1730: appare la "seconda" Scienza Nuova. Non è propriamente una seconda edizione dei Principj di una Scienza Nuova intorno alla Natura delle Nazioni, apparsi cinque anni innanzi. La revisione, a cui Vico ha sottoposto il testo del 1725, è tale da farne un'altra opera: basterebbe ricordare l'inserimento della "discoverta del vero Omero", argomento affatto nuovo e fondamentale che occupa un intero libro, il terzo; invero è mutata la struttura stessa del lavoro, come anche una rapida scorsa degli indici delle due edizioni mostra.
Se, ciononostante, Vico ha mantenuto anche nella successiva edizione il medesimo titolo, salvo piccole varianti,2 è perché l'ampliamento e la diversa distribuzione della materia, nonché la correzione dell'"errore" d'aver egli separato, nella prima redazione, i "principi delle idee" da quelli "delle lingue", che sono "per natura tra loro uniti", non solo non hanno mutato l'orientamento di fondo dell'opera, l'hanno bensì approfondito e sviluppato, specialmente riguardo al tema del linguaggio. 3
Tra le "novità" della seconda Scienza Nuova spicca l'immagine posta sul frontespizio dell'opera: una "dipintura allegorica" commissionata dal filosofo a Domenico Antonio
Vaccaro, noto pittore napoletano, che l'aveva eseguita secondo precise indicazioni e sotto il controllo del committente. Che l'uso di accompagnare un testo filosofico o letterario con un'immagine fosse frequente al tempo di Vico è cosa nota: si citano come esempi illustri l'Organon di Francesco Bacone, il Leviathan di Hobbes, i Second Characters di Shaftesbury e da ultimo la Istoria universale provata con monumenti e figurata con simboli degli antichi di Francesco Bianchini. Che il filosofo napoletano ne sia stato influenzato, ben si ricava da quanto egli stesso dice nel primo capoverso dell'Introduzione, dove spiega che l'immagine sul frontespizio dell'opera serve a
"ridurla più facilmente a memoria [...] dopo di averla letta".
Ma che la funzione mnemonica di questa Tavola delle cose civili sia affatto secondaria, è del tutto chiaro, premurandosi Vico di dire per prima cosa che la dipintura "serv(e) al Leggitore per concepir l'idea di quest'Opera avanti di leggerla" (SN30, p. 363;
SN44, p. 785). Prima di chiarire questo punto che è essenziale comprendere l'esigenza filosofica cui risponde la
"dipintura", è opportuno darle uno sguardo veloce.
In alto, a sinistra dell'osservatore, è dipinto un sole, al cui interno è un triangolo con dentro un occhio, dal quale parte un raggio di luce che giunge al petto della fanciulla dalle tempie alate, allegoria della Metafisica, che ha lo sguardo fisso al sole.
Dal petto della fanciulla, i cui piedi poggiano sul globo terrestre, il raggio si riflette sulla statua collocata in basso a sinistra. Ai piedi della statua, che raffigura Omero, vari arnesi:
та оно,
un timone, un aratro, una borsa; poi una tavola con su scritte alcune lettere alfabetiche, quindi un fascio di verghe. Al lato opposto della statua un altare, su cui scorgiamo un lituo, una fiaccola, un orciuolo contenente acqua, quindi il fuoco accanto al globo su cui poggia la fanciulla alata. La fascia che cinge il globo è quella dello zodiaco, con i segni delle costellazioni della Vergine e del Leone in evidenza. In basso, a destra, un'urna cineraria, ai margini di una gran selva. Vico concepì il dipinto come "Idea dell'opera" - così nell'Introduzione dedicata alla "spiegazione della dipintura proposta al frontespizio" - e cioè come figura o immagine della Scienza Nuova, ovvero della storia: della storia ideale eterna e delle storie che "corron' in tempo". L'ampiezza e la meticolosità della "spiegazione"5 attestano l'importanza ch'egli attribuiva alla "traduzione" dei suoi argomenti in "immagine".
L'immagine doveva, infatti, integrare la voce, facendo cogliere uno actu - e non in successione - i due aspetti che caratterizzano la storia: 1) la cornice stabile e permanente dell'eterna provvedenza, esemplata nel raggio di luce che parte dall'occhio divino e, toccando la metafisica, illumina e regge il mondo degli uomini, e 2) l'operare umano nel tempo, volto, anche inconsciamente, a Dio, testimoniato dallo sguardo della fanciulla alata, eternamente fisso sul triangolo solare. E, pertanto, come l'immagine serviva ad integrare la voce, così questa doveva a sua volta completare l'immagine, dacché soltanto la voce dà in successione quello che in successione accade entro l'ordine necessario della storia ideale eterna: il
"correre in tempo" delle storie di tutte le nazioni "ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini" (SN44, p. 903).
