Grice e Soria: l’opuscolo della simpatia –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Lama). Filosofo italiano. La famiglia risiede da tempo a Sant'Ilario
in Campo, nell'isola d'Elba. Appartenente alla corrente del sensismo. Insegna a
Pisa. Combate Cartesio ed esalta GALILEI. Scrive il saggio Rationalis
Philosophiae Institutiones. Direttore della Biblioteca di Pisa. Pubblica a Pisa
la Raccolta di opuscoli filosofici e filologici. Il saggio comprende Dell’immaterialità
delle nature intelligenti; Della potenza che ha lo spirito umano di determinar
se medesimo chiamata libertà; Il virtuoso regime del proprio corpo è un bene
indispensabile per la felicità della vita” e Della natural dipendenza della
salute corporea dall'ilarità dello Spirito”; “Della simpatia” – “Dialogo tra un
cav. francese, e un italiano” e l’”Esame del Giudizio di Monsieur Du Fresnoy
circa BUONARROTI”; “Sulle metamorfosi degl'insetti”; “Degl'influssi celesti”; “Dissertazione
Accademica sull'Innesto”; “La teoria de' fosfori, e de' loro divarj.” Allievo
di GRANDI, segna il passaggio della scuola galileiana verso l'illuminismo. S. individua
nello sviluppo economico il centro dell'interesse dell'attività politica. È
sepolto nella chiesa di Sant'Andrea a Lama, in provincia di Pisa. Baldini, S.
in "Dizionario biografico degl’italiani", Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana. S. è attestato anche a Livorno ed è appartenuto a una
nota famiglia locale.Olschki, Firenze. Treccani Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. O violerei
certamente tutte le Leggi della convenevolezza, fe in mezzo al pubblico brio
di quarti lietifftmi giorni invitato A PARLAR DI SIMPATIA, non fosse il mio ragionamento
una vivace, e toccante pittura di dolci affetti, e di delicate e tenere immagini,
ornate air Attica di ridenti fcherzi, e di vezzofe e follazzevoli piaccevolezze.
Tale converrebbe che fotte, io non lo nego, f ufo eh' io far dovrei di
quefto tempo, s' io non par- latti a Voi; ma avanti un tal Con (ef-
fe, tutt' altro fi vuol da me, tutt' altro io debbo. Vi piace eh' io
Jafci alle Mufe i teneri affetti, le delicate imma- gini, i lieti
fcherzi, ed i ridenti motti. Voi cligete da me, che nella mia bocca non
perda la Filofofia i fuoi diritti neppure in quefti giorni; e volete
cosi, perchè le delizie del voftro cul- tittìmo, e vivacitfìmo Spirito
fon I' in- dagare, ed il penetrare V intima eflen- za , e le
fegrete cagioni di quelle cofe , che maravigliofe fono per femedclime ,
e d' illuftri confeguenze feraci. Or ta- le fenza dubbio egli è
ciò, che Simpa- tia fi chiama , o prendati quetta voce nel
proprio fenfo litterale, o in fenfo tropico e figurato. Dunque per fecon-
dare il nobile voftro Filolofico genio, dell' ona, e dell' altra
Simpatia pati- tamente ragionando, ne rintraccerò la natura, e le
caufe, e gli effetti ; cioè rammenterovvi ciò, che fu quefti inte-
rettanti Oggetti per Voi medelìmi già fapetc. La voce Simpatia,
prefa in fenfo non figurato, ma proprio, Tuona Io lteflb, che
unione di genio, vicende- volezza di affetto, benevolenza fcam-
bievole , le quali efprcflìoni tutte fon tra di loro (ìnonime. Quindi
non può aver luogo la Simpatia, propriamen- te detta , fe non tra
gli Ellcri fen- denti , ed intelligenti . Ma i Greci Popoli ,
imitati da Latini , e dalle Lingue che ne fon derivate , eden- \
dendo il lignificato primitivo di quel- la parola, chiamarono in fenfo
trasla- to, ed analogico Simpatia, la cagione altresì, per cui
dato un Corpo in cer- te circoftanze, ne fegue un qualche de-
terminato effetto in un' altro Corpo, fenza che il primo agifea fui
fecondo con immediato contatto* E perchè ave- vano ofeura , e
confufa idea delle Fillche ragioni , onde tali effetti in Corpi non
toccanti*! accadono; quefte ragioni, o caufe loro ignote, che Simpatia
retto- ricamente nominavano, sforzavanfi di fpiegarc, dicendo,
che tal forta diSimparia era una vicendevole correlazio- ne, c quafi
cognazione di naturalo una mutua coordinatone , o un fiii- co
confenfo tra corpo, e corpo in di- ftanza. Onde a chi aveffe domandato
loro, perchè al Tuonare di una mutlca corda» le non troppo
lontane, purché temperate all' unifono, o air ottava, o alla
quinta consonanza , rifuonino anch' eflc,rifpofto avrebbero alia
Quiftione, che ciò avviene per Simpatia , o per una vicendevole
correlazione, e cognazione di natura tra le corde tefe a quelle ar-
moniche proporzioni; ficcome una fog- già dì Simpatia, o una
6ftca cognazione, e coordinazion di natura chia- merebbeii dagli Antichi
la caufa, per cui V Ago magnetico fi rivolge coftan- temente
verfo le Regioni Polari , e quella per cui 1* acque de' mari più
vicine alla fovraftante Luna, più fi l'ol- le vano verfo di lei «
f ih Ora intorno a quefti connetti ef-
fètti tra materie , c materie didatti di luogo , ed intorno alle cagioni vere
onde nafee una tal tìiìca conneifione tra Fenomeni,* Fenomeni in
divertì , e repa- rati (oggetti* due generali > e (blenni
Verità ignoravanocomunemcntegli An* fichi , e pochi fon gli Uomini , che
noti le ignorino anch' oggi » La prima delle quali due verità fi
è, chetimi i motid' ogoi forta, dipendenti dell' eftere da ufi
qualche corpo in dirtanta , o nafeonò da vero urto , da vera pattfone,
originata da quel corpo dittante , per metto di qualche frappotta
materia * fia vifibite, fia invitìbile,ofon eonfeguentc neceflarie
di quelle determinate, e colanti Regole della mutua general
Gravità, daltequa- li neffun Corpo nel materiale Univer- fo può
fottrarlì , ed a norma delle qua- li deve ogni Corpo, ed ogni fua parte,
fecondo le varie circolante in cui fi trovi, oftarfi in un
perfetto equilibrio di contrapporle tendente, o tendere prepo-
tentemente piuttotto per un verfo, che per un' altro , e piuttotto ad Un
tal corpo dittante, che ad un tal'altro, fenta che urto o
pretfìone ve lo fpinga; le quali regole di moti, chiamanti perciò non
A i mecccaniche, cioè non derivanti da pref- fioni,
e da urti. L' altra delle due pre- dette Verità, men cognita ancora
deli' cfpòfta, fi è, che non folo certi Feno- meni , con certi
altri determinati", ap- partenenti ad alcuni corpi, localmente
dilcofti , fon vicendevolmente connetti , o dipendenti nclT
eiTere , ma tutti quanti ne fono flati finora nel genere de* me-
ri materiali, e quanti ne elicono in que- llo momento, e quanti ne fon
per cflcre neir intiero giro de* Secoli , e nella e- ftenfione
intiera del materiale Universo » tutti han del pari una veriffima cogna-
zion di natura, o tal conneflìone, e tal mutua correlazione, per
cui fi può dire con rigorofa verità, che fe a cagion di efempio
non nafeeflero dallo itelo di una Rofa quelle fpine precife, che ne
fpuntano, nelle circodanze nelle quali nafeono, niente affatto di
ciò che fuc- cede nelle provincie della Terrefrre Fi- fica
fuccederebbe , e fe non fi generarle nelle circoftanze nelle quali pur
genera quel sì piccolo difpregìato Infetto, che fugge di occhio,
e che in ore anzi che in giorni , muor decrepito, e Tritavo,
ed in vece di queir Infetto fi generaffc nelle medclime
circoftanze un altra co- fa, o non fi generale nulla ,( toltoli ca-
fo di un miracolo, da cui li prefein- de ) il magnifìcentilfimo ,
V ammirabile Univerfo intiero fi trasformerebbe in tutt' altra
cofa. Gran Paradotio agli oc- chi de' Profani, ma grande e fublime
Vero per chi è iniziato a miftcrj dell' alca Fiiofofia i • - -
Imperciocché non fiam noi certi , che quanto accade nell' Univerfo
Cor- poreo , tutto fi fa dalle forze motrici , e che tutte le
forze non libere, tutti i non liberi moti, fon* altrettante necef-
farie confeguenze di quelle Finche ge- nerali Verità, che Leggi
de' Corpi fi chiamano, per le quali poflono, e deb- bon feguirc,
quali preci (amente feguo- no tutti i Fenomeni, nelle circoftanze
nelle quali fi trovano i materiali fog- gettiP Bifognerebbe ciTer ben
nuovo, e (rraniero nella faenza Filici per dubi- tarne . Se
dunque , a cagion di efempio, nel fecondo fieno di un Gclfotnino tede la
Natura una piccohffima intie- ra Pianta feminale , che ricevuta poi
da conveniente terreno, crefee in adul- ta Pianta di
Ge!fomino;cgli avvien ciò, perchè lcLeggi Filkhc di Natura, pò-
fte le circoftanze in cui fono le remi- ca! i materie di quel Fiore,
forza è, che quelle materie depongano in quel tal' ordine da cui
ritolta ? etfer Pianta fc- minale di Gclfomino, anziché di tutt'
altro Vegetabile; e fc colaggiù nelle mi- niere dell' Oro fi lavora
dalla Natura quel preziofo metallo, anzi che Ferro, o Diamante;
egli è perchè le Leggi de* moti | nelle circoftanze in cui tono i
principi, ond'è comporlo il bell'Oro, non poftono a meno di non difporli
, e combinarli in quel tal predio ordine in cui confitte V effer
Oro piuttofto, ,che un* altra cofa . V ifteflo vuoili dire di
tutti gli altri materiali Fenomeni. Dunque tanto è domandare , che un'
«f&tto corporeo nelle circoftanze preci- fc nelle quali fegue
, o non fegua punto, o fia divedo, quanto è doman- dare, che le
generali Fifichc Leggi dì Primo- 9
Natura, dette quali è figlio neceflario, o non
efiftan punto, o fien tutt' altre . Or fe tali non fòflcro, non
avrebbero certamente potuto produrre in veruit tempo, in verun
luogo, neffuno di que- gli innumerabili effetti , che fo*o rtati
dalla primitiva coftituzionc dell' Uni- verfo, fino a quefto momento, nè
po- trebbero generarne pur uno di quelli, che attualmente effe
generano in tutta 1' ampiezza delle corporee cofe, e di quelle,
che nederiverannocome naturali confeguenze loro in tutta la ferie del-
le Età future* Dunque non folo alcu- ni determinati Fenomeni ,
con alcuni altri determinati hanno real conneffio- nc,o
vicendevole correlazione nelT cf- fcre, ma ciafeuno con tutti gli altri,
comunque fienfi varj, e di tempo», e di luogo remoti* Perchè
quantunque nef- fun Fenòmeno aver polla ragion di Cau- fa,
odiEffetto, rifpetto a tutti gli al- tri indiftintamente, ciafeuno però
in- didimamente e una condizion nccefla- ria all'efifrcnza di
tutti gli altri: avendo noi veduto in pie ni (firn a luce cfler rigo-
rofamentc vera quefta Propofuionc : Che non
io Ragionamento non fi può torre , o mutare un
Fenomeno, date le fue circo/lanze , fenza torre , o mu- tare le
Fificbe Leggi di Natura , e però fen- za tonerò mutare per naturai
confeguen* za tutto il re Ilo nelt intiero Vniverfo cor- poreo.
Ed ecco abbatta nza fpiegate le ragioni, e 1' eftenfiooe di quella
Simpa- tia, eh* è impropriamente tale, e che gli Antichi
chiamavano conneflìone, confenfo , cognazione, correlazione di
natura, tra foggetti , e foggetti inani- mati. E' tempo ornai,
gentilifsimi Udi- tori, che cedendo alle attrattive, colle
tale aborri- mento, e diftribuzioae > o difpofizio- nc
di fuoni, allor fi chiana* una bella Mufica, una beli*
Aria, un Concerto bello, quando quell' afsortimento 9 c quella
diftribuzione di mufiche into- nazioni produce nell' animo noftro un
diletto. Noi abbiam dunque un' interno Ten- ta, che chiamar fi
può conveniente- mente fenfo del Bello viiibile, e udi- bile, del
quàl fenfo egli è caratterirtico Attributo il fentirc un diletto, o una
molcftia, qualora vediamo una tale, o tal' altra fcclta,e difpofizione
di parti di un Tutto vifìbile, ed ascoltiamo un tale, o un tal'
altro aflbrtimento dipar- ti componenti un Tutto (onoro, o udi-
bile. Han prima gli Uomini guftato il piacere, che proprio è del fenfo
del- la Bellezza vifìbile, c udibile, di quel che abbiam faputo
quali fieno le midi- re, quali le proporzioni, e le diftri-
buzioni delle parti, onde piacciono, o difpiacciono i viiibili, egli
udibili Og- getti • Prima che fi fapclfe ¥ Arte Mu- fìca,
piacevano i canti di Progne, e di Filomena-, c prima che un qualche Fi-dia
curiofamcntc mifurando detcrmi- nate le proporzioni , e le locali cor-
relazioni delle membra di un bel Cor- po, le Veneri e f Elene,
gli Adoni ed i Paridi dilettavano i rifguardanti , ed i Momi,e
gli Efopi, e le Gabrine, e le non fucato Alcine ributtavano. E
perchè come in tutti gli altri (enfi avviene, cosi è vero altresì del
fenfo della Bellezza, cioè che in tutti gli Uomini noa fon
fabbricati i fenforj di una fretta maniera; di qui è, che
dilconvengono tra loro non di rado nel giudicar del Bello , come
difeonvengo- no nel giudicar degli odori, e de* fa- pori. Non a
tutti i nervi olfattori piac- ciono, o difpiacciono gli fletti effluvi,
producitori di quelle dilettevoli, o mo- iette fenfazioni , che
buoni, o cattivi odori fi chiamano. L'Organo del Gu- tto, gli
apici de* nervi , cioè, che in folte fchiere metton capo alla fuperfi-
cie della Lingua, perchè non fono in tutti gli Uomini di una
medefima in- triofeca ftruttura, perciò non ricevono ió Ragionamento
in tutti ugualmente grate , o ingrate fenfazioni di fapore dagli
ttefiì cibi , c dalle ftetfe bevande. Per flmil ragione la Muika,
di cut tanto fi compiaccio- no i Siamefi , ci farebbe correre colle
mani alle orecchie, ed eflì forfè chia- merebber fraftuoni i
rroftri Concerti , e nojofe Nenie le noftre Arie cantabili. Il
certo fi è, che tutti gli Uomini trag- gon diletto da qualche foggia di
Mufica, ma non Io traggono ugualmente dalle iteflc Opere di
Mufica inftrumcotalc, e vocale. Così appunto piacciono agli uni
le brevi dature , e le membra fcarfe e leg- giere ; preferirono altri le
perfone di al- to taglio, e di gravi, e mafficce fattez- ze; gli
uni fon per l' impatto candido, e vermiglio della Cute , gli altri pel
brunetto Greco. V* fot* anzi àc' Popo- li intieri, che dipingono
neri velluta- ti i Gcnj buoni , e desinano a' Dei ma- li i colori
di latte, e di cinabro. Ed io qualche Regno della più eulta Eu-
ropa, il pallido pagliato non fi chia- mava egli , non ha gran tempo, il
bel pallido? E non era egli riputato la ver- nice la più
conveniente alle delicate bellezze, onde le Dame, che cava- vano di
piacere , condannavano liete colle frequenti miflioni di fanguc, ad
una perpetua convalefcenza , per acqui- fere l'accreditato pregio
del pallore, che nel giallognolo biancheggiava? Ve- ro è, che
folto quel Cielo fteflo non a- roano ora ie guance, che di carminio,
nè fi contentano del nativo rofato; ma non perciò diventa falfo,
che il dila- vato pallido non piacele già preferi- bilmente ad
ogni altra cute. Noq fan- no gli uni faziarfi di ammirar gli oc-
chi neri, e fdruciti di Qiunonc; tro- vano altri più dolci i cerulei di
Teti; per qucfti fon più toccanti i cefii di Minerva; per quelli
gli feuretti, efein- tillanti di Venere. Ma per quanto fia vero,
che il fenfo della bellezza è va* rio in varj, fenfo però della bellezza
corporea in tutti è, ed evvi altrettan- to per ciafeuno in una
corporea bel- lezza tal mifura, e difpofizioni di par- ti, e tal
colorito di cut*, che a quel- lo piace, c piacendogli, c dilettando-
lo, ne attrae 1' animo, e in fe lo fitta dolcemente , c ne defta
voglia di rinnovar tal piacere, e cara ne rende la caufa , che Io
produce . Dunque dalla corporea bellezza , perchè cagion di diletto,
perchè autri- ce di compiacenza, ed eccitatrice del- ia voglia di
fc, forza è che nafea una fpecie di affetto; e fc chi lo infpira lo
riceve altresì per fimil caufa dalla flef- fa perfona in cui V
infpira, fi avranno dunque vicendevolmente cari, lì deae- reranno
V un l'altro, cioè la Simpa- tia gli unirà. Gli unirà, dico, e ren-
deralli cari, V uno all' altro, fe i dol- ci fentimenti, che la
vicendevole re- lativa corporea bellezza ecciterà in en- trambi ,
non faranno combattuti , o fu- perati da i ributtanti , ed alienanti
affet- ti, o dalle moiette impreffioni , che ca- gionano i
rincrcfcevoli vizj di mente, i deformi vizj del cuore, e le maniere
difaggradevoli : cioè la bruttezza dell' Animo trafpirando fuori,
e mofrrando- fi, o nelle maniere, o ne' difeorfi, o nelle azioni
, non rifpinga da fe co' fuoi iuoi odioiì tratti, con
forza uguale, o maggiore di quella con cui ne alletta colle Tue
grate impreffioni la corporea Bellezza. Dunque perchè qucfta abbia
forza durevole, bifogna che V Animo non fia brutto, o non il ravvili
per ta- le: nè può la Simpatia eMcr viva, co- ftanfc, ed alle
Regole della beata Vita conforme, fe dalle bellezze dell' Ani- mo
non tragga, fe non tutto, almeno pretto che tutto, il foave fuo
nutrimento. Ed eccoci infcnfibilmente condot* ti alla parte ultima del
noitro Ragio- namento, ed inueme alla migliore, e più potente, e
più dolce cagione della genial Simpatia: poiché tal caufa ap-
punto ella è un,* Anima veracemente bel- la . Son le bellezze dell'
Animo di due fpecic; T une appartengono all' inten- dimento, T
altre alla volontà, o come fuol dirli , al cuore. Allora è bella una
Mente , quando forpafla la comune por- tata; ed è tanto più
bella, quanto fo- no più pregiabili i fuoi talenti nativi ,
B 2 ed acquiftati. Il talento altro non è, che un' agile, e
felice attitudine di a- ri alizzare, e quali notomizzar collo Spi-
rito tutti i comporti Oggetti della men- te, e di conoscere al
paragone le lo- miglianze , e le differenze multiplici delle
cole, e le loro meno ovvie con* neffioni, e i vicendevoli rapporti loro,
quantunque ardui per i mediocri Spi* riti, meno atti a condurli
lungo una ferie d' incatenati Veri, a confcguenzf più, e più
remote, immutabilmente connette colle Verità prime, e per fe
flette evidenti . Il talento di difcernere anche le piccole differenze
tra quelle cole, che alle Menti comuni pajono le più limili, e di
giungere a tali di- feernimenti, al favore di ordinate pre^ nozioni,
e di inanellate indittolubili de* duzioni di Vero da Vero , fuol chia-
marli Talento Filofottco, e quefto co- ftituifee il carattere del
fublime Genio, o vogliam dire dell'Ingegno profondo , ed
inventivo . II talento poi di ravvi* fare agevolmente, e come in un
colpo d' occhio tra le cofe di dittinoli gene- re, e fpecie,i
lati o gli Attributi limili , egli
Primo. ti egli è il Carattere, per cui
chiamali chi n' è fornito , un' Uomo di Spirito- Un $1 fatto
talento potrebbe convenevol- mente dirli Poetico, a differenza dell'
altro, che Filolofico nominammo: E gli conviene il nome di
Poetico, per- chè non può effer fecondo in immagi* ni, ed in
figurate cfpreffioni, chi non è agile, c deliro in oflcrvarc per quali
lati lì raflomigliano le cofe altronde varie io natura, ficchè
poflano t une, moftratc da certe facce, fervir d' im- magini all'
altre . Chi quello Poetico talentò pofTiedc , chiamali Uomo di bel-
la, e do vizio fa, e viva, e brillante Im- maginazione, la quale
fe congiunta iia col Filolofico talento, o colla franca
attitudine al fublime, e profondo ed *- fatto pcnfare,ne ritolta
daqucfta unio- nc fortunata, ciò che fi chiama una il- luti re , e
bcIlitTima Mente. Una tal Men- te è fempre feconda di frutti degni di
fe, vola per ogni lato oltre i comuni confini, ed ogni giorno più
ricca di Veri , o maraviglio!!, o belli * o inte- rcalanti, ha f
arte di lumeggiarli $\ vi- vamente, e di prefcntarli fatto imm^
B s gì"* 22 Ragionamento
gini sì nuove , e di ornarli con tali grazie di
eloquenza, e di difporli con ordine sì regolare , da renderli come
vitibili alle altrui menti, e vifibili in aria perfuadente
inlìeme, e dilettevole . Una tal -Mente, che fenza incomoda- re
inftruifcc qualora parli, e nuove fee- rie apre, e nuovi profpetti alla
Imma- ginazione di chi V afcolta, onde appa- rirono Verità di
ogni foggia, adorne in cento guife fenfatamentc fcelte, ed 2l
Tuoi foggetti proporzionate, una tal Mente, dilli , quanto è ammirabile
i quanto ne piace il commercio i come ne volano in tal compagnia
le ore l quan- to fe ne deiidera il ritorno. 1 La bella Mente
adunque ha una forza (impanca , dolce, e potente forza , che a fe ne
trac. Ma non l'ha certamente minore, anzi e più potente, e più
foave P efer- cita fopra gli Animi altrui un bel Cuore. Son le
Bellezze del Cuore i belli affetti, e belli fon quegli affetti, che
rcndon pregiabilc , ed amabile il noftro morale
Carattere ; e la pregiabilità di quello, e la fua amabilità nafte tutta
dalla confederazione delle Virtù loda- li , e reali, che
abitualmente rifplen- dano in un' Animo, e ad ogni rifeontro con
tutte le irrefiftibili loro attrattive fi manifeftino . Le morali Virtù,
che ci fon più care negli Uomini , fon quel- la Beneficenza, che
nafee da compaf- fìone, e da benevolo fociale affetto, 1'
officiofa Gratitudine , la fedele Amici- zia, la modefra idea di fe
medefimi, l'obbligante rifpetto per gli altri . Que- lli
Attributi dell' Animo non poffon non intereffarc ,e non dilettare l'amor
pro- prio di tutti quelli , che in un tal' Ani- mo si fatti prcgj
rifguardano. Piace troppo il vederci e cari, e rifpettati, quando
ci rifpetta , e ci ha cari un' Anima illuftre , delle Virtù più deli-
cate, e più amabili poffeditrice e mi- niftra . Piace troppo un
tal' Animo , che i pregj proprj ravvifa appena, e ri- leva gli
altrui, e lì compiace in rile- varli. Troppo diletta un Cuore, da cui
non afpettali giammai nè turpitudine, nè apatia, un Cuor che fa
fua voglia B 4 dell'altrui voglia , fé Virtù lo permea
te, e che non folo fi pretta a tutti gli atti benefici, che da
lui fi domandano * ma gode a tali inviti, e quali gli atti* ra,c
i benefici ringentilifce colia ala* crità, e colla gioja, colle quali fi
por- ta ad effer' utile altrui ; un Cuor final- mente, che i
ricevuti favori incide in bronzo, e i compartiti oblia. Tale è il
vero Benefico, perchè la bella Be- neficenza non è figlia dell'
interefle , non della vanagloria, o dell' orgoglio- fo Amor proprio,
che vuol far fentire la Tua fuperiorità ad altrui; ma cllana- fee
da un delicato fenfo di gluteamen- te graduata benevolenza, da una tene-
ra compafsione per 1' Innocenza infe- lice, e per ogni forta di
bifogno al- trui , e dalla virtuofa abominazione de' contrari
affetti , come intrinfecamen- te deformi, ed improbi, e di loro na-
tura odiabili, e condannabili. Sì fatte difpofizioni di Cuore, fe
comuni forte- to tra gli Uomini, il Poetico Secol d' Oro
diverrebbe un' Moria. Che invi- diabile vita non menerebbefi ! Inten-
de adunque ognuno, per poco che vi penfi , quanto fieno defiderabili in
tut- ti 5 e quanto amabili, e care di natu- ra loro l'eccellenti
morali Virtù, del- le quali parliamo. Ed ecco perchè di- letti,
ed in confeguenza perchè bello iì chiami un Cuore, e quanto ila vero*
che un Cuor sì fatto, forza è che fiaua potente Oggetto della
nOftra ammira- zione > e una dolce Tergente di Simpatia- Nè reftano
dentro i confini dell' Animo le bellezze del Cuore: penetra- no i
raggi loro fui volto, e gli fan* no acquiftare tal' aria, che ne ricre-
fee maravigliofamente la bellezza , s' ci l'abbia, o un vi libi 1
pregio gli dà, e lo rende piacevole , quand' anche fenza un
bell'affetto del cuore efpreffo nel vol- to , quefto per fe medefimo
tìon piaecf- fe. Chiamali aria del vifo quel compiei fo di
modificazioni vilibili, queirafpet- to,che nafee dagli interni
fentimenti dell' animo, e che al variar degli af- fetti fi varia
con loro. Ogni affezio- ne del cuore ha un vii© tutto fuo, una fonomia
affatto propria. Altro è il volto dell' Animo egro, altro quello
del Cuor fcreno, c contento. Si mo- ftra r Ira ncll' Occhio torvo, e
rofleg- giante, nelle gonfie labbra , neli' accefo colore, neli'
inturgidimento de' mufeo- Ji, nella irrequieta, e varia agitazione
delle membra. L' invidiofa malignità impallidire il vifo,
illividifcc il lab- bro, rappiglia le guance, vibra corte oc-
chiate e fuggiafche , richiama ogni mo- mento alla terra lo fguardo, nè
per- mette che fi alzi libero, ed aperto in faccia altrui.
