embrione un impero. I caratteri di necessità
e immanenza, che gli son proprii, non ammettono che
si prescinda da esso per astrazione, come se fosse una
circostanza secondaria, accidentale o di semplice pertur¬
bazione. Basterebbe un momento d’incertezza nella vita
dello Stato per rompere tanti fili nel tessuto della so¬
cietà, da gettare il disordine in ogni specie di operazioni.
Voler vedere in esso anzitutto un elemento perturbatore
dell’attività spontanea dei privati e dei loro calcoli edo¬
nistici, è generalizzare solo a suo carico difetti di funzio¬
namento che non sono né più rari, né meno gravi presso
i singoli individui. Si può invece assumere lo Stato come
una « costante )) fin che l’assunto giovi alla soluzione di
problemi in prima approssimazione; ma per conclusioni
più aderenti alla realtà è mestieri rivedere da vicino il
valore della costante. E allora si scorge che costante non
è. Lo Stalo è un organismo in evoluzione, ad immagine
degli uomini che lo compongono e soprattutto ad imma¬
gine degli uomini più rappresentativi di interessi, dì
126
ideali, di temperamenti, che esercitano una influenza
sulla legislazione e si avvicendano al potere.
Qui cessa d’esser valida la similitudine presa dai
fatti della meccanica. Nelle scienze l’uso dei trafilati, che
sono spedienti proprii delle belle lettere, vuoisi fare con
cautela e sobrietà. Coloro invece che vi insistono a fondo,
trattando le forze evolutive dell’uomo, come se fossero
le forze rigide della fisica, non scrivono Teconomia del-
1 homo sapiens, ma dell’uomo-macchina, tutto ruote den¬
tate e molle di precisione.
Può l’eeonomista addurre a sua scusa che Io studio
della componente « Stato » appartiene ad altre discipli¬
ne? T.’eccezione d’incompetenza sarebbe irricevibile. Ad
altre discipline spetterà di considerare lo Stato ir rela¬
zione ad altri scopi della vita, che non siano la costitu¬
zione della ricchezza; ma per questo particolare scopo,
che implica la conoscenza di due variabili essenziali e
interdipendenti, l’egoismo individuale e lo spirito di so¬
lidarietà nella sua più imperativa espressione che è lo
Stato, sarebbe strano che il più interessato ad averla, non
la volesse avere che per una delle variabili e chiamasse
« pura « anziché « incompleta » la teorica innalzata su
base siffatta.
Ho insistito varie volte su questo punto: non esserci
Ira 1 homo oer.onomicus e il cittadino ( civis ) soluzione di
continuità. La moda di oggigiorno è quella di separare
una figura dall altra. Ma se c’è qualità che non si possa
isolare dal soggetto dell’Economia politica se non per
un capriccio dialettico, è proprio quella del cittadino.
Essa lo segue come l’ombra il corpo. L’individuo può
essere dotto o indotto, credente o miscredente, originale
o imitatore, padre o non padre di famiglia; ma cittadino
lo è sempre. E come tale spiega un'influenza più o meno
grande sulla formazione del costume e su quella del Di¬
ritto. L’àomo ceconomicus, dunque, inseparato dal cit¬
tadino, è creatore del Diritto. Ecco scoprirsi alla nostra
veduta l’aspetto genuino della questione.
Tutti veniamo al mondo con un patrimonio eredita-
— 127 —
to, che può variare da zero a qualche miliardo di no¬
stra moneta; ci presentiamo alla carriera della vita, come
ad una gara di corsa, movendo da posizioni iniziali van¬
taggiose o svantaggiose. La distribuzione dei corridori in
posti di partenza diversamente avanzati rispetto al tra¬
guardo, non è per anco entrata nelle regole «sportive» ma
certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il pri¬
missimo capitolo da scrivere in Economia — dopo la de¬
finizione e un po’ di nomenclatura — dovrebb’essere pro¬
prio quello delle posizioni iniziali più o meno avanzate
(leggasi: distribuzione più o meno equa della proprietà)
che la sorte e la legge ci assegnano al nostro nascete, per¬
ché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambien¬
te, modi di sentire riguardo al valore dei beni e dei ser¬
vigi, professioni preferite, capacità di resistenza nei con¬
tratti, possibilità (grazie al diritto successorio e al feno¬
meno dell’interesse del capitale) di far vivere una discen¬
denza « infinita » su una quantità « finita » di ricchezza.
E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo gran parte
degli economisti e l’autore stesso della felice similitudine
« posizioni iniziali » relegare la premessa in capitoli
terminali dell’insegnamento o in separata sede; insom¬
ma, fare dell’Economia teorica una costruzione senza la
chiave di volta, che le è necessaria per reggersi in piedi
in tutta la sua interezza.
I fatti dimostrano che l’uomo (chiamisi pure l’uomo
economico) venuto al mondo senza i favori della sorte,
cioè in posizione iniziale svantaggiosa, si industria come
cittadino, a modificarla in meglio per sé o per la sua clas¬
se, influendo, come può, sulla legislazione; e se ci venne
in posizione favorita s’industria, come cittadino, a con¬
servarla. Le armi a ciò non sono tutte dell’arsenale eco¬
nomico, perché una delle parti in campo, già per ipo¬
tesi non ne possiede; se le possedesse in pieno, vorrebbe
dire che disuguaglianza di posizioni non c’è, e non c’è la
ragion del contrasto. Le armi, allora, sono quelle del cit¬
tadino: la scheda elettorale, la lega di resistenza, lo scio¬
pero, ecc. ; e le chiamo del cittadino, in quanto presup¬
pongono il riconoscimento di libertà e diritti che a poco
a poco fanno mutare il viso e l’animo al legislatore. Or
si domanda: questo giuoco di azioni e reazioni potendo
— 128 —
riuscire pericoloso alla collettività, ossia agli stessi com¬
battenti e ai semplici spettatori, a chi toccherà di rego¬
larlo nell interesse della pacìfica collaborazione delle
classi? A chi, se non allo Stato, a cui fanno capo tutti i
problemi attinenti alla coesione sociale?
Ed ecco come dalla considerazione del cittadino —
qualità inseparabile dal soggetto dell’Economia politica
— arriviamo al regolamento dei contrasti di classi, come
ufficio di competenza dello Stato. Che il regolamento sia
bene o male idealo, che il servizio valga o non valga
quello che costa, sarà questione subordinata da risolvere
in Economia applicata, se l’altra Economia teme di per¬
dere della sua purezza. Il fatto che il regolamento im¬
plichi un costo, non costituisce motivo perché si debba
riguardarlo come un affare antieconomico ed estraneo
alla scienza. Chi afferma questo, dimentica che i beni, i
servizi, gli ordinamenti che lo Stato crea, non li crea ex
nihilo ; il rapporto in cui stanno coi beni, servizi, ordi¬
namenti prodotti dall’iniziativa privala è di stretta com¬
plementarità, complementarità ebe deve intendersi nel
duplice rispetto, delle utilità e dei costi.
Gli economisti, che vedono nell'aumento di spese ge¬
nerali delle aziende una ripercussione, a tutta perdita,
dell’assetto corporativo della Nazione, si mettono da un
punto di vista unilaterale, quello degli imprenditori; ed
anche in questo riducono la loro scienza ad una mezza
scienza. L’assetto corporativo fu pensato nell’interesse di
ambo le parti: imprenditori e lavoratori; meglio ancora,
fu pensato nell'interesse generale del paese. La disciplina
restituita al lavoro, lo spirito di concordia che va infor¬
mando ogni giorno più i contratti collettivi e il valore
morale della magistratura che veglia sulla loro osservan¬
za e sui mutamenti delle condizioni del mercato, sono
vantaggi, che non si misurano in moneta, come non si
misurano in moneta quelli di una efficace organizzazione
della giustizia, della sicurezza, dell’istruzione o della
difesa nazionale.
Si ripensa forse con nostalgia ad un’economia pret¬
tamente individualista? Senza dubbio essa, limitando al-
1 estremo le funzioni dello Stato, riduceva al minimum
le spese dell’azienda pubblica e di riflesso alleggeriva il
129 —
carico alle private imprese; ma lasciava esposti ad un
maximum di rischio i buoni rapporti delle classi, Che le
poche funzioni attribuite allo Stato erano giusto quelle
desiderate dai cittadini delle posizioni favorite, ai quali
faceva comodo che la macchina collettiva da produrre il
diritto e la forza esecutiva del diritto, lavorasse a con¬
servarle. Ma era inevitabile che gli altri cittadini rumi¬
nassero a farla lavorare altrimenti, prendendone in ma¬
no le leve, di forza o di sorpresa. Quindi lotta aperta o
insincera collaborazione di classi.
Molti molto si aspettano da un sistema collettivista.
\ogliono, dunque, un maximum di funzioni dello Stato,
il sistema implicando la trasformazione, graduale o di
impeto, dei servizi oggi resi dalla privata proprietà e
dalla libera concorrenza in servizi pubblici. Ma quel ma¬
ximum si accompagnerebbe ad un minimum di rendi¬
mento del lavoro e delle libere iniziative. Tale la previ¬
sione più ragionevole. D'altronde lo sfruttamento del-
1 uomo per l’uomo, cacciato dalla porla rientrerebbe dalla
finestra, perché esso è un fenomeno generale, non del-
1 officina soltanto, ma dell’ambiente stesso della famiglia,
di quello delle amicizie, dei partiti politici, ecc.; ha ra¬
dici nella natura umana. 11 sistema socialistico ne svi¬
lupperebbe in un senso la fioritura, come il sistema in¬
dividualistico la sviluppava in un altro senso.
L’assetto corporativo nazionale si tiene egualmente
lontano dai due estremi: mira ad attuare un maximum
di rendimento del lavoro con un minimum di attriti fra le
classi sociali e di ritardi per il progresso civile della Na¬
zione. Se non è il sistema perfetto, è perfettibile.
Avrei altro da dire, ma la lettera aperta vuol essere
chiusa. Le sono quasi grato, caro professore, d’avermi
indotto a scriverla. Che, alla mia età, si può anche pro¬
mettere un trattato di Nuovi principiì, ecc.; ma difficile
e mantenere la promessa!
Devotissimo Rodolfo Benini
5 - S m bit*
La lettera che precede fu pubblicata in Nuovi
Studi di diritto, economia e politica (1930, fase. 1,
pp. 45-50) ed era seguita da un articolo di Massimo
Fnvel su L’individuo e lo Stato nella scienza econo¬
mica (pp. 51-6 7) in cui si discutevano alcune mie af¬
fermazioni. Al Bellini e al Fovel rispondevo con le
pagine seguenti:
LA RIFORMA DELLA SCIENZA ECONOMICA
E IL CONCETTO DI STATO
11 tentativo compiuto da questa rivista per
un primo orientamento nello studio dell’economia
corporativa comincia a dare i suoi frutti, e già si
veggono chiarite alcune posizioni fondamentali,
che consentono una certa disciplina nell’ulteriore
ricerca. I due scritti pubblicati in questo fascicolo
— la lettera aperta del Benini e l’articolo del Fovel
— sono due sintomatici documenti di quella svolta
decisiva nella storia della scienza economica che de¬
ve ormai risultare evidente a chiunque abbia una
mentalità non irretita da pregiudizi dogmatici. Ma
il risultato raggiunto è soprattutto notevole perché
il significato della svolta è stato reso esplicito e ìne-
quivocahiìe, ed è stato posto il criterio fondamen¬
tale per le nuove costruzioni scientifiche. Si è usciti
— ìai
insomma dallo stato dì disagio proprio di chi, pur
insofferente del vecchio, non conosce ancora la nuo¬
va via da intraprendere ; e si è posto un quesito che
non può più restare senza una risposta categorica.
Rodolfo Benini, con squisita ironia e con una
critica che va anche al di là delle sue affermazioni
esplicite, ha accusato senz’altro l’economìa teorica
di essere una mezza scienza, e mezza « nel signifi¬
cato dimensivo dei termini, ossia dottrina che nelle
sue premesse fondamentali non ha gettato il seme
di questioni che pur le appartengono; questioni di
vita della stirpe o di potenza della Nazione; que¬
stioni di interventi o non interventi dei poteri pub¬
blici nei rapporti d’interesse privato; questioni an¬
che di scuole o di partiti economico-politiei. Certo,
ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta
in apposite lezioni dedicate alla politica economica,
alla storia delle dottrine, ecc. ; ma altro è che ne
discorra filari sistema, per la coltura generale de’
suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla
forza delle premesse; ed altro è che ne discorra,
perché così esige lo sviluppo logico degli enunciati,
previdentemente inseriti in uno schema introdutti¬
vo della disciplina ». « Ciò dipende », continua il
Benini, « anzitutto dalla ripugnanza che provano
non pochi economisti ad accogliere nei loro preli¬
minari scientifici il concetto dello Stato, quale fat¬
tore della produzione. Tale disposizione d’animo
non si giustifica menomamente ». E non si giustifica
perché « lo Stato è coevo all’uomo », perché tra
1 homo (Economicità e il civis non ci può essere so¬
luzione di continuità, perché infine solo « per un
capriccio dialettico » è possibile isolare la qualità
del cittadino dal soggetto dell’economia politica.
— 132 —
Né meno categorico è l'atteggiamento del Fo-
vel, il quale prende atto « che la scienza — ripe¬
tiamo ancora: la scienza nel suo stato più puro —
è negativa di fronte alle scelte statali, le esclude
da sé, non le mette neanche, a rigore, nel novero
delle scelte, è, insomma, negativa di fronte allo
Stato. Ciò può essere venuto per le origini antista¬
tali della scienza economica stessa; oppure per un
incolpevole e vergine oblio teorico: oppure insom¬
ma (sia detto con la massima prudenza) per un er¬
rore, che la ha viziata fin qui. Lasciamo andare: il
nascere del fatto poco ei importa. E ci importa, in¬
vece, il fatto stesso, che è questo: per la scienza
l’ipotesi statale, o, meglio, lo Stato-ipotesi è (op¬
postamente aH’individuo-ipotesi) la non economia;
e lo è solo, e solo perché la scelta statale implica
per definizione, la non libera scelta individuale ».
11 quesito, dunque, che si pone oggi alla scien¬
za può formularsi brevemente così : — È lecita ed è
scientificamente giustificabile una costruzione si¬
stematica dell’economia pura che prescinda dal con¬
cetto dì Stato e dal rapporto tra Stato e individuo?
E in caso negativo, in quale senso tale concetto va
introdotto nella scienza e a quali conseguenze teo¬
riche deve condurre?
Questo, il punto di partenza per un’intelli¬
genza critica dell’economia corporativa, e ci sem¬
bra ormai che nessuno onestamente possa eludere
il problema con una fin de non recevoir. Finché
il corporativismo s’intende come una mera espe¬
rienza pratica, i puristi possono disinteressarsene,
chiusi come sono nel loro preconcetto dualistico dei
rapporti tra scienza e politica, ina quando esso si
traduce in una perentoria istanza teorica, bisogna
— 133 —
pur decidersi ad accogliere o a respingere critica-
mente. E noi ci auguriamo di avere dall’esperien¬
za dei maestri un valido aiuto all’attuazione del no¬
stro programma.
Una volta posto il problema in siffatti termi¬
ni, il primo punto da chiarire e da precisare con¬
cerne, naturalmente, il significato stesso da attri¬
buirsi al termine Stato e, correlativamente, al ter¬
mine individuo. E su tale punto conviene insistere
con molta perseveranza, soprattutto perché il con¬
cetto di Stato sembra a prima vista il più semplice
ed evidente che ci sia, sì da poter su di esso co¬
struire senza preoccupazioni di sorta; ma la sicu¬
rezza, poi, con cui si procede su tale terreno viene
subito a mancare appena si cessi dal presupporre
noto il conceLto e si tenti di determinarlo effettiva¬
mente. 11 che ci sembra di poter dimostrare alla lu¬
ce degli stessi scritti sopra accennati.
11 Benini parla dello Stato, come di chi « prov¬
vede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giu¬
stizia, alla viabilità, all’istruzione, ecc. », e altrove
osserva che « il processo della ricchezza è la risul¬
tante di due fasci dì forze componenti: l’attività
individuale, singola o associata, e l’attività della
organizzazione politica, di cui lo Stato è l’espres¬
sione suprema ». Ora, questo linguaggio implica
un dualismo irriducibile di Stato e individuo, e
per quanto il vigile senso di concretezza che ispi¬
ra il Benini lo conduca a concepire i rapporti di
complementarietà delle due forze nel modo più in-
134
timo e indissolubile, sussiste tuttavia una radicale
contrapposizione di funzioni e di finalità che com¬
promette il sistema, Tanto è vero che il Benini av¬
verte infine il bisogno di mettere in guardia contro
la tendenza di attribuire « un maximum di fun¬
zioni [allo] Stato », perché « quel maximum si
accompagnerebbe ad un minimum di rendimento
del lavoro e delle libere iniziative ». L’assetto cor¬
porativo sarebbe ottimo sol perché « si tiene egual¬
mente lontano dai due estremi ».
Inutile dire che la critica contro il colletti¬
vismo, ripetuta dal Benini e mossa da tutta l’eco¬
nomia lihcrale a quella socialista, è esatta nella dia¬
gnosi e nella conclusione, ma occorre tener presente
che il socialismo è superato sol perché è superato
il concetto di Stato ch’esso implica, e che è quello
stesso del liberalismo, dal quale non riesce a stac¬
carsi neppure il Benini. Lo Stato, cioè, è circoscrit¬
to a un ente immaginario, in limiti imprecisabili, e
con personalità essenzialmente distinta da quella
degli individui che lo compongono. Si cambia cioè
10 Stato con un organo centrale, relativamente estra¬
neo alla vita della nazione e perciò sopraffattore
delle energie individuali. Di quest’organo — che è
poi la burocrazia — a ragione si diffida e giusta¬
mente si protesta contro l’attribuzione che a esso
si voglia fare di un maximum di funzioni.
Ma questo è lo Stato ancien regime, al quale
11 fascismo deve opporsi con tutte le sue forze,
perché essenzialmente contrario al suo spirito; lo
Stato non deve essere, non è, un organo fuori del-
Torganismo, una sovranità opposta ai sudditi, una
realtà sui generis diversa dal cittadino: lo Stato,
insomma, non è più quello contro cui insorgeva il
— 135 —
secolo elei lumi e che si è trascinato come misero
residuo nella storia del liberalismo. Lo Stato s’iden¬
tifica con l’individuo, in una sintesi idealmente as¬
soluta, e, di fatto, sempre più realizzabile e realiz¬
zata. Se noi cercassimo infatti di precisare i confini
dello Stato ci accorgeremmo subito di questo pro¬
gressivo suo immedesimarsi nella vita della nazione.