Vico non intese questa congiunzione di voce e immagine - phonè kai schêma, per dirla con le parole del Cratilo di Platone, di cui il filosofo napoletano resta insuperato "interprete"6 - come una "novità" da lui introdotta in filosofia. Al contrario la presentava come un'operazione di restauro. Per comprenderne le ragioni, dobbiamo fare alcuni passi indietro nel tempo e leggere quella nota che lui aggiunse al Il Libro del Diritto
Universale, il De constantia jurisprudentis:
[...] Come prima la lingua eroica aveva diviso gli eroi dagli uomini, così dopo la lingua volgare divise i filologi dai filosofi. Il motivo di questa seconda osservazione è che, poiché la lingua volgare, in quanto comune, non riusciva a descrivere la natura e le proprietà delle cose, sorse la scissione tra i filosofi che si dettero a investigare sulla natura delle cose, e i filologi che invece investigavano sulle origini delle parole; e così la filosofia e la filologia, che erano nate tutte e due dalla lingua eroica, vennero ad essere divise dalla lingua volgare.? La lingua volgare, così detta perché lingua della comunicazione - in seguito Vico la chiamerà "pistolare" (SN44, Degnità XXVIII) -, rende solo i caratteri "comuni", "generici", delle cose, non la loro "natura", ciò che ad esse è proprio, la loro concreta, reale, determinatezza. Questo ha portato alla divisione della filologia, che s'interroga sull'origine delle parole - quindi su come siano sorte le parole generiche, vuote di determinatezza, della lingua "comune" -, dalla filosofia che, invece, investiga direttamente la natura delle cose. Ma in che modo? Non è anche la filosofia legata al linguaggio? Vico s'avvide del cul-de-sac in cui s'era cacciato. Ne uscì, con due mosse geniali. La prima fu l'abbandono del latino delle scuole, lingua di pura comunicazione di concetti, priva di vero rapporto con la vita quotidiana del popolo, fatta di eventi reali e cose concrete; scelse di scrivere in volgare - ma bisogna aver confidenza con la lingua di Vico, con il "barocco napoletano" della Scienza Nuova, per capire la portata di questo mutamento.
La seconda mossa strategica fu "l'idea dell'opera": la "dipintura allegorica", con cui egli volle ricongiungere voce e immagine, o, per dirla con Nietzsche, il mondo dell'ascolto, della parola (Hörwelt), e quello della visione, dell'immagine (Schauwelt). 8 Vico operava, consapevolemente, in controtendenza rispetto all'intera tradizione occidentale e in particolare al suo tempo, che spingeva la lingua all'astrazione, secondo il modello
"matematico". Vico - ho detto; ma debbo subito precisare: il filologo più che non il filosofo. Ché come filosofo non fu meno attratto dal mos geometricum di quanto lo furono Cartesio e Spinoza, se volle estendere alla storia quella mathesis universalis già da Grozio applicata al diritto. Come filologo, invece, seppe risalire alle origini lontane, remote del linguaggio, alle fonti antiche della poesia greca, con la "discoverta" del vero Omero o dei molti Omeri, e della latina, leggendo insieme con Virgilio e Lucrezio, e Orazio, Stazio, Plauto, gli "storici" e gli
"eruditi", interpretando anche l'antico diritto romano qual
"serioso poema" e l'antica giurisprudenza come
"severa
poesia". Né si fermò qui, ma piegandosi sulla lingua dei contadini, sulle loro metafore e i loro gesti, vide con l'occhio di una fervida immaginazione i primi abitanti della Terra, i forti ed empiamente pii Polifemi, atterriti dalla luce del lampo che squarcia le notti e dal cupo rimbombo del tuono che fa tremare la Terra, emettere i primi suoni inarticolati di un linguaggio "naturale", inintenzionale, prima fonte della lingua articolata dell'uomo. Scorse, talora come da dietro un vetro opaco, la nascita dell'uomo dall'animale, della mente dal corpo, della storia dall'ingens sylva, e ne descrisse lo sviluppo, non senza "salti" e "confusioni" di tempi e forme linguistiche.
Philologia contra philosophia? In certo senso sì, se la filologia lo convinse non solo a trattare dei miti, ma in qualche modo a
"mimarne" il gesto narrativo.10 Tentò una nuova lingua, logica e mitica ad un tempo, capace di tenere insieme narrazione e logica, la contingenza della storia e la necessità della mathesis.
Anticipava con le sue folgoranti intuizioni, l'idea della Mythologie der Vernunft,11 che nacque all'incirca mezzo secolo dopo in terra germanica, ma che presto fu abbandonata, e proprio dal suo massimo rappresentante, Hegel, che, anni dopo, avrebbe esaltato il linguaggio alfabetico sulla lingua geroglifica, per essere quello costituito di nomi, che sono bildlose Vorstellungen, rappresentazioni senza immagini. Ed "è nei nomi che noi pensiamo", 12
La "dipintura" serviva a Vico per ricostruire nella composizione di parola e immagine quella unità di voce e gesto che l'uomo storico aveva già perduto molto prima che sorgesse la lingua della comunicazione - la lingua "pistolare" della ragione riflessa -, già con la lingua eroica. Ma era, Vico, in ritardo sul suo tempo. La frattura parola/immagine era solo l'aspetto "in superficie" di una più profonda scissione.
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