Porporeggia Tulle guan- ce IaModeftia al Tuono delle Tue lo* di,
e il guardo inchina, e un movimen- to di pena conduce fui volto, ma di
una pena che rifpetta chi la produce co'plaufì, e cogli cncomj .
Un vivo de- fiderio mirto di compiacenza, attacca gli occhi di
chi Io ha in cuore, lui ca- ro Oggetto, che a fe lo tira, le lab-
bra reIran focchiufe, ferme le mem- bra , muovonfi lente , ed oblique le
pu- pille, ma fenza deflettere da chi gì' in- fpira e compiacenza
, e voglia. Com- pone la Gioja Ja bocca al rifo, ed il
co-lor ravviva, diftende il fopracciglio , e Io innalza, c gli
occhi muove tremu- li , c brillanti . Egli è dunque innega- bile,
che ogni affetto ha il fuo vifo , ha un' aria tutta Tua, e che i belli
af- fetti han V aria bella, come i truci, i maligni, i
pulìllanimi , i tetri, e per- ciò i difprezzabili , ed i viziofi affetti
han T aria brutta. Tra tutte le belle arie, quella che
nafee da un' Animo pieno di nobili {entimemi, di ogni vera battezza, e
di ogni orgoglio fchivi , che amabile mac- ffà fuol chiamarti,
quella della lieta fcrenità di Spirito, voto di pungenti cure, e
fuor della tempeffa degli affet- ti , quella della tenera benevolenza ,
qual fi moffra all' afpetto di chi ci giunge carifsimo, e quella
della dolce ammi- razione, fon le più belle, gcneralmen- ' te
parlando; e tutte V arie belle del volto fon' appunto, fe ben vi fi
rifletta, quel ciò che comunemente dicefi un certo non fo che, che
piace, e alletta. E fc tutti non trovano in un mcdctimo volto quel certo
non fo che, che più ne piace , addivien ciò , pcr- ^ chè non ogni
affetto produttore di qualche beli' aria del vifo, diletta tut-
ti ugualmente; nè ogni beli' aria può produrre in tutti una ugualmente
gra- ta impresone: poiché il fenfo del Bel- lo, di cui parlammo
già, non è in tut- ti gli Uomini fomigliantiflimo. jQuin- di
piace più ad uno Y aria cupida, c 4§nguente , ad un'altro la vezzofa e
vivàce. Ama piuttofto un terzo la ferenat grande iniieme, quella cioè, che
prender fògltono le Anime grandi; ad un quarto è più caro 1'
afpetto della bella modeftia. In mezro però a tut- te quefte
differenze, egli è Tempre vero, che per gli affetti belli dei Cuore y
qualche aria bella , e qualche nuovo pre- gio acquifta il volto, ed in
confeguen- za che le bellezze del; Cuore non folo ci piacciono
per fc medelìme, ma affai più grata, e più toccante ci rendano-
la bellezza corporea. Ed ceco epilogate tutte le cagio- ni
fiiìcbe, e morali della perfonal Sim- patia. Corpo per la bruttura delle
mem- bra, e pel colorito delia cute dilette- vole agli occhi , c
refò ancor più toc- cante da qualcheduna delle beli' triff Mente
bella, tale cioè che unifica in fc ftefla il Filofofìco genio, ed il
Poeti- co, o vogliam dire la fublime, e mul- tiplice ed efatta
cognizione delle co- le , colla doviziofa , e luminofa eloquen-
za ; e finalmente Cuor bello, cioè deU le amabili, e delicate morali
Virtù in* diffolubile amante , fon tutte quelle fogge di bellezza
, che riunite in una ftclla perfona lo rendono quali un' Og-
getto di adorazione, una foave delizia della Vita, un Ben celeftc in
Terra. Che fe pregj sì cari , e sì portenti rin- con tri od in
due , che iì conofcano a fondo, una Simpatia irreiiftibilc forza
è , che gli aflortifea, e vicendevolmen- te gli Aringa. Sarà quefta
durevole, e felice per mille, e mille dolcezze, fe i pregj dell'
Animo forpafTano con eccetto tutti i pregj corporei : farà vacillante, c
fu- gace , e fotto una dolce fuperficie , ama- ra ed ortica, fe
un bel Corpo che in- vogli, deforme animo, e da vizj infociali
macchiato, nafeonda, o Mente racchiuda (travolta , o abbacinata. Con
tali difetti può bene (lare un' animale- fca paflione ,una
paiTionc bella non già. Bella, e tenera amicizia vuole un Cuo- re
adorabile, vuole un* efquiiìto buon fenfo , fe non un'Ingegno, ed uno
Spi- rito trafeendentc il mediocre livello, e fenza bella, e
tenera amicizia non vi è bella pafsione. Dunque il diletto, che
la corporea bellezza infpira, fol- tanto inclini il cuore , ma la
Ragione oltre la feorza trapafsi, penetri fino al centro dell'
animo , c tutti gli afcoli Attributi fuoi curiofa indagatrice, e giu-
dice imparziale rintracci , cmifuri. Non fupponga credula le
intcriori bellezze , ma ve le veda in piena luce. Se le vede, approvi la
propenfion dell* affetto, dalla corporea bellezza prima eccitato,
c lafci liberi al cnore gì' innocenti fuoi moti, che un taf Oggetto n' è
degno. Ma fc al contrario, riguardando l'Ani- ma, da un vezzofo Corpo
velata, quel- le bellezze non vi ravvifi, che effee debbono f
unica real forgente delle belle pafsioni, come ne fon la vita, ritenga
la favia Ragione le fconiìgliate inclinazio- ni del cuore verfo
quel Corpo, e come unaSfinge, un' Arpia, una Circe venefi- ca,
una feduttricc Sirena, fotto mentite larve quella fallace fuperficial
bellezza rifguardi, e la fugga torto, e la detcfti . Se Ragione
illumini, e feorga a degno Oggetto il cuore , le Simpatie beata cofa
fono, e dono preziofo del Ciclo. Mafc gli ertemi fentì guidano
foli il cuore a- gli affetti, e loSpirito cede i dritti fuoi
fovrani a chi non ha conlìglio, la Simpa- tia è cieca, e corre
forfennata colà, donde dovrebbe fuggire; vola in pre- da agli
affanni, e al tardo pentimen- to, mentre incauta s' immagina di vo-
lare in braccio alla più invidiabile Fe- licità. Giovanni Gualberto De Soria.
Soria. Keywords: l’opuscolo, simpatia, simpatia, empatia, simpatia conversazionale,
other-love, self-love, benevolenza, helpfulness, cooperation, basis, dull empiriist,
enough of a rationalist, quasi-contractualist, relevance breakdown on you, one
principle, rationality, cooperation. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Soria” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Sorrentino: Vico italico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Vico. Bordon, La
retorica di Vico. VICO e le razze mediterranee, Bulletin italien di Bordeaux. Scrocca.
Vico e un suo recente critico: in Rassegna nazionale di Firenze. Keywords:
Vico, razza mediterranea, razza aria. Andrea Sorrentino.
Grice e Sorrentino: la persona come paradigma
di senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola). Flosofo italiano. Tra i massimi esperti
italiani di teologia filosofica, ma oltre alle letture di carattere
teologico-religioso, è anche ideatore di una filosofia autonoma ed originale. --
è infatti convinto che si debba ricercare una connessione tra le varie forme di
sapere, spesso rinchiuse nell'ambito dei propri specialismi e pertanto sterili.
Studia a Milano. Si laurea in filosofia a Napoli, dove consegue anche la laurea
in teologia. Insegna a Salerno. Sviluppa tematiche come il dibattito sulla religione,
inteso nel senso di una problematizzazione e di una tematizzazione del
religioso nella società a partire dall’illuminismo. Cerca di inquadrare la
filosofia relativa all'etica e alla religione. Da qui parte il tentativo di una
tematizzazione filosofica della dimensione simbolica. Il motore della ricerca è
il tentativo di giungere ad una forma di connessione dei saperi che possa
superare le difficoltà e le incomprensioni del mondo contemporaneo, non solo in
ambito filosofico. Altre saggi: La
teologia della secolarizzazione: chiesa, mondo e storia; La filosofia della
religione, ermeneutica e filosofia trascendentale; Filosofia ed ESPERIENZA religiosa”;
“Realtà del senso e universo religioso”; “Per un approccio trascendentale al
fenomeno religioso”; “La dottrina della fede”; “Il valore della vita”; “Dialettica”;
“Obbedire al tempo”; “L'attesa”; “La dialettica nella cultura romantica”; “Religione
e religioni”; “Il prisma della rivelazione”; “Una nozione alla prova di
religioni e saperi”; “L'eredità dell'illuminismo e la critica della religione”;
“Diversità e rapporto tra culture”; “Le ragioni del dialogo. Grammatica del rapporto
tra le religioni”; “Nichilismo e questione del senso”; “Teologia naturale e
teologia filosofica”; “La libertà in discussione”; “Le ragioni del dialogo.
Grammatica del rapporto fra le religioni, “La persona come paradigma di senso”;
“Dibattito sull'eredità di Mounier”; “La teologia politica in discussione” -- Salerno,
Giornale di filosofia della religione,. Sergio Sorrentino. Sorrentino. Keywords:
la persona come paradigma di senso, H. P. Grice, P. F. Strawson. Luigi
Speranza,”Grice e Sorrentino”.
Grice e Sorrentino: l’implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Vincenzo
Sorrentino.
Grice e Sosistrato: la scuola di Locri – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to Giamblico. Grice: “What is important to note here is
the reference to Locri, because it’s quite a way from Crotona, and let’s not
forget this is all part of the Crotona diaspora, as we may call it.
Grice e Sozione – la romanità nel circolo dei
Sesti -- Roma antica – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Tutor of Seneca. In glossary to Roman
philosophers, in Roman philosophers. Filosofo pitagorico, appartenente alla scuola dei Sestii, e accolge
anche motivi etici di derivazione del Portico Vive a Roma all'epoca di OTTAVIANO
e di TIBERIO e e tra i maestri di Seneca. Viene da questi citato, a proposito
del vegetarianismo di ispirazione pitagorica, nelle Lettere a Lucilio. Non
credi che le anime siano assegnate successivamente a corpi diversi, e che
quella che chiamiamo morte sia soltanto una migrazione? Non credi che negli
animali domestici o selvaggi o acquatici dimori un'anima che un tempo è stata
di un uomo? Non credi che nulla si distrugge in questo mondo, ma cambia
unicamente sede? Che non solo i corpi celesti compiono giri determinati, ma
anche gli animali seguono dei cicli, e che le anime percorrono come un circolo?
Grandi uomini hanno creduto a queste cose. Perciò, astieniti da un giudizio e
lascia tutto in sospeso. SE queste teorie sono vere, l'astenersi dalle carni ci
mantiene immuni da colpa; SE sono false, ci mantiene frugali. Che danno deriva
dal credere in esse? Ti privo degl’alimenti dei leoni e degli avvoltoi. Traduzione
di Natali in Seneca, Tutte le opere, a cura di REALE, Bompiani. Ferrero, Storia
del Pitagorismo nel mondo romano dalle origini alla fine della Repubblica,
Torino-Cuneo; Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Roma-Bari. Quinto Sestio
filosofo romano Ecfanto di Siracusa filosofo greco antico. Sozione pagina di
disambiguazione di un progetto Wikimedia. Keywords: il circolo dei Sesti. Sozione.
Grice e Sozzini: razionalismo, e moi -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Siena).
Socinianism. Nacquero in questa casa S. letterati insigni filosofi sommi della
liberta di pensiero strenui propugnatori contro il soprannaturale vindice della
umana ragione fondarono una celebre scuola precorrendo le dottrine del razionalismo
– I liberali senesi ammiratori reverenti questa memoria posero, Fausto. Fausto
Sozzini. Lelio Sozzini. Sozzini. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Sozzini,
rationalism, and moi”, Luigi Speranza, “Grice e Sozzini” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Spadaro: all’isola -- conversazione
coll’angelo – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina), Filosofo italiano. Laureato a Messina,
entra subito dopo nel noviziato della compagnia di Gesù. Insegna lettere a Roma.
Riceve l'ordinazione presbiterale e pronuncia i voti solenni nella compagnia di
Gesù. Consegue la licenza in Teologia, il diploma in comunicazioni sociali, il
dottorato di ricerca in teologia presso la pontificia università gregoriana di
Roma. Completa la sua formazione negli stati uniti d’America, nella Provincia
dei gesuiti di Chicago. Comincia a scrivere per la rivista “La Civiltà
Cattolica” e entra a far parte in maniera stabile della redazione. Si occupa
soprattutto di teoria della letteratura e di critica letteraria, in particolare
legata ad autori contemporanei italiani (tra questi, PAVESE, BASSANI, LUZI,
TONDELLI. Tra le materie che tratta vi sono anche la musica, l'arte
contemporanea, il cinema e le nuove tecnologie della comunicazione e il loro
impatto sul modo di vivere e pensare (in particolare su, Second Life, sulla
lettura digitale, sui vari social networks, sulla filosofia hacker o sulla cyberteologia). Ha fondato Bomba Carta, un progetto culturale
che coordina iniziative di scrittura creativa, produzione video e lettura anche
su internet. È curatore della collana di poesia L'Oblò delle edizioni Ancora. Insegna
presso il centro inter-disciplinare di comunicazione sociale della pontificia università
gregoriana -- è a capo del comitato
scientifico "La sfida e l'esperienza" che raccoglie docenti e manager
interessati ai temi della spiritualità e dell'innovazione. Viene incaricato di
co-ordinare le attività culturali della compagnia di Gesù in Italia. -- è il
relatore principale al primo evento organizzato dai Gesuiti sulla musica rock
nel quale riabilita la dignità musicale (non liturgica) del genere nel suo
complesso, limitandone la condanna alla valutazione di rari e singoli casi. Diviene
Rettore della Comunità dei gesuiti de La Civiltà Cattolica. -- è annunciata la
sua nomina a direttore della rivista. Nel numero del 1º ottobre della rivista è apparso il suo articolo di presentazione
nella nuova veste di direttore. La sua
attività in Rete è legata, oltre alla presenza nei social network, anche allun
sito personale e di due blog: uno dedicato alla CyberTeologia e uno dedicato a O'Connor.
Benedetto XVI lo nomina consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e anche
consultore del pontificio consiglio delle comunicazioni sociali. Riceve a
Caserta il prestigioso premio "Le Buone Notizie Civitas Casertana",
uno dei più importanti premi di giornalismo italiani, unico nel suo genere a
livello internazionale. Incontra più volte papa Francesco per conto de La
Civiltà Cattolica e di altre 15 riviste della Compagnia di Gesù. Il contenuto
delle conversazioni è stato pubblicato sotto forma di intervista a
settembre ed ampiamente ripreso dalla
stampa internazionale. Dedicato un
articolo all’utopia. L'articolo analizza il significato di utopia nel contesto culturale italiano, ne
analizza la storia, e ne mette in evidenza pregi e limiti. La sua conclusione è che dalla descrizione e
dalle valutazioni compiute comprendiamo bene come rappresenti un sogno illuminista di
descrivere il mondo, che però si scontra con le difficoltà di accreditarsi come
compendio di sapere credibile, mantenendo nel contempo anonimato, flessibilità
e continua apertura a nuovi collaboratori. Nello stesso tempo questa utopia
rovescia il sogno dell'enciclopedia tradizionale, intesa come costruzione
autorevole, organica e integrata del sapere. Infatti è come un organismo vivente: cresce (al ritmo
del 7% ogni mese), si ammala, è sottoposta a composizioni e scomposizioni
interne, ad accrescimenti e riduzioni continue. Ma soprattutto nasconde un'altra utopia, a suo modo, ambigua.
La democrazia assoluta del sapere e la collaborazione delle intelligenze
molteplici che dà vita a una sorta di intelligenza collettiva. Questa utopia
potrebbe nascondere una nuova forma di torre di Babele, che ha il suo tallone
di Achille non solo nell'inaffidabilità, ma anche nel relativismo. Concede
un'intervista a Wikinotizie, Intervista
al gesuita 2.0, nella quale commenta l'articolo e spazia sulle tematiche
inerenti e il mondo della rete internet.
Altri saggi: “Tracce profonde. Il viaggio tra il reale e l'immaginario” (Roma,
Città Nuova); “Radio on. Tra le colonne sonore
(Napoli, Giannini); “Lo sguardo presente. Una lettura teologica dell’amore”
(Rimini, Guaraldi); “Attraversare l'attesa” (Reggio Emilia, Diabasis);
“Laboratorio″. La nuova narrativa italiana (Reggio Emilia, Diabasis); “Un'acuta
sensazione d'attesa” (Padova, Messaggero di Sant'Antonio); “A che cosa «serve»
la letteratura?” Leumann (To)-Roma, Elle Di Ci La Civiltà Cattolica, Premio Capri per la sezione Letteratura e
Premio Crotone sezione Giovane critici italiani); “Lontano dentro se stessi.
L'attesa di salvezza” (Milano, Jaca). Connessioni. Nuove forme della cultura al
tempo di internet” (Bologna, Pardes); “La grazia della parola. La poesia,
Milano, Jaca); Nella melodia della terra” (Milano, Jaca); “Abitare nella
possibilità. L'esperienza della letteratura” (Milano, Jaca), “L'altro fuoco.
L'esperienza della letteratura” (Milano, Jaca); Alla ricerca del lupo. Genio,
tensioni, vanità (Bologna, Pardes); “Nell'ombra accesa. Breviario poetico di
Natale (Milano, Ancora); Web 2.0 Reti di relazione, Milano, Paoline,. “Svolta
di respiro. Spiritualità della vita” (Milano, Vita & Pensiero). Cyberteologia.
Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Milano, Vita & Pensiero); “Lasciami
correre via, Padova, Messaggero); “Traversate di un credente, Milano, Jaca); “La
dodicesima notte (Milano, Ancora); La freschezza più cara. Poesie (Milano,
Rizzoli); Canto una vita immense (Milano, Ancora); “Un Dio sempre più grande.
Pregare” (Milano, Ancora). obio, su laciviltacattolica. Saggi su "La
Civiltà Cattolica", su antoniospadaro.net. Antonio Spadaro, BombaCarta, su
bombacarta.com. accesso=16 agosto.
Antonio Spadaro, L'OblòAncora, su ancoralibri. Orazio La Rocca, I
gesuiti benedicono il rock: "La musica di Springsteen & Co parla
all'anima", Repubblica. cogliere pienamente la sfida digitale. Cyberteologia,
Nomina di consultori del Pontificio Consiglio della Cultura, Rinunce e nomine,
su Bollettino della Santa Sede, Bollettino della Santa Sede. Su La Civiltà Cattolica la mia intervista a
Papa Francesco, su cyberteologia, Intervista a papa Francesco. Cyberteologia,
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Antonio
Spadaro. Spadaro. Keywords: conversazione coll’angelo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Spadaro” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Sparti: il ri-conoscimento – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Insegna a Siena, Pisa, Milano e Bologna. Fonda “Studi culturali.
Collabora a "Iride", "Paradigmi", "Rivista di
estetica", "Rassegna italiana di sociologia", ed "Intersezioni".
Concentra la sua attenzione sull'estetica dell'improvvisazione. Saggi: Se un leone potesse parlare. Indagine
sul comprendere e lo spiegare” (Firenze, Sansoni); Sopprimere la lontananza
uccide” “Interpretazione” (Firenze, Nuova Italia) “Epistemologia delle scienze
sociali” (Roma, Nuova Italia); “Soggetti al tempo. Identità personale fra
analisi filosofica e costruzione sociale” (Milano, Feltrinelli); “Identità e coscienza”
(Bologna, Mulino); “Wittgenstein politico” (Milano, Feltrinelli); “Epistemologia
delle scienze sociali” (Bologna, Mulino); “L'importanza di essere umani: etica
del ri-conoscimento” (Milano, Feltrinelli); “Suoni inauditi. L'improvvisazione
nel jazz e nella vita quotidiana” (Bologna, Il Mulino); “Musica in nero. Il
campo discorsivo del jazz” (Torino, Bollati); “Il corpo sonoro: oralità e
scrittura nel jazz” (Bologna, Il Mulino); “L'identità incompiuta: paradossi
dell'improvvisazione musicale” (Bologna, Mulino); “Sul tango: l'improvvisazione
intima” (Bologna, Mulino). Davide Sparti. Sparti. Keywords: identita personale,
interpretare, improvvisare nella vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sparti”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Spaventa: l’origine italico dello
spirito filosofico – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Bomba). Filosofo italiano. Nasce da un'agiata
famiglia borghese. Sua madre èpro-zia di CROCE. Studia a Chieti. Ottenuto
l'incarico di docente di matematica, si trasfere a Montecassino. La sua formazione continua a
Napoli. Studia i filosofi tedesci in tedesco – Grice: “Which is the right thing
to do – and which Ryle, or Strawson, for that matter – are unable to!” Si
avvicina ai circoli liberali e a pensatori come COLECCHI e TARI. Fonda una
scuola di filosofia. Inoltre partecipa
alla redazione de “ Il Nazionale”. Dopo l'abrogazione della costituzione da
parte di Ferdinando II, e costretto a lasciare Napoli. Si trasferire prima a
Firenze, quindi a Torino. Divenne giornalista scrivendo su Il Progresso, Il
Cimento, Il Piemonte, Rivista Contemporanea. Si avvicina al pensiero di Hegel.
Polemizza con La civiltà cattolica, rifiutando l'idea del sacro come passo
necessario per lo sviluppo umano. In tal modo condivise con altri esuli
napoletani gli stessi fermenti patriottici e liberali che avevano
nell'idealismo hegeliano il loro motivo ispiratore. In Napoli la filosofia
di Hegel penetra nelle menti de' cultori della scienza, i quali mossi come da
santo amore si affratellavano e la predicano. Né i sospetti già desti della
polizia, né le minacce e le persecuzioni valsero ad infievolire la fede in
questi arditi difensori della indipendenza del pensiero. I numerosi studenti
raccolti da tutti i punti del Regno nella grande capitale disertano le cattedre,
ed accorrevano in folla ad ascoltare la nuova parola. Era un bisogno
irresistibile ed universale, che li spinge ad un ignoto e splendido avvenire,
all'unità organica dei diversi rami della cognizione umana. I filosofi,
partecipavano al general movimento, ed ambivano soprattutto, come gl’antichi
italiani, di essere veri filosofi. Chi può ridire la gioia, le
speranze, l’entusiasmo di quel tempo? Chi può ridire l’affetto col quale
si amano i maestri e gli allievi, e insieme procedeno alla ricerca della
verità? E un culto, una religione ideale, nella quale si mostrano degni nepoti
dell'infelice Nolano. BRUNO (si veda). “Studii sopra la filosofia di Hegel” (Torino)
«Rivista Italiana». Insegna a Modena, Bologna e Napoli. Vuole liberare la
cultura filosofica italiana dal suo provincialismo, attraverso la diffusione
nella penisola dell'idealismo di Hegel. Sostene una politica laica e legata ad
un forte senso di un stato unitario, considerato come sorgente dei princìpi e
dei valori ispiratori di un armonioso sviluppo di civilita, da cui la comunità dei
cittadini devono trarre l'alimento necessario per una crescita ordinata e
corretta. Circola l’idealismo, che dimostra il percorso dinamico della
filosofia e il suo ritorno in Italia dove ha origine. Riforma la dialettica
hegeliana per salvare l'identità di essere e pensiero escludendo ogni
presupposto oggettivo esterno al pensare. Recupera l'aspetto pratico nel
processo conoscitivo che evita la caduta in un astratto idealismo. La filosofia
italiana del Rinascimento, connotata dal naturalismo e dall'immanentismo, ha
precorso la filosofia, giungendo attraverso Spinoza agli idealisti tedeschi
Fichte, Schelling, Hegel. il ritorno in Italia della filosofia con la terza
Roma e con la riappropriazione dei
filoni spiritualistici europei da parte di ROSMINI e GIOBERTI. Mentre per la
critica tradizionale la filosofia italiana e caratterizzata dalla sua
ininterrotta fedeltà alla linea platonica, S. cerca di dimostrare, con gli
studi dedicati al umanesimo rinascimentale che la filosofia, laica e
idealistica, generalmente associata alla riforma in realtà e nata in Italia. Interpreta
con chiave di lettura hegeliana questo progressivo passaggio dello spirito
filosofico italiano e il suo ritorno, sottolineando la continuità del
razionalismo di Cartesio col principio innatistico di CAMPANELLA della cognitio
abdita, dell'empirismo di Locke con la campanelliana cognitio illata o nozione
acquisita, dell'immanentismo Spinoza col panteismo di BRUNO, del criticismo con
la metafisica della mente di VICO. Poi GALLUPPI e ROSMINI si sarebbero
riappropriati inconsciamente di quello stesso spirito permeato dal kantismo,
come GIOBERTI di quello dell'idealismo. Ripigliare il sacro filo della nostra
tradizione filosofica italiana, ravvivare la coscienza del nostro libero
pensiero nello studio dei nostri maggiori filosofi, ricercare nelle filosofie
delle altre nazioni i germi ricevuti dai primi padri della nostra filosofia
italiana e poi ritornati fra noi in forma nuova e più spiegata di sistema,
comprendere questa circolazione del pensiero italiano, della quale in gran
parte noi avevamo smarrito il sentimento, riconoscere questo ritorno del nostro
pensiero a sé stesso nel grande intuito speculativo del nostro ultimo filosofo
Hegel, sapere insomma che cosa noi fummo, che cosa siamo e che cosa
dobbiamo essere nel movimento della filosofìa, non come membri isolati e
scissi dalla vita universale del popolo, nè come avvinti al carro trionfale
d'un popolo particolare, ma come nazione libera ed eguale nella comunità universale.
Tale, o signori, è stato sempre il desiderio e l'occupazione della mia vita. Prolusione
alle lezioni di Storia della filosofia a Bologna (Modena, Tipografia
Governativa) Uno dei suoi propositi, giustificato dalla stessa tesi della
circolazione della filosofia italiana, e il tentativo di far uscire gli
intellettuali italiani dal provincialismo stagnante in cui versavano,
apportando loro gli elementi più innovativi del pensiero idealistico
d'oltralpe, per dare un fondamento filosofico-culturale al processo
rivoluzionario dell'unificazione nazionale. La rivoluzione storica da attuare
non e il programma neo-guelfo del primato morale e civile di GIBERTI che
ripudia in blocco la filosofia moderna, ma anda intesa hegelianamente come sttoria
della libertà, nella quale lo spiritualismo non significa un'involuzione, bensì
un riallineamento alle nazioni più avanzate. Son molti ancora in Italia i
quali tacciano di astratta e oscura la filosofia alemanna e, reputandola
contraria alla natura speculativa dell'ingegno italiano, si accontentano di una
maniera di sapere che non ha nessuna connessione con la nostra tradizione
filosofica -- è un perpetuo oltraggio alla memoria de' nostri sommi ed infelici
pensatori, e la principal cagione del decadimento della scienza tra noi.