Dallo Stato alle provincie, ai comuni, agli enti pa¬
rastatali, agli enti morali è tutto un lento compe¬
netrarsi della vita pubblica in quella privata, sino
all’esperienza rivoluzionaria del fascismo che, pri¬
ma sul terreno più strettamente politico dell orga¬
nizzazione del partito , poi, e ben più radicalmente,
su quello dell’organizzazione sindacale, ha posto
decisamente l’esigenza di un combaciamento assolu¬
to della sfera dell’attività statale e di quella indi¬
viduale. Lo Stato contro il quale nacque il liberali¬
smo è veramente morto eoi morire dello Stato pro¬
pugnato dallo stesso liberalismo. E continuare oggi
a discutere dello Stato, illudendosi di poterlo in¬
dividuare entro quei limiti in cui lo si individua¬
va nel Settecento, significa perpetuare un equivoco
di gravissimo pregiudizio per tutte le scienze so¬
ciali. Il potere dello Stato non ba limiti e chiunque
tentasse di determinarne le funzioni resterebbe fa¬
talmente a mani vuote: ogni determinazione della
sua sfera rispetto agli individui sarebbe fondamen¬
talmente erronea.
Ritornando ora alle esemplificazioni del Belli¬
ni è facile spostare i termini del problema: uno
Stato come quello concepito dal fascismo, non prov¬
vede soltanto « alla difesa nazionale, alla sicurez¬
za, alla giustizia, alla viabilità, all istruzione, ecc. )),
ma provvede a tutto perché è immanente a tutto. Ed
— 136
esso perciò non può rappresentarsi come un fascio
dii forze da aggiungersi all’altro delle attività indi¬
viduali, bensì come le stesse forze individuali nella
loro vita solidale. Di quest unica vita sono manife¬
stazioni tutti i poteri pubblici e privati, centrali e
periferici: e, nel campo economico, il bilancio dello
Stato, quello degli enti pubblici, degli enti para¬
statali e morali, delle organizzazioni di partito e
sindacali, e infine di tutti i cittadini, che tutti nello
e per lo Stato vìvono. Ogni barriera che si volesse
porre a un punto della serie sarebbe affatto arbitra¬
ria e irragionevole. E si comprende, dunque, come
1 ideale del corporativismo non debba esser quello
dì rimanere egualmente lontano dai due estremi
(sopravvento dell’iniziativa privata o della pubbli¬
ca), bensì di rendere insussistente il problema eli¬
minando ogni differenza tra l’essenza delle due ini¬
ziative.
Certo, se per Stato s’intende la burocrazia, affi¬
dare ad essa l’economia nazionale non può non es¬
sere una mostruosa utopia: ma lo sforzo del fa¬
scismo deve essere appunto quello di sburocratiz¬
zare lo Stato, elevando ogni cittadino al grado di
funzionario pubblico. Il processo di trasformazione
non è dei più facili e dei più rapidi: v’è anzi il pe¬
ricolo di periodi di transizione in cui il fenomeno
burocratico si aggravi, e dia luogo a nuovi inconve¬
nienti. Si pensi che l’organizzazione sindacale e cor¬
porativa, prima di aderire in modo soddisfacente
alla realtà, è destinata in gran parte a pesarvi su
come una soprastruttura — vale a dire come una
burocrazia. Ma gli ostacoli non debbono arrestare
il cammino, anzi debbono porre la necessità di ac¬
celerarlo, sì da superare con energia sufficiente gli
inevitabili punti morti. E per accelerare il ritmo,
a me sembra che uno dei mezzi {ondamentali deb¬
ba essere fornito dalla scienza, la quale deve sgom¬
brare il terreno dai pregiudizi teorici che arrestano,
con la forza della tradizione, la stessa mano del¬
l’uomo d’azione.
L immedesimazione assoluta della vita dello
Stato con quella dell’individuo dà il criterio pre¬
ciso della riforma della scienza economica, la quale,
dunque, non è « mezza scienza nel significato di-
mensivo dei termini )), vale a dire nel senso di es¬
sersi occupata dell’individuo (una delle componen¬
ti) e non dello Stato (l’altra componente), ma mez¬
za proprio nel significato deteriore di scienza fon¬
data su premesse erronee, e propriamente sull’ipo¬
stasi di un individuo e di uno Stato inconcepibili,
o concepibili soltanto come manifestazioni patolo¬
giche (individuo anarchico e Stato tiranno).
ÀI quale ulteriore concetto sembra accennare
il Fovel nella chiusa del suo articolo quando dice
che per colmare l’iato tra le scelte dette libere del¬
l’individuo e le scelte dette non libere dello Stato
(( si può tentare di mostrare che anche le sedicenti
scelte libere dell’individiio non sono libere, ma eco¬
nomicamente imperative, quanto quelle statali; e
ciò perché sono esattamente prescritte dalle scelte
pure libere degli altri individui, ossia dalla società
economica. Oppure si può tentare di mostrare che
anche le cosidette scelte non libere dello Stato sono
libere, né più né meno che le scelte individuali;
- 138 —
e questo perché anche le scelte dello Stato non
sono altro, anch’esse, che scelte di individui nella
società economica ». Senonché per il Fovel, Stato
e individuo hanno ancora una loro particolare per¬
sonalità, e lo Stato conserva una fisionomia cor¬
pulenta, che rende estremamente difficile il processo
di risoluzione della sua autorità nella libertà degli
individui e viceversa. Quando l'iato sarà effettiva¬
mente colmato, il vero concetto di libertà economica
apparirà in tutta la sua luce e le forme stereotipate
della libera concorrenza e del monopolio, che re¬
stano a fondamento della costruzione del Fovel, si
risolveranno in uno schema economico ben altri¬
menti adeguato alla realtà.
II
SE ESISTA, STORICAMENTE, LA PRETESA REPU-
GNANZA DEGLI ECONOMISTI VERSO IL CON¬
CETTO DELLO STATO PRODUTTORE
Alla lettera sopra riportala del Benini rispose
anche L. Einaudi con il seguente articolo pubbli¬
cato in Nuovi Studi (1930, jasc. V, pp. 302-314).
Caro Renini,
1. Mi è accaduto solo adesao di leggete, una tua sug¬
gestiva lettera aperta pubblicata nel lasci colo di gen¬
naio-febbraio di quest’anno dei Nuovi Studi-, suggestiva,
perché costringe a pensare e a dubitare. Le questioni
« di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei
rapporti d’interesse privato; questioni anche di scuole
o di partiti economico-poi itici », sarebbero di quelle
questioni che dagli economisti sono discusse «fuori si¬
stema » ; apparterrebbero a quella « seconda metà della
scienza, quella che non s’insegua come scienza, ma piut¬
tosto come storia ed invano ne cercheremmo nella pri¬
ma metà i cardini d’attacco o i motivi premonitorii ».
Quale la spiegazione del fatto? fecondo te, eaao « dipen¬
de anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi
economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici
il concetto dello Stato, quale fattore della produzione ».
E benissimo aggiungi: «Tale disposizione d'animo non
— 140 —
si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza
è la risultante di due fasci di forze componenti : l’atti¬
vità individuale, singola o associata, e l’attività dell’or¬
ganizzazione politica, di cui Io Stato è l’espressione su¬
prema... Fa della scienza a metà colui che si ferma alla
prima componente c tace della seconda o l’assume come
« costante » lungo tutta la linea di condotta della sua
disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale,
alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all’istruzinne,
ccc., e trasforma così Intona parte della ricchezza pri¬
vala in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è
un produttore continuo di beni, servizi e ordinamenti
aventi carattere di stretta complementarità coi beni, ser¬
vizi e ordinamenti dell’iniziativa privata ».
2. Chiudo qui la citazione, perché, altrimenti, do¬
vrei riprodurre tutta la tua bella lettera. Né la chiudo,
per ridiscutere il problema della parte avuta dallo Stato
nella produzione della ricchezza; ma esclusivamente
per porre un problema di storia: chi sona quei cotali
economisti (non pochi, dici tu, e dal contesto del di¬
scorso sarebbero i più, sicché occorre affermare con¬
tro di essi, quasi come teoria nuova, la tesi dello Stato
come fattore necessario e inscindibile della produzio¬
ne), M i quali repugnerebbero ad accogliere nei loro pre-
J ) Appunto perché non intendo menomamente intervenire nella
sostanza della discussione aperta Ira te ed il prol. Spirito : ma
soltanto porre un dubbio storico su ehi e quanti siano coloro ■
quali reputarono alla tesi da te posta, così non discuto la critica
che a queeta tesi muove lo Spirito: implicare dessa, sebbene mate¬
riata di realtà, un « dualismo irriducibile di Stato ed individuo »
oramai superato dalle nuove concezioni dello Stato, le quali iden¬
tificano lo Stalo con l’individuo «in una sintesi idealmente ssso-
Ima, e, di latto, sempre più realizzabile e realizzata ». Vero è che,
incidentalmente, lo Spirito afferma ebe il suo dualismo è implicito
nel « linguaggio a da le adoperalo. Il che porterebbe a chiedersi
se, per avventura, non si traiti di un contrasto — Ira la tua (e
quindi fra quella degli economisti ebe io tento di dimostrare essere
identica alla tua) e la tesi dello Spirito — più di linguaggio — di
terminologia, che di parole. Se io possedessi la meravigliosa facoltà
«he in sommo grado aveva il compianto amico Vadali di tradurre
una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico,
da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla termino-
— 141 —
limiaari scientifici il concetto Hello Stato come fattore
della produzione?
La domanda non è impertinente. È rosi suprema¬
mente difficile sapere chi, in economia, ha detto o non
detto qualcosa, ei è dichiarato fautore od avversario di
un certo indirizzo, o teoria, soxT-attutto è così straordi¬
nariamente difficile riprodurre, anche usando il massi¬
mo scrupolo, esattamente il pensiero altrui che forse,
penso, sarehhe opportuno non citare mai nessuno e non
attribuire ad altri, neppur ricordati genericamente, un
qualunque pensiero.
3. La mia impressione è che di codesti negatori o
dimentichi dello Stato, non ce ne siano oggi e non ce
ne siano stati mai tra gli economisti. Non bisogna scam¬
biare per negazione o repugnanza atteggiamenti men¬
tali profondamente diversi. Se l’economista intendeva
compiere una ricerca del tipo che diceBi « astratto » —
ed i classici conseguirono i loro maggiori successi per tal
via — era ovvio ragionassero sulla base di premesse
semplici, ridotte talvolta ad una sola, e giungessero a
conseguenze vere nell’ambito delle premesse fatte. Se
tra le premesse non aveva luogo lo Stato, sarehhe illo¬
gico tuttavia affermare che essi lo negassero o vi repu¬
gnassero. Anzi, il loro stesso procedimento logico di-
logia economico pura normativa in quella applicala precettistica,
potrei tentare di ritradurre la pagina dello Spirilo nella formuli-
allea tua, orna economialica classica. Sarebbe un esercizio feconda,
simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in gioventù;
di RBporre 6uccessivamenie una data dimostrazione economica prima
in linguaggio di Adamo Smith, e poi di Ritardo e quindi di Mar»,
di Stuart Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come fa¬
ceva Loria, dopo fatti, ripoBti nel cassetto. Giovano ad ingegnate
la umilio ad ognuno di noi, quando per un momento ci illudiamo
dì aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questo novità poteva
essere stala delta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei
vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero.
Ma non posaono né devono impedire che ogni generazione usi quel
linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e d’inlen-
dere il mondo. Si riscrive la Binria ; perché non si dovrebbe riscri¬
vere la scienza economica, prima in termini di costo di produzione,
e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di equilibrio
dinamico?
— 142 —
mostrava che essi affermavano la esistenza dei fattori
esclusi e riservavano ad allra indagine il tenerne conto.
Si può criticare il metodo, si può cercare di dimostrare
che con quel metodo non si può giungere alla scoperta
della verità; non si può tuttavia dire, senza offesa alia
verità storica, che a causa della adozione di quel me¬
todo essi negassero la esistenza dei fattori da eui in
prima approssimazione astraevano. Tanto poco negava¬
no o repugnavano che, per lo più, quando esei dall’in¬
dagine astratta si voltavano alla concreta, dalla costru¬
zione di schemi ipotetici passavano allo studio dei pro¬
blemi reali, ossia complessi e vivi, essi per lo piò face¬
vano nelle loro discussioni gran parte allo Stato.
4, Si può ammettere, sebbene storicamente si deb¬
ba andare assai guardinghi nel fare affermazioni ge¬
nerali in proposito, che gli economisti, a partire dai
membri della « setta » fisiocratica, attraverso allo
Smith sino allo Stuart Mill non compreso (e cioè gros¬
so modo, dal 1750 al 1850), siano stati contrari all’inter¬
vento dello Stato e favorevoli al laissez faire, laisser
passar. Ma fu già dimostrato (c(t., per le fonti, una mia
recensione del libretto The end oj laissez-faire del Kev-
nee, in La Riforma Sociale, 1926, p, 750 e eegg.) che sif¬
fatta contrarietà non era teorica, ma puramente contin¬
gente. l 'avversione all’intervento dello Stato non ave¬
va cioè alcuna connessione logica necessaria coi postu¬
lati fondamentali della dottrina economica, non faceva
corpo, come dici tu, con i cardini d’attacco della scien¬
za; ma discendeva da ragioni contingenti. L’osservazio¬
ne degli effetti dannosi delle vecchie corporazioni d’arti
e mestieri, e del vincolismo economico e doganale spie¬
gano abbastanza il liberalismo di Adamo Smith e dei
classici. Dopo le ricerche di Nicholson in A Project oj
empire (di cui il concetto dominante è che per lo Smith
la considerazione delTacquisto della ricchezza deve ce¬
dere dinnanzi a quella della difesa ossia della grandezza
dello Stato: de.je.nce is oj much more impor lance than
opulence)-, dopo Laureo libretto dello Schùller, Les éco-
nomistes classiqu.es et leurs adversaires fin cui viene di¬
mostrato, testi alla mano, che la accusa rivolta agli eco-
— 143 —
Doratati di avere creato un fantoccio (il eosidetto homo
rp.conomicus] avulso dai luoghi, dai tempi, dalla storia,
c di aver dato ad un puro strumento di indagine figura
di realtà concreta o storica, è una invenzione gratuita
dei loro avversari socialisti, socialisti della cattedra, eco¬
nomisti storicisti, ecc. eec.], non è più lecito attenersi ad
una tesi dimostrata. all’iiifuori di ogni dubbio, contraria
alla verità storica. Quegli stessi economisti, i quali affer¬
mavano i danni di certe determinate maniere di inter¬
vento dello Stato reputate feconde di male, altrettanto
recisamente affermavano la necessità rii quell’azione
(« azione » e non « intervento », ae la parola intervento
implica il concetto che lo Stato si immischi sempre in
cose non sue] nelle maniere che reputavano più con¬
facenti all’indole dello Stato e più vantaggiose alla col¬
lettività.
5. S'intende che sempre, prima e dopo il 1850, fu
d’uopo non occuparsi degli imitatori, dei pedissequi, dei
sicofanti i quali colgono a volo le idee che corrano nel¬
l’aria ed impasticciando scienza e pratica, un po’ di sen¬
so comune e molti pregiudizi correnti, si gittano dalla
parte che è alla moda e dimentichi oggi di quel che
avevano asseverato ieri, oggi sono liberisti e domani, in¬
differentemente, interventisti. Costoro non sono scien¬
tificamente nulla, sebbene siano i maggiori fabbricanti
di scuole, di conventicole protezioniste, interveniste, li-
beriste, cattedratiche e delle vane ingiurie che i rispet¬
tivi adepti ai scagliano l’un l'altro.
6. Dopo il 1850, la caratteristica fondamentale del
pensiero degli economisti in questo particolare campo
(naturalmente essi si occuparono sovratutto di problemi
più difficili, che dai laici sono detti, per dispregio, tecni¬
ci e che sono e probabilmente sempre saranno i proble¬
mi economici specifici) è stato un approfondimento vie
maggiore del problema dei rapporti fra Stato, indivi¬
duo, società, gruppi sociali. Da Stuart Mill a Marshall,
da Marshall a Pigoli è tutta una indagine minuta e deli¬
cata, la quale talvolta diventa un ricamo tenuissimo, ri¬
volta a precisare, a limitare, a scrutare i metodi di mas-
— 144 —
situi 77 azione della ricchezza, del benessere, della felici¬
tà, della potenza degli uomini organizzati in società.
Come è accaduto in tutte le scienze progressive, ogni
passo innanzi si innesta su perfezionamenti precedenti
ed è preludio a perfezionamenti successivi. Nella nostra
chiesa non è di moda la parola superamento, che veg¬
go assai usata tra ì filosofi; ma ben potrebbe tale parola
eesere usata ad indicare gli stadi successivi del pensie¬
ro economico, di cui ognuno non nega ma contiene e
trasforma gli stadi precedenti c sarà contenuto e tra¬
sformato negli stadi fuluri.
7. Perché, caro Benini, non ricordare il contributo
che taluni italiani colleghi tuoi e miei maestri hanno
dato a queata meravigliosa ascesa della scienza econo¬
mica? Per ragioni scientifiche di divisione del lavoro, è
toccato a quella sottospecie degli economisti, la quale
studia ed insegna la cosiddetta scienza delle finanze, di
occuparsi dello Stato e dell’indole teorica del suo ope¬
rare. Piace anche a me il pensiero che supera Stato ed
individuo ed insieme li fonde; ma piace non meno e per
la difficoltà dell’impresa soddisfa intellettualmente di
più lo sforzo di coloro che hanno tentato di ficcare lo
sguardo in fondo all’azione dello Stato ed hanno tenta¬
to definire in che cosa consistesse la sua azione. Scarta¬
ta la concezione errata dì uno Stato il quale interviene
a cose fatte, a ricchezza prodotta e preleva l’imposta
per consacrarla, ossìa distruggerla, sia pure per altis¬
simi fini pubblici (ed un ultimo vaghissimo ricordo di
questa concezione lo vedo nelle tue stesse parole, lad¬
dove parli di uno Stato, il quale (( trasforma buona par¬
te della ricchezza privata in potenza collettiva », dove
l’errore involontario sta nel supporre che esista una ric¬
chezza « privata » da trasformare, dopoché essa è stata
prodotta, in qualcosa di collettivo, mentre la realtà è
che la ricchezza che lo Stato trasforma in potenza col¬
lettiva, non fu mai privata, ma fin dall’inizio era prodot¬
ta dallo Stato, se per prodotta intendiamo cosa che non
sarebbe nata se lo Stato non fosse esistito e non avesse
operato secondo l’indole sua), i teorici italiani intorno
al 1890 assai discussero intorno all’indole dell’apporto
_
— 145 —
od azione dello Stato. Tu bene bai scritto, continuando,
che nella atessa maniera come i beni, i servizi e gli or¬
dinamenti delTiniziativa privata « ai sviluppano in
quantità e varietà, col progredire dell’incivilimento, e
fanno luogo a rapporti viepiù complessi e differenziati
Ira gli individui o i gruppi, così i [beni, servizi ed ordi¬
namenti] loro complementari forniti dallo Stato non
Iranno colonne d’Eicole che li fermino ad un punto ob¬
bligata ». Quarantanni fa Ugo Mazzola aveva già scrit¬
to: c
(pp. 78-79).
Che il Croce non comprenda l'accusa di anti¬
storicismo da me rivolta alla scienza economica,
non deve certo meravigliare chiunque legga i perio¬
di ora riportati. L’economia come l’arilxnetiea non
cangia quale che sia il corso della storia : l’economia
è matematica anch’essa, e quattro e quattro hanno
fatto e faranno sempre otto. Con quale entusiasmo
accoglieranno queste parole ì nostri economisti ma¬
tematici, che giurano sulla purezza della loro scien¬
za 1 Ma che queste parole avessero dovuto suo¬
nare con tale durezza anche sulla bocca di un filo¬
sofo e di uno storico, non ci saremmo davvero
aspettato. Oh, dunque, anche per il Croce la distin¬
zione tra economia pura ed economia politica è
ovvia? Che ovvia sia sembrata e sembri a tanti eco¬
nomisti — non a tutti — è cosa fuori dubbio, ma
non crede il Croce che io, aprendo quei tali trattati
cui egli allude, abbia già dimostrato come, in real¬
tà, la distinzione non stia né in cielo né in terra, e
sfugga immediatamente dalle mani, appena si cer¬
chi comunque di precisarla? Ecco, io non vorrei
ritorcere l’accusa di scarsa conoscenza delle opere
degli economisti, ma non so proprio come spiegar¬
mi questa fiducia illimitata che il Croce ha sull’e¬
sistenza effettiva di un’economia pura e, peggio an¬
cora, di una economia matematica che non abbia
fondamenti illusori. Non si lasci intimidire dall ap¬
parente rigore delle ben collegate serie di formule,
penetri un poco in questo mondo di superiore
tecnicismo e veda se gli sia possibile trovare un ten¬
tativo sistematico di economìa matematica — nella
possibilità e opportunità del metodo matematico
— 196 —
nella determinazione dei rapporti di alcuni feno¬
meni economici non ci può esser dubbio — che non
poggi su basi di creta e non si riattacchi a presup¬
posti affatto arbitrari e verbalistici.
L articolo del Croce si chiude con un esempio,
che dovrebbe provare ad oculos la riduzione allW
surdo dell’economia attualizzata. Ma l’esempio —
oltre la poco simpatica e poco generosa ironia ver¬
so un uomo che merita tanto rispetto — riesce a
provare soliamo una cosa, vale a dire la poca co-
scienziosilà di un critico che pretende di far giusti¬
zia di un tentativo scientifico, artificiosamente ridu-
cendolo a una sua particolare espressione. Poeti
giorni prima che uscisse il fascicolo de La Critica
era apparsa sul Giornale critico della filosofia ita -
liana la mia recensione del libro di Emilio La Boc¬
ca [Abbozzo di una interpretazione idealistica del¬
la economia politica , Perugìa-Vcnezia. «La Nuo-
va Italia », 1930, pp. vm-295): che io non intenda
a quel modo l'identità di scienza e filosofia, al Cro-
ce avrebbe dovuto risultar chiaro, e che nel libro
dei La Rocca io veda Io stesso pericolo che vi vede
il Croce, anche questo avrehhe dovuto essere evi¬
dente a chi si fosse accinto alla discussione con
animo sereno. Ma di serenità oramai il Croce non è
piu capace e prima di ogni altra cosa egli cerca di
convincersi che le nostre « manipolazioni pseudo-
dottrinali siano più o meno direttamente a servigio
di equivoci ideali », che lo autorizzino a diicuter-
— 197 —
uè in maniera astiosa e ingiusta. Terreno, questo
dell ingiuria, nel quale sarebbe vano seguirlo, sia
che si cercasse di pagar della stessa moneta eia che
si tentasse di persuadere dell’errore. In chi lavo¬
ra con fede, trascurando frutti che pur sarebbe fa¬
cile (e quanto facile!) raccogliere, la ripetuta insi¬
nuazione del Croce può gettare solo un’ombra di
tristezza: forse un giorno, ritornando con altro ani¬
mo su queste discussioni e avendo altri elementi per
giudicare gli uomini di oggi, egli sentirà il rimorso
dell’ingiustizia commessa.
Ed ecco la recensione del libro del La Rocca :
È un audace tentativo di dominate nelle sue grandi
linee tutta la scienza economica da un punto di vista
rigorosamente idealistico : un tentativo che va conside¬
rato con molta attenzione da quanti sono persuasi della
necessità di porre in primo piano il problema del rap¬
porto tra scienza e filosofìa. 11 La Rocca, dopo aver ac¬
cennato al principio fondamentale dell’attualismo, cer¬
co appunto di chiarire nel secondo capitolo il concetto
di scienza in generale e di scienza empirica in partico¬
lare, e conclude « che se non può proprio parlarsi di
identificazione perfetta tra quella che è l’attività del
filosofo e quella che è l’attività dello scienziato, non
deve potersi escludere tra esse una parentela molto
stretta che, mutate talune circostanze, potrebbe diven¬
tare quasi tra esee una vera e propria identificazione »
(pp. 19-20). In verità, questa soluzione, così schemati¬
camente riassunta, non può non apparire alquanto in¬
decisa e problematica, né tutte le argomentazioni che
la precedono e la seguono valgono a farci superare ef-
fettivamente lo stato di dubbia da casa ingenerato. L’Au¬
tore ai oppone con malta efficacia a una concezione ne¬
cessariamente naturalistica della scienza, ma quando
si tratta di giungere alla estrema conseguenza di tale
critica arretra un po’ perplesso e ripristina il dualismo
che voleva eliminare: la distinzione di scienza e filo¬
sofia, dialetticamente negala con acutezza non comune,
ai riafferma infine in modo categorico e nel senso forse
più pericoloso. « Ma », osserva infatti il La Rocca, « se
una distinzione rigorosa Ira le due non si può avere
perché non può nel fatto aver luogo, non è mica detto
che una distinzione dedotta dal diverso oggetto o fine
che entrambe perseguirebbero non si possa avere. Si
può avere di fatti, consistendo la prima nella risolu¬
zione nello spirito della realtà universale, e l'altra nella
risoluzione in esso di un aspetto particolare della realtà
universale » (pp. 33-34). Dove è. chiaro che la realtà
universale viene abbassata a oggetto e che la filosofìa si
concepisce ancora al vecchio modo intellettualistico.
La soluzione non molto rigorosa del problema ha
avuto le sue necessarie conseguenze nella scelta dei cri¬
teri seguiti per determinare i principi fondamentali del-
1 economia. La filosofia come scienza della realtà uni¬
versale è rimasta un presupposto di fronte all’economia
che è scienza di un particolare aspetto di quella realtà,
sì che la ricostruzione filosofica dell'economia è stala
intesa nel senso di ricondurre ì principi scientifici alle
categorie filosofiche. E il La Rocca ha potuto perciò
avvicinarsi all’economia dall'esterno c tradurre i prin¬
cipi scientifici in termini altualisticì, senza preoccupar¬
si troppo della fecondità di un tale procedimento, desti¬
nata a esaurirsi in una zona di confine tra la scienza c
la filosofìa, intese al vecchio modo.
Concepito in tal guisa il problema, la prima preoc¬
cupazione del La Rocca è stata quella di individuare
il principio primo della scienza economica, e l’indivi¬
duazione naturalmente e stata da lui cercata non sul ter¬
reno storico dell’origine c dello sviluppo della econo¬
mia, bensì sul terreno filosofico della dialettica dello
spirito. L a priori è stalo inteso non nell’attualità dell’e¬
sperienza scientifica, ma come la determinazione pre-
— 199
scientifica del principio della scienza. E il principio è
diventato allora un momento assoluto della dialettica
dello spirito, astoricamente concepito. «Ma», dice in¬
fatti il La Rocca, parlando del rapporto tra economia
ed etica, « se per quel che riguarda la sua legittimità
filosofica esso si identifica perfettamente col principio
dell’eticità, non si deve concludere insieme, che non
possa avere un suo oggetto speciale c inconfondìbile
pur sulla base della sua realtà etica. Es90 può ben af¬
fermare un suo originale compito: quello della spiritua¬
lizzazione-materializzazione, deH’acquisizione-alienazio-
ne, della valorizzazione-degradazione, il quale non è
certo il compito della eticità che, se lien l’occhio al
primo termine, non lo tiene, nello stesso tempo, ad
entrambi » (pag. 131).
Tale procedimento dialettico non si limila alla de¬
terminazione del principio primo, ma si estende a tutti
i concetti tradizionali della scienza economica, e il La
Rocca tenta di dedurre apeculativamente anche i ter¬
mini di produzione, circolazione, distribuzione e con¬
sumo; e finisce infine con l’idealizzare la figura dell im¬
prenditore identificandolo addirittura con il soggetto
economico. Ma per quanta fede e calore l’Autore pon¬
ga in siffatta ricostruzione, l’astrattezza del procedi¬
mento non può non colpire l’attento lettore, che vede,
pur attraverso l’esigenza giustissima di cui il La Rocca
è tra i primi sostenitori, il grave pericolo di un ritorno
all’hegelismo o al filosofismo antiscientifico.
Ho voluto insistere più sul lato negativo che su
quello positivo del libro del T,a Rocca — che pur è
ricco di belle pagine e di acutissime critiche — perché
ritengo necessario e urgente sgombrare nettamente il
campo di tutti quei preconcetti filosofici e scientifici
ohe non consentono ancora di giungere all’assoluta con¬
vinzione di un’unica forma del sapere e alla conseguen¬
te ricostruzione storicistica della scienza. L idealismo
attuale ha dato il colpo di grazia al concetto intellet¬
tualistico di categoria, che è vano voler fare risorgere
comunque in una malintesa determinazione di prin¬
cipi assoluti. I principi di tutte le scienze non possono
che ricercarsi sul terreno concreto dell esperienza sto-
sebbene egli siTuìa^ R ° CCa ’
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IL METODO MATEMATICO
IN SOCIOLOGIA E IN ECONOMIA
In un articolo, Verso Veconomia corporativa ,
pubblicato nei Nuovi studi (1929, pp. 233-252: ora
riprodotto nel volume La critica dell’economia li¬
berale, Milano, Treves, 1930) ebbi occasione di oc¬
cuparmi del professor de Pietri Tonelli e di ac¬
cennare agli errori metodologici delle sue teorie
di politica economica. Esemplificando in una nota,
scrivevo : « Rinviando la critica della concezione
ebe il de Pietri Tonelli ha della scienza della po¬
litica economica a quando sarà pubblicato il tratta¬
to che I A. annunzia, ci limitiamo qui, in via d’e¬
sempio, a riferire una delle presunte leggi della
nuova disciplina. Nella prolusione citata {Di una
scienza della politica, in Rivista di politica econo¬
mica, 1929, fase. 1) si afferma perentoriamente che
« gli impulsi non si possono creare, né distrugge¬
re «, che, « se gli impulsi esistono, si trovano in
proporzioni diverse in tutti gli uomini, dello stesso
tempo e di tempi diversi )), ecc. Non ci meraviglie¬
remmo se tutto ciò, prima o poi, fosse tradotto in
termini matematici e additato come una delle
— 202 —
eipiesaioni della scienza più pura ; ma la facilità
che cobi bì dimostra di trasportare sul terreno scien¬
tifico i termini più empirici e indeterminati non
può non rendere diffidenti contro le leggi dell'eco¬
nomia razionale. La mentalità è sempre la stessa,
e cioè — piaccia o non piaccia l'aggettivo essen¬
zialmente dogmatica, come potrebhe riconoscere
anche il de’ Pietri Tonelli, qualora provasse a do¬
mandare a uno studioso di psicologia e se Raffermare
che gli impulsi non si creano né si distruggono pos¬
sa avere un qualsiasi significato men che banale »
(pagg. 235-236).
Come risposta a questa critica il de' Pietri
Tonelli non ha trovato di meglio che recensire con
troppo evidente acrimonia il volume in cui Parti-
colo è stato riprodotto (Rivista di politica economi¬
ca, 31 dicembre 1930, pp. 1014-1015). Ma a una
recensione che si limita a una filza di improperi non
è il caso di ribattere : la polemica diventerebbe per¬
sonalistica e quindi estranea ai fini di una discus¬
sione scientifica. Sarà piuttosto opportuno prende¬
re in esame quel trattato che allora il de Pietri
Tonelli ci annunciava e di cui recentemente è ap¬
parso il primo volume (Corso di politica economi¬
co, voi. I, Introduzione, Padova, Cedam, 1931,
p. 216). Purtroppo le previsioni contenute nella
mia nota sono state confermate dalla realtà, e sarà
sufficiente qualche assaggio perché chiunque vo¬
glia giudicare con animo sereno se ne possa con¬
vincere.
Dopo aver discusso in generale dell'oggetto
della politica economica, 1\A. determina gli elemen¬
ti fondamentali dello studio. « Per limitare », egli
scrive, « o meglio, per delimitare, il campo della
— 20.1 —
ricerca politica che ci interessa e metterlo alla por¬
tata della mente dello studioso, si può cominciare
con lo sceverare e considerare, in sé, e nelle loro
reciproche relazioni, tre elementi fondamentali
della realtà sociale, cioè della vita delle cerehie so¬
ciali. Insieme coi fatti di natura, questi clementi
formano la vita deU’universo. Tali elementi sono
precisamente: 1) gli impulsi, che indicheremo con
I, cioè i moventi, o le determinanti, o gli stimoli,
ecc., quali i bisogni, i sentimenti, gli interessi, le
passioni, il raziocinio, ecc., assai vari e che si con¬
viene debbano effettivamente esistere e operare,
per indurre gli uomini ad agire e ad esprimersi ; 2)
gli atti, che indicheremo con A, cioè le azioni, di
diversa specie, a cui si ritengono indotti gli uomini,
soprattutto dagli I; 3) le espressioni, che indiche¬
remo con E, cioè le manifestazioni di linguaggi, ge¬
stiti, verbali e scritti, riguardanti appunto gli I e
gli A » (pag. 7).
Tutta la costruzione del sistema è impostata
su questa tripartizione della realtà sociale, sì che
convien fermarsi al limitare e domandarsi quale
sia il carattere e la validità scientifica di tali pre¬
supposti. È chiaro che una distinzione fra impulsi,
atti ed espressioni non può avere valore sistematico
se non si giustifica alla luce di tm criterio scientifi¬
co, ed è chiaro che un tale criterio non può trovar¬
si se non nella disciplina che si occupa ex professa
di tali fenomeni. La distinzione, in altri termini,
ha bisogno di una giustificazione logica che le ven¬
ga dalla psicologia: ogni allra giustificazione sareb¬
be di carattere empirico e però irrilevante ai fini di
un sistema scientifico. Ma, intanto, dal punto di vi¬
sta psicologico, nessuno potrebbe dare un qualsiasi
— 204 —
valore a quella distinzione, affatto arbitraria aia
per la scelta degli elementi, sia per la loro defini-
zione, sia per l’interferenza dei rispettivi campi,
bolo chi non ha alcuna dimestichezza con questi
studi può illudersi di dare un significato critico a
termini così radicalmente antiscientifici.
. Si P° lr ehbe, a questo punto, porre una pregiu-
disiale perentoria a tutto il sistema escogitato dal
de Pietri Tonelli e chieder conto di tali presuppo¬
sti, esihiti senza alcuna garanzia della loro legitti¬
mità. Ma noi vogliamo far credito all’À. e ammet¬
tere che si possa accettare, su un terreno meramen¬
te astratto, una classificazione ottenuta con un gros¬
solano senso comune. Se non che, riconosciuto nel
senso connine o nell’opinione il fondamento della
distinzione, è possibile pervenire da essa a risulta¬
ti che trascendano la sfera del senso comune e
dell’opinione? In altri termini, se la distinzione ha
carattere empirico, può da essa ricavarsi una qual¬
siasi conclusione non empirica? La risposta non do¬
vrebbe esser dubbia, e il lettore dovrebbe aspettar¬
si che nel resto del volume si continuasse a discu¬
tere mantenendosi sullo stesso terreno sul quale
poggiano gli elementi fondamentali. Ma le cose,
purtroppo, procedono ben diversamente, perché,
appena esposta la distinzione delle tre classi, le
classi stesse vengono ipostatizzate e si comincia a
giuncare con esse come con quantità esattamente
definite. Le tre classi a loro volta si suddistinguono
m classi minori, in cui l’arbitrio della definizione
e sempre più palese, ma nelle quali la rigidità del
metodo appare via via più dogmatica. La molteplì-
cita delle classi acquista corpulenza numerica, e tra
lettere e numeri si trova subito il materiale per una
— 205 —
trasformazione in termini matematici. Dopo poche
pagine le grossolane definizioni si sono cangiate
in entità aritmetiche c dalla penna tecnicamente
formidabile del de Pietri Tonelli cominciano a
scaturire le formule algebriche. Per chi volesse de¬
libare la bontà del metodo riportiamo il seguente
periodo: « Così ad es., in 5a la ed Iy possono, ne¬
gli individui e quindi nelle C. accentuarsi, palesan¬
do individui e C materialistici; in 82 , Ix ed le pos¬
sono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi
palesando individui c C spiritualistici; in II 2 , Ih
ed le possono, negli individui c quindi nelle C, ac¬
centuarsi, palesando individui e C aperti alle no¬
vità nel campo spirituale; in 122 , Ih ed Iy possono,
negli individui e quindi nelle C, accentuarsi, pale¬
sando individui e C aperti alle novità nel campo
pratico; in 22 , la ed Ih possono, negli individui e
quindi nelle C, accentuarsi palesando individui e
C inclini a rinnovarsi nel loro interesse, poiché co¬
loro i quali hanno lai ,2 ed Ib son coloro che voglio¬
no salire nel campo economico e in quello politico
e son disposti alle mutazioni necessarie » (pp. 39 -
40.) Son cose che farebbero sorridere ironicamen¬
te, se poi non atterrissero con la conseguenza di
duecento pagine irte delle più complicate formule
matematiche, sotto le cui lettere e i cui numeri si
celano le elucubrazioni psicologiche e sociologiche
del professore de’ Pietri Tonelli, ad ineffabile gau¬
dio dei suoi studenti.
Non è il caso, naturalmente, di dimostrare ciò
che ha solo bisogno di esemplificazione: casi simili
di aberrazione scientifica si spiegano solo con mo¬
tivi di carattere patologico che fanno smarrire ogni
contatto con la realtà e con quello stesso buon sen-
— 206 —
so con cui la imitazione vorrebbe iniziarsi. E tanto
più grave diventa la sensazione del patologico,
quanto più l’A. insiste sul carattere obiettivo delle
sue ricerche, facendo amene riserve sulla loro at¬
tendibilità. Come non rimanere addirittura scon¬
certati leggendo, dopo non poche costruzioni mate¬
matiche relative agli impulsi, che « ancora non sap¬
piamo se gli I siano una nostra astrazione, per co¬
prire la nostra ignoranza, non esistendo di fatto che
gli A; ovvero se gli 1 siano effettivamente una realtà
finora poco o nulla conosciuta »? (pag, 44).