Costoro dimenticano la storia della filosofia italiana, della quale furono gli
eroi e martiri i nostri filosofi. Non ricordano i roghi di BRUNO e di VANINI,
la lunga prigionia di CAMPANELLA, e l'umile pietra che, nel tempio de'
Gerolomini in Napoli, ricopre le ceneri di VICO, luce del nostro mondo
intellettuale. Non i nostri filosofi degli ultimi duecento anni, ma Spinoza,
Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, sono stati i veri discepoli di BRUNO, di
VANINI, di CAMPANELLA, di VICO, ed altri illustri. – “Principii di Filosofia”. Non
si limita a recepire passivamente l'hegelismo, ma da avvio ad una sua profonda revision.
Introduce temi originali che cerca di riprendere dalla tradizione autoctona italiana.
In particolare, cerca di rispondere alle critiche di Trendelenburg, il quale
non vede come dal primo momento della logica hegeliana, quello dell'essere puro
e indeterminato, puo scaturire il divenire dialettico dello spirito, se non
tramite un'indebita intromissione dal di fuori. Per dimostrare l'identità
dell'essere col spirito, e quindi che l'Idea è intrinseca alla realtà storica,
avente come scopo la libertà, sostenne l'esigenza di mentalizzare o
kantianizzare» la logica di Hegel, unificando quest'ultima con la
fenomenologia, cioè col percorso conoscitivo del singolo individuo umano, che
diventa progressivamente auto-cosciente di avere in se stesso, nello proprio
spirito, tutta la realtà assoluta logicamente articolata. Riforma così la
dialettica hegeliana nell'ottica di Kant e Fichte, ritenendo prevalente l'atto
soggettivo (no inter-soggetivo) della coscienza trascendentale rispetto ad ogni
presupposto oggettivistico o inter-soggettivistico), valorizzando inoltre il
momento finale dello spirito rispetto alle fasi precedenti della logica e della
natura, situate fuori dall'auto-coscienza. È lo spirito la protagonista di ogni
originaria produzione. In maniera simile a Fischer, infatti, la deduzione
hegeliana, che dalla contrapposizione di essere e nulla faceva scaturire il divenire,
venne intesa in senso kantiano e fichtiano dando il primato alla sintesi
unificatrice del divenire: è lo spirito, nel suo perenne fluire, che dà luogo
all'essere, il quale, originariamente indeterminato e perciò in-concevibile, si
rivela un non-essere, essendo posto all'interno dello spirito stesso. Per
questo primato assegnato all'atto del concivere, fa da apripista all'idealismo
attuale di GENTILE. Per contrastare l'avanzata del positivismo che e penetrato
in Italia dopo la raggiunta unità nazionale, di fronte all'esaurirsi delle
spinte ideali che caratterizzano il Risorgimento, si impegna nella
valorizzazione dell'aspetto pratico del processo spirituale, per evitare la
caduta in un «stratto idealismo, che non cura né pregia lo sperimento. In
particolare riprende da VICO una concezione pratica e storica della metafisica
dell'assoluto, intendendo l'auto-coscienza hegeliana (quale Begierde, cioè
appetizione) come umanità, ovvero impeto che agisce nel soggetto
umano. Analogamente puo sostenere, nel tracciare LA STORIA DELLO SPIRITO
ITALIANO che è il soggetto umano a dare concretezza e coscienza di sè al
processo storico. La Riforma della modernità che abolisce i vecchi principi
della filosofia scolastica si basa per l'appunto sull'immanenza di Dio e sulla
capacità della coscienza umana di auto-determinarsi e di accedere direttamente
all'Infinito, come enunciano BRUNO e CAMPANELLA. Il riconoscimento del valore
infinito dell'uomo ha ripercussioni anche sulla concezione etico-politica, stimolando
studi e interessi sulla filosofia hegeliana del diritto. Permase una viva
concezione etica dello stato italiano, che lo indusse a rinvenire
nell'idealismo hegeliano la sintesi tra la corrente post-illuministica, basata
sull'arbitrio individuale soggetivo e su una concezione meramente
contrattualistica dello stato, ed il cattolicesimo liberale, fondato viceversa
sull'arbitrio divino e sull'aderenza dogmatico-confessionale al principio
d'autorità. Il suo liberalismo rigetta l'individualismo o soggetivismo che
privilegia l'interesse del singolo portandolo a servirsi dell'organismo
universale per i propri fini, distruggendo la società. Allo stato italiano
spetta dunque la funzione pedagogica di promuovere gli interessi DI TUTTI, di
ogni italiano, tutelando la famiglia, in cui si forma l'individuo o soggeto, e
al contempo la società civile. La famiglia e la società civile hanno la
loro verità nello stato. Dove lo stato italiano non è altro che famiglia (lo stato
patriarcale italiano), o una istituzione di pubblica sicurezza (polizia
italiana), non solo lo stato italiano non è il vero stato, ma né la famiglia né
la società civile esistono nella loro vera forma. Lo stato italiano è l'unità
del principio della famiglia e del principio della società civile (della
naturalità umana e del libero volere, del diritto e della moralità). Non è una
semplice associazione fondata mediante il libero arbitrio soggetivo, o il patto
inter-soggetivo etc, né una associazione puramente naturale. È tutto ciò
insieme. È assoluta soggettività etica dei individui.. Assoluta, perché è
sostanza; soggettività, perché è saputa e voluta dagli individui liberamente
come la loro stessa essenza etica e universalità. Dove manca tale sapere e
volere, lo stato italiano non è libera soggettività, e l'individuo non ha vero
valore (individualismo moderno). In altri termini, è la sostanza nazionale,
conscia veramente e realmente di se medesima; lo spirito del popolo (come tale,
come spirito etico) nella sua vera e perfetta esistenza – “Studi sull'etica
hegeliana”. Poiché il potere stesso dello stato italiano può essere utilizzato
da un individuo o da una classe in vista dei suoi interessi di parte, accetta
il modello costituzionale, sebbene non privo di conflitti tra particolarità e
universalità, nel quale la personalità dello stato italiano e elevata sopra la
lotta sociale. Ripudiando l'astratto cosmopolitismo, lo stato italiano va dunque
inteso come l'immanenza di dio, dell'universalità dello spirito italiano calato
nella concretezza della nazionalità del popolo italiano, tutti uguali, ratelli dell'umana
famiglia. È con Spaventa soprattutto che la filosofia in Italia cessa d'essere
esercitazione accademica e vacua speculazione, si avvia a diventare organica
visione del mondo, da cui derivi e consegua una morale, si avvia cioè a
diventare religione laica, dando inizio a quel largo movimento di distacco di
intellettuali dalla chiesa cattolica. -- Arfé, L'hegelismo napoletano e S., in
«Società», Firenze. E uno dei maggiori teorici che si sforzarono dare un
un'impronta ideale e spirituale al percorso risorgimentale verso l'unità
d'Italia, non limitata all'ambito filosofico, come riconobbero in seguito
storici e studiosi del Risorgimento. Con lui e SANCTIS e giunta al culmine
quella motivazione politica della nazione italiana che e la caratteristica in
forza della quale il movimento sorto a Napoli supera i limiti di un episodio
regionale. Da noi, gl’italiani, al contrario che in Inghilterra e in Francia, l'hegelismo
non è stato solo una filosofia ma un elemento della vita civile della nazione italiana
nel momento culminante del suo Risorgimento. Landucci, L'hegelismo in Italia
nell'età del Risorgimento, Studi storici, Roma. Influsce profondamente, attraverso
la mediazione di JAJA, anche l'idealismo italiano di GENTILE, il quale porta a
termine il lavoro di kantianizzazione o mentalizzazione di Hegel avviato da lui,
trasformando la sua dottrina in un compiuto attualismo o filosofia dell'atto,
basata cioè sul perenne dinamismo dell'atto del pensiero. GENTILE cura
inoltre la pubblicazione della spaventiana prolusione e introduzione alle
lezioni di filosofia a Napoli, ri-nominandola significativamente La filosofia
italiana, ritenendola un saggio di carattere non solamente storiografico, ma
soprattutto fenomenologico, in cui cioè lo spirito della filosofia italiana
esprime la sua ritrovata coscienza di sè. GENTILE si confronta ampiamente con
lui nella propria riforma della dialettica hegeliana, oltre a raccogliere e
sistemare alcuni suoi scritti inediti, tra cui un frammento giudicato uno snodo
importante verso la genesi del proprio attualismo, contribuendo alla riscoperta
e alla rinascita degli studi intorno alla dottrina spaventiana. Anche
l'idealista CROCE, che dopo la morte dei genitori anda a vivere da S., segue le
sue lezioni, apprezzandone soprattutto lo spirito profondamente liberale. Altri
di suoi scolari, o allievi sono FIORENTINO, MATURI, JAJA, MASCI, TOCCO,
LABRIOLA, ed ALFONSO. Nuovi studi sono sorti in occasione del bi-centenario
della nascita di S. e SANCTIS. Altri saggi: La filosofia di Kant e la sua
relazione colla filosofia italiana, Tipografica, Torino; Principii di filosofia,
Ghio, Napoli; Studi sull'etica di Hegel, Università, Napoli; La filosofia di GIOBERTI,
Tasso, Napoli; Saggi critici di filosofia, politica e religione, Bruno, Roma, La
dottrina della conoscenza di BRUNO, Università, Napoli; Principi d’etica” (Pierro,
Napoli); “La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea” GENTILE,
Laterza, Bari. “Logica e metafisica” Gentile, Laterza, Bari. Opere, Gentile,
raccolte e aggiornate da Cubeddu e Giannantoni, Classici della Filosofia,
Sansoni, Firenze. Opere, saggio introduttivo, prefazioni, note e apparati di
Valagussa, postfazione di Vitiello, Bompiani, Milano. Articoli sulla filosofia
tedesca (Kant, Fichte, Schelling, Hegel), Petrone, Il Prato, Edizione critica delle Opere psicologiche
inedite Orsi, Lezioni di antropologia, Psiche e metafisica Elementi di psicologia speculativa, Sulle
psicopatie in generale. Cit. in Spaventa, Antologia degli scritti, Vacca, Bari,
Laterza. Gentile: la filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, Angeli,
Gentile e Spaventa, su treccani. Il
contributo italiano alla storia del pensiero, su treccani. Nel tempo che gl’ustriaci
— ‘i tedeschi’ dicemo generalmente in Italia — dimorano non solo nelle contrade
lombarde e venete, ma anche in Toscana, io non ho il coraggio di dire:
filosofia tedesca. (nota di S.). Principii
di Filosofia, Napoli, Ghio. Le tradizioni filosofiche nell'Italia unita, di Rota.
Perone, Ferretti, Ciancio, Storia del pensiero filosofico, Torino, SEI, Cit. di Gentile in Della vita e
degli scritti di Spaventa, Scritti filosofici” (Napoli, Morano). Altri saggi: “Sulle
psicopatie in generale, o La legge del
più forte, in cui si confronta tra l'altro col darwinismo. Studi sull'etica hegeliana, Napoli, R.
Università, Il concetto di nazione (nazionalità) segna in lui un superamento
della filosofia hegeliana della storia basata sul susseguirsi di popoli-guida
(cfr. Carratelli, Storia e civiltà della Campania (Napoli, Electa); Studii sopra
la filosofia di Hegel; Unificazione nazionale ed egemonia culturale, Vacca (Bari,
Laterza); Garin, La fortuna nella filosofia italiana, in L'opera e l’eredità di Hegel, Bari, Laterza; Cubeddu,
Da S. a Gentile: Kant e l’idealismo, in La tradizione kantiana in Italia, convegno
della Società filosofica italiana, Messina, G. B. M.; La raccolta gentiliana
delle sue opere venne riedita e curate da Cubeddu e Giannantoni, e ri-stampata
da Valagussa e Vitiello. Coscienza nazionale, treccani. Gentile, S. (Firenze,
Vallecchi); Vacca, Politica e filosofia (Bari, Laterza); Bartot, L'hegelismo di
S. Firenze, Olschki; Cubeddu, Edizioni e studi (Firenze, Sansoni); Serra, Etica
e politica (Roma, Bulzoni); Franchini, Dalla scienza della logica alla logica
della scienza” (Napoli, Pironti); Garin, Filosofia e politica, Tognon, Napoli,
Bibliopolis; Garin, Napoli, Bibliopolis, Gentile, Coscienza nazionale, Chieti,
Noubs; Origo, Perpetuazione e difesa della filosofia italica (Roma,
Bibliosofica); Savorelli, Il contributo italiano alla storia del Pensiero
Filosofia (Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana); Attualismo Hegelismo
Idealismo italiano Idealismo tedesco Treccani. Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Dizionario biografico
degl’italiani, Fusaro, “S.: Il far intendere Hegel all'Italia, vorrebbe dire ri-fare
l'Italia”. Gentile e S., su treccani.
Scritti filosofici. Gentile. Gli hegeliani di Napoli e il Risorgimento. SAGGI
DI S. SAGGI PUBBLICATI DA S. Sulla quantità considerata nella sua espressione, Giornale
abruzzese, Napoli]. Allo stato attuale delle ricerche, è il primo saggio pubblicato
da S. Un manoscritto dell’articolo — datato: Montecassino, e firmato: B. De
Laurentiis — è conservato nella Biblioteca civica di Bergamo. Il saggio non
sviluppa argomenti di carattere filosofico; tratta dell'oggetto e dei metodi
dell’analisi matematica, richiamando l’attenzione del lettore sulla cosiddetta
“serie di Taylor”, introdotta dal matematico Brook Taylor nello scritto
Metbodus incrementorum diretta et inversa. Il saggio Sulla quantità è stato
ristampato da Orsi nella raccolta degli Scritti inediti e rari di S. Pensieri
sull'insegnamento della filosofia, Il Costituzionale, Firenze. È il primo
scritto di S., fin quI conosciuto, che tratti di un argomento filosofico. E
scoperto da GENTILE dopo la pubblicazione del suo S., sicché non comparve nella
riordinata e accresciuta bibliografia inserita nella monografia gentiliana. I
Pensieri indicano nella filosofia della storia la dottrina capace di introdurre
i giovani ad una retta comprensione della filosofia hegeliana; e costituiscono
un documento importante per la ricostruzione del primo “programma” filosofico
di S. Sono stati ristampati da Gentile nel Giornale critico della filosofia
italiana”, Opere. II Socialismo e il Comunismo -- supplemento alla storia del
secolo per Stein Professore in Kiel. Prima versione dell'originale tedesco di S.,
Il Nazionale, Firenze, Rivista italiana, Torino. È un avviso scritto da S. allo
scopo di raccogliere sottoscrizioni per la sua traduzione — forse mai
pubblicata — della nota opera di L. von Stein, Der Socialismus und Communismus
des heutigen Frankreichs (1842, 1848; ampliata e ripubblicata nel 1850 col
titolo: Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich vom 1789 bis auf unsere Tage).
Il testo dell’avviso pubblicato nel “Nazionale” di Firenze è stato rintracciato
e ristampato da Sergio Landucci, nel saggio S. fra hegelismo e socialismo;
quello apparso nella “Rivista italiana” di Torino, è stata, ripubblicato da Orsi,
nella sua edizione degli Scritti inediti e rari di S. Studi sopra la filosofia
di Hegel, Torino. In questo estratto sono raccolti due saggi apparsi sulla “Rivista
italiana” [Torino], nuova serie, novembre e dicembre 1850. Sono firmati:
Bertrando Spaventa; non sono stati mai ristampati integralmente. Gli Studi sono
un documento di primaria importanza per intendere la direzione in cui si
muovono le idee filosofiche di S. Offrono al lettore, nella prima parte, una “idea
generale” del sistema hegeliano, costruita attraverso brevi riassunti delle
opere di Hegel; nella parte seconda, propongono una traduzione — che è una
parafrasi, e, sia pure in modesta misura, un commento — della Vorrede alla Fenomenologia
dello spirito. La rivoluzione e l’Italia: Diritto della rivoluzione -- I
filosofi -- Le conquiste della rivoluzione, in “Il Progresso” [Torino], II, nn.
130, 135 e 141; 3, 8 e 15 giugno 1851. Con questa serie di articoli si apre la
collaborazione di S. al giornali torinese “Il Progresso”, un foglio di
sinistra, del cui consiglio di direzione faceva parte Agostino Depretis. Un
primo, importante gruppo di scritti ali S. dedicati alla polemica sulla libertà
di insegnamento in Piemonte, e pubblicati sullo stesso giornale, è stato
identificato e ristampato da Gentile nel volume La lbertà di insegnamento [108];
nello stesso anno (1920), Gentile ristampava nella rivista “La Critica” le
False accuse contro l hegelismo, due articoli del “Progresso” dei quali l’a.
aveva annunziato la ristampa, con quel titolo, nella raccolta dei suoi Saggi di
critica, interrotta dopo il primo volume [107, 77]. A questi scritti
rintracciati da Gentile (il quale, nel 1924, scriveva che molti altri articoli
anonimi dello Spaventa sono nello stesso giornale [“Progresso”], facili a
identificare per la materia e per la forma”), si aggiungono ora, con La
rivoluzione e l’Italia, altri articoli identificati da I. Cubeddu, che rende conto
del suo lavoro nello scritto Bertrando Spaventa pubblicista (giugno-dicembre
1851) [275]. Nello stesso articolo (p. 52 sg., nota) sono elencati alcuni
scritti del “Progresso” che, per il contenuto e per lo stile, potrebbero attribuirsi
a S., ma per i quali non è stato possibile trovare ragioni più persuasive della
loro paternità. Gli articoli scritti per il “Progresso” costituiscono il documento
più interessante delle convinzioni etico-politiche del filosofo; in quelli
identificati da Cubeddu sono più evidenti le tracce della lettura del libro di
Stein, Der Socialismus und Communismus, che S. si propose di tradurre. Oltre
quella gentiliana, già citata, degli scritti sulla libertà di insegnamento e
delle False accuse, si veda, in “Giornale critico della filosofia italiana”,
XLII (1963), pp. 66 sgg., la ristampa, con il titolo Rivoluzione e utopia,
della serie La rivoluzione e l’Italia, della serie Le utopie [12], e
dell’artiilo Rousseau, Hegel, Gioberti [14]. L’Armonia e l’Assemblée Nationale:
I. L'idea, ILL L’uomo, in “Il Progresso” [Torino], II, nn. 137 e 138, 11 e 18
giugno 1851. Scritti in polemica con il quotidiano cattolico torinese “L’Armonia”,
questi due articoli sono apparsi anonimi, e non sono stati fin qui ristampati. Il
sedicente partito cattolico, in “Il Progresso” [Torino], II n. 143, 18 giugno
1851. Articolo non firmato; non è stato mai ristampato L'Accademia di filosofia
italica, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 147, 24 giugno 1851. Articolo
identificato da Gentile nel suo Bertrando Spaventa [204], p. 38 sg. nota (=
Opere, I, pp. 32 sg. n. 2), ma non incluso poi da lui nella biblioorafia degli
scritti di S. Non è stato mai ristampato; ma cfr. n. 9. Una riunione
dell’Accademia di filosofia italica, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 150, 27
giugno 1851. Seguito dell’articolo precedente. Lo scritto è stato ristampato da
Gentile nel volume La libertà di insegnamento [108], pp. 135-138 (= Opere, IIL
pp. 765-769). La libertà di insegnamento. Gli scritti raccolti sotto questo
titolo furono identificati dal Gentile, e da lui ristampati in un volume
apparso nel 1920 [108]. Sono tredici articoli, tutti dedicati alla polemica sulla
libertà di insegnamento in Piemonte, che apparvero nel “Progresso” del 1851
(anno II), tra il 27 luglio e T'11 dicembre. I primi cinque portano le date: 27
e 31 luglio, 7, 20 e 24 agosto; altri due articoli, destinati Az corzpilatori della
“Croce di Savoia”, sono del 3 e 12 settembre; gli ultimi sei, scritti in
polemica col giornale “Risorgimento” (Filosofia politico-offaciale), sono del
5, 8, 11 e 30 novembre, e del 3 e 11 dicembre. Sono probabilmente di S. altri
tre articoli che riguardano la stessa materia, e che apparvero sul “Progresso”
il 12 agosto (Ura lezione ai fautori della libertà di insegnamento), il 4
ottobre (La lbertà di insegnamento e il ministro della Pubblica istruzione) e
il 28 ottobre (La lbertà dei gesuiti) dello stesso anno. Cfr. I Cubeddu,
Bertrando Spaventa pubblicista [275], p. 52 sg., nota. False accuse contro
l’hegelismo [1851]. È il titolo sotto il quale S. intendeva raccogliere e ristampare,
nei Saggi di critica [77], gli articoli: L’hegelismo messo in croce, in “Il
Progresso” [Torino], II, n. 204, 29 agosto 1851. Lettere filosofiche. Lettera
prima, in “Il Progresso” [Torino], 11, n. 239, 9 ottobre 1851. I due articoli,
firmati: Uro studente di filosofia, enunciano o riprendono questioni discusse
da S. dalle colonne del giornale torinese: la distinzione di socialismo,
comunismo e hegelismo; il problema del rapporto tra il cosiddetto “panteismo”
hegeliano e la libertà dell’individuo; quello del rapporto di religione e
filosofia; l’idea della filosofia “come principio di rigenerazione nazionale”,
ecc. Sono interessanti anche perché contengono molti riferimenti a testi di
Hegel, di Schelling, di Giordano Bruno, di Karl L. Michelet, ecc. Il primo
articolo è una risposta allo scritto di D. Berti: I/ diritto individuale e il
panteismo in politica, apparso nel giornale “La Croce di Savoia”, di
ispirazione cavouriana. S. non giunse a ristampare questi articoli, che furono ripubblicati
dal Gentile nel 1920, con il titolo voluto dall’autore. Le utopie, in “Il
Progresso” [Torino], II, nn. 206, 215, 223, 234, 237, 241; 31 agosto, II e 20
settembre, 3, 7 e II ottobre 1851. Si tratta di sei articoli non firmati che,
riprendendo da L. Stein la distinzione di “utopie” e “idee storiche”, discutono
il significato delle lotte politiche e sociali degli ultimi sessant’anni. La
serie è stata ripubblicata nel “Giornale critico della filosofia italiana”, La
scienza de’ fratelli della dottrina cristiana, in “Il Progresso” [Torino], II,
n. 298, 17 dicembre 1851. Anonimo, mai ristampato [cfr. n. 275]. Rousseau,
Hegel, GIOBERTI, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 305, 26 dicembre 1851. Pubblicato
anonimo, questo articolo è dedicato alla discussione del rapporto che si
istituisce tra “libertà oggettiva” e “libertà soggettiva” nelle dottrine di
Rousseau, di Hegel e di Gioberti; e contiene interessanti riferimenti, oltre
che a testi hegeliani, al Rinzovamento civile d'Italia. Le argomentazioni di S.
si sviluppano secondo una linea identica a quella con cui lo stesso tema è
introdotto nei precedenti Studi sopra la filosofia di Hegel [4]; lo stesso discorso
svolgerà S. nel 1855, in un articolo di risposta al Tommaseo. Lo scritto
Rousseau, Hegel, Gioberti è ristampato nel “Giornale critico della filosofia
italiana”, Principii della filosofia pratica di Giordano Bruno, in Saggi di
filosofia civile, tolti dagli Atti dell’Accademia di filosofia italica, Genova.
S. aveva dato pubblica lettura di questo saggio a Torino, la sera del 24 giugno
1851, nel corso di una riunione dell’Accademia di filosofia italica, fondata da
T. Mamiani. Il lavoro su Bruno - ispirato alle idee di rinnovamento politico e
sociale, che S. sosteneva negli articoli pubblicati dal “Progresso” — è stato
ristampato dall’a. nei suoi Saggi di critica Una lunga recensione dei Princìpî è apparsa nell’Appendice alla
filosofia delle scuole italiane di A. Franchi, Genova 1853, pp. 217-243 (la
recensione è ricordata da G. Vacca, 141 bis, p. 10). Si legge a p. 217 sg. (e cfr.
p. 234 sg.): “il discorso di Spaventa, l’unico in cui la filosofia apparisca
trattata da un filosofo, l’unico di cui avrebbero potuto gloriarsi gli At
d’un’Accademia, diventa la censura più severa, per non dire la satira più
acerba, dell’Accademia italica e della sua filosofia; poiché le dottrine dell’ardito
discepolo di Bruno distruggono ad una ad una le teorie monche, zoppe,
tisicuzze, eunuche di Mamiani e Boncompagni”. Ma v. anche pp. 235 sgg., dove si
nega l'esattezza “storica” del giudizio per il quale principio del cristia
nesimo sarebbe l'identità di natura divina e natura umana; Franchi vuol
sottolineare la totale divergenza di cristianesimo e “razionalismo”, l’abisso
che separa le dottrine teoriche, morali, sociali del cristianesimo e la “democrazia
moderna”, figlia della Rivoluzione dell’89 e della filosofia. Frammenti di
studii sulla filosofia italiana del secolo XVI, in “Monitore bibliografico”
[Torino] Nella sua bibliografia delle opere di S. [204], Gentile segnala che lo
scritto era preceduto dalla seguente avvertenza: “L'importante articolo che
pubblichiamo è parte di un lavoro dell’egregio filosofo sig. B. Spaventa sopra
la filosofia del secolo XVI, particolarmente su quella di Giordano Bruno”. Lo
scritto non è stato mai ristampato; ad esso accenna lo stesso S., citandone
qualche brano, nella prefazione ai Principi di filosofia. La filosofia
neo-cristiana e il razionalismo in Alemagna, in “Il Cimento” [Torino] È il
primo scritto di rilievo [ma cfr. n. 35] stampato nel periodico “Il Cimento”,
rivista di scienze, lettere e arti diretta da Zenocrate Cesari e pubblicata a
Torino dal 1852 al 1856 (anno della fusione con la “Rivista contemporanea”, diretta
da Luigi Chiala). Del “Cimento” S. fu assiduo collaboratore: vi stampò, oltre a
numerose recensioni, e a polemiche assai note (come quella con la “Civiltà cattolica”),
studi di ampio respiro sulla filosofia italiana del Rinascimento. Il saggio La
filosofia neo-cristiana e il razionalismo in Alemagna, firmato con la sigla D.