Le constatazioni ora fatte a proposito del li¬
bro del de 1 Pietri Tonelli non vogliono limitarsi a
un caso particolare, ma dal caso particolare, in cui
l’assurdità giunge alla massima evidenza, debbo¬
no estendersi un po’ a tutti i tentativi di mateinatiz-
zare i fenomeni sociali e alla stessa economia mate¬
matica quale è comunemente intesa. L’unione della
psicologia e della sociologìa con il metodo matema¬
tico è una delle espressioni più gravi della menta¬
lità antiscientifica che domina nel campo delle
scienze sociali: e non è ormai lecito ritenere comun¬
que valido uno solo dei tentativi compiuti in tal
senso. Il che, si badi bene, non è dovuto a una im¬
possibilità costitutiva di applicare la matematica a
siffatti fenomeni, bensì all’incapacità di ridurre a
unità matematiche ì fenomeni stessi. E l’incapaci¬
tà si spiega eoi fatto che, se gli studiosi i quali si
cimentano nell’impresa hanno una preparazione
— 207
matematica sufficiente, non hanno poi alcuna pre¬
parazione scientifica alla intelligenza dei fenome¬
ni psicologici e non si sono resi conto delle critiche
mosse alla sociologia dalla speculazione moderna.
Sì che, assumendo a fondamento delle proprie ri¬
cerche concetti scelti e definiti arbitrariamente,
scambiano l’oggettivo col soggettivo, il determina¬
to con 1 indeterminato, e matematizzano indifferen¬
temente tutto, senza preoccuparsi di raggiungere
l’effettiva quantificazione degli elementi posti nel¬
le loro formule.
L’errore del procedimento appare con maggio¬
re evidenza nel campo delle ricerche sociologiche,
dove 1 incongruenza stessa delle conclusioni basta
a far giustizia dell inutile fatica degli studiosi che
tuttora vi insistono. Ma purtroppo nel campo della
cosiddetta economia matematica l’illusione è più
saldamente radicata e le conseguenze dell’errore,
meno manifeste, sono e diventano sempre più pe¬
ricolose. Siccome a nessuno può venire in niente
di negare l’opportunità e la necessità di servirsi
della matematica nella analisi dei fenomeni econo¬
mici, il senso del limite si smarrisce agevolmente e
messici per quella china si sdrucciola a poco a poco
dalla matematica utile all’economia all’economia ma¬
tematica, che è la negazione dell’economia.
Per comprendere la differenza che passa tra
l’uso lecito della matematica nel campo delle scien¬
ze economiche e la cosiddetta economia matemati¬
ca, è necessario distinguere la matematica come
mezzo di ricerca dalla matematica come sistema in
cui le ricerche vanno composte e fissate una volta
per sempre. Ora, la validità del primo criterio non
dimostra affatto la legittimità del secondo, che è fa-
208 —
talmente destinato a fallire. La matematica come
sistema, infatti, implica la necessità di quantificare
non solo i fatti economici, ma anche la ragione di
tali fatti; e il processo di oggettivazione, perciò,
investe illecitamente il mondo della soggettività.
Basta riflettere un poco sui risultati dell’econo-
mia matematica del Pareto per accorgersi delle mo¬
struose conseguenze cui dà luogo rillegittimo bi¬
sogno di presupporre quantificato o comunque
quantificabile ciò che condiziona lo stesso processo
di quantificazione. Perché gli economisti possano
una buona volta uscire dal vicolo cieco in cui si
sono andati a ficcare, occorre che si decidano ad
abbandonare la loro psicologia da dilettanti e a di¬
stinguere nettamente il fatto dall’atto, vale a dire
ciò che è necessario considerare in veste di numero
e ciò che del numero è condizione. Allora final¬
mente si accorgeranno che l’economia matematica
non è possibile, per il semplice fatto che il numero
è nella vita, ma la vita non può essere numero.
Per chi lavora, desideroso soltanto di allarga¬
re gli orizzonti e di aver la certezza di andare in¬
nanzi nel cammino della scienza, vi sono dei dis¬
sensi che hanno perfino maggior valore dei con¬
sensi. E sono i dissensi dei cattedratici, che, allar¬
mati e disorientati dai colpi inferti agli schemi
tradizionali della loro scienza, scendono in campo
uno dopo l’altro a difendere il loro regno perico¬
lante, non senza gratificare di burbanzose parole
chi osa ficcarvi lo sguardo un po’ a fondo. Ne ven-
gon fuori delle confutazioni, le quali, o raggiun¬
gono 1 effetto contrario per la inadeguatezza dei
vecchi criteri di giudizio relativamente alle nuove
teorie da combattere, o addirittura sbagliano il ber¬
saglio per la mancanza di quel tanto di buona vo¬
lontà che occorrerebbe per scorgerlo davvero, e per
la fretta di liberarsi di qualcosa che inconsciamen¬
te s intuisce come un grave pericolo. Effetto con¬
trario, dico, in quanto tali critiche finiscono col fa¬
re insuperbire chi ne è oggetto e col far trascurare,
in conseguenza, anche ciò che di valido può essere
al fondo di siffatte negazioni globali e violente.
H • Spirita
— 210 —
0 come non insuperbire, infatti, considerando
lo sforzo compiuto dal prof. Aldo Contento ’) at¬
traverso ima quarantina di pagine dedicate a di¬
fendere P homo (Bconomicus dalle, mie critiche.' 1
Come non insuperbire di fronte a tanta ingenuità
di argomenti e a tanta incomprensione della mia
tesi? Ma è un malinconico insuperbire, come quel¬
lo di cbi pur vorrebbe convincere e far sì che la
propria certezza, sempre più consapevole e salda,
diventasse la certezza degli altri. Il che purtroppo
non è neppur da sperare di fronte a chi troppo evi¬
dentemente è su una strada affatto diversa e parla
un linguaggio che non consente la discussione. La
risposta non può avere valore che per i terzi, vale
a dire per quelli che, affacciandosi più spregiudi¬
catamente alla questione, sono in grado di vedere
obbiettivamente e di fare quello sforzo di buona
volontà che è indispensabile per comprendere ciò
che si vuol giudicare.
Prendendo lo spunto da quanto affermarono
Alfredo Rocco e Filippo Carli nel congresso della
Associazione Nazionalista del 1914, che non vè
« forse un’azione economica che l’uomo compia
sotto la spinta del puro interesse economico, cioè
sotto l’impero del principio edonistico », il Con¬
tento giustamente fa osservare che Vhomo cecarw-
micini è una astrazione scientifica per nulla com¬
promessa dall’affermazione dei nazionalisti, con la
quale non si può non concordale. Dal punto di vi¬
sta scientifico una sola cosa importa ed è la preci-
J ) Albo Contento, Dilesa dell'ut homo cBconomicus ». L'ahomo
(Bconomicus » nello Staio corporativo, in « Ginnialo degli economi¬
sti ■», luglio 1931, pp. 485-522.
211
sazione del concetto di homo cecanomicus : preci¬
sazione alla quale 1 A. vuole addivenire dopo aver
convenuto con me che « molta dell'incertezza che
domina nello svolgimento e nelle conclusioni della
scienza economica, derivi da una mancata defini¬
zione di quel postulato, cui si assegnano valore e li¬
miti più o meno diversi » (pag. 487). Senonché rac¬
cordo si arresta a questa constatazione, dopo la quale
le vie divengono sempre più divergenti, per non
incontrarsi mai più. E, per cominciare, il Contento
attribuisce anche a me la mancata precisazione del
concetto, quasi che fosse possibile precisare ciò che
si nega in quanto imprecisabile. Io ho affermato
che l’uomo osconnmicus non può valere come ipo¬
tesi scientifica, perché è un termine scientificamen¬
te tutt altro che rigoroso e determinato: chi pensa
il contrario ha il dovere di mostrare la possibilità
di ima definizione valida, ma non può pretenderla
da me.
Alla definizione, per conto suo, si è accinto il
Contento, eliminando in via preliminare i comuni
concetti di egoismo, edonismo e utilitarismo. Que¬
sti concetti non sono adatti a caratterizzare Y'homo
(Bconomicus ed è stato un errore degli economisti
aver fatto implicitamente o esplicitamente una ta¬
le confusione. La dimostrazione che ne dà l’A.
non appare, in verità, gran che persuasiva, fondata
cont essa è sulle definizioni dei vocabolari dello
Zingarelli e del Tramatter: comunque possiamo
dare per buona la conclusione e passare all'analisi
del concetto che si vuol sostituire a quelli ritenuti
errati. « Richiamandoci al pensiero », scrive il Con¬
tento, « di quelli che fecero dell’fi. ne. il postulato
fondamentale, o la base di tutto l’edificio scienti-
— 212
fico, può dirsi deva intendersi, con tale designa¬
zione. 1 individuo immaginato nella sua pura con¬
dotta economico, la quale, nei moventi e nei fini, si
ritiene informata, generalmente, ad un tipo uni¬
forme corrispondente alla ricerca della massima
soddisfazione col minimo di sforzo cioè all'appli-
« azione integrale del principio del minimo mezzo »
(pag. 488).
Si comprende bene come dopo questa defini¬
zione l’A. non sappia giustificare la critica che si
fa dell 5 *. ck., né sappia vedere alcuna incompatibi¬
lità tra Vh. 03. e la concezione corporativa dell’eco¬
nomia. Un individuo che cerchi di seguire il prin¬
cipio del minimo mezzo non solo è perfettamente
a posto qualunque sia l’ambiente politico in cui
vive, ma è anche Punico individuo concepibile nel¬
la sfera della normalità. Il che riconosce esplicita¬
mente lo stesso Contento quando afferma: « Ogni
uomo vivente tende a comportarsi da h. ce., cioè
misurando la convenienza dei mezzi al fine, non
pure nel rampo stoltamente economico , ma in ogni
campo della sua esistenza, e affermiamo che, se co¬
sì non fosse, se ognuno non cercasse di condursi,
sempre, seguendo il principio della economicità,
danneggerebbe, alla fine, non pure se stesso, ma la
società tutta intera. Chi così non facesse, sistemati¬
camente, darcbhe prova non tanto di non essere un
egoista , quanto di essere... un incosciente! » (pa¬
gina 494). E allora? Relegate nella sfera delFinco-
scienza le azioni non subordinate alla legge del
minimo mezzo, l’uomo è sempre Vh. ce. non pure
nel campo stoltamente economico, ma in ogni cam¬
po della sua esistenza [il corsivo è mio], né resta
dunque modo di distinguere mediante tale princi-
— 213 —
pio le azioni economiche dalle non economiche. Il
presupposto fondamentale della scienza economica
si dissolve in una vuota generalità e la fictio del-
1 h. ce. si rivela ancora una volta assolutamente ina¬
datta a servire da ipotesi scientifica. Ex ore tuo iu-
dico te: e non v’è bisogno di aggiungere altro alla
confutazione che il Contento ha fatto involontaria¬
mente della sua definizione. Inutile dire che con
ciò stesso viene a mancare ogni ragion d’essere alla
critica mossa al Rocco e al Carli — con la quale
pur avevamo convenuto — tendente a mostrare il
carattere astratto dcll’ft. re.: se Yh. re. è colui che
segue il principio del minimo mezzo, h. re. è l’indi¬
viduo concreto nella pienezza della sua realtà, in
ogni momento.
Dato un concetto così anodino di li. re., si com¬
prende come il Contento non sappia spiegarsi il
suo necessario collegamento col liberalismo politi¬
co. Qualunque sia la concezione politica dell’eco¬
nomista, l’astrazione dell’/i. re. resta nella sua as¬
soluta integrità, perché rispondente a un rapporto
di mezzo a fine che non muta per il mutare del fine.
V’è Yh. re. nel regime liberale, come in quello auto¬
cratico come nel democratico, e Yh. re. adatterà
la sua condotta all’ambiente in cui vive seguendo
tuttavia in ogni caso il principio della economicità.
Di qui scaturisce la seconda accusa che il Con¬
tento muove alle mie affermazioni circa l’intervento
dello Stalo e il rapporto Ira individuo e Stalo. Per
l’A. esistono due modi d’intendere lo Stato e, in
— 214 —
particolare, lo Stato corporativo. « Secondo alcuni,
die partono dal vecchio e normale concetto dello
Stato, quale ente rappresentativo degli interessi ge¬
nerali dei cittadini, creato come organo ad essi su¬
periore, la figura dello Stato corporativo è una con¬
cezione che evitando i mali dello stretto individua¬
lismo, o liberalismo, come quelli del completo sta¬
talismo, riunisce di tali principi i vantaggi, crean¬
do nuove forme d'organizzazione politico-economi¬
ca, nelle quali le varie categorie ed i vari ed oppo¬
sti interessi sociali si riuniscono e con temperano,
consentendo al progresso della vita civile un più
armonico e intenso sviluppo. Secondo alcun altTo.
come, e specialmente, lo Spirito, la differenza con¬
sisterebbe in ciò, che la nuova forma, non pure av¬
vicina e unisce, ma chiaramente accomuna e imme¬
desima Stato e cittadino, in modo da renderli un
unico ente » (pag. 506).
Alle due diverse teorie il Contento fa seguire
i seguenti perentori giudizi: «La seconda delle ri¬
cordate concezioni è, a nostro avviso, inconsistente
per lo Stato corporativo, come per ogni altro Sta¬
to. Se pur corrispondesse alla realtà, e sarebbe, evi¬
dentemente, per qualunque Stato, ciò avrebbe im¬
portanza dall aspetto filosofico, più che economico.
La prima invece, fondamentalmente vera, parte da
un presupposto errato, quale quello della sempli¬
ce condotta negativa dello Stato nella organizza¬
zione liberale)) (pp. 506-507). E il Contento conti¬
nua mostrando come anche lo Stato liberale sia sem¬
pre intervenuto, in misura maggiore o minore, nell’e-
conomia della Nazione e abbia quindi influito sulle
economie individuali. Con l’economia corporativa
non si è mutato il problema, e l’intervento dello
— 215 -
Stato è rimasto sostanzialmente della stessa natura.
L’unica questione viva è quella dei limiti di tale
intervento, e i limiti sono stati certamente spostati,
richiedendo nìf individuo una limitazione più am¬
pio alla sua condona economica. Ld ecco come 1"A.
può concliiudere ripetendo ancora una volta la
concezione dello Stato contrattualista-liberale per cui
questo, « pur frenando l’arbitrio individuale »,
concede all’uomo ({il massimo di libertà compati¬
bile in lina civile convivenza » (pag. 522).
Ma, intanto, scartata come meramente filosofi¬
ca (che cosa mai il Contento intenderà per filo¬
sofia?) la teoria dell’identità di individuo e Stato,
mito il ragionamento ha preso altra direzione e la
mia tesi, che pur si voleva confutare, non è stata
neppure sfiorata. Io volevo contrapporre Stato libe¬
rale e Stato corporativo in quanto il primo è con¬
cepito come Stato limite delle libertà individuali e
il secondo invece come Stato potenziatore delle
libertà stesse: volevo contrapporre al dualismo di
individuo e Stato, e alla conseguente distinzione di
economia individuale ed economia statale, l'unità
dei due termini e la negazione dell economia indi¬
vidualisticamente concepita: volevo insomma ne¬
gare, insieme alla vecchia concezione economico-
politica dello Stato, quel concetto di homo cecono-
micus che il Contento si affanna a difendere. Ma
la risposta dell'A. lascia assolutamente impregiu-
dicala la questione, perché gira, senza affrontarlo,
proprio il principio fondamentale della mia cri¬
tica, vale a dire quello che dà significato e valore
a tutte le particolari conseguenze. Quell’ indivi¬
duo che vive nello Stato senza essere lo Stato
e che perciò può venir limitato nella sua liher-
- 21o
tà dallo Stato stesso; quell'individuo che ha finì
propri, realtà propria e diversa, sia pure in
parte, dall’organismo di cui è espressione; quel-
1 individuo è appunto l’esponente del liberali¬
smo politico e del liberalismo economico, in net¬
ta antitesi col corporativismo come è stato da
me teorizzato. Quell’individuo si è scientificamente
dimostrato irreale, e con lui è venuto a mancare
ogni fondamento alla ficiio dell’homo oeconomicus
di cui è il presupposto necessario. Non avendo in¬
teso né avendo comunque analizzato questa nega¬
zione perentoria, il Contento è rimasto anche lui
sulle orme del vecchio liberalismo, precludendosi
la via a ogni comprensione del significato rivolu¬
zionario della concezione politica del fascismo e
del corporativismo. Al quale proposito il Contento
crede di scoprirmi in grossolana contraddizione,
quando io, pur avendo riconosciuto proprio di ogni
Stato il carattere dì immanenza all’individuo, af¬
fermo esplicitamente che solo l’economia corpora¬
tiva pttò dirsi sul serio scientifica. « Confermato
così, anche su questo punto », dice infatti l’A., « il
carattere di congiunzione, o di derivazione, dello
Stato corporativo da quello liberale, non possiamo
spiegarci come lo Spirito, che asserisce non potersi
separare, nel campo economico, la concezione della
vita dello Stato da quella delle economie indivi¬
duali, dato che lo Sialo interviene sempre in que¬
ste, sostenga poi che soltanto l’economia corpora¬
tiva sia degna del titolo di scientifica, scrivendo;
« che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita
individuale non è verità che s’instauri col regime
corporativo, né è limitata alla vita politica dell’Ita¬
lia di oggi: ma mai come nell’Italia di oggi que-
— 217 —
sta verità è slata esplicitamente affermata, inai si
è concepita la vita economica nazionale come una
unità così saldamente organica ». — 11 semplicismo
di questa conclusione è troppo evidente per dover¬
vi insistere. — Sarebbe come dire che soltanto
quello del 1928 fu degno del nome di inverno, per¬
ché mai come allora ci si accorse del freddo ! » pa¬
gine 514-515). Ma semplicistica, a ver dire, è la
osservazione del Contento ed egli stesso dovrà con¬
venirne se rifletterà sul senso preciso delle mie
parole. Che la concezione copernicana del mondo
sia la sola scientifica non vuol dire che prima di
Copernico il mondo fosse governato da altre leg¬
gi; allo stesso modo con l’economia corporativa, o,
per essere più esatti, con l’economia che riconosce
l'identità di individuo e Stato (il corporativismo
essendo solo l’espressione teoricamente realizzante-
si di questa identità), si giunge alla consapevolezza
della vera realtà dello Stato e ci si pone in grado
di eliminare quegli errori teorici e pratici che osta¬
colavano la libera affermazione deH’individuo. Tra
la libertà del liberalismo e quella del corporativi¬
smo bene inteso, v’è appunto la stessa differenza
che passa tra Vhomo mconomicus e l’individuo vi¬
sto nella sua identità con lo Stato.
RIFORMISMO 0 RIVOLUZIONE SCIENTIFICA?
In «n recente articolo (1/economia corpora¬
tiva, l’individuo, lo Stato e una polemica, in Po¬
litica Sociale, maggio-giugno 1931, pp. 479-494)
Massimo FoveI cerca di chiarire in qual senso egli
consente e in qual senso dissente dalle tesi da me
sostenute. E conclude con questa pagina che è op¬
portuno trascrivere per intero: « Identificazione
ideale, dunque, fra individuo e Stato. D’accordo.
Ma per quale via? Qui si affaccia la terza cosa,
che si deve dire allo Spirito. Essa è che, se la sua po¬
sizione del problema è perfetta, la soluzione che
egli ne dà è, dal punto di vista della scienza econo¬
mica, imperfetta. Dal punto di vista della scienza
economica, noti bene Io Spirito, e non già da un
altro diverso, per esempio, quello genericamente
storico. Ma però, noti ancor meglio lo Spirito, dal
punto di vista della scienza economica toni court.
e non già di quella detta liberale. E dove sta Firn-
perfezione? Non si può certo qui. nello scorcio di
quest’articolo, già troppo lungo, neanche deliba¬
re la questione. Indichiamo soltanto la grande di-
— 219 —
rettivi! di marcia. Eccola. Spirito tenta la idenli-
ficuzione ideale dell'individuo e dello Stato, risol¬
vendoli entrambi in una terza nozione, che è la
Nazione. Ora ci chiediamo noi. forse, qui, se questo
tentativo può, scientificamente, riuscire? Ossia se
la nozione di Nazione sia esprimibile in termini
quantitativi? No. Si può anche aggiungere che non
siamo troppo diffidenti in proposito. 0, almeno, non
vi crediamo molto meno di quello che crediamo al-
l'esprimibilità quantitativa dell’individuo. Ci limi¬
tiamo invece a dire clie, tentando questa via. Spi¬
rito tenta ab imis una nuova scienza economica. E
che noi invece pensiamo che la identificazione pos¬
sa avvenire, estendendo allo Stato lutti i dati for¬
mali dell’individuo (e viceversa), cosi come oggi la
scienza economica lo concepisce. E che, così facen¬
do, la identificazione voluta si realizza attraverso
una espansione energica, ma non eversiva, della
scienza economica, quale oggi si presenta. È un me¬
todo. È un metodo anche questo — esso consiste
nell'innestare nuove teorìe sui vecchi principi ria¬
nalizzati e rifecondati, e che chiameremo riformi¬
sta — che ha i suoi vantaggi. E che, tralasciando
quelli teorici che ci trascinerebbero nel cuore della
questione, ha i vanlaggi pratici seguenti. Metten¬
dosi per questa via si potrebbe marciare, almeno
per un bel tratto, fianco a fianco con altri molti stu¬
diosi; quelli che anche in altri paesi pensiamo
soprattutto alla nuova scienza economica dinamica
americana — lavorano a rinnovare e a ricostruire,
senza ripudiarla, la scienza economica accettata. Si
utilizzerebbero, agli effetti della penetrazione delle
nuove teorie nello spirito pubblico e sopratutto nel¬
le élites, quei sedimenti, che la tradizione sdentili-
— 220 —
ea forma sempre, ravvivandoli senza distruggerli »
(pp. 493494).
Massimo FoveI, dunque, d’accordo con me con
la tesi fondamentale di ricostruire la scienza eco¬
nomica alla luce del principio della identificazio¬
ne di individuo e Stato, non erede che ciò debba
farsi operando una vera rivoluzione scientifica e
propone un metodo riformista ebe concilii il nuo¬
vo col vecchio e utilizzi i sedimenti della tra¬
dizione. Ora, lasciando da parte i vantaggi pra¬
tici che sono e debbono essere fuori questione, bi¬
sogna riconoscere che una scienza, qualunque essa
sia, non può progredire che su se stessa, svolgendo
e perfezionando i principi che ne costituiscono il
fondamento. È questa una verità ormai lapalissia¬
na, specialmente per chi riconosce nello storicismo
il carattere precipuo della nuova scienza. Chi si
proponesse a un bel tratto di arrestare il corso del¬
le cose, e ricominciare daccapo, dimostrerebbe per
lo meno una grande ingenuità e sarebbe costretto
suo malgrado a smentire con i fatti la sua pretesa
verbalistica. Anzi, v’ha di più: a guardare bene a
fondo, ogni scienza coincide con la sua storia, e in¬
tenderla e perfezionarla non si può senza intende¬
re e continuare il suo processo di formazione. E se
questo avviene in generale per ogni scienza, tanto
più deve verificarsi per le scienze sociali e per le-
conomia politica in particolare: scienze in cui l’a¬
derenza alla vita storica è più immediata e palese
e in cui le vicende politiche sono più manifesta¬
mente condizioni del sorgere e dello svilupparsi di
certi problemi teorici. Né ad altro, in fondo, ha
miralo lutto il lavoro eia me compiuto, con cui ho
cercato di porre in chiaro il delincarsi delle nuove
— 221
esigenze scientifiche alla luce de] processo storico
che in esse è sboccato trasvalutondosi.
Ora, è chiaro che. se questo è il nostro pro¬
gramma e il carattere fondamentale della nostra
critica, porre il dilemma se convenga meglio una
revisione riformistica o un’opera rivoluzionaria
non può avere il significato che a] dilemma stesso
si da accennando all utilizzazione dei residui tra¬
dizionali. Nessun dubhio infatti che tutto il pas¬
sato vada utilizzato e inverato, e non superficial¬
mente o rapsodicamente, bensì nella sua realtà in¬
tegrale e imprescindibile. Nessun dubbio, dunque,
che si debba trattare di riforma e non di negazione
pura e semplice di quanto è stato fatto nel campo
di questi studi: di riforma, e cioè di ulteriore pro¬
cesso che viva dell’esperienza già fatta e la conduca
a nuovi e più profondi risultati.
Se non che c’è riforma e riforma: quella che
si svolge nel ritmo normale della vita di ogni gior¬
no e cambia il mondo quasi inavvertitamente po¬
nendo pietra su pietra; e quella, invece che segna
un punto di arresto e di ripresa, perché nel lento
processo di trasformazione ci si accorge a un trat¬
to che la via presa non è proprio la più adatta e
che, se non si vuol precipitare, eonvien volgersi in
altra e più giusta direzione. V’è, insomma, la tra¬
sformazione ordinaria e quella straordinaria, sen¬
za che tra l’una e l’altra ci sia iato o contraddizio¬
ne, che anzi il lento modificarsi delle condizioni
crea a poco a poco mia nuova situazione, la quale
all’improvviso si svela ed esige un nuovo orienta¬
mento. Abbiamo allora la rivoluzione, che non è,
si comprende, neppur essa negazione, bensì pro¬
cesso accelerato e rapido dissolvimento di tutto il
— 222
negativo che via via era andato affiorando. Una ri¬
voluzione degna di questo nome non è eversiva, non
distrugge nulla che non sia già distrutto, ma toglie
via le macerie perché il lavoro proceda senza im¬
pedimento. e il nuovo si affermi in tutta la sua pie¬
nezza di vita.
A chi ci domandasse, a questo punto, se nella
revisione della scienza economica occorra oggi una
opera riformistica o rivoluzionaria, potremmo si¬
curamente rispondere, senza timore di essere frain¬
tesi. che la crisi di questa disciplina è giunta ormai
a un punto culminante e che vano sarebbe aver
fiducia in soluzioni non assolutamente radicali. Ma
si deve, poi, aggiungere, che la rivoluzione da noi
auspicata acquista un carattere storico sui generis
e quasi in apparente contraddizione con quanto è
stato fin qui detto. È una rivoluzione, infatti, che
nega, in un certo senso, la scienza economica quale
si è venuta svolgendo da due secoli a questa parte
e che tende a far riprendere il cammino ex nova,
per vie finora non tracciate.
Contraddizione apparente, dico, perché anche
qui la negazione non è sterile negazione, e cioè an¬
nullamento di qualcosa che abbia una realtà posi¬
tiva, bensì riconoscimento esplicito dell’inesistenza
di ciò che si nega. E quel che si nega è addirittura
la dignità di scienza airecnnomia costruita da Smith
in poi: si nega, in altri termini, che sia esistito un
economista capace di superare l’empiricità delle ri¬
cerche particolari per assurgere a un sistema infor¬
mato a un principio unico e organico; si nega che
L
la sistematicità dei più famosi trattati di economia
sia più che estrinseca e formale; si nega, infine, che
ci sia un solo concetto fondamentale dell’economia
(valore, utile, bene economico, gusto, homo ceco-
nomicus, libera concorrenza, ece.) cui si attribuisca
un significato non intimamente contradditorio.
Si comprende bene come un’affermazione così
perentoria, così grave e paradossale, debba provo¬
care il dissenso e anzi lo sdegno di ehi, educato a
questi studi, ha imparato a venerare come sommi
maestri Smitli e Ricardo, Stuart Mill e Pareto; ma
bisogna pure una buona volta spezzare l’angusto
cerchio in cui l’economista si chiude, geloso del suo
tecnicismo, e reinterpretare i classici alla luce del
loro tempo, dei loro presupposti speculativi e delle
esigenze loro fondamentali. Occorre, insomma, far
scendere gli dèi dall’olimpo in cui sono stati posti
con scarsa consapevolezza storica e procurare di
giudicarli con criteri più larghi e comprensivi, sen¬
za farsi deviare dall’esagerato rispetto di fame con¬
solidate troppo esotericamente. Ma perché questa
opera dia i suoi frutti, è necessario pure che coloro
i quali sono urtati nelle loro convinzioni o nelle
loro opinioni abbiano la forza di considerare senza
intolleranza i risultati che loro si offrono, e soprat¬
tutto si dispongano a sceverare ciò che nelle loro
convinzioni è frutto di ricerca personale da ciò che
vi si confonde come presupposto acquisito e indi¬
scutibile sol perché non discusso. Certo, agli occhi
loro deve apparir strano ed assurdo che si possa du¬
bitare del valore scientifico di una siffatta discipli¬
na e che scrittori ritenuti classici nel senso più alto
della parola siano di punto in bianco riportati a
una non aurea mediocrità; ma essi debbono pur
— 224 —
convenire che tutto è relativo e che con un occhio
solo si è re nel inondo dei ciechi, sì che chiudendo¬
si nel mondo dell'economia non v’è da meravigliar¬
si se diventino luminosissimi soli le semplici lan¬
terne del più vasto mondo della cultura. 0 che for¬
se avrebbero nozione della loro piccolezza i lillipu¬
ziani se non conoscessero altro che il paese di Lilli¬
put? Né, d’altra parte, è lecito pretendere che i
giganti di Lilliput siano presi sul serio fuori del lo¬
ro regno. E 1’economia non è un regno che possa
vivere in una beata solitudine.
Uno degli esempi tipici del consolidarsi di una
fama esageratamente superiore alla realtà dei me¬
riti effettvi è quello di Adamo Smith, il cosiddetto
fondatore dell’economia scientifica. ) Mezzo empi¬
rista e mezzo huonsensista, incline per educazione
alle vaghe ideologie, con troppa abbondanza colti¬
vate nelle sfumature di una etica inconsistente, lo
Smith era certo la persona meno adatta a dar for¬
ma scientifica a una disciplina come l’economia.
>) Vero è rbe ormai i migliori Ira gli storici dellVonomia met¬
tono per lo meno in dubbio tale qualifica, ma ciononostante Smith
reeta sempre in altissimo loro e in lulti i modi si certa di gon-
tiare ciò che a Smith non appartiene o ciò che, a lui appartenendo,
non è certamente esempio di particolare prolondilà. Tra labro
Adamo Smith è diventalo il classico ohbligalorio per chi si presento
agli esami di concorso per l’insegnamento dell’economia politica
nelle scuole medie. A quale titolo? Sta di fatto che i candidali non
lo Studiano e gli esaminatori girano al largo. Evidentemente ne
gli uni nò gli altri riescono a entusiasmarli per una sì grande
□para. Non sarebbe tempo di finirle?
225
Ma, intanto, se il suo nome, per quel che rigirarti
1 etica, è stato completamente offuscato dai colossi
della speculazione, a cominciare dal suo maestro
ed amico David Humc, Leu altra è stata la sorte
della sua opera sulla ricchezza delle nazioni, assur¬
ta, non certo per meriti superiori a quelli della sua
etica, a pietra miliare o addirittura iniziale della
storia della scienza economica. E il più strano è che
tra le lodi più comunemente rivolte allo Smith v’è
appunto quella di aver sistemato in un organismo
unitario ciò che prima di lui era frammentario e
disperso. Ora, se v’è cosa che salta subito agli oc¬
chi a chi legga 1 opera dello Smith, è proprio la sua
radicale incapacità a porre unità nelle sue consi¬
derazioni e a dare una qualsiasi veste sistematica
alle sue aprioristiche affermazioni da esscryist. Se
poi dall unità passiamo alle singole teorie, la stessa
indeterminatezza di limiti e di formulazione si ri¬
vela, anche là dove l’espressione verbale sembre¬
rebbe più categorica e decisiva; e da indetermina¬
to a indeterminato, si scende giù giù fino alla fine
dell opera senza aver mai agio di poggiar su un ter¬
reno di una qualche solidità.
Comunque — valore sistematico a parte —
quale la parola nuova dettaci da Smith? Vano
sarebbe cercare una risposta nella sua opera, ma
anche vano cercarla negli storici e negli apologeti
che ne hanno consacrato la fama. La letteratura in¬
torno a Smith è immensa, ma tutta fondamental¬
mente viziata dal pregiudizio di trovare ciò che non
c’è: nulla di strano dunque che ancor oggi si di¬
scuta se Smi ili abbia seguito il metodo deduttivo
ovvero quello induttivo, se la sua economia sia con¬
ciliabile con la sua etica, se l’interesse personale
15 - Spunto
— 226 —
faccia a pugni con la simpatia, e via dicendo: re¬
stando sempre, come Fautore di cui si discute, nel
campo di un’economia a base di opinioni. Che se
poi si tenta di fare di Smith il teorico del libera¬
lismo economico, lo si solleva, sì, nel campo della
storia, dandogli finalmente una fisionomia ben de¬
terminata, ma si commette una grande ingiustizia
verso i fisiocrati che in modo ancor più perentorio
e genuino erano giunti prima di lui alle stesse con¬
clusioni. Figura scialba e inconsistente, mentalità
antiscientifica c mnralisteggiante, Adamo Smith è
tuttavia oggi onorato come il padre o uno dei pa¬
dri dell’economia: non è certo questa una grande
garanzia per la serietà di una scienza.
Ma l’esempio di Smith non è un'eccezione nel¬
la storia dell’economìa, che anzi il fatto che egli
stia ancora a godere una fama pressoché incontra¬
stata è la dimostrazione più evidente del livello spe¬
culativo al quale sono rimasti gli economisti poste¬
riori. Sviluppatasi sempre fuori o ai margini del
movimento idealistico, l’economia politica ha rice¬
vuto a volta a volta l’impronta di filosofie di secon¬
do ordine, rese ancora più superficiali dal contat¬
to con i fenomeni empirici presi a trattare. Empi¬
risti, storicisti, scettici, positivisti, sociologi, ideolo¬
gi dell’umanitarismo, e simili, si son conteso il
campo, costringendo la realtà viva dei fatti econo¬
mici entro gli schematismi aprioristici di vieti dog¬
matismi. E la realtà è stata svisata e resa irricono¬
scibile, ora in nome della scienza, ora in nome di
una astratta idealità sociale, senza mai uscire dal¬
l'astratto che si postulava e senza mai accostarsi
alla vita per intenderla davvero e dominarla con
una scienza che non fosse una pseudoscienza. Non
— 227 —
è qui il caso di continuare in una esemplificazione
che saia data in forma organica in altra sede: tan¬
to più che a questa conclusione non è opportuno
arrestarsi considerando solo gli economisti che han¬
no fatto la scienza, ché anzi dagli economisti con-
vien passare alla scienza per vedere se il lavoro di
molti non ahhia potuto compensare la mediocrità
dei migliori. Al di là della consapevolezza dei sin¬
goli. la scienza può venirsi costruendo in modo
pressoché anonimo, col lento fondersi e integrarsi
dei contributi degli studiosi, e quella concezione
che non è stata mai chiara nella mente di ciascuno
scienziato, tutt’assorto nel suo lavoro particolare,
potrchhe rivelarsi all’occhio dello storico abituato
a guardare dall’alto e a comprendere il molteplice
nell’unità. Ma purtroppo v’ha nella storia dell’eco-
nomia un vizio di origine che ha tolto finora a que¬
sta scienza la possibilità di giungere a un organi¬
smo logico e non contradditorio. È un vizio sui ge¬
neris, in quanto più che infirmare la perfezione
della scienza, ne ha addirittura vietato la nascita:
è un presupposto assolutamente negativo che ha
sbarrato il cammino prima che si avesse modo di
incamminarsi.
Si è detto che si cercherebbe invano nella sto-
iia dell economia un sistema informato a un prin¬
cipio unico e sistematico. Ma se questo è vero in
senso positivo non è altrettanto vero in senso ne¬
gativo; e a tutti è noto, infatti, come la storia del¬
l’economia coincida in modo quasi assoluto con la
— 228 —
storia del liberalismo economico, anche se questo,
velato da un apparente obiettivismo scientifico, sia
rimasto celato agli occhi di molti economisti. Un
principio informatore c’è stato, dunque, e sistema¬
tica perciò deve essere stata la scienza che ad esso
si è attenuta. Il che è tanto evidente da non poter
temere smentita, soprattutto da parte di chi quel
principio ha cercato e cerca di mettere nella mag¬
gior luce possibile, ad esso riportando anche quelle
conseguenze teoriche che ai più non sembrano ne¬
cessariamente connessevi. Ma il fatto è che quel
principio lungi daH’essere un principio costruttivo
è meramente negativo e distruttivo, sì che proprio
ad esso si deve Timpossibilità in cui l’economia si
è trovata di assurgere a vera scienza.
Per intendere la negatività del principio è op¬
portuno confrontare la storia dell’economia con
quella del diritto, dal secolo XVIII in poi. E il con¬
fronto si rende necessario per il chiarimento di
quel concetto di individuo, che è alla base di tutte
le scienze sociali quali si sono svolte in questi ul¬
timi due secoli. Presupposto, infatti, di queste scien¬
ze, che, alimentate dalle ideologie illuministiche,
hanno poi avuto il loro massimo sviluppo col positi¬
vismo sociologico, è l’esistenza di un individuo con¬
cepito come un microcosmo, un individuo, cioè, fine
a se stesso, con volontà autonoma, con libertà di
arbitrio, e insomma come un mondo chiuso in sé,
col sacrosanto diritto di rimaner chiuso e di re¬
gnare indisturbato entro la sua sfera d’azione. È
il presupposto liberale, ormai superato da una cri¬
tica perentoria e inconfutabile, in nome di una
libertà ben altrimenti profonda e coerente. Ma in¬
tanto a quel presupposto bisogna risalire per spie-
garsi il valore e i limiti delle scienze sociali nella
loro attuale struttura.