L. [De Laurentiis], fu scritto in occasione della traduzione italiana, a cura
di Pietro Torre, della Storia della filosofia del diritto di Fr. J. Stahl (Torino,
1853); è importante per il rapporto che S. istituisce tra il pensiero di
Gioberti e — attraverso Stahl — gli sviluppi della filosofia classica tedesca. Il
saggio è stato ristampato da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 213-245 (=
Opere, II, pp. 207-236). Recensione: Studi sopra Gans relativi al DIRITTO
ROMANO, di A. Tarchiarulo Napoli 1853; in “Il Cimento” [Torino], 31 marzo 1854,
Recensione anonima, non segnalata da Gentile, e attribuita a S. da A. Plebe. Campanella.
[Recensione delle] Opere di Campanella, precedute da un discorso sulla vita e
le dottrine dell'autore per Alessandro D'Ancona, Torino 1854; in “Il Cimento”
[Torino], Recensione, non firmata, dell’edizione D'Ancona delle Opere di
Campanella. Nell’indice del fascicolo l’autore della recensione è indicato con
la sigla B. S. Lo scritto è stato ristampato da S. nei suoi Saggi di critica [77],
pp. 3-32, come introduzione agli altri studi campanelliani [21, 46], raccolti
nello stesso volume. Congratulazioni e quistioni alla “Civiltà cattolica”, in “Il
Cimento” [Torino], 15 settembre 1854, pp. 370-376. Articolo, non firmato, con
il quale si apre la serie degli scritti polemici contro la “Civiltà cattolica”.
È stato ristampato da Gentile nel volume La politica dei gesuiti [101], pp.
1-16 (= Opere, Campanella. Teoria della cognizione, in “Il Cimento” [Torino], Dopo
la recensione al D'Ancona [19], che intendeva inquadrare la personalità di
Campanella nella storia del pensiero moderno, questi saggi sulla gnoseologia campanelliana
— apparsi nel “Cimento” con la firma: Bertrando Spaventa — offrono un raffronto
della dottrina del pensatore italiano con gli sviluppi della nuova filosofia
(in particolare, Cartesio, Kant, Fichte, e Hegel). Lo scritto è stato
ristampato da S. nei Saggi di critica [77], pp.33-101. Schelling, in “Il
Cimento” [Torino], 15 ottobre 1854, pp. 521-532. Articolo non firmato, scritto
in occasione della morte del filosofo tedesco. È interessante come documento
delle letture che S. andava utilizzando in questi anni (tra l’altro, lo Hegels
Leben [1844] di K. Rosenkranz), e per i riferimenti ai motivi “rivoluzionari”
presenti nella filosofia del giovane Hegel e del primo Schelling; infine per il
giudizio — negativo - sugli ultimi sviluppi del pensiero schellinghiano. Larghi
brani dell’articolo sono citati da Sergio Landucci, Il giovane Spaventa tra
begelismo e socialismo [282], pp. 684- 686, 688-690; il saggio è ora ristampato
per intero, a cura di D. D’Orsi, negli Scritti inediti e rari di S. [123], PP.
47-58. 23. Recensioni: De immacolato Deiparae semper Vitginis Concepiti Caroli
Passaglia e Societ. Jes. Commentarius Pars I, Romae MDCCCLIV (Della concezione
immacolata di Maria Vergine ecc.); Elementi di filosofia del prof. Pier Antonio
Corte, vol. Etica e storia della filosofia, Torino, Tip. Favale e Comp., 1854; Che
cosa è il Diritto, ossia Introd. alla scienza della filosofia del diritto per
Antonio Bartoli Avveduti, Firenze 1854. Dispensa 1; in “Il Cimento” [Torino],
31 ottobre 1854, pp. 660-668. Scritti non firmati, ristampati in parte (con
esclusione del discorso sugli Elementi di filosofia di P. A. Corte) in La politica
dei gesuiti [101], pp. 219-239 (= Opere, Nuove congratulazioni e quistioni alla
“Civiltà cattolica”, in “Il Cimento” [Torino], 16 novembre 1854, pp. 689-704. Articolo
firmato con la sigla: S.; ristampato in La politica dei gesuiti [101], (=
Opere, pp. 763-796). Recensioni: Proposta di alcune difficoltà, che si
oppongono alla definizione della immacolata concezione della B. Vergine Maria,
Torino, Tipografia del Progresso, 1854; Lettera di un sacerdote cattolico ai
Vescovi della Chiesa di Dio per rappresentar loro, che la sentenza dell’immacolata
concezione della B. Vergine Maria non può essere definita dottrina di fede
cattolica, Torino, Tipografia del Progresso, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16
novembre 1854, pp. 763-768. Le recensioni sono firmate: SS.; e sono state
ristampate dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 241-252 (= Opere,
II, pp. 964-975). Recensione: L’origine e l’ufficio della filosofia dimostrati
col fatto da Epifanio Fagnani, Torino 1854, Pelazza, tipografia Subalpina; in
“Il Cimento” [Torino], 30 novembre 1854, pp. 866-871. Recensione firmata con la
sigla: SS.; non è stata mai ristampata. Recensioni: Questioni di Stato del
conte Clemente Solaro della Margarita..., Torino, tipografia Speirani e
Tortone, 1854; Della responsabilità dello scrittore, orazione recitata nella
... Università di Torino al 3 novembre 1854 dall'avvocato D. Pier Alessandro
Paravia..., Torino, Stamperia Reale, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16 dicembre
1854, pp. 986-996. Queste recensioni, firmate: SS., sono precedute da una breve
nota intitolata: Le rostre riviste e la “Civiltà cattolica”. La recensione del
libro del Solaro è stata ristampata da Gentile in La politica dei gesuiti
[101], pp. 253-267 (= Opere, Il, pp. 976-988); sull'argomento della seconda recensione
S. ritorna in un numero successivo del “Cimento” [34]. I Sabbati de’ Gesuiti
[1855-56]. Si tratta di 29 articoli stampati — anonimi — dallo S. nell’appendice
del giornale “Il Piemonte”, quotidiano politico diretto da Luigi Carlo Farini,
in due serie, tra il 16 gennaio 1855 e il 28 marzo 1856 (il 30 marzo dello
stesso anno, “Il Piemonte” cessava le pubblicazioni). I primi tre Sabbati sono
stati ristampati dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 179-216 (=
Opere, 11, pp. 909- 941); ma l’intera raccolta degli articoli si può leggere
ora negli Scritti inediti e rari di S. a cura di D. D’Orsi [123], pp. 213-489. Ci
limitiamo qui a riprodurre le date degli articoli: “II Piemonte”, Prospetto
filosofico della storia del mondo umano di Cesare della Valle, duca di
Ventignano, Napoli, Alberto Detken libraio editore, 1854; in “Il Cimento”
[Torino], 16 gennaio 1855, pp. 66-70. La recensione è firmata con la sigla:
SS.; è stata ristampata in Da Socrate a Hegel [98], pp. 277-286 (= Opere, II,
pp. 265-273). Del principio della riforma religiosa, politica e filosofica, in
“Il Cimento” [Torino], 31 gennaio 1855, pp. 97-112; 15 marzo 1855, pp. 369-384;
15 ottobre 1859, pp. 568-577. È un ampio studio, che apparve, firmato, nel
“Cimento”, e che l’a. ristampò nei suoi Saggi di critica [77], pp. 269-328, con
la data: Torino, 1854-1855. II saggio, che riprende e sviluppa il tema della
genesi del pensiero moderno nell’età del Rinascimento, appare interrotto con la
terza puntata; nel ristamparlo, S. osservò che esso può considerarsi ancora valido
come introduzione alla “moderna filosofia italiana”, e che se ne debbono
considerare prosecuzione e compimento le lezioni napoletane del 1861 [68]. Una
nota della “Civiltà cattolica” contro “Il Cimento”, in “Il Cimento” [Torino],
31 gennaio 1855, pp. 144-146. Articolo firmato con la sigla: S.; è stato
ristampato dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 55-61, con il titolo:
Lazzenti della “Civiltà cattolica” (= Opere, II, pp. 797- 803). Principi
elementari di filosofia morale ad uso delle scuole secondarie, 2a edizione,
Torino, tip. Paravia e comp., 1854; in “Il Cimento” [Torino], 31 gennaio 1855,
pp. 158-164. La recensione, firmata: SS., non è stata mai ristampata. Del
sistema della Curia romana opposto all'autonomia dello stato, in “Il Cimento”
[Torino]. L’articolo, firmato SS., fu scritto in occasione della stampa della
A/locuzione della Santità di Nostro Signore Pio IX del 22 gennaio 1855, seguita
da una esposizione corredata di documenti, ecc., Torino, tipografia Franco,
1855. È stato ristampato dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 269-281
(= Opere, II, pp. 989-1005). Ancora dell’orazione sulla Responsabilità ecc. del
prof. Paravia; Maria Teresa e Maria Adelaide. Squarci di lezioni del prof.
Paravia, Torino, tip. Marietti, 1855; Il governo di Piemonte e la corte di
Roma, per Massimo d’Azeglio, Torino, Tip. Franco, 1855; in “Il Cimento” [Torino],
28 febbraio 1855, pp. 336-344. Recensioni firmate: SS. Per la prima, cfr. n.
27. La recensione al D'Azeglio è ristampata in La politica dei gesuiti [101],
pp. 283-285 (= Opere, II, pp. 1006-1008). La nostra polemica con la “Civiltà
cattolica”, in “Il Cimento” [Torino], 15 marzo 1855, pp. 438-445. L’articolo —
firmato con la sigla: S. — appartiene alla serie dedicata alla polemica con la
“Civiltà cattolica”. Non fu segnalato da Gentile: lo ha identificato e
ristampato Domenico D’Orsi, nella raccolta degli Scritti inediti e rari di S.
[523], pp. 189-202. Al D’Orsi (op. cit., pp. 181 sgg.) sembra che il contenuto
di questo articolo (e quello di uno scritto successivo, anche questo da lui
identificato: cfr. n. Presenti una sostanziale affinità con l’argomento di una “lettera”
pubblicata dalla rivista torinese nel 1852 (A/ direttore del giornale “Il
Cimento”. Frammento di una lettera sulla “Civiltà cattolica”, “Il Cimento”, I,
1852, pp. 334-338), lettera della quale dovrebbe essere considerato autore lo stesso
Spaventa. Corso d’estetica, letto nell'Università di Padova nell'anno 1844-45
dal prof. Vincenzo De Castro, seconda edizione, Milano, Borroni e Scotti, 1855,
vol. I; in “Il Cimento” [Torino]. La recensione, firmata con la sigla: SS., non
è stata mai ristampata. Opere complete di Emm. Kant tradotte in francese da G.
Barni, con introduzioni analitiche e critiche. 1. Critica della ragione pratica
ecc. 2. Elementi metafisici della dottrina del diritto, Parigi, 1848-1854; G.
Barni (Esposizione critica della filosofia pratica di Kant); in “Il Cimento”
[Torino], 16 e 30 aprile 1855, pp. 653-659, 746-752. Recensione, firmata SS.,
delle traduzioni kantiane di Jules Barni, e dell’ Exazzen des Fondements de la
métaphysique des moeurs et de la Critique de la raison pratique dello stesso Barni
(Parigi, 1851). Lo scritto è stato ristampato da Gentile nella raccolta Da
Socrate a Hegel [98], pp. 123-150, con il titolo: La filosofia pratica di Kant
e Jules Barni (= Opere. Alcune considerazioni intorno alla separazione dello Stato
dalla Chiesa, del sacerdote Giacomo Margotti, dottore in teologia, Torino, tip.
Deagostini, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16 maggio 1855, pp. 849-855. Recensione
firmata con la sigla: SS.; ristampata da Gentile in La politica dei gesuiti
[101], pp. 287-300 (= Opere, Gli scolastici immaginarii della “Civiltà
cattolica”, in “Il Cimento” [Torino] Breve risposta alla “Civiltà cattolica” —
firmata con la sigla: S. — a proposito della interpretazione delle dottrine politiche
di Suàrez e di Mariana. Lo scritto segue immediatamente, nelle pagine del
“Cimento”, alla recensione del libro del Margotti (v. n. precedente). Non è stato
segnalato da Gentile; lo ha ristampato D. D’Orsi negli Scritti inediti e rari
di S. [123], pp. 205-206. Hegel confutato da Rosmini. Saggio primo, in “Il Cimento”
[Torino] L’articolo — firmato: B. Spaventa — denuncia i fraintendimenti
sostanziali che stanno alla base di alcune critiche di Rosmini alla filosofia
di Hegel. La seconda parte del saggio, che avrebbe dovuto illustrare la
soluzione — dal punto di vista hegeliano — delle difficoltà sollevate da Rosmini,
non fu mai pubblicata. Ma la critica di S. ebbe un seguito in un articolo
contro il Tommaseo. Lo scritto su Rosmini è stato ristampato da Gentile in Da Socrate
a Hegel [98], pp. 151-191 (= Opere, Storia di uno studente di filosofia, di
Giuseppe Piola, Milano, tip. G. Bernardoni, 1855; in “Il Cimento” [Torino], 31
maggio 1855, pp. 951-956. Recensione firmata con la sigla: SS.; è stata
ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 287-298 (= Opere, II, pp.
274-284). Lo scritto ha suscitato di recente qualche interesse, per i severi
rilievi di S. alle acritiche osservazioni del Piola sul socialismo (cfr. ad es.
i saggi di Berti e di Landucci, nn. 255, 282). L'Accademia di filosofia italica e Terenzio
Mamiani. [Recensione dei] Saggi di filosofia civile tolti dagli atti dell’Accademia
di filosofia italica, Genova, Grondona, 1855, vol. 2; in “Il Cimento” [Torino],
16 giugno 1855, pp. 1021-1033. Articolo firmato: B. Spaventa. Contiene, in
fondo, un indice dei lavori pubblicati dall'Accademia, che non compare nella
ristampa della recensione, inserita dall’a. nei suoi Saggi di critica [77], pp.
343-366. Dell’importanza civile del teatro drammatico, in “Il Cimento” [Torino]
Il saggio è attribuito a S. da Domenico D’Orsi, che ristampa l’articolo nella
sua raccolta degli Scritti inediti e rari del filosofo [123], pp. 65-88. Alla
base dell’attribuzione sta il fatto che l’articolo è firmato con una sigla (=
S.), che l’autore soleva apporre ad alcuni scritti pubblicati nel “Cimento”. Il
saggio sembra peraltro presentarsi come stravagante, per dir così, nella
produzione spaventiana di questo periodo: non tanto per l'argomento trattato,
quanto per le idee che vi sono espresse (e, più che espresse, insinuate) e per
la forma in cui tali idee vengono offerte al lettore. Il tema non è, di per sé,
sconcertante: l’autore vuol sostenere il valore del teatro drammatico come
strumento di educazione intellettuale, morale e sociale, in quanto esso è capace
di presentare in veste sensibile l “idea”, di avvicinare il “popolo minuto” al
mondo del sapere. Ma l’autore, nel giustificare la funzione mediatrice della
letteratura drammatica, sembra inclinare verso una convinzione che mi appare
alquanto distante dalle tesi difese altrove dallo S., in questi stessi anni:
finisce infatti col suggerire la superiorità della “fantasia” e del
“sentimento”, del “cuore” e della “fede”, sulla “ragione” e sull’ “intelletto”.
E, similmente, il beneficio che la letteratura drammatica può arrecare alla società,
vien fatto derivare dalla sua naturale capacità di insegnare le “vedute medie”,
di additare una via che è egualmente distante da ogni estremismo. Corso
sommario di filosofia razionale, del P. Vittorio Mazzini. Filosofia speculativa
e filosofia morale, vol. due, Genova La scienza della lingua di Guglielmo di
Humboldt e la filosofia hegeliana, per Enrico Steinthal, Berlino; in “Il Cimento”
[Torino] Recensioni firmate con la sigla: SS. Non sono state mai ristampate. Metodo
della “Civiltà cattolica” nel rispondere al “Cimento”, in “Il Cimento” [Torino]
Articolo firmato con la sigla: SS., e ristampato da Gentile in La politica dei
gesuiti [101], pp. 63-78 (= Opere, II, pp. Campanella. III. Metafisica, in “Il Cimento”
[Torino], 15 agosto 1855, pp. 189-212. L'articolo, che fa seguito alla
recensione al D'Ancona e al saggio sulla gnoseologia di Campanella [19, 21], è
firmato: B. Spaventa; è stato ristampato dall’autore nei Saggi di critica È un
esame della metafisica campanelliana, della quale S. intende cogliere e
sceverare gli elementi nuovi, attraverso un raffronto con gli ultimi sviluppi
del pensiero moderno. L'analisi viene spinta fino al tentativo di un confronto
con il problema della logica e della fenomenologia di Hegel. L’articolo doveva
essere seguito da un saggio sulla Teoria della volontà; ma l’ultima parte di
questi studi campanelliani non fu mai pubblicata (cfr. Saggi di critica, p. 135
nota). La nostra polemica con la
“Civiltà cattolica”. La teocrazia, in “Il Cimento” [Torino], 31 agosto 1855,
pp. 307-314. Articolo firmato con la sigla: SS.; ristampato da Gentile in La
politica dei gesuiti [101], pp. 79-96 (= Opere, La logica o il problema della
scienza nuovamente proposto all'Italia da Paolo Morello, in “Il Cimento” [Torino]
Recensione del libro del Morello (La logica ecc.), pubblicato a Firenze
(Barbera, Bianchi e Comp.) nel 1855. È firmata: B. Spaventa; è stata ristampata
da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 299-321 (= Opere, Una diversa
redazione della recensione è stata rintracciata da P. C. Masini; cfr. Ur
“pamphlet” antidemocratica...I trionfi dei gesuiti, in “Il Cimento” [Torino],
30 settembre 1855, pp. 494-500. Articolo firmato con la sigla: AA. È ristampato
in La politica dei gesuiti [101], pp. 97-110 (= Opere, II, pp. 837- 848). La
nostra polemica con la “Civiltà cattolica”. Gli Scolastici, in “Il Cimento”
[Torino], 31 ottobre 1855, pp. 658-669. Articolo firmato con la sigla: SS.
Ristampato parzialmente (manca una breve parte introduttiva) in La politica dei
gesuiti [Joi], pp. 111-28 (= Opere, II, pp. 849-864). Sopra alcuni giudizi di
N. Tommaseo, in “Il Cimento” [Torino], 15 novembre 1855, pp. 730-741. L’occasione
a questa risposta di S. venne offerta dalla commemorazione di Rosmini, che
Tommaseo aveva pubblicato nel 1855, in più puntate, nella “Rivista contemporanea”
di Torino (cfr. ad es., nel fascicolo di settembre, pp. 25 sg., una chiara
allusione alle argomentazioni sviluppate da S. in Hegel confutato da Rosmini
[40]). L’articolo — che è firmato: B. Spaventa — è importante anche perché
ribadisce il raffronto tra Hegel e Gioberti — già proposto dalle colonne del
“Progresso” — a proposito dei concetti di legge, volontà generale, ecc. [Rousseau,
Hegel, Gioberti: 14]; e perché riprende il motivo dell’accostamento
Gioberti-Stahl [17]. Lo scritto è ristampato in Da Socrate a Hegel [98], pp. 193-212
(= Opere, II, pp. 189-206). Gli Scolastici. Suarez, in “Il Cimento” [Torino], Articoli
firmati con la sigla: SS., e ristampati in La politica dei gesuiti [101], pp.
129-178 (= Opere, II, pp. 865-907). Gli Scolastici. Concetto e metodo della
dottrina tomistica, in “Il Cimento” [Torino] È l’ultimo degli articoli di S.,
apparsi sul “Cimento”, dedicati alla interpretazione delle teorie politiche dei
gesuiti del XVI secolo, in polemica con la “Civiltà cattolica”. Gentile lo
aveva ristampato già nel 1905, in Da Socrate a Hegel [98], pp. 51-64 (con il
titolo: Concetto e metodo della dottrina tomistica del diritto = Opere, II, pp.
57-68), prima ancora di raccogliere gli altri scritti di S. sull'argomento nel volume
La politica dei gesuîti. Dell’amore dell'eterno e del divino di G. Bruno, in “Rivista
enciclopedica italiana” [Torino] dispensa prima, Il saggio è dedicato alla
esposizione del contenuto degli Eroici furori. È stato ristampato dall’a. nei
Saggi di critica La “Civiltà cattolica” e la “Rivista contemporanea”, in “Il
Piemonte” [Torino], II, n. 14, 16 gennaio 1856. L’articolo è stato ristampato
dal Gentile nell’appendice (Le tribolazioni di B. Spaventa giornalista, pp.
183-193: dove sono riprodotti alcuni documenti delle vicende capitate allo S.
in seguito alla fusione del “Cimento” con la “Rivista contemporanea” di Luigi
Chiala) del suo Bertrando Spaventa [204], pp. 189-193 (= Opere, Della filosofia
dopo Kant, ragionamenti di Michele Baldacchini, Napoli 1854; in “Il Cimento”
[Torino] Recensione firmata con la sigla: SS.; è stata ristampata da Gentile in
Da Socrate a Hegel [98], pp. 322-337 (= Opere, II, pp. 306-319), con il titolo:
La filosofia dopo Kant secondo Michele Baldacchini. Saggi sulla filosofia del
Mamiani (Critica dell’infinità dell’attributo), in “Il Cimento” [Torino],
febbraio 1856, pp. 122-146. Nell’articolo S. critica l’interpretazione proposta
da T. Mamiani — nella prefazione alla traduzione italiana del Bruno di
Schelling, a cura di M. Florenzi Waddington [1844] — della dottrina spinoziana
della relazione sostanza- attributi. È da collegare agli studi che S. andava
svolgendo in questi anni sulla filosofia di Spinoza, e di Giordano Bruno.
L’articolo è stato ristampato dall’a. nei Saggi di critica [771], pp. 367-403. La
Enciclopedia scientifica, per T. Mora e F. Lavarino, Torino 1856; in “Il
Cimento” [Torino], febbraio 1856, pp. 212-220; e in “Il Piemonte” [Torino], II,
n. 51, 28 febbraio 1856. Recensione, firmata con la sigla: SS., e pubblicata nell'ultimo
fascicolo del “Cimento”, che quindi fu assorbito nella “Rivista contemporanea”.
Nel “Piemonte”, lo scritto è firmato con la sigla: Z. Non è stato mai
ristampato. Il SENSUALISMO [Recensione di] Études morales sur le temps présent,
par E. Caro, prof. ecc. (Paris 1856, Hachette éditeur); in “Rivista
contemporanea” [Torino], maggio 1856, anno III, vol. VI, pp. 780-793. Recensione
firmata con la sigla: S.; è stata ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel
[98], pp. 247-273 (= Opere, Compendio di logica, secondo l’ultimo programma, ecc.,
del prof. Giuseppe Tesio (Torino, Tip. scolastica di Sebastiano Franco e Comp.,
1856); in “Rivista contemporanea” [Torino], giugno 1856, anno III, vol. VII,
pp. 173-176. Recensione firmata con la sigla: S. Non è stata mai ristampata. Philosophie
sensualiste au dix-buitième siècle par M. Victor Cousin (troisiîme éd. revue et
corrigée, Parigi 1856); in “Rivista contemporanea” [Torino], agosto 1856, anno
III, vol.; VII, pp. 494-464. La recensione è firmata con la sigla: S. È stata
ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 103-122 (= Opere, Considerazioni
sulla dottrina di Socrate del prof. G. M. Bertini (estratte dalle “Memorie
della R. Accademia delle scienze” di Torino, serie II, torno XVI); in “Rivista contemporanea”
[Torino], settembre 1856, anno IV, vol. VIII, pp. 89-114. Lo scritto, come
molte altre recensioni di S., è in realtà un ampio studio; e tratta del
pensiero di Socrate secondo i principi dell’hegelismo. A questo articolo — che
è firmato: B. Spaventa — doveva seguirne un secondo, mai pubblicato: cfr. le
notizie di Gentile premesse alla ristampa del saggio, da lui ripubblicato in Da
Socrate a Hegel [98], pp. 1-50, con il titolo: La dottrina di Socrate (= Opere,
II, pp. 11-56). Logique, par A. Gratry ... (2 voll., Paris 1855); in “Rivista
contemporanea” [Torino] La recensione è firmata: Bertrando Spaventa; non è
stata mai ristampata. Della logica o della teoria della scienza, libri tre di Vincenzo
Garelli, Oneglia, Tip. Tasso, 1856; in “Rivista contemporanea” [Torino], marzo
1857, anno V, vol. IX, pp. 474-480. È l’ultimo scritto pubblicato da S. nella
“Rivista contemporanea”. Non stato mai ristampato. Articoli per la Nuova
enciclopedia popolare. L’'editore Pomba prepara una nuova edizione — che
cominciò a pubblicarsi in quell’anno, ed ebbe diverse ristampe — della sua
Erciclopedia popolare (Torino, 1842 sgg.). A proposito della collaborazione di
S. a questa iniziativa, riassumiamo in breve le notizie fornite da Gentile nella
bibliografia degli scritti del filosofo inserita nel suo Bertrando Spaventa
[204], pp. 204 sg. Quando, con lettera del 7 dicembre 1858, Francesco Predari,
direttore dell’opera, propose a S. di collaborare all’Enciclopedia, si stava
preparando il materiale relativo alla lettera E. Il primo articolo fornito da
S. fu: Ellenismo; l’ultimo — a quanto pare — fu l’importante scritto su Kant [66].
S. collaborò all’Enciclopedia fino ai primi mesi del 1860. Sul verso della
lettera d’invito del Predari, S. ha annotato le “voci” — articoli interamente
rifatti, oppure corretti sul testo della prima edizione dell’opera — via via
consegnate all'editore. Ecco l’elenco delle voci annotate: E/leziszo, Empirismo,
Ente supremo, Epicuro, Epitteto, Facoltà dell'anima, Fanatismo, Fantasma,
Fatalismo, Fede, Felicità, Fenomeno, Ferecide, Fichte, Ficino, Filosofia,
Galluppi (un brano di questo articolo si può leggere in G. Gentile, Bertrando
Spaventa [204], pp. 95 sg. = Opere, Ig pp. 83 sg.), Germanica filosofia,
Giamblico, Gioberti (corrisponde in parte al capitolo su Gioberti delle lezioni
napoletane del 1861: cfr. nn. 68, 99), Giudizio. È probabile, scrive Gentile, che
S. abbia anche provveduto alla stesura di qualche altro articolo, compreso tra
gli esponenti Giudizio e Kant. Come risulta dalla stessa lettera del Predari,
S. avrebbe dovuto compilare anche gli articoli: Italica filosofia, Ermeneutica,
Errore, Esegesi, Esistenza, Esoterico, Esperienza, Essenza, Essere,
Eudemonismo, Evidenza. Gentile dà notizia, infine, di una lettera di Luigi
Pomba allo S. del 2 gennaio 1861, che conteneva un invito a continuare la sua
opera per l’Enciclopedia; e di una lettera di Antonio Tari del 28 luglio 1861,
che proponeva a S. di trattare per una eventuale sua collaborazione alla stessa
opera. La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana,
estratto dalla Nuova enciclopedia popolare, Torino 1860, pp. 72. Cfr. n.
precedente. L’articolo, che si ispira largamente all’interpretazione hegeliana
di Kant, contiene un ampio raffronto, assai articolato, degli sviluppi del
criticismo in Germania e in Italia. Era stato scritto da S. già nel 1856, come
risulta da una sua lettera del 10 dicembre di quell’anno al fratello Silvio
(Silvio Spaventa, Da/ 1848 al 1861... [125], pp. 209- 212); ma probabilmente,
prima di darlo alla stampa, il filosofo ebbe modo di integrarlo e correggerlo. È
stato ristampato da Gentile negli Scritti filosofici di S. [96], pp. 1-79 (=
Opere, I, pp. 173-255); il saggio è composto di una breve introduzione, e di
tre parti, intitolate rispettivamente: I) Principio speculativo della filosofia
di Kant; 2) Il kantismo in Italia (Galluppi e Rosmini); 3) Il CHITICISINO. Carattere
e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo,
prolusione alle lezioni di storia della filosofia nell'Università di Bologna,
Modena 1860, pp.39. È la nota prolusione in cui viene proposta la tesi della “circolazione
del pensiero italiano” nel pensiero europeo, e vengono offerti i primi
risultati dei nuovi studi sulla filosofia contemporanea in Italia, collegati ai
lavori torinesi su Bruno e Campanella, e integrati da una nuova valutazione
della dottrina di Giambattista Vico. Il discorso di S. è ristampato negli
Scritti filosofici [96], pp. 115-152 (= Opere, I, pp. 293-332).Prolusione e
introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre
— 23 decembre 1861, Napoli 1862, pp. IX214. È il testo che raccoglie i
risultati fondamentali delle ricerche di S. intorno al “carattere” e allo
“sviluppo” della filosofia italiana dall’età del Rinascimento fino al Gioberti.