Ora, da una libertà intesa in senso atomistico
è chiaro che non può, a rigore, derivare alcuna
scienza, se è vero che una scienza è tale in quanto
studia dei rapporti obiettivi. Una scienza sociale
può esistere solo a patto che la società costituisca
un organismo e cioè un’unità intelligibile. Ma
quando si sostiene a priori che la vera unità è l’in¬
dividuo e che i rapporti sociali sono disciplinati al
solo fine del benessere individuale, l’oggetto della
scienza si frantuma nella molteplicità di individui,
per definizione irrelati e inconfrontabili.
L’unica scienza che si salva è il diritto: e il
perché è evidente. Se la società si costituisce e vive
non per un fine sociale bensì per la salvaguardia
dei fini individuali, l’unico contenuto della società
sarà la difesa dei diritti reciproci e Tunico conte¬
nuto della scienza sociale sarà Io studio dei limiti
delle sfere individuali: il diritto. Sarà anche que¬
sta una concezione formale ed estrinseca del dirit¬
to, inadeguata alle superiori esigenze oggi manife¬
statesi, ma intanto è certo che un contenuto speci¬
fico e positivo la scienza del diritto lo ha pur re¬
stando nell’ambito di una teoria prettamente in¬
dividualistica. E un contenuto positivo ha il dirit¬
to perché ha lo Stato cui propriamente quella fun¬
zione compete, e che in tanto lia una realtà in quan¬
to ha lo scopo di garentire le sfere degli arbitri in¬
dividuali. Si spiega, dunque, molto bene come la
scienza giuridica ahhia potuto tanto svilupparsi in
questi ultimi due secoli; e si spiega anche prescin¬
dendo dal fatto che al mondo giuridico si sono af¬
facciati scienziati e filosofi di ben altra forza specu-
— 230
lativa che non quella dei più illustri economisti. Si
può dire anzi che nel diritto si conchiude ed esau¬
risce teoricamente tutto il mondo sociale illumini¬
sticamente inteso, senza alcun margine per altra
scienza che non sia affatto descrittiva.
Trasportato questo stesso principio nel cam¬
po deH’economia, esso si è necessariamente mu¬
tato in principio distruttore della scienza. E, infat¬
ti, logicamente lasciata in disparte la realtà dello
Stato — realtà affatto giuridica con l’esclusiva fun¬
zione di determinare i confini interindividuali —
o relegata in una particolare scienza detta scienza
delle finanze, l’economia ha ipostatizzato l’indivi¬
duo, rendendolo assolutamente irrelato attraverso
l’astrazione dell’/tomo veconomicus. Ma una volta
fatta oggetto di scienza una molteplicità irrelata,
nessuna via era aperta per la determinazione di un
qualsiasi rapporto entro la stessa molteplicità. 0
Yhomo (Economicus è veramente arbitro e allora la
relazione tra gli homines si potrà soltanto consta¬
tare a posteriori, o la relazione è in qualche modo
scientificamente determinabile e allora l’arbitrio
dell’individuo è negato. E la scienza economica per
gran parte è stata fedele al principio individuali¬
stico giungendo a conclusioni meramente negati¬
ve (libera concorrenza), e quando se ne è scostata
è caduta in una serie di contraddizioni che hanno
rotto l’unità del sistema, o ne sono rimaste al
margine.
Peggio è avvenuto quando l’economia, raffina¬
ta metodologicamente e spinta da esigenze di mag¬
giore sistematicità, ha voluto togliere al proprio
liberalismo la veste di mera ideologia politica, tra-
ducendn il presupposto individualistico in termini
— 231 —
di pura scienza. Ne è venuta fuori la scuola psico¬
logica e matematica, sboccata in quel fuoco d’arti-
tìzio cbe è la teoria dell’equilibrio economico ge¬
nerale.
Non è il caso di ripetere qui quanto si è detto
altrove e ripetutamente di questa scuola: basterà
porre in rilievo l’antinomia irriducibile tra l’esi¬
genza di scientificità che l’ispira e l’impossibilità
di soddisfarla per la natura stessa del presupposto
da cui muove. Tutta la storia dell’economia è giun¬
ta al suo logico plinto di sbocco e ha segnato il fal¬
limento di una scienza costruita su una base illu¬
soria. Alla debolezza speculativa degli uomini si è
aggiunta la contradditorietà del principio informa¬
tore e l’economia ha invano tentato per due secoli
di sollevarsi a un grado veramente scientifico. La
scienza dell economia è ancora una speranza del-
l’avvenire.
Ma cbe cosa è oggi, dunque, la scienza della
economia? Credo che migliore risposta non pos¬
sa esservi di quella data da Luigi Einaudi parlando
della storia delle dottrine economiche, nelle pa¬
gine riportate in questo volume. Per lui tale storia
« dovrebbe occuparsi solo di quelle che sono dot¬
trine economiche proprie, ossia postulati, assiomi,
teoremi, corollari enunciati dagli economisti come
tali e non come filosofi, o politici, o religiosi, o in¬
dustriali. Quei teoremi o corollari non sono moltis¬
simi e si chiamano prezzi di monopolio o di con¬
correnza, o dei beni congiunti, costi comparati, di-
— 232
stribuzione dei metalli preziosi fra i diversi paesi
del mondo, rendita del produttore, del risparmia¬
tore, del consumatore, equilibrio economico, equa¬
zione degli scambi, rapporto fra moneta propria¬
mente detta e surrogati della moneta, elasticità del¬
le curve di domanda e di offerta, traslazione e capi¬
talizzazione dell’imposta, doppia tassazione nella
tassazione del risparmio, e simili astruserie, fortu¬
natamente noiose per la comune degli uomini e
poco appetitose per gli uomini storici, politici, pra¬
tici esercenti banca o commercio o industria, seb¬
bene atte a formare l’unica e suprema delizia degli
economisti di professione. Da qualche secolo gli
economisti faticano per costruire, in questo campo
chiuso, un beH’edificio astratto di teorie logiche e
coerenti. Sono lontanissimi dalla meta e questa non
sarà mai raggiunta, perché ad ogni passo compiuto,
nuove mete, nuovi teoremi attraggono la loro at¬
tenzione. Per tanto tempo si erano industriati a
creare schemi astratti statici, rappresentazioni atte
a raffigurare un meccanismo in equilibrio in un
dato momento. Disperavano, per la imperfezione
degli strumenti di ricerca da essi posseduti, di riu¬
scire mai a creare schemi atti a raffigurare il « mo¬
vimento » da un equilibrio a quello successivo ; os¬
sia a trasformare i loro schemi astratti relativi ad
un momento del tempo in schemi pure astratti, ma
relativi al susseguirsi dei momenti del tempo. Da
qualche anno si sono gettati su questo terreno ver¬
gine e, nonostante la difficoltà dell’impresa, non
dobbiamo disperare che un giorno un uomo di ge¬
nio, capitato a prediligere la dinamica economica,
abbia da dire qualcosa ai filosofi cd ai politici che
quei campi del movimento, ossia del reale e del vi-
— 233 —
vo, hanno sempre, a modo loro e giustamente a
modo loro, coltivato. Per ora, non sarebbe bene
che noi confessassimo di non essere riusciti in tan¬
te generazioni adorne di qualche uomo di genio
e di molti ingegni di prim’ordine, i quali avreb¬
bero onorato, se ci si fossero dedicati, i più illu¬
stri campi della matematica pura, della fisica, della
chimica e delle altre scienze, ad uscire dal regno del
■Se, dell ipotetico , dell irreale? Non per mancanza
di buona volontà; ma per sordità della materia, la
quale appena ora si piega, in mano a sottilissimi
statistici armati di tutti i più penetranti strumenti
del calcolo, a fornire qualche pallidissima luce, per
ora diffusa attraverso schemi astratti, intorno al
reale, che è vita e movimento )).
Confessione di fallimento, dunque, e riduzione
della scienza alla molteplicità di alcuni postulati,
teoremi e corollari. E questa è la parola di uno
di quegli economisti che, rifiutando la qualifica di
liberali, credono ancora alla saldezza scientifica
di teoremi alla concezione liberale pur intrinseca¬
mente connessi. Vano sarebbe per lui fare una sto¬
ria dell economia, che fosse la storia di un principio
della molteplicità delle sue derivazioni. Soltanto
alla molteplicità deve badare lo storico e ricercare
1 atto di nascita dei vari teoremi che mette conto
d’illustrare. Al di là dei teoremi non c’è il sistema
e tanto meno la storia del sistema. E la scienza
dunque non c’è se non come giustapposizione di ri¬
cerche particolari.
La diagnosi è precisa, ma non altrettanto pre¬
cisa ne è l’interpretazione. La scienza non c’è per¬
ché è fallito quel principio liberistico che la negava
nell atto stesso rEinformarla : oggi non sono rimasti
che gli scarsi frammenti (postulati, teoremi, corol¬
lari) che vanno finalmente intesi e rifusi alla luce
di un principio ricostruttivo positivo. E, se è vero
che il nuovo principio deve rappresentare il supera¬
mento del vecchio, contrapponendo alla pura nega¬
tività di un individuo irrelato la positività e la con¬
cretezza deiridentificazione di individuo e Stato,
non può trattarsi evidentemente di un procedere
sulla via già percorsa se non nel senso di ripren¬
dere il cammino con la consapevolezza del fallimen¬
to avvenuto. Nulla di quanto si è fatto deve essere
negato: e nessuno potrebbe in buona fede cancel¬
lare i tanti risultati raggiunti nella soluzione di par¬
ticolari problemi (molti, se non tutti, tra quelli ci¬
tati daH Einaiidi, e altri ancora non meno impor¬
tanti); ma soli risultati limitati a fenomeni ridotti a
termini matematici, o illustrati da una sapiente sta¬
tistica, o descrittivi di momenti storici determinati:
non sono la scienza, l’organismo, il sistema, in cui la
luce e sempre unica perché unico il principio c il
fine. Quel che si nega è appunto la scienza che non
c’è, e non ci potrà essere fino a quando non sarà
compiuta quella rivoluzione scientifica di cui fin
qui si è discorso.
CRITICHE DI FILOSOFI
Tra le tante critiche rivolte alla tesi della iden¬
tità di filosofia e scienza nell’applicazione fattane
nei problemi della scienza economica, meritano di
essere considerate a parte quelle che ci provengono
dai cultori della filosofia. Curiosa posizione, invero,
la nostra, di fronte a scienziati, che loro malgrado
sono indotti a occuparsi, sia pure di sbieco, di filo¬
sofia, per rispondere alle critiche di principio che
loro moviamo; e di fronte a filosofi, costretti a scivo¬
lare, con evidente senso di disagio, nel campo scien¬
tifico, per salvare la filosofia da una presunta con¬
taminazione. Curiosa, perché ci troviamo a dover
discutere con illustri scienziati, i quali, per evi-
dente inesperienza di studi filosofici, vengon fuori
con ingenuità sconcertanti e gettano un’ombra non
lieve sulla stessa scienza che professano; e con
non meno illustri filosofi, i quali immaginano una
scienza che non esiste e con essa fanno i conti
senza voler uscire dal guscio di quella pseudo uni¬
versalità di cui si ritengono depositari. E gli uni e
gli altri, naturalmente, ci combattono in relazione
a quella filosofìa o a quella scienza che non cono¬
scono e concordano a priori nella conclusione di
ritenerci pseudofilosofi o pseudoscienziati. Ma non
è colpa nostra se, stando nel mezzo, ci punge il de-
— 236 —
siderio di sollevarci sulla reciproca incomprensione
di cui gli uni e gli altri danno prova, e di dimo¬
strare come quell’universalità cbe i filosofi difen¬
dono sia verbale e apparente e come il rigore si¬
stematico di cui gli scienziati sono orgogliosi abbia
la stessa consistenza delle affermazioni filosofiche
che si lasciano sfuggire. A noi non resta cbe invi¬
tare ancora una volta a porsi da questo più com¬
prensivo punto di vista, dal quale è possibile una
visione precisa di quel cbe siano la falsa filosofia
e la falsa scienza.
Armando Carlinicomincia con l’avvertire, in
linea di massima, cbe « bisogna vincere il pre¬
concetto, ancora molto diffuso, cbe ci siano dei
principi da riformare nelle scienze con criteri filo¬
sofici, per poi procedere alla riforma di esse. I
principi sono immanenti al lavorio scientifico, il
quale procede riformandosi da sé: l’enunciazione
dei principi avviene dopo, non prima ». Se non
che tale modo d’impostare il problema presuppone
già un dualismo dogmatico di scienza e filosofia
che preclude inevitabilmente la strada alla com¬
prensione del nostro tentativo. Se principi scienti¬
fici e criteri filosofici son cose diverse, se 1 enun¬
ciazione dei principi vien dopo, se il lavorio scien¬
tifico procede riformandosi da sé, vuol dire cbe la
lesi dell’identità di scienza e filosofia resta fuori
discussione e che rammonimento va a coloro i quali
5 ) CIr. la sua recensione del mio libro su Lo critica dell'econa-
mia liberale, in Leonardo, agosto 1931, pp. 354-455.
— 237
mescolano una scienza e una filosofia intese Alla
vecchia maniera. Per conto nostro non possiamo
aver la pretesa di riformare i prìncipi delle scien¬
ze con criteri filosofici perché non conosciamo cri¬
teri filosofici che non siano i principi stessi delle
scienze: ammettiamo che il lavorio scientifico pro¬
ceda riformandosi da sé per la semplice ragione che
non conosciamo alcun altro lavorio oltre lo scien¬
tifico: e infine non possiamo ammettere che l enun-
ciazione dei principi avvenga dopo per la stessa
ragione per cui non possiamo ammettere che av¬
venga piìma essendo i principi, come ben osserva
il Carlini stesso, immanenti al lavorio scientifico.
Ma il Carlini non si arresta a queste osserva¬
zioni e riafferma il dualismo in modo ben più pe¬
rentorio. « La vita », egli scrive, « nella filosofia
gentiliana è pura spiritualità e personalità del sog¬
getto: per lo scienziato, è nel divenire storico della
realtà eh egli studia, e a questa cerca di adeguare
i suoi concetti. La scienza, se non procede così, con
questa mentalità, non è più scienza. Introdurre
nella scienza una questione morale (la consape¬
volezza che quel mondo della scienza ha dei limiti,
e che in noi è una ragione di vita che lo supera)
è distruggere il prohlema proprio dello scienzia¬
to ». Dove è da osservare che la vita del soggetto è
appunto il divenire storico della realtà ch’egli stu¬
dia; che il mondo della scienza non ha limiti, bensì
li ha ogni scienza vista nella sua particolarità ; e
infine che lo scienziato, il quale non avesse la con¬
sapevolezza dei limiti della sua particolare scienza,
non sarebbe scienziato.
Del resto, il dualismo cui si arresta il Carlini
è più un residuo di vecchie teorie che non una pre-
— 238 —
cisa convinzione. Tanto è vero ch’egli ammette la
« bontà » dei miei saggi e la spiega « non con gli
schemi dellTntroduzione ma con quanto l’autore
vi porta di conoscenza concreta dei problemi di¬
battuti, e soprattutto con quel vivo senso della sto¬
ricità di questi problemi ch’è, nel campo della cul¬
tura in generale, specialmente per noi italiani, una
delle conquiste fondamentali dell’idealismo con¬
temporaneo ». Ora, è chiaro che il senso della sto¬
ricità dei problemi discussi è appunto la consa¬
pevolezza dei limiti delle affermazioni scientifiche
e sta a dimostrare, in atto, l’identità di scienza e
filosofia. Che poi l’Tntroduzione si riduca a schemi
irrilevanti ai fini delle affermazioni scientifiche
contenute negli altri saggi, è cosa per lo meno di¬
scutibile: comunque ciò non denoterebbe la natu¬
ra filosofica dellTntroduzione in contrasto con la
natura scientifica dei saggi, bensì lo scarso valore
filosofico e perciò lo scarso valore scientifico della
Introduzione stessa. In altri termini, in essa per¬
marrebbe alcunché di quell’astrattismo filosofico
che noi ci proponiamo di combattere non meno del
correlativo astrattismo scientifico.
Il dualismo di scienza e filosofia è presuppo¬
sto in modo ancor più perentorio da Giulio Cola¬
marino, *) che ripetutamente ha voluto dimostrare
3 ) G. Col AM arino, Scienze e filosofìa, in Nuovi problemi, di¬
cembre 1930, pp. 97-116; recensione di U. Spirito, La eritrea della
economia liberale, ibid,, gennaio-febbraio 1931, pp. 93-98; Scienze
sociali, filosofia e scienze economica, ibid., luglio-settembre 1931,
pp. 481494.
— 239 —
1 autonomia della scienza dando come unica legitti¬
ma una scienza non filosofica e perciò a lui. stu¬
dioso di filosofia, affatto ignota. « Ma peggio sa¬
rebbe certamente », egli osserva, « se l’idealismo
assoluto volesse entrare nel dominio della scienza
per migliorarla e renderla più rispondente alla vi¬
ta — come appunto sostiene il libro di cui parlia¬
mo. Non potendo la filosofia dettar legge alla scien¬
za. né costruirla come una finzione intellettuale
che le rimarrebbe sempre estranea, potrebbe acca¬
dere che, col concorso di circostanze che non oc¬
corre specificare, l’invocato connubio tra scienza e
filosofia, segnasse in Italia l’inizio di un periodo di
grande confusione, se non nel mondo della cultu¬
ra, per lo meno in quello della scuola » (recensione
cit., pag. 95). E qui, al solito, si parla di una filo¬
sofia che dovrebbe entrare nel mondo della scienza,
e di un connubio di scienza e filosofia, laddove la
tesi che con ciò si vuol combattere è quella di una
scienza che è filosofia e che filosoficamente progre¬
disce correggendo i suoi principi. Non si tratta di
unire due mondi, bensì di riconoscerne l’identità.
Al che il Colamarino, finché rimarrà sulla via in¬
trapresa, non potrà certamente giungere per l’ine¬
sperienza da lui dimostrata degli studi scientifici in
genere e deireconomia in ispecie. Chi dubitasse di
questa mia affermazione non avrebbe che a leggere
le osservazioni che il Colamarino fa sulla mia cri¬
tica del Pareto, e riflettere in particolare sul se¬
guente passo, in cui si cerca di svalutare il mio giu¬
dizio giudicandolo meramente filosofico. « Bisogna
concludere perciò », egli scrive, « che di uno scien¬
ziato è troppo vano e tardivo fare la critica filo¬
sofica, dopo che tale critica si è già esercitata sulla
■
forma del sapere scientifico, e che quella critica è
poi anche fuor di luogo se deve valere per gli scien¬
ziati. Se Pareto non avesse scritto il Manuale, tutti
i suoi libri pseudostorici e sociologici non sareb¬
bero valsi a ricordarlo agli scienziati, e quindi lo
Spirito non avrebbe sentito il bisogno di occuparsi
di lui. Ora, parlare di Pareto, come egli ha fatto,
svalutando il Manuale, e concentrando tutto Tinte-
resse sullo scetticismo sorto nell’animo paretiano
nel vano tentativo di combinare insieme la sociolo¬
gia con l'economia, significa rimanere ai margini
dell’argomento, rinunciare a parlare di scienza per
eccessivo attaccamento alla filosofia » (ibid., p. 97).