La prefazione è datata: Napoli, ottobre 1862. Il volume contiene: I) la
prolusione Della nazionalità nella filosofia (con una appendice sulla filosofia
indiana); 2) le dieci lezioni sulla storia del pensiero italiano, dai filosofi
del XVI secolo ai contemporanei; 3) lo Schizzo di una storia della logica, che rende
conto dello sviluppo “della filosofia occidentale” (i.e. della filosofia
tedesca) considerato “dal punto di vista logico” (sono protagonisti di questa
storia Kant, Fichte, Schelling e Hegel). Una nota allo Schizzo contiene un
breve scritto su Spizoza e Cartesio, che riprende alcuni temi dei primi studi
torinesi su Spinoza (l’interpretazione di Mamiani, la controversia
Erdmann-Fischer sul concetto di attributo, ecc.). Per il “manifesto” che
annunziava la pubblicazione dell’opera, proponendone la vendita per
sottoscrizione, cfr. n. 69. Il volume è stato ristampato da Gentile nel 1908 e,
in terza edizione, nel 1926, sempre con il titolo: La filosofia italiana nelle
sue relazioni con la filosofia europea (99 = Opere, IL pp. 405 sgg.). La
filosofia di Gioberti, vol. I, Napoli Alla prima parte dell’ampio studio,
considerato da molti critici a partire dal Gentile, che lo definì il
“capolavoro” di S.) l’opera maggiore del filosofo, doveva seguire un secondo volume,
che non fu mai pubblicato. Questo “primo” volume è diviso in quattro libri, che
sottopongono a critica: 4) la dottrina della conoscenza di Gioberti; 5) il
carattere dogmatico della costruzione della formula ideale: l’ente crea l’esistente;
c) il contenuto della formula, identico al contenuto del panteismo (Gioberti =
Spinoza); d) il tentativo di Gioberti di ricorrere alla “rappresentazione” religiosa,
per scongiurare l'esito panteistico della dottrina. Un quinto libro, che
avrebbe occupato l’intero secondo volume, doveva dimostrare il passaggio
dell’ultimo Gioberti (soprattutto dell'autore delle Postuzze) all’idealismo.
Nella prefazione dell’opera, datata: Napoli, ottobre 1863, l’a. dichiara che i
risultati dello studio su Gioberti costituiscono il presupposto e il fondamento
delle tesi esposte nelle prime lezioni napoletane [cfr. n. precedente], e che
il seguito del suo lavoro sarebbe stato costruito attraverso un raffronto minuzioso
tra la dottrina di Gioberti e quella di Ilegel. Della Filosofia di Gioberti
usciva, nel 1870, una curiosa “edizione”: Bernardo [sic] Spaventa, La filosofia
di Gioberti, volume unico, Napoli, Tipografia del Tasso (le copie del 1863
recavano l’indicazione: Napoli, Stab. tipogr. F. Vitale). Ma in questa
“edizione” appare cambiato solo il frontespizio; e lo stesso deve dirsi della
“seconda edizione”, Napoli, Domenico Morano, 1886. Come la Prolusione e
introduzione [68], e insieme ad essa, la Filosofia di Gioberti fu pubblicata
per sottoscrizione, e annunziata con un manifesto, che riproduciamo qui dalla bibliografia
gentiliana del 1924 [204], pp. 206-208: “I. La Prolusione tratta della
Nazionalità della Filosofia. — Sono possibili, dopo il medio evo e ne’ tempi
moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece
quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari
dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni? Si può
dire, p. e., che ci sia una filosofia italiana essenzialmente diversa da una filosofia
francese, inglese, tedesca, come si dice che ci è stata una filosofia greca
essenzialmente diversa da una filosofia indiana? E in generale, il genio
proprio originario d’una nazione, il quale si specchia e riconosce così
nettamente nella lingua, nella letteratura e nell’arte in generale, e ne’ costumi,
deve e può discernersi anche — oggigiorno e in Europa — in quella forma e
attività universale dello spirito, che si chiama filosofia? E discernersi in
essa, non già come differenza e carattere naturale, letterario o artistico, ma come
intuizione universale o pensiero della realtà delle cose: come problema,
indirizzo, soluzione? “L’autore, compendiando gli ultimi risultati della storia
della filosofia, ed esponendo la differenza essenziale della nazionalità
moderna dall’antica, mostra che — se è vero che la filosofia indiana e la greca
sono, più o meno, intimamente nazionali — comune, invece, ed unico è il
carattere, lo sviluppo e l'indirizzo generale della filosofia ne’ popoli moderni;
che, se ci ha una differenza tra il genio filosofico italiano e quello delle
altre nazioni, o in altre parole se esso ha o almeno ebbe un privilegio sopra
gli altri popoli — questo fu solo l’aver precorso due volte i due principali periodi
della filosofia moderna: cioè il cartesiano ne’ filosofi del Risorgimento e
specialmente in Bruno e Campanella, e il kantiano in Vico; e val quanto dire il
nuovo Nazuralismo e il nuovo Spiritualismo; e che se noi vogliamo ancora e possiamo
avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un nuovo e più
largo indirizzo, una nuova e più ampia soluzione del problema dello spirito. Ma
ciò a un patto; e questo è di non rigettare tutto quel che si è fatto da un
gran pezzo fuori d’Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo,
appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo orizzonte, conosciuto meglio
noi medesimi e ritemperata la nostra vita nella perpetua corrente della vita universale,
fare un gran passo innanzi, non nel vuoto, ma colla piena coscienza delle
nostre forze, del nostro cémpito, del compito comune. “E posto anche, che ci
sia stata o ci sia una filosofia propria italiana, distinta essenzialmente o
opposta a quelle delle altre nazioni, quale è e dove si trova ella mai? Si sa,
che di libertà filosofica in Italia ce n'è stata sempre poca o niente, e chi se
l’ha presa, gli è costato assai caro. Dov'è dunque la filosofia italiana, ne’
libri delle vittime o in quelli de’ persecutori? Il problema più difficile per
noi — quello senza la cui soluzione noi non possiamo fare e progredire davvero
— è il riconoscere qual sia e dove sia il vero pensiero italiano. Finché non si
fa ciò — e il farlo non è cosa così agevole — il gridare nazionalità in ogni
cosa servirà bene a eccitare e intorbidare il sentimento e talvolta anche le passioni,
ma non produrrà niente di serio nella scienza. “La Introduzione è lo sviluppo e
la dimostrazione della intenzione principale della Pro/ustone. L'autore espone
il carattere e il progresso del pensiero italiano nei maggiori nostri filosofi
dal secolo XVI sino al nostro tempo: Campanella, Bruno, Vico, Galluppi,
Rosmini, Gioberti; e dimostra come questo pensiero non solo non si oppone al pensiero
europeo, ma concorda schiettamente con esso; che Campanella e Bruno sono i
precursori di Cartesio e Spinoza (e in parte di Locke e Leibniz); che Vico,
esigendo una nuova Metafisica e fondando la filosofia della storia, anticipa il
nuovo antropologismo, quello che il Gioberti chiama trascendente e identico al
vero ontologismo; che Galluppi, Rosmini e Gioberti rappresentano in Italia
questo nuovo indirizzo; e che Gioberti specialmente non è, come si crede, l’antitesi
di tutta la filosofia moderna, ma differisce dall’ultimo gran filosofo europeo
in tutt'altro che nel vero principio, metodo e risultato della sua filosofia. “IL
Questa breve storia del pensiero italiano, considerato in sé stesso e nella sua
intima connessione col pensiero europeo, è come una naturale introduzione alla
seconda opera di maggior mole: la Filosofia di Gioberti. “Quest'opera è divisa
in cinque parti; la prima delle quali concerne la teorica giobertiana della
conoscenza, e le altre quattro il sistema propriamente detto. “Nella prima
parte l’autore espone gli elementi del conoscere secondo Gioberti: intuito,
riflessione (psicologica e ontologica), parola, sovrintelligenza; e dimostra
come il concetto di questi elementi e della loro relazione (del conoscere)
cangi e si sviluppi nella mente del Gioberti di maniera, che la teorica sembri
una continua contradizione. E pure ciò che pare contradizione non è altro nel
Gioberti, che una determinazione sempre più schietta e profonda del proprio
pensiero. “Secondo l’autore, ci è nel Gioberti davvero una contradizione,
radice di tutte le altre, la quale si manifesta chiaramente nella prima forma
del sistema; e tutto il progresso della speculazione del nostro filosofo
consiste nel risolverla. Così quel che pare contradizione e non è, è appunto la
soluzione della vera contradizione. “Conforme a un tal concetto l’autore espone
nelle tre altre parti questa contradizione, e considera il sistema nella sua
prima forma. L'ultima parte comprende la soluzione più o meno reale della
contradizione, e la seconda forma del sistema. “Tutta questa esposizione — così
della teorica della conoscenza come del sistema — è fatta di maniera, che la vera
e nuova forma della filosofia giobertiana apparisca come il risultato
necessario della critica della prima: come una nuova posizione, che deriva per
una dialettica necessaria dall’antica. Quel che nella storia della filosofia si
vede comunemente solo nella successione de’ filosofi, cioè che l'uno compia
l’altro risolvendo le contradizioni del suo predecessore, qui si vede in uno
stesso filosofo: Gioberti nella seconda forma non fa che compiere e quasi
ricreare sé stesso. — Tutta l’opera è corredata di documenti, specialmente dove
l’interpretazione e la critica possono parere arbitrarie e forse troppo lontane
dal modo comunemente ricevuto d’intendere il Gioberti”. 70. Le prime categorie
della logica di Hegel, in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche”
di Napoli, I (1864), pp. 123-185. È il testo che racchiude il primo — e assai
noto — tentativo spaventiano di interpretazione delle prime categorie della logica
hegeliana [cfr., per gli altri scritti di S. sull'argomento, i nn. 76, 93,
103]. Suscitò già qualche interesse in ambiente hegeliano [cfr. n. 1441; doveva
essere discusso più tardi da Gentile come documento della nascita del “nuovo idealismo”
[cfr. in particolare il n. 103]. Il saggio, preceduto da una breve
introduzione, si divide in tre parti: i) Esposizione de’ concetti: essere, non
essere, divenire, esserci; 2) Obbiezioni e risposte; 3) Il movimento come primo
(Trendelenbnrg). Fu letto all'Accademia napoletana in tre sedute, il 16 agosto,
e il 6 e 30 settembre 1863. Un riassunto della memoria fu pubblicato nella “Rivista
napoletana di politica, letteratura e scienze”, II (1863), nn. 1-4 (1, 10, 20
novembre, e 1 dicembre 1863). Lo scritto si può leggere ora nella raccolta
gentiliana degli Scritti filosofici di S. [96], pp. 185-252 (= Opere, Spazio e
tempo nella prima forma del sistema di Gioberti, in “Rendiconto delle tornate e
dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, III (1864),
pp. 137-163. Nella concezione giobertiana dello spazio e del tempo appaiono
manifeste le difficoltà e le contraddizioni della formula ideale, e, quindi,
dell’intero sistema. È questo il tema della “nota”, letta all'Accademia di
Napoli il 7 agosto 1864, e ristampata più tardi negli Scritti filosofici [96],
pp. 153-184 (= Opere, I, pp. 333-365). La dottrina della conoscenza di Giordano
Bruno, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, II
(1865), pp. 293-348. Ristampato dall’a. nei suoi Saggi di critica [77], pp.
196- 255. Tema centrale dello scritto è l’analisi del concetto di “mente” in G.
Bruno: S. si propone di mostrare che non è legittimo identificare l’intuito
intellettuale di Bruno con un atto di fede, o con una forma di apprensione
nondiscorsiva, mistica, dell’assoluto. Ma il saggio è noto anche perché contiene
una importante e assai discussa digressione sul tema della separazione dello
stato della chiesa. Il concetto
dell’infinità in Bruno, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori
dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, V (1866), pp. 155-164.
Sul concetto di infinito in Bruno e Spinoza (e Hegel). L’avvio al discorso di
S. è dato da una osservazione contenuta nella Storia della filosofia moderna di
H. Ritter: in Bruno vi sarebbe confusione di infinito e indeterminato. Lo scritto
di S. risale certamente, nel suo nucleo originario, al periodo torinese: nel
ristamparlo nei Saggi di critica [77], pp. 256-267, l’a. vi appose la data:
“Torino 1853. Napoli 1866”. 74. Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo,
in “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze morali e
politiche” di Napoli, VI (1867), pp. 89- 98. In Spinoza è già presente
l’esigenza di attribuire alla sostanza una negatività interna, che consenta di
superare gravi difficoltà della dottrina (il parallelismo degli attributi). Questa
esigenza è soddisfatta dalla logica hegeliana, con il concetto di opposizione;
il tema è, per l’a., ancora attuale, e viene riferito alle discussioni sul
metodo delle scienze comparate. Il saggio fu letto all'Accademia napoletana il
7 luglio 1867; lo ha ristampato Gentile negli Scritti filosofici [96], pp.
277-290 (= Opere, I, pp. 463-476). La Scolastica e Cartesio, in “Rendiconto
delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di
Napoli, VI (1867), pp. 102-112. È una nota letta all'Accademia di Napoli il 18
agosto 1867. L’autore l’ha ripubblicata nei Saggi di critica [77], pp. 329-340,
in appendice alla ristampa del saggio Del principio della riforma.., nel secolo
XVI [30], come “chiarimento” tratto dalle lezioni bolognesi di storia della
filosofia (1860- 61), e dalle lezioni napoletane del 1864-65. Principii di
filosofia, vol. I, Napoli L’opera, che si pubblicava a dispense, è rimasta
interrotta. Comprende una prima sezione (La conoscenza) che riassume
parzialmente il contenuto della Feromzenologia (è caduta tutta la parte
cosiddetta “storica” del testo hegeliano), e una seconda sezione (La logica),
che riproduce liberamente il contenuto della Wisserschaft der Logik, fino alla
prima parte della logica dell’essenza (capitolo secondo della prima sezione: la
differenza). L'esposizione della logica hegeliana accoglie i risultati del
saggio sulle Prizze categorie [70], e si appoggia spesso ai manuali più noti,
circolanti in ambiente hegeliano (Kuno Fischer, Karl Rosenkranz ecc.). Nelle
“aggiunte” che S. introduce nel corso dell’esposizione sono frequenti i
riferimenti e i confronti con i filosofi italiani, anche contemporanei. S.
aveva esposto, e continuò ad esporre più volte la Logica di Hegel nei suoi
corsi napoletani: secondo una testimonianza di Maturi, raccolta da Gentile, tre
volte tra il 1862 e il 1869. In base a un manoscritto affidatogli da Maturi,
Gentile poté pubblicare nel 1911 l'esposizione completa della logica di Hegel
fatta dallo S. (102 = Opere, III, pp. 1-429). Interessante — e assai nota — la
prefazione dei Principi; nella quale l’a. rifà la storia del proprio cammino, e
ribadisce le ragioni del suo idealismo, in un clima filosofico ormai mutato o
prossimo a mutare radicalmente. 77. Saggi di critica filosofica, politica e
religiosa, vol. I, Napoli 1867, pp. VIII-403. L’a. cominciò a raccogliere e a
ristampare i suoi scritti in questo primo volume di Saggi, rimasto poi unico.
Una “seconda edizione” della raccolta porta la data del 1886; ma anche in
questo caso, come per la Filosofia di Gioberti [69], è mutata solo
l’indicazione dell’editore (Morano, anziché: Stab. tip. Ghio), e quindi il
frontespizio. Nel volume sono ripubblicati, raggruppati sotto quattro titoli, i
nn. 19, 21, 46 (con il titolo: Tomzzaso Campanella), 15, 54, 72, 73 (con il
titolo: Giordano Bruno), 30 (con il titolo: Del principio della riforma ...),
42 e 57 (con il titolo: Terengio Mamiani) di questa bibliografia. Alle pp.
VI-VIII, l’a. ci offre un elenco generale dei saggi che si proponeva di
ristampare nei prossimi volumi. Oltre a quelli già compresi in questo primo,
avrebbero dovuto essere ripubblicati — raggruppati, anch’essi, sotto diversi titoli
— gli scritti che in questa bibliografia compaiono con i nn.: 40, 51 (titolo:
Roswzini) 66, 37 (Kant) 68, 71 (Gioberti) 70, 11 (Hegel) 62 (Socrate) 67
(Carattere e sviluppo ecc.) 61, 59, 48, 29, 36, 41, 56, 58, 64, 32, 44, 55, 38,
35 (Scorse bibliografiche). Un ultimo gruppo di nove saggi, sotto il titolo:
Polerzica con la “Civiltà cattolica”, doveva comprendere una scelta degli
articoli pubblicati nel “Cimento”; ma i titoli forniti in questo elenco non
corrispondono sempre a quelli originali. L’elenco dei saggi compilato da S.
fornì a Gentile un valido strumento per rintracciare molti scritti del
filosofo, ed un primo criterio generale per la sua edizione delle opere del
maestro [96]. La raccolta spaventiana dei Saggi di critica è stata ristampata
nel 1928 con il titolo: Rinascimento, Riforma, Controriforma [112]. 78.
Paolottismo, positivismo, razionalismo, lettera al prof. A. C. De Meis, in
“Rivista bolognese di scienze e lettere”, II (1868), vol. I, fasc. 5, pp.
429-441. La “lettera”, che porta la data: 8 maggio 1868, è una chiara
testimonianza dell’ “umanismo” di S.;} ed è anche un attacco violento rivolto
contro certe alleanze strette in quegli anni tra cattolici e positivisti. Ricca
di “sarcasmo heiniano”, come notò il Gentile, ha conservato gran parte della
sua freschezza, ed è uno dei documenti che più hanno attirato l’attenzione dei
critici. È ristampata negli Scritti filosofici [96], pp. 291-314 (= Opere, I,
pp. 477-501), con una serie di note che ne chiariscono la genesi e i numerosi
riferimenti. 79. Studi sull’etica hegeliana. L’assoluto, il relativo e la relavione
assoluta, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, III (1869), serie II,
vol. I, fasc. 4, pp. 911-558. È il “proemio” agli Studi sull’etica hegeliana
[cfr. n. seg.], del quale l’a. ha anticipato qui la pubblicazione. Il proemio ha,
del resto, una sua autonomia: è destinato ai sostenitori del positivismo, per
mostrar loro che nell’idealismo hegeliano sono già accolte, anzi soddisfatte,
le esigenze fondamentali della filosofia positiva. 80. Studi sull’etica
hegeliana, in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli,
IV (1869), pp. 271-440. Cfr. n. precedente. Libera esposizione dell’etica
hegeliana, che ripercorre i motivi centrali della Filosofia del diritto.
Occasione esterna dello scritto fu un rilievo di T. Mamiani, il quale osservò
che la filosofia di Hegel comporta la negazione della vita morale. L’esposizione
di S. si apre con un esame dei presupposti metafisici dell’etica; e contiene,
nel suo sviluppo, interessanti riferimenti a questioni attuali (alle polemiche sulla
pena di morte, per esempio, e alle difficoltà interne alla monarchia
costituzionale). Lo scritto è stato ristampato da Gentile nel 1904 (97 = Opere,
I, pp. 595 sgg.). 81. De’ limiti della cognizione, in “Rendiconto delle tornate
e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, X
(1871), pp. 71-75; e in “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, diretto
da B. Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, 1872, vol. II, pp. 43-56. Nel
“Giornale napoletano” alla ristampa, col titolo Su limiti della cognizione,
della nota del 1871 (pp. 43-47) è aggiunta la discussione di un’opera del
Savarese del 1856 (pp. 47-56). L’intero saggio è ristampato negli Scritti filosofici
[96], pp. 315-332 (= Opere, I, pp. 503-521). 82. Recensione: La vita di
Giordano Bruno, scritta da D. Berti, Torino 1868; in “Giornale napoletano di
filosofia e lettere”, diretto da B. Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani,
1872, vol. I, pp. 1-25. Severa recensione dell’opera del Berti; ripubblicata da
Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 65-102 (= Opere, II, pp. 71-105). 83.
Sulle psicopatie in generale, in “Giornale napoletano di filosofia e lettere”,
diretto da B. Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, 1872, vol. I, pp. 127-136;
186- 192; 321-352; 353-377. A proposito di una lezione di Salvatore Tommasi
Sulle psicopatie, il cui testo fu pubblicato nel “Morgagni” [Napoli],
luglio-agosto 1871, pp. 445-458. Con questa serie di articoli S. interviene
anche nella polemica nata dalle osservazioni di Luigi De Crecchio (pubblicate
dallo stesso “Morgagni”), alle quali rispose Tommasi in due lettere che replicano
ad altrettanti scritti polemici del De Crecchio. La lezione Sulle psicopatie e
le due risposte si possono leggere in S. Tommasi, I/ naturalismo moderno,
scritti vari a cura di A. Anile, Bari 1913, pp. 155-170, 171-182, 183-193. La
discussione sulla natura delle psicopatie è ripresa da S. sul piano di un
discorso che abbraccia il problema generale del rapporto tra fatti organici e
funzioni psichiche; il filosofo vuoi mostrare che l’idealismo hegeliano ha già
superato le difficoltà “metafisiche” che sembrano rinascere sul piano della
scienza. L’anima si distingue certo dal corpo, non però in virtù di una
distinzione reale, sostanziale, ma come “funzione” e “processo” psichico, come
“senso di sé” irriducibile ad una somma di elementi fisici o chimici: in questo
senso le psicopatie non possono ridursi ad una semplice alterazione fisica o
chimica dell’organismo. Gli articoli di S. sono ristampati in Da Socrate a
Hegel [98], pp. 339-430 (= Opere, II, pp. 321-404). La citata raccolta di
scritti del Tommasi contiene in appendice un saggio di G. Gentile, La filosofia
di Salvatore Tommasi (pp. 273-298), in cui sono accostate la prolusione del
medico-filosofo: Il naturalismo moderno (del 15 novembre 1866), e alcune pagine
dei Principi di filosofia di S4 [76]: 84. Note sulla metafisica dopo Kant, in
“Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e
politiche” di Napoli, XII (1873), pp. 87-90. È una breve nota che riprende
l'argomento già introdotto nel proemio agli Studi sull’etica begeliana [79], e
che fu letta all Accademia napoletana il 17 ‘agosto 1873; è stata ristampata da
Gentile nella raccolta degli Scritti filosofici [96], pp. 333-338 (= Opere, I,
pp. 523-529). 85. La legge del più forte, in “Rendiconto delle tornate e dei
lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XIII (1874),
D. 75-85. Saggio breve, ma importante, che discute dal punto di vista
idealistico la dottrina di Darwin. Fu letto all'Accademia napoletana il 3
settembre 1874; lo ha ristampato Gentile nella raccolta degli Scritti
felosofici [96], pp. 339-352 (= Opere, I, pp. 531-544). 86. Idealismo o
realismo? Nota sulla teoria della conoscenza: Kant, Herbart, Hegel, in
“Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche”
di Napoli, XIII (1874), pp. 87-97. La breve nota, letta all’Accademia di Napoli
il 6 settembre 1874, è stata ristampata negli Scritti filosofici [96], pp.
353-366 (= Opere, I, pp. 545-559). 86 bis. Una delle principali difficoltà
della Fenomenologia dello spirito, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori
della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XV (1876), pp. 10-14.
Riproduce, con lievi modifiche, alcune riflessioni che si leggono in una
lettera al fratello Silvio dell’ottobre 1857 (cfr. Silvio Spaventa, Da/ 1848 al
1861... [125], 19232, pp. 239- 87. Gli spaventiani spaventati, in “Fanfulla”
[Roma], 26 marzo 1876. È uno scritto satirico, in forma di lettera, documento
della polemica nata dalle critiche di F. Acri allo scritto di F. Fiorentino:
Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia dopo l’ultima
rivoluzione del 1860 (1874). La lettera si può leggere in F. Fiorentino, La
filosofia contemporanea in Italia [158], pp. 467-471. 88. Kant e l’empirismo,
in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XVI (1881),
pp. 41. È un ampio studio (ristampato da Gentile negli Scritti filosofici [96],
pp. 81-114 = Opere, I, pp. 257-291), nel quale si intrecciano motivi tratti da
antiche riflessioni, rinnovate a contatto o in polemica con gli sviluppi del
“nuovo” empirismo, nato in Germania come revisione o come critica radicale dei
risultati della filosofia di Kant. Il saggio anticipa una serie di
argomentazioni e di conclusioni che saranno elaborate in un manoscritto del
1881, edito nel 1915 dal Gentile con il titolo: Introduzione alla critica della
psicologia empirica [105]. 89. Osservavi ioni del socio Spaventa sulla interpretazione
letta dal socio Bonghi di un luogo di Platone (Repubblica, X, 611a), in “Atti
della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XVI (1881), pp. 7. Le
Osservazioni sono ristampate in Scritti filosofici [96], pp. 367-376 (= Opere,
I, pp. 561-569). Nella ristampa, Gentile fornisce chiarimenti sulla discussione
sorta attorno alla memoria del Bonghi: Una prova dell'immortalità dell'anima
nella “Repubblica” di Platone (pubblicata nello stesso volume degli “Atti”). 90.