Se il Colamarino avesse letto davvero il Pareto e
si fosse reso conto delle mie critiche, non avrebbe
certamente scritto queste righe che sono la confer¬
ma decisiva dell’impossibilità in cui egli si trova
di discutere il problema dei rapporti tra filosofia
ed economia. Il Manuale ch’egli contrappone ai li¬
bri pseudostorici e sociologici è proprio il libro
del Pareto in cui le ideologie sociologiche e pseu¬
dofilosofiche prendono il sopravvento sulla scien¬
za economica più aderente alla tradizione rappre¬
sentata dal Cours, e mettono capo a leggi e teoremi
privi di qualsiasi rigore logico. Lungi dal rinun¬
ciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamen¬
to alla filosofia, io ho voluto dimostrare Tinconsi-
stenza scientifica della costruzione del Pareto do-
vuta al suo impelagarsi nella filosofia (che è, s’in¬
tende bene, una cattiva filosofia). Se il Colamarino
ritiene che scientificamente il Manuale rappresenti
qualcosa di altro e di meglio di ciò che è stato
da me filosoficamente criticato, lo dimostri, e si
finisca ima buona volta dì contrapporre al mio Pa-
reto un Pareto scienziato che nessuno dà prova di
conoscere e di saper difendere contro un giudizio
che ne investe i principi fondamentali.
E qui mi occorre di dare un consiglio ai con¬
traddittori, filosofi o economisti, che siano, ma so¬
prattutto se economisti: non continuino a oppormi
inutilmente vaghi filosofemi e opinioni approssi¬
mative sulla possibilità o impossibilità del mio as¬
sunto, ma cerchino di saggiare in concreto la vali¬
dità deile critiche particolari e dei criteri ricostrut¬
tivi. Allora soltanto la discussione potrà riuscire
feconda ed esser liberata da quel filosofismo di cui
sono purtroppo infetti i miei accusatori. Delle tan¬
te pagine che il Colamarinn mi ha dedicate non in¬
teressano certo quelle che pongono una pregiudi¬
ziale filosofica: non interessano e perciò non le di¬
scuto. Interessano invece, e vorrei quindi discute¬
re, le osservazioni circa i problemi concreti della
scienza economica, ma purtroppo di queste vi ha
molta scarsezza negli articoli citati. L’unico punto
un po’ determinato è quello che concerne l’ipotesi
dell homo cp.canomic.ua, dal Colamarino riproposta
a fondamento della scienza economica. Contro il
Contento, ch’era della stessa opinione, e che ave¬
va definito Yhoìno mconomicus « l’inividuo imma¬
ginato nella sua pura condotta economica, la quale,
nei moventi e nei fini, si ritiene informata, gene¬
ralmente, ad un tipo uniforme corrispondente alla
ricerca della massima soddisfazione col minimo
sforzo, cioè all’applicazione integrale del principio
lfi - Suino
— 242 —
del minimo sforzo », avevo opposto che, se tale è
l’ homo cp.conomicus. l’uomo è sempre economico,
in ogni campo della sua esistenza, perché sempre
tende alla massima soddisfazione col minimo sfor¬
zo, e che dunque « la fictio dell’/i. ce. si rivela an¬
cora una volta assolutamente inadatta a servire da
ipotesi scientifica )). Ora, su questo ragionamento,
« impressionante nella sua semplicità », come dice
lo stesso Colamarino, si trova modo di sofisticare
distinguendone la validità scientifica da quella filo¬
sofica e concludendo che il principio si estende, sì,
a tutti i campi deH'attività umana, ma acquista un
particolare significato allorché si parla di econo¬
mia politica. « E qual’è », continua il Colamarino,
C( l’economicità sulla quale si erge l’edificio della
scienza economica? È indubbiamente l’attività che
sì esercita nella produzione, nello scambio, nel con¬
sumo dei beni materiali, misurabili, trasferibili, o
riducibili comunque a nozione quantitativa. E Yho-
mn oeconnmicus non è altro che l’individuo che
esercita tale attività: individuo che non è certo l’Io
della filo sofia e neppure tutto l’individuo sociale
(che allora la economia sarebbe tutta intera la
scienza sociale), ma che è appunto quell’astrazione,
quella fictio necessaria alla scienza dell’economia »
(Scienze sociali ecc., pp. 490-491). Ma con ciò il
Colamarino conferma appunto che la definizione
del Contento, e di tanti altri prima, è errata, per¬
ché generica, e che il vero homo ceconomicus è in¬
vece Vindividuo che esercita la sua attività nella
produzione, nello scambio, nel consumo dei beni
materiali, misurabili, trasferibili, o riducibili co¬
munque a nozione quantitativa. Filosofica o scien¬
tifica che fosse, la mia obiezione era dunque vali-
da e la definizione è stata cambiata. Che poi la
nuova formula non abbia, neppur essa, alcun va¬
lore scientifico, è cosa che dovrebbe risultare ab¬
bastanza evidente dopo tante discussioni in pro¬
posito, ma non sono alieno dal tornarvi su, se al
Colamarino, o a qualche altro in sua vece, venisse
il desiderio di maggiori delucidazioni. Ciò che im¬
porta è di discutere su questa piano, senza conti¬
nuare a domandarsi se si tratti di scienza ovvero
di filosofia, e cercando, semplicemente, di ragio¬
nar bene.
LA NUOVA SCIENZA DELL’ECONOMIA
SECONDO WERNER SOMRART
À coronamento della sua grande opera di sto¬
ria economica. Werner Sonibart ha voluto com¬
piere un tentativo di sistemazione scientifica dei
principi fondamentali dell’economia, e ha scritto
un’opera (Die drei Nationalókonomien, Miinchen
und Leipzig, Duncher und Humhlot, 1930, pagi¬
ne xii-352) intenzionalmente rivoluzionaria, che
non potrà non destare scandalo presso tutti gli eco¬
nomisti convinti dell'assolutezza e infallibilità del¬
le loro leggi. Ai cattedratici ortodossi che si com¬
piacciono della solidità di quel corpo di dottrine
economiche messo insieme dai classici e via via per¬
fezionato dagli scienziati puri pervenuti al rigore
delle discipline matematiche, il Somhart getta riso¬
lutamente in faccia l’accusa di radicale incongruen¬
za e di cieco dogmatismo. Lungi dal rappresentare
una scienza esatta, l’economia si trova oggi in una
« situazione disperata » (verzweifelle J.u&tand un-
serer Wissenschaft) che il Somhart non teme di
rappresentarsi con le fosche tinte di uno spaven¬
toso caos. Naturalmente il giudizio è confortato
— 245 -
dallanalisi dei motivi e dalla dimostrazione inop¬
pugnabile della indeterminatezza dei principi su
cui la scienza delFeeonomia è stata fondata. Si
tratta di un imprecisione che ha involto lo stesso
concetto di economia e poi lutti i metodi di ricerca
e tutta la terminologia scientifica. Criteri estrinseci
di classificazione, interferenza di motivi disparati,
delimitazioni arbitrarie, presupposti infondati e
concetti equivoci hanno portato la confusione nel
campo degli studi economici, facendo smarrire ogni
senso dei suoi confini e delle sue caratteristiche
peculiari. « L’economia si è accontentata fin qui di
concetti che a guisa di vagabondi si sono aggirati
tra 1 confini dei vari paesi, senza Leu sapere dove
avessero diritto di cittadinanza. Con tal genia er-
rante e vagabonda l’economia ba voluto riempire
i quadri del suo esercito di concetti: valore, biso¬
gno, bene, piacere, pena, utilità, eco., e ha persino
concesso a questi vagabondi la dignità di concetti
fondamentali. (Grundbegriffe) » (pag. 247).
Non si tratta dunque di eliminare errori o di
colmare lacune, bensì di trasformare ab imis tutta
la scienza economica mediante l’assunzione di prin¬
cipi affatto diversi e a confini ben determinati.
Non v’è uno solo dei concetti di cui ] a scienza eco¬
nomia oggi fa uso che non sia di carattere empi-
ri co e perciò suscettibile delle infinite interpreta¬
zioni giustificate dalle contingenze del suo uso.
Aver la pretesa di far della scienza rimanendo su
un terreno così poco stabile è un assurdo che il
Somharf riesce a mettere efficacemente in luce,
mostrando l’urgenza dei rimedi. Ed egli senz’altro’
afferma, con simpatico orgoglio, di aver appunto
intenzione di recare « un po’ d’ordine in questo
246 —
caos )) ( p. 19) e di dar finalmente rigore scientifi¬
co a una disciplina che con troppa evidenza ha di¬
mostralo di non averne affatto. Con questo libro
una nuova epoca dovrebbe, dunque, iniziarsi nella
storia della scienza economica.
Per chiarire la sua posizione di fronte a tutti
gli altri indirizzi scientifici, il Sombart compie fin
dalle prime pagine una generale ripartizione dei
sistemi di economia in tre grandi tipi, caratteriz¬
zati dal metodo di ricerca: il metafisico o normati¬
vo (Tirhtende Nationalokonomie), il naturalistico
o classificatorio o descrittivo (ordnende A lational-
Òknnomie) e infine lo spiritualistico o critico (vpt-
slehende Nationalokonomie). Del primo sarebbe
rappresentante tipico Sau Tommaso, del secondo il
Pareto, del terzo il Sombart (das « meinige »). E
tutto il libro quindi vien ripartito in tre parti, due
delle quali volte alla critica dei sistemi giudicati
inadeguati (metafisico e naturalistico) e l’ultima
invece destinata a porre i fondamenti della nuova
costruzione spiritualistica.
L’economia normativa non ba lo scopo di stu¬
diare il mondo nella sua effettiva realtà, ma di in¬
dicare ciò ch’esso deve divenire: non si riferisce
all’essere ma al dover essere, e in quanto tale pone
le direttive della condotta umana per l’instaurazio¬
ne dell’economia giusta. I concetti su cui essa si
fonda sono perciò concetti sociologici come classe
o mestiere; concetti di giustizia come giusto prez-
— 247
zo, giusto salario o giusta distribuzione; concetti
di valore come sfruttamento, ecc. I suoi fini sono
quelli di determinare i valori assoluti, di riconnet-
tcre ad essi le proposizioni scientifiche, di tradurli
nella pratica della vita e di segnalare le deviazioni
della realtà dall’ideale.
Dopo aver esposto i vari tipi di questa econo¬
mia normativa, l’Autore si domanda se essa sia
scientificamente ammissibile e se possa quindi rap¬
presentare il vero canone metodologico dello stu¬
dioso. Nella risposta si rivelali d’un tratto tutti i
limiti dell’orizzonte speculativo del Sombart e si
iniravvedono le difficoltà che egli dovrà superare
per liberarsi, almeno in parte, dai pregiudizi della
ideologia da cui prende le mosse. Ancora fedele al
concetto positivistico di scienza e alla conseguente
critica antifilosofica, egli distingue in modo cate¬
gorico il mondo dell’esperienza dal mondo dei va¬
lori, la scienza dalla filosofia, e alla prima ricono¬
sce la possibilità di una verità obbiettiva laddove
alla seconda consente un significalo esclusivamente
soggettivo. L’economia, in quanto scienza, non può
indicarci l’ideale di una maggiore produzione, per¬
ché tale ideale implica la soluzione di un problema
non semplicemente economico, ma totale o meta¬
fisico, quale è quello del fine sociale: implica, cioè,
una particolare visione del mondo una Weltan-
schauung, che trascende assolutamente i meri dati
scientifici. Né è possibile, secondo il Sombart, che
tale concezione integrale informi comunque di sé
una scienza particolare, perché la differenza fra
la parte e il tutto, ossia tra la scienza e la filosofia,
non è soltanto quantitativa, bensì anche qualita¬
tiva. La filosofia è da lui intesa come intuizione re-
248
ligiosa, come conoscenza personale e soggettiva: se
essa si insegna, i] suo insegnamento non può con¬
siderarsi come 1 introduzione a una verità, ma co¬
me una suggestione personale del maestro sull’a-
lunno, come un invito alla lede del maestro.
La conoscenza filosofica, perciò, è essenzial¬
mente relativistica e può rivelarci un solo aspetto
della realtà, mutando legittimamente da persona a
persona, con pari validità per ognuno. Alla fede
scientifica, originariamente positivistica, il Sombart
può giustapporre, senza timore di ledere la sicu¬
rezza obiettiva dell’esperienza, una filosofia rela¬
tivistica e scettica, fornitagli a troppo buon mer¬
cato dall’indulgente Simrnel. E allora dalla scien-
za si dà il bando a tutti i giudizi di valore, che. in
quanto personali, non possono costrìngere logica¬
mente, ma debbono rimanere fuori dell’esperienza
e dell’evidenza. 11 loro fondamento è Femore: per
i valori 1 uomo vive e muore, ma i valori non co¬
nosce: essi appartengono alla sfera filosofica o reli¬
giosa, nella quale dunque può solo rientrare tutta
l’economia normativa.
In tal guisa vien liquidato dal Sombart uno
dei tipi fondamentali della scienza economica, e
il lettore non può non rimanere sorpreso dalla
facilità e diciamo pure — superficialità, con
cui si ripetono monotonamente la istanza scientifi¬
ca del positivismo, l’affermazione dogmatica della
validità di un’esperienza e di un’evidenza logica
non meglio definite, l’accusa di relativismo alla fi¬
losofia, e 1 impossibilità scientifica di un qualsiasi
giudizio di valore. Se dovessimo arrestarci a que¬
sta prima parte del libro, non avremmo che a con¬
cludere in modo affatto negativo, perché se il Som-
— 249 —
bari avesse sul serio mantenuto fede a tale pozio¬
ne iniziale, nessun motivo nuovo e nessuna nugoli
esigenza sarebbero scaturiti dalla sua ricostruzione.
1] dualismo di conoscenza e fede, di fatto e valore,
di oggettivo e soggettivo, ci appare finora così radi¬
cale e grossolano, da far ritenere completamente
fallito il tentativo e da far per lo meno dubitare
della serietà di un effettivo riordinamento della
scienza economica. Più che la rozzezza dei motivi
critici^ meraviglia vedere in un uomo di tanta cul¬
tura l’assoluta incapacità di prender atto dello svi¬
luppo del pensiero contemporaneo e delle infinite
istanze critiche sollevate d’ogni parte al massiccio
credo positivistico, cui il Sombart sostanzialmente
serba ancora fede. Lo stesso Pareto, del quale egli
ricalca fin qui le orme, aveva detto queste cose in
ben altra e più nuova maniera: né si capisce come
vi si possa ancora tanto insistere, senza porre in
campo argomenti nuovi o senza impostare diversa-
mente la logora questione. Si tratta, oltre tutto, an¬
che di sensibilità e di gusto.
Ma fortunatamente il Sombart. pur portando
attraverso tutto il libro il peso di tali presuppo¬
sti, sa presto sollevarsi a un altro livello e affac-
ciare esigenze in netta antitesi con le prime affer¬
mazioni. Da una parte si affina in lui il concetto di
esperienza, dall altra si attenua fin quasi a scom¬
parire il crudo dualismo di scienza e filosofia. E
già nell analisi del secondo tipo di sistemi econo-
— 250 —
mici, quello classificatorio o descrittivo, si comin¬
cia a delineare una forte istanza critica rispetto al¬
la comune concezione naturalistica della scienza.
Caratteristiche della scienza della natura so¬
no la validità universale e l’assoluta obiettività dei
principi e delle leggi: ma questo risultato, che è il
risultato più grande raggiungibile dalla scienza, è
possibile solo a patto di rimanere in una zona me¬
ramente formale. Se analizziamo, infatti, le propo¬
sizioni delle scienze naturali, ci accorgiamo ch’es¬
se si riferiscono a fenomeni morii, già realizzati
fìssati e resi calcolabili attraverso un processo di
elementarizzazione. Il tutto, l’essenza della natura
sfugge completamente e va relegato nei campi della
metafìsica: ciò che resta oggetto di scienza sono i
particolari aspetti, i fatti semplici, i fenomeni mi¬
surabili, i quali vengono raccolti e ordinati secon¬
do principi formali estrinseci (concetti generali,
schemi, leggi, uniformità). « La conoscenza, come
viene intesa nelle moderne scienze naturali, è una
comprensione esteriore delle cose; è una conoscen¬
za dal di fuori, o, come fu anche detta, particolare,
vale a dire ch’essa si limita a un solo carattere: la
quantità (Gròsse). Fornendoci solo la misura o il
numero delle proprietà dei fenomeni, le scienze
naturali hanno sostituito un rapporto formale e
unilaterale all’unità complessa )) (p. 112).
Ora, v’è un modo di costruire la scienza del-
reconomia, che si ispira appunto a tali criteri na¬
turalistici, poco preoccupandosi del valore conosci¬
tivo dei risultati. E il Sombart giustamente ravvisa
nei seguaci di questa ordnende Nationalókonomie
non solo i teorici delFoggettivismo, ma gli stessi sog¬
gettivisti, gli psicologi, i marginalisti e i seguaci delle
— 251 —
teorie dell’equilibrio. Egli non si lascia ingannare
da un presunto soggettivismo e. dopo aver osservato
(pagg- 110-111) cbe esiste un modo naturalistico di
fare la scienza dell’anima e dello spirito, giunge fino
a rilevare il carattere equivoco del principio di ofe¬
limità del Pareto (p. 128).