La sintesi a priori e il nesso causale, in “Rendiconto delle tornate e dei
lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XXI
(luglio-agosto 1882), pp. 14-16; e in “Giornale napoletano della domenica”, I, n.
18, 30 aprile 1882. È il sunto di una memoria letta all’Accademia di Napoli il 2
aprile 1882. È ristampato negli Scritti filosofici [96], pp. 379-382 (= Opere,
L pp. 573-576); nel pubblicarlo, Gentile osserva che il sunto anticipa in forma
contratta gli argomenti sviluppati nel secondo capitolo di Esperienza e
metafisica [94], sicché la memoria intera si identifica con quel capitolo dell’opera
di S. pubblicata postuma, nel 1888. 91. Un luogo di Galilei, in “Rendiconto
delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di
Napoli, XXI (luglio-agosto 1882), pp. 5-8. Sunto di una memoria letta all’
Accademia napoletana il 3 luglio 1882; è ristampato in Scritti filosofici [96],
pp. 383- 387 (= Opere, I, pp. 577-581). Cfr. le notizie date da Gentile intorno
a questo breve scritto: il luogo di Galilei riguarda il rapporto tra intelletto
divino e intelletto umano, ed è tratto dalla Giornata prima, in fine, dei
Dialoghi sui massimi sistemi; il sunto (e quindi la memoria) ha una evidente relazione
con il capitolo XII di Esperienza e metafisica [94]. 92. Un fatto logico e un
problema metafisico, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia
di scienze morali e politiche” di Napoli, XXI (settembre 1882), pp. 3-10. La
logica formale ci insegna che da ogni determinazione del pensiero è possibile
derivare sempre una nuova (anche solo formalmente) determinazione; ma è
incapace di attingere il principio di questa “generazione”, di cogliere quella
“produttività più alta e originaria” che sembra identificarsi con la
“produttività del pensiero in generale”: così conclude S. questa nota letta
all’ Accademia di Napoli il 4 settembre 1882, e ristampata poi dal Gentile
negli Scritti filosofici [96], pp. 389-399 (= Opere, I, pp. 583-594). 93. Esame
di un’obbieione di Teichmiiller alla dialettica di Hegel, in “Atti della
Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XVIII (1884), pp. 28. Questa
memoria apparve negli Atti dell’Accademia napoletana dopo la morte di S., ma
era già uscita in estratto — riferisce Gentile, ristampandola negli Scritti
filosofici [96], pp. 253-276 (= Opere, I, pp. 439-462) — l’anno stesso della scomparsa
del filosofo (1883); il quale ne aveva letto un sunto il io dicembre 1882, che
fu pubblicato nel “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze
morali e politiche” di Napoli, XXI (novembre- dicembre 1882), pp. 23-24. La
memoria riprende il problema della interpretazione della logica hegeliana, già
impostato nel saggio sulle Prize categorie [70], ampliandone e in parte
rinnovandone la discussione sotto lo stimolo delle riflessioni, maturate negli ultimi
anni, sui progressi delle scienze naturali e della nuova psicologia.
L’obbiezione alla dialettica di Hegel, a cui S. si riferisce, è nello scritto
Die wirkliche und scheinbare Welt, 1882, dell’herbartiano G. Teichmiller; il
quale ricorda lo scritto e la figura dello S. nella sua Religronsphilosophie,
del 1886. SAGGO PUBBLICATI DALLA SCUOLA. Esperienza e metafisica. Dottrina
della cognizione, Torino. Importante lavoro, pubblicato postumo a cura di Jaja,
il quale rende conto dei criteri adottati per l'edizione nella prefazione
indirizzata a Silvio Spaventa. Jaja accenna agli ultimi studi di S., che, a
partire dal 1870, si interessò esclusivamente della nuova filosofia
dell’esperienza (p. VII), e vide e volle mettere in chiaro il concetto di una
“nuova” metafisica, che non è quella avversata dai positivisti. Su questa idea
e sul problema della nuova metafisica Jaja ritornerà, con un riferimento
diretto a S., nella sua prefazione agli Scritti filosofici [96] curati da
Gentile. Il manoscritto di Esperienza e metafisica fu elaborato da S. tra il 29
novembre 1881 e i primi di dicembre del 1882; rifluiscono in esso alcuni brevi
scritti dati alle stampe in precedenza [cfr. nn. 90, 91]. Nel volume è
ristampato, in appendice, l’abbozzo di un saggio su Protagora del giugno- luglio
1880, che ha una evidente relazione, per la data della composizione e per il
contenuto, con il frammento sulla dialettica hegeliana edito da Gentile. L’introduzione
dell’a. all'opera, per la quale sembra avesse scelto egli stesso il titolo con
il quale fu poi pubblicata, è un interessante bilancio della storia della filosofia
negli ultimi vent'anni. La domanda, che presenta in forma semplificata il
problema implicito in tutte le discussioni e in tutte le polemiche più recenti,
riguarda la possibilità di una metafisica, dopo la critica kantiana. Il tema è
trattato da S. attraverso una serie di riferimenti a Kant, in primo luogo, poi
alla Ferorzenologia e ai problemi della logica hegeliana, a Darwin, a Spencer,
a Stuart Mill, e, in generale, alle correnti e alle dottrine che confluiscono
nel cosiddetto positivismo; il lavoro appare interrotto in quelle pagine nelle
quali l’a. riprende il tema già abbozzato in Ur luogo di Galilei. Una legione
di S. (la prima dell’anno 1864-65), pubblicata da Sebastiano Maturi, Napoli. Sul
rapporto tra scienza (= scienze particolari) e filosofia (“quella sola che
realizza l’umanità del sapere”). La lezione non è stata mal ristampata. SAGGI EDITI
DA GENTILE. Scritti filosofici, raccolti e pubblicati con note e con un
Discorso sulla vita e sulle opere dell'autore da Giovanni Gentile e preceduti
da una prefazione di Donato Jaja, Napoli 1900, pp. CLII-408. Nella raccolta
sono ristampati (= Opere) gli scritti di S. ordinati in questa bibliografia.La
breve prefazione di Jaja (pp. VII-XVII) condensa in poche pagine una decisa — e
chiara, nella sua tematica semplificata — interpretazione della filosofia di
S., interpretazione che costituìù per lo stesso Jaja un presupposto del proprio
pensiero, e che era destinata a passare nella rielaborazione attualistica della
problematica spaventiana. Il punto di partenza della nuova filosofia è nell’idealismo
kantiano (preparato da Vico: secondo la “scoperta” di S.); è, chiarisce Jaja,
nel tentativo di “spiegazione o intellezione, prima che degli avvenimenti che la
storia registra, del grande, unico, perenne e perpetuo avvenimento, che è
l’atto stesso dell’intellezione, l’atto del conoscere, il conoscere” (p. IX).
Questa è l’eredità, questo il problema dell’idealismo “nuovo” (o
“post-kantiano” o “assoluto”). La filosofia si riduce all’analisi della
“potenza conoscitiva”; analisi iniziata da Kant, completata, nelle linee essenziali,
da Hegel, ma “aperta sempre al pensiero speculativo”, giacché “per la
difficoltà sua e per la nuova soluzione che prepara a tutti i problemi della
vita, deve essere un farsi e rifarsi perenne nella umana coscienza”. Conclude
Jaja: “Se analisi è luce, non poca è la luce di cui si ha bisogno, perché la
potenza conoscitiva, così varia e complessa nei suoi elementi e nella
costituzione sua, e nondimeno una sempre e identica a se stessa in tutti i periodi
di sua storica esistenza, in tutta la sua sterminata esistenza, passi dallo
stato iniziale dell’esser suo al suo stadio finale, non sopprimendo alcuno dei
suoi interni stimoli, ma dando a tutti una più ordinata e sana e compiuta soddisfazione.
Di quest’analisi splendono gli scritti, che in questo volume si ripubblicano,
di B. Spaventa, e tutti gli altri suoi” (p. XIV). Il “discorso” di Gentile
Della vita e degli scritti di B. S. (pp. XXI-CLII; ristampato con integrazioni
e modifiche nel 1924, cfr. 204), che si conclude con la prima bibliografia delle
opere del filosofo (pp. CXLI-CLII), è diviso in sette paragrafi. Il primo (pp.
XXI sgg.) raccoglie le notizie intorno agli studi e alle vicende di S. fino al
1850; va notato l’accenno all’influsso esercitato da O. Colecchi, il rilievo dato
alla figura di S. Cusani (e alla sua “retta” interpretazione del concetto
kantiano di categoria), infine l’assunzione delle idee espresse da Silvio S.
sul “Nazionale” (“un giornale... politico filosofico arieggiante in qualche modo
quelli della sinistra hegeliana tedesca”, p. XXXI) come documento delle prime
convinzioni etico-politiche di S. Il secondo paragrafo (pp. XXXV sgg.) tratta
degli esordi di S. scrittore a Torino (Studi sopra la filosofia di Hegel, primi
lavori su Bruno, ecc.), con qualche riser va sul carattere “tra l’enfatico e il
declamatorio” di questi scritti (p. XLII). Agli articoli contro la “Civiltà
cattolica” è dedicato il terzo paragrafo (pp. XL11I sgg.): fornisce le notizie essenziali
intorno alla polemica, e ai periodici “Il Cimento” e “Il Piemonte”, che
l’ospitarono; e qualche indicazione sulle rassegne e sulle recensioni apparse
sul “Cimento” e sulla “Rivista contemporanea”, nel decennio torinese di S. (1850-59).
G. sottolinea il pregio anche letterario degli scritti polemici di S., nei
quali l’a., “ingegno satirico”, Si serve con bravura dell’ “ironia”: un’ironia
che coincide con la stessa “ironia della storia”, che veniva “ineluttabilmente trionfando
degli antichi pregiudizi e interessi” della “vecchia reazione” contrapposta
alle “nuove libertà” (p. LIV). Il quarto paragrafo, il più ampio di tutti (pp.
LV-XC), è dedicato alla teoria della “circolazione del pensiero italiano”: che
è — giudica ora G. — “il maggior titolo” di S. storico e filosofo (p. LV), un’
“intuizione geniale”, “che è, ripeto, la parte più originale dell’opera sua”
(p. LKXXTX). G. distingue due parti o momenti nella costruzione della teoria,
analizzandone minutamente l’elaborazione: gli studi sul Rinascimento (Bruno,
Campanella, e il loro rapporto con Cartesio e Spinoza), poi quelli su Galluppi,
Rosmini e Gioberti (con particolare attenzione al volume del 1863) e la posizione
del rapporto Vico-Kant (che, malgrado Jacobi, non ha veri precedenti, e resta
una “scoperta” autentica di S.). Nel quinto paragrafo (pp. XC-CXV) G. ricorda
le vicende relative alla chiamata di S. a Napoli, introduce una rapida, netta
caratterizzazione dell'ambiente napoletano (sono rimaste le pagine su “il tipo
del giobertiano di Napoli”: pp. XCIII sgg.), riassume la polemica con L. Palmieri
sulla “nazionalità” della filosofia. Passa quindi a trattare dei corsi di S. e
dei suoi studi hegeliani, in primo luogo della memoria su Le prize categorie
“dove si agita e risolve in maniera originale il problema fondamentale della dialettica
hegeliana, che è pure il problema fondamentale di tutta la filosofia di Hegel”
(p. CI). Lo studio di S., qui riassunto, è giudicato “assai rilevante”; G. ne
richiama i precedenti (K. Werder, K. Fischer), lamentandosi — con Labriola —
della scarsa attenzione che questi lavori hanno destato fuori d’Italia. Si
occupa poi dei Prizcipi di filosofia e degli Studi sull’etica hegeliana,
battendo sul carattere non dommatico dell’idealismo di S. (“non si chiuse mai
in quell’astratto idealismo, che non cura né pregia il sapere sperimentale”, p.
CVII), ricordando l'affermazione — contenuta nei Principi — del carattere
pratico del sapere (“la chiave d’oro della nuova gnoseologia dopo Kant”, già individuata
da Marx, e ancora da sviluppare convenientemente, p. CVIII sg.), e riferendo
estesamente le discussioni sulla pena di morte e la posizione assunta da S., diversa
da quella del Vera (distinto da S., secondo uno schema ormai corrente, come
campione dell’ “ortodossia”). Ricorda, G., il corso di antropologia del
1863-64, e conclude: “Di tal fatta erano tutti i suoi corsi. L’anima ispiratrice
era sempre l’hegelismo; ma la sentenza hegeliana riceveva il conforto della
storia ed era posta a cimento con le più recenti dottrine; infine raffrontata
sempre a quelle dei nostri filosofi e come italianizzata e fatta nostra” (p.
CXIII). Con le notizie intorno alla fondazione del “Giornale napoletano di
filosofia e lettere” e alla lotta contro il “paolottismo” fiorentino si apre il
sesto paragrafo (pp. CXVI-CXXXIII); che discute ampiamente lo scritto sulle psicopatie,
l’interpretazione del darwinismo (“e anche in questa accettazione del
trasformismo naturale il Nostro opponevasi agli insegnamenti di Hegel”, p.
CXXII), infine Esperienza e metafisica (con i testi connessi), analizzando la tematica
della “nuova metafisica” (il concetto di apriori, del trascendentale, ecc.;
interessante, a p. CKXXIII, la saldatura tra questi studi e il saggio sulle
Prizze categorie: “Questa sintesi [i.e. la sintesi apriori “presupposta” da
Kant] da Hegel è rintracciata nella sua prima origine, nella forma più astratta,
indeterminata: nel concetto del divenire dell'essere che è non essere, in
quanto è pensiero, come l’autore aveva dimostrato nella memoria sulle Prizze
categorie”). L'ultimo paragrafo (pp. CXXXIII-CXXXTX) tratta dello scritto contro
Teichmuller sulla dialettica hegeliana, e si chiude con un “ritratto” del
filosofo (G. si richiama anche alla commemorazione di Fiorentino: cfr. n. 163)
e con una dedica “ai giovani” del volume: che imposta «i problemi fondamentali
del pensiero moderno” e offre un sicuro orientamento per il futuro sviluppo
degli studi filosofici, riassumendo l’opera di S. “le nostre tradizioni
genuine, donde bisogna trarre gli auspici”. Dopo la bibliografia degli scritti
di S. — che G. ripresenterà, corretta anch’essa e accresciuta, nella monografia
del 1924: cfr. n. 204 — il curatore introduce una breve nota per chiarire i
criteri della raccolta, tracciando anche il piano dei prossimi volumi. Gl
Scritti filosofici raccolgono per ora i saggi più rilevanti, e “originali”,
dell’a., dispersi in atti accademici e riviste non facilmente reperibili. L’elenco
dei saggi spaventiani, introdotto dal filosofo nella raccolta del 1867 [cfr. n.
77] costituì per G., oltre che una guida per la ricerca, un criterio di scelta
(G. rispetta l’esclusione dalla ristampa degli Studi sopra la filosofia di Hegel,
e dei Frammenti del 1852); e un criterio, infine, per l'ordinamento degli
scritti. 97. Principi di etica, Napoli 1904, pp. XXIII-181. Ristampa degli
Studi sull’etica hegeliana (80 = Opere, I, pp. 595 sgg.). Alle pp. 173-181, G.
inserisce due brani tolti dai Principi di filosofia [76]: dalle pp. 94-97
(Concetto della filosofia. Relazione della filosofia con l’esperienza); dalle
pp. 65-75 (Il processo dell’autocoscienza riconoscitiva). Nella prefazione
(ristampata in G. Gentile, Saggi critici, serie prima, Napoli 1921, pp.
141-158), dopo aver difeso lo stile e il linguaggio filosofico di S., G. si
sofferma su due punti di qualche importanza; il rapporto tra diritto e moralità
in Hegel (e in S.), il concetto e la collocazione del “sopramondo” (arte,
religione, filosofia) nel sistema. Particolarmente interessante l’intervento
sulla prima questione: la precedenza — ideale — del diritto (del diritto “astratto”,
che non va confuso col diritto positivo, col diritto come legge) rispetto alla
morale, come suo elemento costitutivo, non autorizza l’identificazione della
dottrina hegeliana con quella “associazionistica”, che fa del sentimento del
dovere un semplice effetto della sanzione. La discussione di questo punto
consente a G. di toccare la questione dello “stato etico”, e di respingere l’interpretazione
secondo la quale Hegel fa dipendere la morale dallo stato. È lo stato, anzi,
che si fonda sulla morale; “né può dirsi, che Hegel torni col suo ideale dello
stato al concetto pagano, per cui l’uomo esisteva per lo stato, e non lo stato
per l’uomo... [perché] uomo e stato sono unu et idem” (p. XIX = Opere, I, p.
607). G. risponde così, senza nominare l’autore, a un rilievo di F. Masci
(“Kant aveva considerato lo stato come mezzo, Hegel lo concepì come fine.
Retrocesse così fino al concetto pagano, che l’uomo esiste per lo stato, non lo
stato per l’uomo...”: La libertà nel diritto e nella storia secondo Kant e
Hegel, Napoli 1903, p. 43). 98. Da Socrate a Hegel, nuovi saggi di critica
filosofica, Bari 1905, pp. XVI-430. Ristampa (cfr. ora Opere, II, pp. 1-104)
degli scritti ordinati in questa bibliografia con i nn. 62, 53, 82, 61, 37, 40,
51, 17, 59, 29, 41, 48, 56, 83. La prefazione di G. (ripubblicata in G.G.,
Saggi critici, serie prima, Napoli 1921, pp. 167-175) spiega, in primo luogo,
il sottotitolo (“nuovi saggi”): la raccolta viene presentata come “compimento”
del “disegno dell’autore”, parzialmente realizzato con i Saggi del 1867 [77].
Un volume a sé costituiranno gli articoli ristampati poi sotto il titolo La
politica dei gesuiti [101]; altri scritti (le False accuse contro l’hegelismo,
11) non sono stati ancora rintracciati dal curatore; G. dà notizia, infine,
della scoperta dello studio Sulla quantità [I]. Non era prevista da S. la
ristampa de La filosofia neocristiana e il razionalismo in Alemagna, ma il curatore
ha voluto includere l’articolo, per il suo pregio intrinseco, e per la
diffusione che ebbe in Italia la filosofia del diritto di J. Stahl, criticata
qui da S. Concludono la prefazione alcune osservazioni sulla “forma
clandestina” che ebbe l’attività letteraria del filosofo, e l'invito a
riannodare, attraverso S., il “filo prezioso” della tradizione filosofica italiana;
degna di rilievo la proposta — già introdotta, in forma diversa, nel Discorso
del 1900 — di un parallelo S. — De Sanctis: “quello che furono per la
letteratura i Saggi critici del De Sanctis, furono per la filosofia i Saggi di
critica dello Spaventa” (p. XIV = Opere, II, p. 8). Tra le recensioni, va
ricordata quella, positiva, di M. Losacco (Pagine sparse di B. S., “Fanfulla
della domenica”, 20 maggio 1906; poi in M. L., Educazione e pensiero, Pistoia 1911,
pp. 195-201), che sottolinea l’importanza degli articoli sulle psicopatie (de
La frlosofia neocristiana e il razionalismo inAlemagna e di altri scritti
spaventiani dedicati a Schelling discorre M. Losacco nella rassegna: La
filosofia dello Schelling in Italia, in “La cultura contemporanea” [Roma], V,
1913, pp. 198-212; cfr. in particolare pp. 208-210). Una stroncatura di
Giuliano il Sofista [= Giuseppe Prezzolini], in “Leonardo”, III (1905),
ottobre-dicembre, pp. 204-209, denuncia il “profondo e fondamentale misticismo,
accompagnato da forme teologiche e da espressioni religiose”, della dottrina di
Hegel e di Spaventa. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia
europea, nuova edizione con note e appendice di documenti, Bari 1908, pp.
XXII-307; terza edizione, Bari 1926, pp. XXIII-307. Ristampa, con il titolo
cambiato dal curatore “in quello più determinato che era suggerito dallo stesso
argomento del libro”, della Prolusione e introduzione del 1861-62 (68 = Opere,
II, pp. 405-719); con l’aggiunta, in appendice, delle lettere (anch’esse del
1861-62) tratte dal carteggio tra Silvio e Bertrando S., e già pubblicate da G.
nel 1901 [127]. La prefazione di G. (ristampata con il titolo La filosofia italiana
e B.S. in G. G., Saggi critici, serie seconda, Firenze 1927, pp. 197-208) è
particolarmente importante, per due motivi. Primo, perché G. ribadisce la
continuità tra il programma spaventiano del1862 e il compito attuale della filosofia
(sua giustificazione come “sapere assoluto”). La ricostruzione dei momenti
attraverso i quali S. conquistò per sé, in queste lezioni, l’unità del punto di
vista storico e del punto di vista scientifico (“il libro pare una polemica, ed
è una ricerca; pare una mera storia, ed è una fenomenologia dello spirito, cioè
vera e propria filosofia”) introduce G. alla discussione (allargata attraverso
un rinvio esplicito allo scritto del 1907 I/ circolo della filosofia e della
storia della filosofia) del secondo punto: identità di filosofia e storia della
filosofia (grande storico è chi realizza, come S., la legge dell’identità di
filosofia e storia della filosofia), identità e distinzione di storia delle
idee e storia biografica, di storia delle idee e storia della civiltà. Se una
riserva si può avanzare contro questa “storia” di S., essa riguarda la denuncia
della responsabilità della chiesa cattolica, che avrebbe impedito il libero
sviluppo del pensiero italiano del Rinascimento, e determinato il “vuoto” tra
Campanella e Vico, tra Vico e Galluppi. Ma la prospettiva storiografica di S.
resta, agli occhi di G., salda e valida tuttora. L’edizione del 1926 si avvale
di un accurato raffronto con il testo del 1862 e scioglie e rende espliciti
molti riferimenti di S. ai filosofi del Rinascimento. Tra le edizioni
scolastiche della Filosofia italiana, va ricordata, in primo luogo, quella
curata dallo stesso Gentile per la casa editrice Sansoni, Firenze 1937; poi
un'edizione a cura di G. Tarozzi, Torino 1937; una a cura di E. Vigorita, Napoli
1938; una a cura di G. Ponzano, Padova 1941; e quella più recente curata da B.
Widmar, Roma 1955. 100. Due frammenti di uno scritto inedito di B. Spaventa contro
il positivismo (I. La relatività della conoscenza secondo E. Littré; II. La
smaterializzazione del cervello), in “La Critica”, VII (1909), pp. 479-484; VII
(1910), pp. 67-73. Si tratta di due frammenti dell’Introduzione alla critica della
psicologia empirica, pubblicata per intero nel 1915 [105]. La politica dei
gesuiti nel secolo XVI e nel XIX. Polemica con la “Civiltà cattolica”
(1814-T1), Milano- Roma-Napoli 1911, pp. XXXIV-312. Sono ripubblicati qui,
nell’ordine, gli articoli e le recensioni contrassegnate in questa bibliografia
con i nn. 20, 24,31, 45, 47, 49; 50,52, 28, 23,25, 21,,33,34; 38(ctr. Opere,
II, pp. 721-1020). Molto importante la prefazione (si può leggere anche in G.
G,, Saggi critici, serie seconda, Firenze 1927, pp. 173- 196, dov'è ristampata
con il titolo Gt scritti politici di B. S.) anche come documento della presa di
posizione di Gentile, in questi anni, sulla questione dei rapporti tra lo stato
e la chiesa. La prefazione si può dividere in due parti. La prima contiene una
analisi delle opposte ragioni che si scontrano nelle polemiche sulla
separazione della chiesa dallo stato, in Piemonte, nel decennio di
preparazione. Sono due logiche che si oppongono; quella dei gesuiti, più
stringente, ma 2456 formale (la logica “della morte”), e quella della politica
di Cavour, la logica “della vita”, una logica forse “zoppicante”, ma conforme
alla realtà, che “non è così impeccabilmente logica, come la vorrebbe la logica
dei gesuiti; e si contenta, anzi vive di contraddizioni che è atta essa stessa
a risolvere” (p. XI = Opere, II, p. 727). La vera religione dello Statuto era
quella consentita dalla eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la
religione dello stato “che non riconosce se non se stesso, e nel cittadino non
vuole se non il cittadino: la religione immanente al luogo della cattolica
apostolica romana” (p. XII = Opere, II, p. 728). Nella seconda parte, G.
chiarisce le occasioni delle polemiche di S., ricostruisce il programma del
“Cimento”, traccia un profilo dei suoi collaboratori, e riconosce a S. un gran
merito: “B. S. con la sua filosofia diede alla politica cavouriana la coscienza
della logica che vi era immanente: che non era propriamente la logica della
separazione della chiesa dallo stato, ma della negazione (e conservazione)
della chiesa nello stato” (pp. XXIX sg. = Opere, II, p. 742). La fede nella
immanenza del divino in tutte le forme della vita, e quindi nello stato, in quanto
tale, consentì a S. di muovere, fin dal 1854-55, “in soccorso della politica
emancipatrice dello stato”; la lotta non ebbe allora pieno successo, ma dagli
scritti di S. è possibile trarre ancora serie indicazioni. “E poiché la lotta non
è terminata e c’è sempre una chiesa, in Italia, contro lo stato, e questo ha
sempre bisogno di acquistare la coscienza distinta della propria laicità, che è
la infinità stessa, di cui parlava lo Spaventa, quel che la sua opera politica
non ottenne nel decennio, l’otterrà senza dubbio, senza fretta, lungo il
cammino della nostra democrazia nella libertà” (p. XXXII = Opere, II p. 744). Da
La politica dei gesuiti edita da Gentile dipendono due edizioni più recenti di
questi articoli di S.: la scelta a cura di 2457 F. Fergnani (B. S., Polemiche
coi gesuiti, Milano 1951; cfr. n. 249), e quella curata da F. Alderisio (B. S.,
Lo stato moderno e la libertà di insegnamento, Firenze 1962 [cfr. n. 272]). Agli
studi di S. sulle dottrine dei gesuiti, anticipatori, nel secolo XVI, di
Rousseau e della sovranità popolare, si riferisce in più luoghi G. Saitta, La
scolastica del secolo XVI e la politica dei gesuiti, Torino 1911, pp. XI-311,
soprattutto nella seconda parte (pp. 113 sgg.), in cui sono esaminate le dottrine
di Suàrez, Bellarmino, Mariana. Va segnalato infine un articolo pubblicato
sull’ “Avvenire d’Italia” del 28 febbraio 1935 (I/ domina dell’immacolata e B.S.)
che contiene un aspro attacco contro il filosofo (ma anche grossolani errori a
proposito del testo spaventiano; cfr. La leggenda dell’idealismo, “Giornale
critico della filosofia italiana”, XVI, 1935, pp. 426 sg... 102. Logica e
metafisica, nuova edizione con l’aggiunta di parti inedite, Bari 1911, pp.