Una critica condotta in termini sì efficaci e ri¬
gorosi della concezione naturalistica della scienza
basta a farci comprendere come la posizione piat¬
tamente positivistica dell’altra critica alla richtende
Nationalókonomic non fosse sufficiente per indivi¬
duare il livello speculativo cui il Sombart è perve¬
nuto. Qui si rivela una coscienza abbastanza esatta
e approfondita di tutto quel movimento di reazione
idealistico alla scienza che ha caratterizzato gran
parte del pensiero filosofico e scientifico degli ultimi
decenni, e si dimostra a chiare note una radicale in¬
soddisfazione per rinfallibile obiettività e assolu¬
tezza di cui presumevano avere il monopolio i po¬
sitivisti. Se, quindi, si volesse nuovamente definire,
limitandoci a questa seconda tappa, la concezione
speculativa del Sombart. occorrerebbe cercarne i li¬
miti in quella stessa critica alla scienza cbe caratte¬
rizza le filosofie contemporanee antintellettualisti-
che. E i lìmiti allora si ritroverebbero nel dualismo
di natura e spirito, cbe pesa purtroppo sulla scien¬
za e sulla filosofìa come dualismo delle stesse disci¬
pline, e che fa ritenere tuttavia a molti insupera¬
bile la concezione naturalistica delle scienze natu¬
rali. L’accusa che il Sombart muove alla scienza
della economia non riguarda, per sua esplicita con¬
fessione, la scienza della natura, la quale è e deve
essere naturalistica, e necessariamente degenera nel¬
la metafisica quando voglia supeiare il proprio ca-
— 252 —
ratiere meramente formale (p. 119): il che vuol
dire che scienza naturale e scienza sociale sono as¬
solutamente eterogenee, e che alla prima competono
metodi di ricerca affatto diversi da quelli seguiti
dalla seconda. La conseguenza ultima sarà che la
scienza sociale per quel tanto che interferirà con la
scienza naturale diverrà per definizione impossibile
e assurda, come appunto confermerà nell’ultimo
svolgimento del suo pensiero lo stesso Sombart. Egli,
al solito, non sospetta che la critica alla scienza ha
il solo valore di una critica alla concezione natu¬
ralistica della scienza e non pensa neppure che la
scienza della natura possa farsi con altri criteri che
non siano quelli estrinseci del positivismo : dalla sua
critica perciò egli non perviene a una nuova visio¬
ne della scienza, in generale, bensi soltanto a un
distacco arbitrario delle scienze sociali, che vorreb¬
be sottrarre alla metodologia propria delle scienze
naturali. È questo certamente un passo innanzi ri¬
spetto alla comune critica alla scienza, ma è un
passo fatto a costo di un dualismo che compromet¬
terà inevitabilmente la nuova costruzione.
Dall’analisi compiuta della richtende Nationa-
lókonomie e della ordnende Nationalókonomie so¬
no scaturiti per contrasto i caratteri che do¬
vrà avere la vera scienza dell’economia, la ver-
stehende Nationalokonomie. E il problema viene
a porsi in termini almeno apparentemente rigo¬
rosi, quando il Sombart affaccia l’esigenza di un cri-
terio conoscitivo che sfugga per la sua obiettività al
relativismo di una metafisica soggettività e non si
esaurisca d altra parte in una sistemazione affatto
estrinseca e classificatoria dei fenomeni sottoposti
a indagine. La nuova scienza dovrà giungere alla
essenza della realtà economica, pur non abbando¬
nando mai il terreno concretissimo dell’esperien¬
za. Per giungere a questo risultato il Sombart com¬
pie il maggiore sforzo speculativo che gli è possibile
assumendo entusiasticamente a guida indiscussa il
pensiero del nostro Vico, dal quale appunto trae
argomento per ipostatizzare il dualismo, cui abbia¬
mo accennato, di scienza della natura e scienza so¬
ciale. (( lo sono disposto )), afferma risolutamente il
Sombart, « a riconoscere in Giambattista Vico il pa¬
dre delle moderne scienze dello spirito e di un rela¬
tivo particolare metodo di conoscenza. Egli è. a mio
modo di vedere, il primo che nei tempi moderni ab¬
bia contrapposto con coscienza le scienze storiche
alle scienze naturali e abbia dimostrato la necessità
per le prime di un metodo d indagine diverso dal¬
l’usuale)) {p. 156).
E che il Vico sia proprio il padre della « verste-
bende » sociologia il Sombart vuol dimostrare tra¬
scrivendo addirittura nel testo italiano il noto passo
della Scienza nuova: «Questo mondo civile certa¬
mente egli è stato fatto dagli uomini: onde se ne
possono, perché se ne debbono, ritrovare i Principi
dentro le modificazioni della nostra medesima men¬
te umana. So che a chiunque vi rifletta sopra, deve
recare una somma maraviglia, come tutti i Filosofi
seriosamente si studiarono di poter conseguire la
Scienza di questo Mondo naturale, del quale, per¬
ché Dio egli il fece, esso solo ne ha la Scienza ; e tra-
— 254 —
scurarono di meditare su questo Mondo delle Nazio¬
ni, o sia Mondo civile, del quale, perché l’avevano
fatto gli uomini, ne potevano conseguire la Scienza
gli uomini ».
Ora, la scienza dell’economia, come tutte le
scienze sociali e la sociologia in genere — il Som-
bart preferisce ancora questo termine a quello di
storia — riguarda appunto il mondo fatto dagli uo¬
mini, vale a dire non il mondo della natura, bensì
quello dello spirito o della Kultur : quel mondo che
noi possiamo conoscere veramente perché costruito
da noi. « Noi e noi soltanto siamo i creatori della
cultura e ci muoviamo in questo piccolo mondo co¬
me Dio in quello grande. In questo nostro mondo
noi siamo in effetti il Dio onnisciente e onnipoten¬
te » (p. 199).
Intesa in tal modo la cultura come tutta l’opera
umana in contrapposizione alla natura, si compren¬
de bene come il Sombart possa concepire una scien¬
za dell’economia spiritualistica e al tempo stesso
sperimentale e obiettiva. Metafisica era la richtende
Natianalòkonomie perché presumeva di conoscere
un mondo trascendente il nostro pensiero: forma¬
listica era la ardnende Nationalòkonomie perché vo¬
leva arrestarsi nel campo delle scienze sociali agli
stessi criteri validi per le scienze naturali : ma non
più metafisica né formalistica sarà la verstehende
JSationalókonomie, che potrà giungere all’essenza
delle cose, senza tuttavia sconfinare in un mondo
trascendente. Essa potrà divenire veramente una
Erfahrungxwi.'isp.nschaff, quando sarà concepita come
una Geistwissenschaft nel senso di Kulturtcissen-
schaft.
- 255 —
Con l’affermazione della verstehende Nationnl-
ofconomie come sociologia il Sombart raggiunge il
più alto livello che gli è consentito dai suoi presup¬
posti filosofici: e alla luce di essa ci è ota possibile
ritornare alle critiche delle due prime forme scien¬
tifiche dell’economia e intravederne quel più pro¬
fondo significatico intuitivo che mal ci è apparso
attraverso la rigorosa riduzione in termini logici
che ne abbiamo fatto. Perché adesso ci è dato ca¬
pire come la critica grossolanamente positivistica
rivolta alla richtende Natiflìialakonomie non stava
a dimostrare una meschina adorazione del fatto, vi¬
sto fuori della vita dello spirito e della storia, bensì
piuttosto l’insofferenza per ogni forma di scienza
moralistica, volta a determinare aprioristicamente
i fini dell’attività umana in genere e di quella eco¬
nomica in ispecie. Se in quella critica predominava
senza dubbio il vecchio pregiudizio positivistico di
un’esperienza intesa in modo affatto oggettivo, è pur
vero che a esso si accompagnava una coscienza sto¬
ricistica di ben altro valore, tendente non all’elimina¬
zione dei valori spirituali, bensì al loro spostamento
dall’astratto campo della metafisica moralistica alla
salda e concreta realtà della storia. Che è poi la
6tessa esigenza che induce il Sombart a svalutare
le scienze naturali e insieme il modo naturalistico
dì costruire la scienza economica. Non che egli
non creda utile una sistemazione formale dei dati
dell’econoniia, che anzi ne conferma in questo stes-
so libro l’opportunità e addirittura la necessità, ma
non ritiene che in essa possa esaurirsi il compito di
una scienza destinata allo studio di una realtà viva
e progrediente quale è l’attività umana creatrice
della storia. Gli economisti tanno finora oscillato tra
un arbitrario moralismo e un formalismo tautolo¬
gico e non hanno mai saputo assurgere a una effet¬
tiva comprensione dei fenomeni che volevano spie¬
garsi: il Sombart ne ha visto efficacemente le ragio¬
ni ed è salito a lina forma superiore di storicismo.
Lo storicismo del Sombart, infatti, è molto di¬
verso da quello tradizionale della scuola storica e
si comprende come egli non ami troppo la parola,
che pur è la più adatta a caratterizzare la sua po¬
sizione. Al vecchio storicismo il Sombart è giusta¬
mente contrario e la diagnosi che ne compie coglie
proprio il segno. Se la scuola storica aveva avuto
rintuizione delle complessità e varietà dei fenomeni
economici, non aveva poi saputo elevarsi fino al
loro dominio ed era finita neH’irrazionalismo : lo
storicismo, come descrizione empirica dei fenomeni
visti nella loro caotica molteplicità, non è la scienza
ma la negazione della scienza.
Lo storicismo del Sombart, invece, penetra al
fondo della mutevole realtà e vuol coglierne la lo¬
gica del movimento: e questo può fare, perché, gra¬
zie a Vico, ha compreso che quella logica è la logica
stessa del nostro pensiero. Ma se così è, necessaria¬
mente ne deriva che in tanto è possibile intendere
un qualsiasi fenomeno della realtà — e nel caso
particolare, un fenomeno economico — in quanto
lo si riconduce al sistema integrale di quel pensiero
che gli ha dato origine dando origine a tutto il
mondo della cultura. Vano e assurdo è ogni ten-
— 2S7 —
tativo di determinare un qualsiasi principio scien¬
tifico nel campo dell'economia, se non si tiene ben
presente che il fatto economico è intelligibile sol¬
tanto in funzione di tutti gli altri aspetti della realtà
in cui esso sorge e si svolge. E il significato stesso
dei termini cbe si adoperano dagli economisti non
è definibile se non in rapporto alle diverse condi¬
zioni storiche, continuamente variando con il va¬
riare di queste; sì che soltanto con un atto di ar¬
bitrio ingiustificato è possibile agli economisti fis¬
sare una legge sciertifiea di presunto valore asso¬
luto, trascendente il tempo e lo spazio. L’errore più
grave della scienza economica quale si è svolta fin
qui è stato appunto quello di ipostatizzare alcuni
termini e alcuni principi, obliando il nesso loro
imprescindibile con la concreta vita storica dalla
quale termini e principi avevan tratto alimento.
Anche le parole di significato più generale e appa¬
rentemente affatto libere da legami con una parti¬
colare epoca storica — ad es. scambio — in effetti
non significano nulla, e per diventare davvero in¬
telligibili hanno bisogno di una determinata qua¬
lificazione storica — lo scambio presso i primitivi,
nell’epoca capitalistica, ecc. Il che implica che la
scienza dell’economia va ricostruita ex novo, come
scienza storica che utilizzi concetti storici e si pon¬
ga perciò in grado di superare l’attuale stato caotico
dovuto al giustapporsi di principi originati da di¬
verse situazioni storiche e tuttavia messi su di uno
stesso piano, con la pretesa di farli corrispondere
a qualsiasi situazione storica. Si continuano oggi a
ritenere scientifiche tante leggi dell’economia clas¬
sica, e non ci si accorge che quelle leggi non hanno
più valore perché i termini in cui sono espresse
17 - Srum
— 258 —
hanno cambiato di significato, senza che Leconomi-
sta ahhia riflettuto sulla portata di tale mutamento.
E a poco a poco l'economia è diventata un lavoro di
mosaico, in cui ogni pietruzza sta per conto suo,
senza che neppure in tale indipendenza possa avere
una fisionomia sua, suscettibile com’è di infinite co¬
lorazioni, alle diverse luci che la illuminano. 11
Somhart ha visto come pochi questa essenziale inor¬
ganicità e incongnienza della scienza economica e
ha saputo scoprirne la piu profonda ragione.
Senonché il Somhart non può raccogliere tutti
i frutti della sua concezione per i limiti stessi entro
cui rigorosamente la circoscrive arrestandosi alla
dottrina dì Vico. Se l'aver riallacciato il nuovo sto¬
ricismo al pensiero del grande filosofo italiano co¬
stituisce il più gran merito del Somhart, l’aver poi
creduto che si possa ancor oggi, dopo due secoli di
intensissimo travaglio speculativo, impostare il pro¬
blema proprio negli 6tessi termini, è purtroppo tale
un errore da compromettere in modo irrimediabile
il risultato di ogni ricerca.
L’errore — come si è già accennato — consiste
nel dualismo vichiano di mondo umano e mondo
naturale, considerati l’uno come fattura dell’uomo
e l’altro di Dio. Poiché si può essere dualisti quanto
si vuole, ma bisogna pur rendersi conto che, se esi¬
stono due realtà, esiste per ciò stesso il problema
del loro rapporto. Ora, tale rapporto è sfuggito in
gran parte alla mente del Vico, ed è appena analiz¬
zato dal Somhart che lo concepisce in modo molto
estrinseco e a posteriori. Egli non si preoccupa, in¬
fatti, di ricercare 1 unità originaria dei due mondi,
sì ch’essi possano rendersi intelligibili alla luce di
un unico fine, ma si limita a constatarne i rapporti
— 259 —
di coesistenza e il reciproco influsso: le due realta
restano presupposte e la soluzione del problema si
trasforma in un mesebino modus vivendi.
Se l’uomo fosse davvero costretto a creare —
secondo le parole del Somhart — il piccolo mondo
della cultura lasciando nel mistero della sua essenza
il grande mondo della natura creata da Dio, eviden¬
temente il grande non potrebbe non soffocare il pic¬
colo e renderlo affatto illusorio. Se viviamo nella
natura, se natura siamo noi stessi venendo alla luce,
se la nostra vita fisica e spirituale è costretta a svol¬
gersi nelle determinate condizioni fissate dalla na¬
tura, com’è poi possìbile comprendere l’essenza di
quel che facciamo ignorando l’essenza di quel che
troviamo? Se esistono due mondi, l’uno nostro e
l’altro di Dio, è pur necessario che il primo sia su¬
bordinato al secondo e adegui il proprio fine a quel¬
lo dell'altro; ma se è così, o l’uomo conosce il fine
di Dio, vale a dire l’essenza della natura, e allora
può agire seguendone le tracce, o non lo conosce,
e allora procede alla cieca senza aver coscienza della
direzione del proprio cammino. E la scienza, del
cui rinnovamento il Sombart giustamente si preoc¬
cupa, deve ormai decidersi ad affrontare il proble¬
ma nella sua integrità, diventando storicistica nel
senso più rigoroso della parola e cioè intendendo
per storia dell’uomo la storia stessa del mondo, e
riconoscendo in tal guisa l’identità assoluta di sto¬
ria e di filosofia. Scienza storicistica e scienza filo¬
sofica non possono essere altro che sinonimi.
Da questa conclusione rigorosa e perentoria il
Sombart si è ritratto per un residuo di positivistico
odio contro la filosofia e per il conseguente agno-
ticismo metafisico ; ma s’egli si informasse più ade-
— 260 —
^natamente dei risultati del movimento idealistico
italiano finirebbe forse eoi convenire cbe, se ancora
di metafisica resta traccia nella filosofia contempo¬
ranea, è proprio in cotesto agnosticismo positivisti-
co, il quale, proprio perché nega la possibilità di
conoscere l’essenza della natura, ammette niente¬
meno l’esistenza di un mondo trascendente e si pre¬
clude la via a una conoscenza effettiva della realtà.
Perché si possa parlare di scienza è necessario cbe
il nostro conoscere non abbia limiti insuperabili
e cbe il mondo di Dio sia lo stesso mondo nostro:
fino a quando nel concetto tedesco di cultura non
sarà risolta anche la natura, esso non potrà carat¬
terizzare l’umana realtà nella sua più profonda
consapevolezza.
Che tale sia veramente il limite della concezio¬
ne del Sombart basterebbe a dimostrarlo la parte
ricostruttiva della sua teoria, nella quale dovreb¬
bero essere tracciate le linee maestre della nuova
scienza economica. Putroppo questa è la parte più
scadente e irrilevante del libro, dove l’insostenibi-
lità del dualismo viebiano finisce col rivelarsi a ogni
passo in continua ed evidente contraddizione, e do¬
ve l’urgenza dei motivi più disparati non consente
una visione organica del problema. Tutto ciò ch’era
stato negato e relegato nel mondo della filosofia o
della metafìsica, viene ora bruscamente fuori a riaf¬
fermare esigenze imprescindibili, e il Sombart lutto
accetta rifacendo un posticino alla filosofia deH’eco-
nomia, alla richtende ISationalòkonomie, alla dot¬
trina dei valori, ece., senza che nella molteplicità
degli elementi giustapposti sia più possibile discer¬
nere un criterio direttivo rigorosamente determina¬
to. È la scienza che deve servire alla vita e cbe deve
perciò riconciliarsi in qualche modo, attraverso una
serie di compromessi, con il mondo naturale e il di¬
vino incautamente trascurato. Ma intanto Punita
della visione si spezza a causa della molteplicità dei
punti di vista e la scienza diventa la somma ano¬
dina di infinite constatazioni. L’esigenza storicistica
è tradotta in termini po9tivistici e si muta nel bi¬
sogno di tutto includere oggeltivisticamente nel gran
pozzo della scienza, dove tutto il bene e tutto il male
va buttato a pari titolo per il fatto stesso di esistere.
E la così detta W'ertefreiheit torna a essere ancora
una volta — sia pure attraverso qualche timida
smentita — il più alto ideale scientifico.
Se vogliamo ora trarre le somme di quanto 6Ì
è detto e indicare brevemente il risultato del tenta¬
tivo compiuto dal Somhart di giudicare tutta la
scienza economica classica e contemporanea, e di
gettare le fondamenta della nuova costruzione, dob¬
biamo concludere che l’istanza critica dell’opera
supera di gran lunga il breve abbozzo sistematico e
che il lato veramente positivo si riduce in effetti a
una mera esigenza. Quel che v’è di saldo e peren¬
torio nel volume è la diagnosi, spietata ma giustis¬
sima, delle attuali condizioni della scienza. La erisi
è presentata nelle sue effettive proporzioni e soprat¬
tutto nc sono indicate con grande precisione le ra¬
gioni più notevoli: dogmatismo, antistoricismo, in¬
determinatezza di principi e di terminologia, asiste¬
ma licita, metodo naturalistico, moralismo. Sono ac¬
cuse di cui gli economisti non riescono a persuader-
— 262 —
si, ma che pure ormai dovrebbero richiamare una
più profonda attenzione ed essere esaminate con
mentalità più sgombra da preconcetti. A noi in par¬
ticolare, che da quattro anni andiamo precisando
questa diagnosi nei Nuovi studi di diritto, econo¬
mia e politica, non può non esser gradita l’analogia
dei risultati cui è pervenuto il Sombart; e tanto più
interessante e fecondo sarebbe raccordo se potesse
estenderei al lato più propriamente ricostruttivo
del sistema. Poiché se la diagnosi della economia
attuale basta a dimostrare la necessità di una visio¬
ne storicistica della scienza, non è sufficiente di ner
sé sola a chiarire la peculiare forma che deve avere
il nuovo storicismo. F a noi pare che il Sombart,
per gli stessi presupposti speculativi da cui prende
le mosse, è fatalmente destinato ad arrestarsi ad
una forma di positivismo vichianeggiante in cui la
vita vera della storia 9Ì frange e si acqueta tuttavia
nell’eclettica stasi contemplativa della sociologia.
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