XI-456. Ristampa dei Principi di filosofia (76 = Opere, III, pp. 1- 429) con
l’aggiunta dell’ultima parte, rimasta fin qui inedita. Maturi — che ebbe modo
di ascoltare più volte, tra il 1862 e il 1869, il corso di logica di S. — fornì
a G. una copia dell'intero testo spaventiano. “Così abbiamo finalmente in Italia
una esposizione completa di questa logica, e una esposizione magistrale, che
viene incontro al bisogno sempre più vivo e sempre più largamente sentito, di
essere guidati a penetrare nel segreto processo di questa nuova intuizione del
mondo (ancora da conquistare nella sua integrità), che è risoluzione assoluta
della natura nello spirito, della realtà nella sua coscienza, dell'esperienza
nella logica pura” (p. X = Opere, III, p. 6). 2458 Gentile ha curato anche una
edizione scolastica di Logsca e metafisica, Firenze 1933; un’altra edizione per
le scuole è quella a cura di E. Vigorita, Torino 1940. 103. Frammento inedito,
in G. GENTILE, La riforma della dialettica begeliana, Messina 1913, pp. 45-71;
ora in G. G., Opere, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi
filosofici, vol. XXVII, pp. 40-65. Il frammento, come ha stabilito Gentile,
risale al 1880- 1881. Riprende, e conclude — anche attraverso riferimenti polemici
alla Logigue de Hegel di A. Vera — la discussione sulle Prizze categorie, del
1863-64 [70], correggendo la prima interpretazione o “riforma” della dialettica
hegeliana (“prima non appariva bene che il pensare è, per dir così, l’essere
stesso dell’essere; appariva quasi come una funzione meramente soggettiva”,
Opere, XXVII, p. 63) e richiamando nel discorso altri studi (più recenti, come
lo scritto sulle psicopatie [83], pp. 52 sg., e La legge del più forte [85], p.
53; ma anche l’analisi della distinzione giobertiana di riflessione psicologica
e riflessione ontologica, pp. 54 sgg). Il testo spaventiano (ora in Opere, III,
pp. 431-462) è stato pubblicato da G. in appendice al primo scritto (La riforma
della dialettica hegeliana e B. S., con appendice; porta la data: 1912) della
raccolta, che da quel famoso studio prese il titolo generale; e viene
presentato come il documento che giustifica lo schema di derivazione: Hegel- Spaventa-Gentile.
Il frammento presenta una impostazione del problema della dialettica hegeliana
molto prossima alla soluzione attualistica (anche nella espressione verbale:
“In altri termini, lo spettatore è anco attore. O, come dice Hegel in generale:
la categoria non è soltanto essenza o semplice unità dell'ente, ma è tale unità
solo in quanto è attualità 2459 mentale. E attualità vuoi dire atto: l’essere è
essenzialmente atto del pensare”, pp. 47 sg.; cfr. pp. 55, 60 sg.); nei paragrafi
settimo e ottavo del suo studio, G. ripercorre l’intero sviluppo della
riflessione di S. sull’argomento, dallo scritto del 1863-64 (dove la soluzione
del filosofo sarebbe identica a quella di Fischer) alla risposta a Teichmiiller
[93], e, finalmente, a questo inedito che, pur vicino all’attualismo, è gravato
ancora da oscurità (cfr. p. 39: “Ebbe lo Spaventa consapevolezza della portata
di questa sua scoperta? L’oscurità stessa della sua esposizione fa pensare di
no...”). 104. La materia della sensazione, Palermo 1913, pp. 16. È un breve
frammento dell’Introdugione 4/la critica della psicologia empirica [105],
pubblicato in un opuscolo nuziale. 105. Introduzione alla critica della
psicologia empirica, estratto dagli “Annali delle Università toscane”, Pisa 1915,
pp. VI-98. È il testo - completo — di un manoscritto che, secondo G., fu
composto da S. nell’estate del 1881: come primo abbozzo di Esperienza e
metafisica [94], e come sviluppo delle indagini già avviate nella memoria Kant
e l’empirismo [88]. Gentile ne aveva già pubblicati alcuni frammenti nel 1909-10
[100] e nel 1913 [104]. Interessante il giudizio di G. su questa — pur non completamente
svolta — critica dell’empirismo; nella quale è documentabile l'accostamento
dell’a. “alla concezione del formalismo assoluto, ossia dell’impossibilità di
postulare una materia fuori dell’atto o forma del conoscere” e quindi l'intenzione
sua di “risolvere... la matura, l’antico presupposto dello spirito, nell’atto
spirituale... Così gli 2460 ultimi capitoli di questi frammenti cessano
evidentemente di essere una polemica, e mostrano come per necessità la psicologia
empirica, attraverso la teoria della conoscenza, vada a finire nella metafisica
dell'anima come atto” (p. VI; cfr. ora Opere, II, pp. 463-589, e, per il luogo
cit. della presentazione di Gentile, p. 469). 106. L’anima e l'organismo, in
“Giornale critico della filosofia italiana”, I (1920), pp. 312-321. È il testo
delle prime lezioni di un corso di antropologia, tenuto da S. nell’anno
1863-64. Per l’esposizione dell’antropologia
hegeliana — riferisce Gentile — S. teneva conto anche di sviluppi posteriori
della dottrina; in particolare della Psychologie dell’hegeliano J. Schaller.
Cfr. n. 115 e v. Opere, III, pp. 591-608. 107. False accuse contro l’begelismo,
in “La Critica”, XVIII (1920), Pp. 246-253, 312-320. Ristampa dei due articoli
ordinati in questa bibliografia con il n. 11. Nella breve introduzione, Gentile
pubblica anche una lettera di S. a Eugenio Camerini, dell’11 febbraio 1860;
lettera che ha consentito di rintracciare questi articoli nel quotidiano
torinese “Il Progresso” (cfr. ora Opere, III, pp. 609-637). 108. La libertà
d'insegnamento. Una polemica di settant'anni fa, Firenze 1920, pp. 187. Alle
pp. 41-131 sono ristampati (e in Opere, III, pp. 673- 763) gli articoli
ordinati in questa bibliografia con il n. lo. Nell’appendice, pp. 135-138, si
può leggere l’articolo già 2461 indicato qui con il n. 9; altri documenti della
polemica, in gran parte articoli di Domenico Berti, apparsi sui giornali “La
Croce di Savoia” e “Il Risorgimento”, sono ristampati alle pp. 139 sgg. I
documenti essenziali che servono a ricostruire le polemiche sulla libertà di
insegnamento in Italia, dal 1840 fino a questi interventi di S. (1851), sono
raccolti e illustrati nell'ampia prefazione di Gentile (pp. 7-40 = Opere, III,
pp. 641-672), il quale dà anche importanti notizie sul programma e sui
col-laboratori del giornale torinese “Il Progresso”. Una edizione più recente
dei tredici articoli sulla libertà di insegnamento ha curato nel 1962 F.
Alderisio [272]. 109. Pensieri sull’insegnamento della filosofia e lettere inedite,
in “Giornale critico della filosofia italiana”, VI (1925), pp. 91-105. Ristampa
(pp. 91-99) dell’articolo ordinato in questa bibliografia col n. 2. Seguono
(pp. 99 sgg.) sei lettere o frammenti di lettere di S. a De Meis (cfr. n. 126 e
Opere, III, pp. 831-855). D. SCRITTI PUBBLICATI DA ALTRI AUTORI 110. Una
prolusione inedita di Bertrando Spaventa a un corso di diritto pubblico, a cura
di A. Guzzo, in “Giornale critico della filosofia italiana”, V (1924), pp.
280-296. È il testo della prolusione di Modena del 25 novembre 1859. Alle pp.
293-296 è riprodotto uno schema delle lezioni modenesi, tratto da un altro
manoscritto di S. Cfr. n. 122, 2462 111. Lezioni inedite di B. Spaventa, a cura
di A. Guzzo, in “Giornale critico della filosofia italiana”, VI (19295), pp. 198-222,
291-295, 360-369. Il primo gruppo di questi inediti (pp. 198-222, 291-295) è costituito
dagli appunti — di mano “di uno o più scolari modenesi” — relativi a cinque
lezioni sulla filosofia greca dettate da S. per la parte storica del suo corso
del 1859-60 (v. lo schema pubblicato da Guzzo nel 1924: cfr. n. precedente). Il
secondo gruppo (pp. 360-369) raccoglie gli abbozzi, di mano dello S., di tre
lezioni tenute nell'università di Bologna il 10 maggio e il 16 dicembre 1860, e
11 marzo 1861. 112. Rinascimento, Riforma, Controriforma e altri saggi critici,
Venezia 1928, pp. 363. Ristampa dei Saggi di critica del 1867 [77] nella
collana “Storici antichi e moderni” della Nuova Italia} con l’aggiunta di un
indice dei nomi. 113. Uno scritto inedito di Bertrando Spaventa sul problema
della cognizione e in generale dello spirito (1858), a cura di F. ALDERISIO, in
“Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e
filologiche”, serie VI, vol. IX, fasc. 7-10, luglio- ottobre 1933, pp. 564-667.
. Alderisio descrive e commenta (pp. 564-583) l'importante inedito da lui
scoperto in una delle buste dei manoscritti di S. conservati presso la
Biblioteca Nazionale di Napoli, identificandolo con l’abbozzo in “parentesi”
scritto 2463 tra il gennaio e il marzo del 1858, di cui S. dà notizia al fratello
Silvio in una lettera dell’8 febbraio dello stesso anno (cfr. S. Spaventa, Dal
1848 al 1861 [125], 19232, pp. 248 sgg.). Una più recente edizione dell’inedito
a cura dello stesso Alderisio è: B.S., Sul problema della cognizione e in
generale dello spirito, Torino 1958, pp. XLIII-156 [cfr. n. 266]. 114. Rime
satiriche di B. Spaventa sul connubio Sella- Nicotera, in “Rinascita”, XI
(1954), p. 32. Queste “rime” sono conservate nel fondo Spaventa della Società
napoletana di storia patria. 115. E. GARIN, Felice Tocco alla scuola di
Bertrando Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXIV
(1955), PP. 489-495. Si tratta di alcuni estratti di F. Tocco, relativi a
lezioni sulla filosofia della natura di Hegel, tenute da S. nel 1863 (i primi
appunti sono del 1° gennaio). E. Garin, nel pubblicare questi estratti da lui
scoperti, discute anche dei rapporti di Tocco con il maestro. Gli estratti sono
stati poi ripubblicati in E. Garin, La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Bari
1962, pp. 67-76. Cfr. anche n. 106. . Un “pamphlet” antidemocratico inedito di Bertrando
Spaventa (1880), a cura di P. C. MASINI, in “Rivista storica del socialismo”,
II (1959), pp. 304-326. Alle pp. 316-326 è riprodotto — con l’aggiunta di note 2464
esplicative — il testo di un pamphlet scritto da S. nell’agosto 1880 contro
Pietro Siciliani; è intitolato: Le conferenze pedagogiche a Firenze. Lettera a
Fanfulla di Minchione Chiappanuvole maestro elementare inferiore a Peretola. L’opuscolo,
già pronto per la stampa, come risulta dalle bozze corrette rinvenute (insieme
al manoscritto originale) nella Biblioteca comunale “Angelo Mai” di Bergamo, doveva
essere pubblicato anonimo; rimase inedito per una “indiscrezione dello
stampatore’, come attesta una dichiarazione sul frontespizio del figlio di S.,
Camillo. Presentando il testo spaventiano, che contiene aspre invettive non
solo contro Siciliani, ma anche contro De Sanctis, P. C. Masini propone un
riesame della collocazione politica di S., “difensore del vecchio ordine
culturale e politico di stampo moderat”. Il pamphlet contribuirebbe a rivedere
la proposta della “linea” S.-Labriola-Gramsci, lanciata a partire dal 1952, e a
smentire il rilievo di una evoluzione dell’ultimo S. verso il positivismo o il materialismo
(cfr. in particolare le pp. 310-314). La scoperta dell’opuscolo del 1880 è il
frutto di una esplorazione delle carte spaventiane conservate presso la Biblioteca
comunale di Bergamo; alle pp. 304-310 sono riportate notizie su manoscritti
editi e inediti del filosofo, dei quali M. fornisce un primo inventario. V. su
questo l’introduzione premessa a questa bibliografia, pp. 863 sg. Sul lavoro di
M. cfr. E. Garin, Un ‘pamphlet’ antidemocratico inedito di B. Spaventa,
“Giornale critico della filosofia italiana”, XXXVII (1959), pp. 572-574. Discutendo
del testo di S. e della interpretazione di M., Garin rende noto l’annuncio di
una traduzione spaventiana dell’opera di L. Stein, Der Socialismus und
Communismus 2465 des heutigen Frankreichs, diffuso nel 1850 da una “Stamperia
degli artisti tipografi” di Torino [cfr. n. 3]. Interessanti anche i rilievi di
Garin sui rapporti di S. con i positivisti (in particolare con P. Siciliani). 117.
Il lavoro e le macchine, a cura di D. D'ORSI, in “Sophia”, XXXI (1963), n. 3-4,
pp. 254-259; e in “Dialoghi”, XI (1963), n. 3-5, pp. 191-197. Cfr. n. 123. 118.
Rivoluzione e utopia, a cura di I CUBEDDU, in “Giornale critico della filosofia
italiana”, XLII (1963), pp. 66-93. Ristampa di dieci articoli, pubblicati nel
1851 nel giornale “Il Progresso” di Torino, e elencati in questa bibliografia con
i nn. 5, 12, 14. Cfr. n. 275. 119. L'essenza metempirica del filosofare, a cura
di D. D’ORSI, in “Dialoghi”, XII (1964), n. 1-3 (gennaio- ), pp. 39-50. Cfr. n.
123. 120. II Socialismo e il Comunismo in Francia — supplemento alla storia del
secolo per L. Stein Professore in Kiel. Prima versione dall'originale tedesco
di Bertrando Spaventa, a cura di S. LANDUCCI, in “Annali dell'Istituto
Giangiacomo Feltrinell”, VI (1963), Milano 1964, pp. 693-695. Ristampa del n. 3
di questa bibliografia. Cfr. n. 282. 121. Uno scritto ignorato e una lettera
inedita di B. 2466 Spaventa, a cura di D. D’ORSI, in “Rivista abruzzese” [Lanciano],
XVIII (1965), n. I, pp. 4-19. Contiene: un annuncio della traduzione di Stein
[3], e una lettera di S. a P. Villari del 14 ottobre 1850 [cfr. 123, 141]. 122.
Della libertà e nazionalità dei popoli, a cura di D. D’ORSI, in “Rivista
abruzzese” [Lanciano], XVIII (1965), n. 3, pp. 97-114; n. 4, pp. 144-152. Edizione
critica della prolusione di Modena (cfr. 110). 123. Scritti inediti e rari
(1840-1880, con prefazione e note a cura di D. D’ORSI, Padova 1966, pp.
XVI-590. Questa raccolta di testi editi e inediti di S. si divide in tre parti,
più un’appendice di documenti. La prima parte (Scritti rari o ignorati o
inediti, pp. 1-88) comprende la ristampa dello scritto Su/la quantità [1], un
annuncio della traduzione dell’opera di Stein sul socialismo e il comunismo in
Francia (3; pubblicato dal D’Orsi anche nella “Rivista abruzzese”, 1965 [cfr.
n. 121]), il frammento I/ lavoro e le macchine (già pubblicato dal curatore nel
1963; cfr. n. 117), scritto nel 1851 sotto lo stimolo della lettura di Stein
(v. p. 34), l'articolo su Schelling del 1854 [22], e finalmente un articolo sul
teatro drammatico apparso anonimo nel “Cimento” [43] e qui attribuito a S.
Nella seconda parte (pp. 89-178) sono raccolti tre scritti filosofici inediti:
una Fenomenologia del 1865 (pp. 101-152; pubblicata contemporaneamente in
“Sophia”, 1965, pp. 349-366, 1966, pp. 344-368; e v. sopra, p. 864), uno
scritto del 1880, Esperienza e coscienza (pp. 157-162), e uno del dicembre 2467
dello stesso anno, L'essenza metempirica del filosofare (pp. 169-178), tratti
entrambi dalle carte Spaventa della Biblioteca Nazionale di Napoli (le
prefazioni del curatore a questi tre inediti erano state già pubblicate nel
1965 [285], il testo dell’ultimo inedito nel 1964 [119]). La parte terza (Scritti
polemici ignorati e rari, pp. 179-489) raccoglie: due articoli pubblicati nel
“Cimento”, del 1855 [cfr. nn. 35, 39], e i ventinove articoli della serie I
Sabbati dei gesuiti, pubblicati nel “Piemonte” [cfr. n. 28]. Nell’appendice
(pp. 491 sgg.) sono riportate trentasette lettere di S. [cfr. n. 141]. Delle
singole prefazioni ai testi spaventiani, è da vedere in particolare quella
dedicata alla Ferorzerologia del 1865 (pp. 93-100), un testo che, secondo
D’Orsi, “finirà col modificare il tradizionale canone esegetico, invalso dal Gentile,
secondo cui la lettura dell’ultimo Gioberti avrebbe indotto lo Spaventa a
mutare o estinguere i suoi più radicati e appassionati interessi per la
Ferorzenologia di Hegel e per le conseguenti interpretazioni via via formulate
dagli esegeti tedeschi della destra hegeliana” (p. 95; sull'importanza che il curatore
attribuisce al testo spaventiano, cfr. anche pp. 99 sg.). Nella prefazione
generale alla raccolta, D’Orsi anticipa le linee di una sua lettura di S.,
molto distante dalle interpretazioni più recenti, e dalla stessa
interpretazione di Gentile (si può qui segnalare l'utilizzazione di testi spaventiani
nel volume di D’Orsi Lo spirito come atto puro in Giovanni Gentile, Padova
1957). Il curatore intende rivalutare una fondamentale dimensione
“spiritualistica” del pensiero di S., il quale risulterebbe, nell'intero arco
della sua attività, un “moderato”, sia in politica che in filosofia. Nelle polemiche
contro i gesuiti, S. combatte le “esagerazioni pratiche” dell’ortodossia
(dommatismo, fanatismo), non il principio cattolico (p. XII sg.); la suapolemicapuòdefinirsi
“anticlericale”, ma “non antireligiosa o, peggio, ateistica” (p. 2468 XIV; per
i Sabbati, cfr. p. 208: essi “stimolano la riflessione sui problemi della
Politica e della Religione e assicurano come un duplice antidoto agli opposti
inconvenienti della fragile fede e dell’intransi genza dommatica”; cfr. inoltre
la prefazione alla terza parte della raccolta, pp. 181 sgg.). Nella prefazione
a I/ lavoro e le macchine, pp. 33 sg., dichiarando la dipendenza dello scritto
dall’opera di Stein, D’Orsi parla di un “chiaro atteggiamento etico-politico
che, per equilibrio e serietà d’indagine, può ritenersi, nell’ambito della
vexatissima questione sociale, ‘una voce di ragione tra tante grida”” (con
questo titolo apparvero sul “Lucifero” di Napoli, nell’aprile-maggio 1848,
alcuni articoli firmati con la sigla: Sp., che il D’Orsi attribuisce senz’altro
a S.; sul “Lucifero”, giornale moderato e giobertiano prima del 15 maggio 1848,
e, in seguito, conservatore, cfr. A. Zazo, I/ giornalismo politico napoletano
nel 1848-9, “Archivio storico delle province napoletane”, XXXI [1947-1949], pp.
252, 289). D’Orsi rende nota (p. XVI) la sua intenzione di portare a compimento
una edizione critica di tutte le opere, edite e inedite, di S., a cui seguirà
la pubblicazione di una monografia sul filosofo napoletano. A p. 88 n. è
annunciata intanto la prossima pubblicazione di un volume che raccoglie le
Lezioni inedite di Filosofia del diritto (1859- 1860). Su questi Scritti
inediti e rari curati dal D’Orsi, cfr. P. Piovani in “Giornale critico della
filosofia italiana”, XLVI (1967), pp. 160-161. 124. Un articolo inedito di B.
Spaventa circa l’unità organica della filosofia di Bruno e circa l’attinenza di
questa con la filosofia di Spinoa, a cura di F. ALDERISIO, in 2469 “Giornale
critico della filosofia italiana”, XLV (1966), pp. 218-225. Alle pp. 222-224 è
riprodotto il testo fin qui inedito dell’ “avvertenza” di S. a un suo articolo
su Giordano Bruno, mai pubblicato. Il manoscritto dell'articolo non è stato rintracciato.
Secondo A., 1’ “avvertenza” è del 1870-1872; insieme all’articolo, avrebbe
costituito l’ultimo lavoro di S. dedicato a Bruno, scritto, probabilmente, per
il “Giornale napoletano di filosofia e lettere”. E. CARTEGGIO 125. S. SPAVENTA,
Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da B. CROCE, Napoli
1898, pp. TX-314:; Bari 1923?, pp. XII-373. I rinvii alle pagine si riferiscono
alla seconda edizione. Fondamentale raccolta di materiali — lettere, articoli, frammenti
di studi ecc. — che illuminano le vicende personali e la biografia politica e
intellettuale dei fratelli S. I documenti sono collegati da brevi narrazioni,
chiarimenti e giudizi di Croce, che spesso riguardano da vicino anche B. S. Una
aggiunta all’avvertenza del curatore nella seconda edizione — notevolmente
accresciuta — porta la data: agosto 1917, Di B. S. sono riprodotte nel volume:
quarantadue lettere al fratello, la prima del 22 dicembre 1847, l’ultima del 16
dicembre 1861 (p. 361, nota 2); una lettera al ministro sardo Cristoforo
Mameli, del 1850 (p. 76 sg., n. 3); una lettera a Mamiani del 15 settembre 1854
(p. 210 sg., n. 2); una lettera al padre del26maggio1859 (p. 298 sg.); due
lettere alla moglie, dell’8 e 10 novembre 1860 (p. 356 sg.). A p.5, n. I, 2470 si
legge un brano di una “confessione” del filosofo (1876), a proposito della sua
ordinazione sacerdotale. Le lettere di Silvio al fratello sono più di ottanta,
e vanno dal 30 settembre 1849 al 28 ottobre 1860. Si segnalano in particolare
le lettere “filosofiche” (sul pensiero italiano del Rinascimento, su Rosmini,
Gioberti, sulla Ferorzenologia di Hegel, ecc.) che i fratelli si scambiarono
tra il 1854 e il 1858 pp. 176-188, 202-215, 231-268). La raccolta comprende anche:
una lettera di P. Villari a B. S., dell’ottobre 1850 (p. 77 sg., nota); due
lettere allo stesso di Antonio Ciccone (11 luglio e 28 [?] luglio 1860, pp. 342
sg., 347); due lettere a B. S. di A. C. De Meis, del 23 luglio e del 10
novembre 1860, pp. 346 sg., 355 sg. Francesco D’Ovidio presentò il libro di
Croce all Accademia di scienze morali e politiche di Napoli il 26 giugno 1898,
con un discorso che è ristampato alle pp. 86- 96 della raccolta intitolata:
Rirzpianti, Milano-Palermo- Napoli 1903, pp. XVI-464. Dal discorso di D’Ovidio
si può ricavare qualche aneddoto o qualche coloritura diversa di notizie
riguardanti la biografia di B., oltre che di Silvio, e i rapporti tra i due
fratelli. Ma sul libro di D’Ovidio v. B. Croce, “La Critica”, I (1903), pp.
218-223. 126. Lettere di A. Camillo De Meis a B. Spaventa, pubblicate da G.
GENTILE, Napoli 1901, pp. 32. Quattro lettere, del 9 febbraio e 4 giugno 1868,
del 22 gennaio e 6 aprile 1869. Ristampate in G. Gentile, A/bori della nuova
Italia, varietà e documenti, parte seconda, Lanciano 1923, pp. 145-167. 127. G.
GENTILE, Per la storia aneddota della filosofia italiana nel secolo XIX, in
Raccolta di studi critici dedicati 2471 a A. D'Ancona, Firenze 1901, pp.
335-358. Quattordici lettere del 1861-62, tratte dal carteggio dei fratelli S.
Le lettere di B. sono undici: del 27 novembre, dell’8, 17 e 28 dicembre 1861,
dell’8, lo, 21, 22 febbraio, del 22 marzo, del 16 giugno e I luglio 1862. Vedile
anche ristampate in appendice a B. S., La filosofia italiana nelle sue
relazioni con la filosofia europea (99; e in Opere, II, pp. 679-719). Cfr.
anche n. 139. 128. Documenti inediti sull’hegelismo napoletano. (Dal carteggio
di Bertrando Spaventa), a cura di B. CROCE, in “Ia Critica”, IV (1906), pp.
223-240. Lettere a S. — corredate di notizie e schiarimenti — di F. Hoffmann
(12 ottobre 1865: tentativo di promuovere in Italia la divulgazione della
filosofia di F. v. Baader), di A. Angiulli (15 dicembre 1862), di H. F. Amiel
(24 aprile 1868), di K. L. Michelet (6 agosto 1870), di A. Labriola (1875), di
R. Hamerling (19 ottobre 1877), di T. v. Varnbiiler (17 maggio 1879), di G.
Teichmiller (9 agosto 1882). 129. Documenti inediti sull’hegelismo napoletano.
(Dal carteggio di Bertrando Spaventa), a cura di G. GENTILE, in “La Critica”,
IV (1906), PP. 397-410, 483-496. Nella prima parte, una lettera a S. di F. del
Zio (30 giugno 1861), lettere e brani di lettere allo stesso di M. Florenzi Waddington,
una lettera di S. a De Meis del 13 luglio 1880. Nella seconda parte, lettere e
brani di lettere di F. Fiorentino allo S., scritte tra il 1863 e il 1871. Con
notizie e 2472 schiarimenti del curatore. I Documenti sono ristampati, con
aggiunte, in G. Gentile, Frammenti di storia della filosofia, serie prima,
Lanciano 1926, pp. 181-236. 130. B. CROCE, Ricerche e documenti desanctisiani, VII,
Dal carteggio inedito di Francesco De Sanctis (5865- 28(9), puntata quarta, pp.
32; IX, Dal carteggio inedito di A. C. De Mess, pp. 36; in “Atti dell’Accademia
Pontaniana” di Napoli, XLV(1915). Nel primo fascicolo sono pubblicate, in
appendice (pp. 29-32), tre lettere di S. a De Meis, del zo novembre [cfr. n. 133]
e del 16 dicembre 1851, del 5 agosto 1855. Nel carteggio inedito di De Meis si
leggono (pp. 1-16) dodici lettere di S. allo stesso: del 13 febbraio 1856,
dell’11 marzo, 19 e 20 maggio, 13 giugno 1860, del 23 giugno 1868, del 23 febbraio
e 3 aprile 1869, del 30 maggio 1870, del lo luglio 1871, del 14 dicembre 1872,
del 13 marzo 1874. 131. R. ZAGARIA, Per la biografia di Pasquale Villari, in
“La Rassegna” [già “Rassegna bibliografica della letteratura italiana”, fondata
da A. D'Ancona], serie III, vol. V, n. 6, dicembre 1920, pp. 333-379. Riporta
(pp. 343-355) tredici lettere di Villari a S., le prime dodici scritte tra il
1861 e il 1869, l’ultima del 1881. Cfr. n. 140. 132. G. GENTILE, Bertrando
Spaventa, Firenze s. d. [1924], pp. 217. 2473 Cfr. n. 204. Nell’appendice (pp.
181 sgg. = Opere, I, pp. 157 sgg.) sono pubblicate: una lettera di S. a De Meis
del 23 febbraio 1856, una lettera di L. Chiala a S. del 4 aprile 1856, due lettere
di S. a T. Mamiani (13 luglio e 10 ottobre 1854), due di Mamiani a S. (3 giugno
1852, 12 ottobre 1854). Nel testo: a pp. 55 sg. (= Opere, I, pp. 48 sg.) si
legge una lettera di B. al fratello Silvio sull’abolizione delle facoltà di teologia,
del io febbraio 1876; a pp. 94 sg., nota 2 (= Opere, I, p. 83) una lettera di
De Meis a S. del 2 marzo 1863; alle pp. 162 sgg. (= Opere, I, pp. 140 sgg.) la
lettera di S. a De Meis del 13 luglio 1880 [cfr. n. 129], e due lettere di De Ivleis
a S.: la prima, s. d., in risposta alla precedente, l’altra del 10 gennaio
1881. Due lettere allo S., di L. Pomba (2 gennaio 1861) e di A. Tari (28 luglio
1861) sono segnalate nella bibliografia, p. 205 (e v. 65). 133. B. S., Pensieri
sull’insegnamento della filosofia e lettere inedite, a cura di G. GENTILE, in
“Giornale critico della filosofia italiana”, VI (1925), pp. 91-105. Cfr. nn. 2,
109. Alle pp. 99-109, sei lettere o frammenti di lettere di S. a De Meis: del
30 marzo 1850, s. d., del zo novembre 1851 ma cfr. n. 130], del 16 dicembre
1852, del 14 dicembre 1872, del maggio 1880 (= Opere, III, pp. 847-855). 134.
S. SPAVENTA, Lettere politiche (1865-1893), edite da G. CASTELLANO, Bari 1926,
pp. 185. Continuazione del carteggio pubblicato da B. Croce 2474 [125]. Il
nucleo più importante è costituito da circa 140 lettere o brani di lettere di
Silvio a B. S., scritte tra il 20 settembre 1861 e il 25 ottobre 1882;
contengono interessanti ragguagli e giudizi, oltre che sulle vicende e sugli
uomini politici del periodo, su alcuni casi più minuti della vita dei due
fratelli (reazioni ai tumulti nell'Università di Napoli, del1862; rapporti col
giovane Labriola, nel 1863; ecc.). Sono anche riprodotte dieci lettere di B. S.
al fratello: del 13 giugno, del 7 e 25 luglio 1863 (pp. 56 sg.), del 9 aprile e
del settembre 1866 (pp. 95 sg., 102 sg., nota), del 2 settembre 1868 (p. 116),
del 21 aprile 1869 (p. 120), del 22 dicembre 1873 (p. 128), del 25 maggio e 15
giugno 1874 (pp. 130, 132 sgg.). Interessante la lettera-prefazione (datata:
giugno 1925) di B. Croce al curatore, pubblicata anche su “La Critica” (XXIII,
1925, pp. 316 sgg.). Croce dissocia gli ideali politici di Silvio dal “concetto
speculativo dello stato” elaborato dal fratello “senza particolare esperienza e
intelligenza della materia, estraendo e compendiando la Filosofia del diritto dello
Hegel” (p. 7). E intende soprattutto respingere, così, il recente tentativo di
“presentare Silvio Spaventa come luomo e il pensatore politico al quale
dottrinalmente risalgono la teoria e la pratica del partito ora dominante in Italia”
(p.5). 135. A. ROMANO, La vita culturale italiana dopo il 1860 dal car teggio
degli hegeliani meridionali, I. Un isolato: Vittorio Imbriani, in “Civiltà
moderna”, V (1933), settembre-ottobre, pp. 473-483. Cfr. n. 138. Da un
complesso di settantanove tra lettere e biglietti, 2475 scritti dall’Imbriani a
S., l'a. sceglie e riproduce brani che contengono notizie sull'ambiente
hegeliano tra il 1870 e il 1880. Le lettere riportate vanno dal dicembre 1871
al dicembre 1879. 136. B. CROCE, Voci da un ergastolo politico. Lettere inedite
di Silvio Spaventa (1850-1856), in “Quaderni della Critica”, Il (1946), quad.
4, pp. 99-109. Undici lettere di Silvio al fratello, ritrovate fortunosamente
dal Croce; integrano la raccolta del 1898, 1923”[.125]; 137. 123 lettere
inedite di Antonio Labriola a Bertrando Spaventa, a cura di G. BERTI, in
“Rinascita”, X (1953), supplemento al n. 12, pp. 713-736; XI (1954), supplemento
al n.,pp.65-87. La prima lettera è del 1870-71, l'ultima del 6 gennaio 1883.
Importante l’introduzione del curatore (pp. 713-718): le lettere, che
contribuiscono a chiarire i modi e i tempi del passaggio di L. al socialismo,
sono la testimonianza di un che corrisponde perfettamente, sul piano delle relazioni
personali e private, a un rapporto di “filiazione spirituale”. Gli originali
sono conservati nel fondo S. della Biblioteca della Società di storia patria di
Napoli. 138. Carteggi di Vittorio Imbriani. Gli hegeliani di , a cura di N.
COPPOLA, Roma 1964, pp. 582. Sono pubblicate qui (pp. 34-166) diciotto lettere
di S. a V. Imbriani (26 maggio e In novembre 1869, 17 [?], 17 2476 aprile, 27
agosto, 17, 20 e 27 settembre, 7 novembre, 3, 6, 18, 19, 22 e 23 dicembre 1871,
I e 6 dicembre 1872, 29 settembre 1878), e settanta circa lettere o biglietti
di Imbriani a S., spesso non datati, ma scritti anch'essi a partire dal 1869.
Si leggono anche qui, indirizzate allo stesso S., una lettera di F. Tocco, s.
d. (p. 99 sg.), una lettera di D. Jaja del 30 novembre 1872 (p. 112 n.), e una
di D. Marvasi del 9 gennaio 1875 (p. 143). Le altre lettere indirizzate
all’Imbriani sono di Silvio Spaventa, A. Vera, G. B. Passerini, A. C. De Meis,
P. Siciliani, F. Tocco, F. Fiorentino, D. Marvasi, A. Tari e F. Toscano. Le
lettere qui raccolte fanno parte di un blocco di autografi scoperti da C. nel
1935, e la cui pubblicazione era stata già iniziata in “Accademie e biblioteche
d’Italia”, X (1936), n. 5-6, pp. 403-418; XI (1937), nn. 1-2, pp. 79-94, n. 5,
pp. 483-494; XIII (1938-1939), n. I, pp. 51-66. Per diversi riferimenti ai
fratelli S. cfr. anche Vittorio Imbriani intimo. Lettere familiari e diari
inediti, a cura di N. Coppola, Roma 1963, pp. 402. Cfr. n. 135. 139. Lettere
inedite di Bertrando a Silvio Spaventa, a cura di V. MASEL-LIS, in “Critica
storica”, IV (1965), pp. 691-710. Da un fondo spaventiano conservato presso
l’archivio provinciale De Gemmis di Bari sono tratte le dieci lettere qui
pubblicate, che portano le date: 25 gennaio, 27 marzo, 21 e 27 settembre 1861,
29 gennaio, 17 marzo, 31 maggio, 28 ottobre 1862, 19 e 31 ottobre 1864. Sono da
collegare soprattutto alla raccolta, curata da Gentile, e pubblicata nel 1901
[127]. 2471 140. G. VACCA, Nuove testimoniane sull’hegelismo napoletano, in
“Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di
scienze, lettere e arti inNapoli”, LXXVI (1965), pp. 26-73. La memoria è divisa
in due parti. Nella prima (pp. 26-63) sono riprodotte circa cinquanta lettere o
brani di lettere — la maggior parte inedite, o pubblicate solo parzialmente da precedenti
editori, soprattutto da Croce [125] — di S. al fratello Silvio, scritte tra il
20 aprile 1857 e il 28 giugno 1881. Le lettere contengono giudizi e
informazioni politiche, notizie relative alla attività didattica di S.
(soprattutto a Modena), ai rapporti del filosofo con P. Villari (v., a pp. 55- 57,
tre lettere di Villari a S. del 19 luglio 1861, del 21 marzo 1862, del 21
luglio 1868; e cfr. n. 131), a un intervento di A. Tari in favore di Labriola
(v. una lettera di Taxi a S. del 23 luglio 1861, pp. 45 sg. nota 30), ecc.
Nella seconda parte del lavoro (pp. 63-73) sono riprodotte lettere o brani o
citazioni tratte da lettere a S. di P. Siciliani (7 giugno 1871, 29 aprile 1877),
di F. Masci (1876, maggio 1881, 16 aprile 1876), di F. D’Ovidio (1871-72), di
B. Labanca (4 febbraio 1872, 23 maggio e 14 giugno 1880, 26 gennaio, 29 marzo e
24 maggio 1881, 29 dicembre 1882), di F. Del Zio (15 aprile 1861). 140 bis.
Dodici lettere inedite di Antonio Labriola a Bertrando Spaventa, a cura di G.
VACCA, in “Studi storici”, VII (1966), pp. 757-766. Sono lettere scritte tra il
1867 e il 1882, ritrovate nell'Archivio De Gemmis di Bari [cfr. n. X39]. 141.
B. S., Scuitti inediti e rari (1840-1880), con 2478 prefazione e note a cura di
D. D’ORSI, Padova 1966, pp. XVI-590. Chin: 123; Nell’appendice di documenti
(pp. 491-579) sono pubblicate trentasette lettere di S.: a) sedici a P. Villari
(12 luglio, 14 ottobre, 1 dicembre 1850, 11 marzo 1851, 5 agosto [1851?], 1
maggio [1852?], 11 febbraio 1853, 23 marzo 1854, aprile 1854 [?], 14 gennaio
1857, ottobre 1857 [2], 28 giugno, 12 e 14 luglio, 2 agosto e 19 novembre 1869);
b) una a F. Le Monnier (23 marzo 1854); c) una a E. Camerini [18562]; d) una a
A. De Gubernatis (13 febbraio 1865); e) quindici a V. Imbriani (26 maggio, 11
novembre 1869, 17 [marzo?], 17 aprile, 27 agosto, 17, 20 C 27 settembre, 3
ottobre, 6 novembre 1871, 7 novembre [18712], 18 e 19 novembre, 22 C 23
dicembre 1871; alcune date coincidono con quelle di lettere già pubblicate da
N. Coppola: cfr. n. 138); f) tre a T. Mamiani (11 novembre 1869, 5 marzo 1870,
15 marzo 1871). A p. 170, n. 6, è riportato un frammento di lettera (1856?) “ad
un amico”, del quale non è indicato il nome. 141 bis. G. VACCA, Gli hegeliani
di Napoli nella politica e nella scuola. Carteggi, estratto dagli “Annali della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari”, 1966, pp. 91. Le lettere
qui pubblicate sono state ritrovate nella biblioteca provinciale De Gemmis di
Bari. La raccolta comprende: otto lettere di Bertrando al fratello Silvio, sei del
1850-54, una del 1859, una del 1862; due spezzoni di lettere del filosofo a
Labriola, del 1873 e 1874; una lettera dello stesso a D. Tartaglia, del 1861;
una lettera di 2479 Bertrando alla moglie, del 17 novembre 1859. Inoltre: lettere
allo S. di T. Mamiani, di P. Villari, di F. Selmi, di D. Marvasi, di A.
Ciccone, di S. Tommasi, di D. Tartaglia, di A. Labriola [cfr. 140 bis], di P.
Acri, di V. Imbriani, di F. Masci, di F. Tocco, di L. Miraglia, di L. Barbera,
di P. Siciliani, di F. Fiorentino, di D. Jaja. Infine, lettere di P. Villari a
D. Marvasi, di L. Settembrini a Silvio S., di Silvio S. a E. Pessina, di F.
Selmi e C. Monzani a Silvio S., di L. Barbera a R. De Cesare, di F. Tocco a F.
Fiorentino, di P. DelGiudice a L. Miraglia, di F. Fiorentino a Silvio Spaventa.
142. Trenta lettere inedite di Bertrando Spaventa al fratello Silvio
(1850-1861), a cura di G. VACCA, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e
politiche della Società nazionale di scienze, lettere e arti in Napoli”,
LXXVIII (1967), pp. 327-395. Le lettere qui pubblicate (v. pp. 341 sgg.) sono
tratte da copie di mano di Giovanni Beltrani, conservate nella biblioteca
comunale Giovanni Bovio di Trani. Vanno dal gennaio 1850 all’aprile 1861; il
nucleo più importante è del 1854-56, sicché la raccolta integra soprattutto il
carteggio “filosofico” dei fratelli S., noto attraverso l’edizione curata da
Croce [125]. Le lettere offrono nuovi dati sull’attività di S. nel periodo
torinese, indicazioni sugli studi, su lavori inediti e sull'attività
giornalistica del filosofo, e contengono giudizi su avvenimenti e uomini
politici. I documenti più interessanti sono analizzati dal curatore alle pp.
332-340; importanti i chiarimenti di Vacca sulla complessa vicenda dell'archivio
epistolare del filosofo, venduto dal figlio Camillo e solo in parte recuperato
da Croce [cfr. anche 136]. 2480 PARTE SECONDA SCRITTI SU BERTRANDO SPAVENTA 143.
P. LUCIANI, Del libro di B. Spaventa intitolato “La filosofia di Gioberti”.
Considerazioni, Napoli 1864, pp.21. Non è un’analisi minuziosa del libro di S.,
né vuole esserlo (p. 44); per affrontarla, l’a. aspetta la pubblicazione del
secondo volume. Ma intanto, secondo L., va segnalata subito la minaccia di
“intedeschimento”. S. accoglie da Hegel gli strumenti della sua critica e
finisce col travisare completamente il pensiero di Gioberti. Non ha capito, soprattutto,
il significato e la funzione dell’ “intuito”, perché vuol risolvere tutto nel
“soggetto”; sicché gli sfugge il senso delle “formula ideale”, e vede
dappertutto contraddizioni. Cfr. n. 147. 144. K. L. MICHELET, Spaventa uber
Hegel in der Akademie zu Neapel, in “Der Gedanke” [Berlino], V (1864), fasc. 2,
pp. 114 117.Recensione del saggio: Le prime categorie della logica di Hegel
[70], condotta sul testo del sunto pubblicato dalla “Rivista napoletana di
politica, letteratura e scienze”, novembre-dicembre 1863. Nel corso
dell’esposizione M. introduce due rilievi particolari. A_p. 115, afferma che è sbagliato
attribuire a Hegel, come fa Trendelenburg (e S. seguendo Trendelenburg),
l'intenzione di ricavare l'identità di essere e nulla dalla loro
indeterminatezza (l’essere è il nulla = l’indeterminato è l’indeterminato); e
rimanda, per questo punto, ad un suo intervento pubblicato nella stessa rivista
(III [1862], pp. 207-210). A p. 116 osserva ancora 2481 che Hegel ha già posto
in rilievo quella “differenza” nella indeterminatezza o identità di essere e
nulla, di cui S. è andato in cerca nel suo saggio. Eccellente sembra tuttavia a
M. la confutazione di Trendelenburg fatta da S. (da un “non hegeliano”, p.
117); ma il recensore non capisce a quali rappresentanti della scuola alluda il
filosofo napoletano, quando afferma che alcuni hegeliani pretenderebbero che l’essere
si muova da sé, senza il pensare. La memoria di S. è giudicata assai acuta, e
ingegnosa; se tondo M., S. si muoverebbe, in questa sua interpretazione e
apologia di Hegel, verso conclusioni simili a quelle raggiunte da K. F. Solger
nei suoi Gespriche tber Sein, Nichtsein und Erkennen. 145. [G. SALVIA], La più
bella questione surta non ha guari dalla Università di Napoli, in “Il Campo dei
filosofi italiani” [Napoli], I (1864), pp. 202-208, 323-328, 389- 399, 469-477.
L’articolo non è firmato, ma il nome dell’autore si ricava dall’intervento
successivo di M. Tuddone [cfr. n. 148]. La “più bella questione” è quella della
“nazionalità” della filosofia. Le prime pagine (202-208) riproducono i tratti essenziali
della prolusione di L. Palmieri del 16 novembre 1861, e una prima parte della
prolusione spaventiana Della nazionalità nella filosofia [68]; le pp. 323-328
sono dedicate ancora alla esposizione del discorso di S.; nelle puntate successive,
sono svolte le considerazioni dell’a. sulle due prolusioni.Sostenerela“nazionalità”dellafilosofia
(come fa Palmieri) è questione di logica o di dialettica? Sembra che non ci
possa essere “nazional filosofia” con le regole del ragionare, ma solo con
quelle del disputare. L’a. vuole evidentemente salvare le argomentazioni di
Palmieri, 2482 correggendole tuttavia e riproponendole sul piano della scienza:
“Mi viene dunque in mente di cangiare, se io potessi, l'espediente dialettico
in argomentazione scientifica, trovando in certa guisa il passaggio dagli
argomenti suoi [= di Palmieri], presi 44 borzinerm, e senza più individuati,
agli argomenti che vi corrispondono in uso non pur della logica ma della
scienza, che val sicuramente generali” (p. 474). E corregge il discorso di
Palmieri distinguendo “tre capi” dell’argomentazione: 1° “impronta” e l'
“indole nazionale”, le “tradizioni”, e l “atteggiamento non servile” delle arti
e delle scienze. Ora, per quel che ci riguarda, l’ “impronta” e l “indole” sono
“cattoliche” entrambe. La “tradizione” è quella antichissima “delle ripruove e
delle discussioni” (la tradizione degli eleatici). Quanto all’ “atteggiamento
non servile”, che nasce dalla piena adesione della coscienza, anche per questo
motivo l’hegelismo non può essere importato tra noi (come può Hegel aver detto
in coscienza che l’essere è il nulla, il bene male, e il sì no?). 146. T.
STRAETER, Briefe tber die italienische Philosophie, in “Der Gedanke” [Berlino],
V (1864), fasc. 4, pp. 263-267; VI (1865), fasc. 1, pp. 71-77, fasc. 2, pp. 123-135,
fasc. 3, pp. 153-163, fasc. 4, pp. 230-243. Sono, in tutto, nove lettere
scritte da Napoli tra il 5 dicembre 1864 e il 20 luglio 1865. La prima (1864,
fasc. 4), offre un ritratto dell'ambiente universitario napoletano (si parla
anche di F. Tocco, che disserta in sede di esame sulle prime categorie della
logica di Hegel). L’a. esprime la convinzione che la filosofia moderna può
trovare nuova vita solo a Napoli; indica poi nella teoria della “circolazione”
di S. lo strumento più efficace per eliminare dalla coscienza degli italiani i
residui di cattolicesimo medievale, e per 2483 favorire la costruzione di uno
stato moderno. La seconda lettera (1865, fasc. 1), tratta del Volksgeist
napoletano (avverso per sua natura ad ogni forma di assurda e fantastica trascendenza)eparla
della prolusione spaventiana del 1861; si conclude con un ritratto del
filosofo: “Er ist dabei eine màachtige, imposante Persònlichkeit, gross und
stark gebaut und von jenem phlegmatisch kraftigen Temperament, dem Hegel
bekanntlich die gròsste Energie und Griindlichkeit vindicirt” (p. 76). Nella
terza, quarta e quinta lettera (1865, fasc. 2), l’a. ritorna ancora
sull'ambiente napoletano (Vera, S.-Vera, ecc.), e ricorda la prolusione
bolognese di S. È nella terza lettera che Strter introduce un raffronto fra
Vera e S. (e Tari), assai fortunato (Gentile lo cita nel Discorso del 1900;
Croce lo ricorda nel suo panorama della vita letteraria a Napoli dopo il 1860;
ecc.): S. e Tari rappresentano a Napoli quella corrente a cui appartengono in
Germania K. Fischer e i suoi scolari, e che si orienta verso una revisione della
dialettica hegeliana su basi kantiane; Vera è la copia dignitosa,
italo-francese, del “vecchio hegeliano” tedesco, degli “ortodossi” di stretta
osservanza (p. 123). La sesta lettera (1869, fasc. 3) riassume la
“circolazione” del pensiero italiano, loda il saggio sulle Prime categorie, e
espone l’interpretazione spaventiana di Gioberti. Le lettere settima, ottava e
nona (1865, fasc. 4), sono dedicate agli scritti di S. su Bruno e Campanella. 147.
P. LUCIANI, Gioberti e la filosofia nuova italiana, 3 voll., Napoli 1866, 1869,
1872, pp. XXVIII-303, 335, 514. Cfr. n. 143. Tutti gli scritti di Gioberti — le
opere “essoteriche” (miranti “più a rinverdire il passato, che a gittare i semi
2484 dell'avvenire”; che riguardano la pratica piuttosto che la teoria, e
oppongono il “nazionale” al “forestiere”) e le opere “acroamatiche” (le opere
postume: hanno “carattere più scientifico che pratico”; riguardano l “avvenire”
della filosofia, della religione, della civiltà, e mirano a “scoprire il nuovo
aspetto della scienza e del cattolicismo, la nuova forma civile d’Italia, la
dialettica del secolo ventesimo”; vol. III, p. 429) — appaiono composti secondo
un disegno ben preciso e trovano una collocazione esatta entro un edificio armonico,
perfettamente coerente. Negando che vi sia contraddizione, in Gioberti, tra
filosofia essoterica (esposta e analizzata da L. nei primi due volumi) e
filosofia acroamatica (studiata nel terzo volume), l’a. intendetogliere alla
ricostruzione critica resa pubblica da S. nel 1863 [69] il suo fondamento: non
è vero che Gioberti si è arrestato a metà strada, lungo la via che porta a
Hegel (di qui deriverebbero le contraddizioni — in realtà, inesistenti — denunciate
da S.), ma, anzi, è andato “oltre” Hegel. Se si perde di vista il carattere
unitario e armonico del pensiero di Gioberti, se ci si arresta al Gioberti
“essoterico” (al Gioberti in apparenza “clericale”, “regressivo”, ecc.) si
favorisce lo sviluppo dell’hegelismo in Italia. Se si coglie il vero senso delle
Postuzze, si capirà che Gioberti è coerente, non solo, ma supera Hegel nella
dottrina di Dio, dell'uomo e dell’universo (vol. III, pp. 456 sg.; e v. pp.
460-468 per un confronto Hegel-Gioberti, che va tutto a vantaggio del secondo;
così come è superiore il “moto civile” italiano a quello tedesco). S. ha
giudicato Gioberti dall’alto di alcuni presupposti hegeliani (identità di
pensiero divino e pensiero umano; dottrina del sensibile e dell’intelligibile,
e del loro rapporto, ecc.) e si è preclusa la via al retto intendimento del
pensiero giobertiano; S. non capisce la soluzione “platonica” di 2485 Gioberti,
non capisce la dottrina dell’ “intuito”, capace di superare lo psicologismo
inaugurato da Cartesio (vol. I, pp. 96 sg.) e “concluso” da Hegel (vol. II, pp.
278 sg.), travisa — da psicologista — la distinzione giobertiana di
psicologismo e ontologismo (vol. I, pp. 267 sgg.), attribuisce falsamente a Gioberti
un’oscillazione tra due diversi concetti di intuito e di riflessione (vol. II,
pp. 304-306), non intende l’affermazione di Gioberti: l’ente è concreto (vol.
11, pp. 306 sg.), non intende il concetto di creazione (vol. II, pp. 378 sg.),
non riesce a capire quale posto occupi la Protologia nel sistema (vol. II, pp.
379 sg.), stravolge la teoria giobertiana dell’intelligibile (vol. II, pp.
320-323). Queste le critiche principali mosse dall’a. a S.; su di esse, e sul
giobertismo di L., v. ora G. De Crescenzo, La fortuna di Vincenzo Gioberti nel
mezzogiorno d'Italia, Brescia 1964, pp. 569 (la prima parte del volume, Pietro
Luciani e il giobertitmo meridionale, è un rifacimento e approfondimento di uno
studio pubblicato a Napoli nel 1960, con il titolo Pietro Luciani e il
giobertismo). Si legge qui qualche riserva sul tentativo di confutare“speculativamente”
Hegel in base al Gioberti; ma “... i lavori
storiografici di Pietro Luciani sul Gioberti costituiscono il
validissimo precedente, purtroppo ignorato, di tutta quella odierna
storiografia filosofica che ha reagito opportunamente alla artificiosa
interpretazione idealistica del Gioberti, la quale, iniziatasi con Bertrando
Spaventa, si è poi continuata col Fiorentino, col Gentile, col Saitta, con l’Anzilotti
e col Caramella” (pp. 67 sg.). 148. La questione della nostra Università
superiormente lasciata a mezzo che si ripiglia qui e si termina da M. TUDDONE,
in “Il Campo dei filosofi italiani” [Napoli], 2486 III (1867), pp. 452-479. L’autore
del precedente intervento [cfr. n. 145] è G. Salvia. Bisogna dargli un seguito,
perché “quello che rende monca finoggi la trattazione, e bisognevole di un supplimento,
si riduce a chiosare e discutere in simil guisa, per la logica un poco ma più
per la dialettica le cose replicate in contrario [a Palmieri] dallo Spaventa”
(p. 453). Per far questo l’a. divide la prolusione di S. in tre parti: “’’esordio
con la proposizione” (concetto di filosofia nazionale), la “confermazione” (le
prove storiche), la “conclusione” (la vera filosofia attuale è europea). La discussione
è molto faticosa, ma la conclusione è chiara: “questo discorso sulla
nazionalità della filosofia nostra è un cavalletto ben tormentoso per l’autore;
il quale avria certo preferito ad essa ogni altro tema, mettendosi al sicuro
dai divincolamenti, che gli convenne sopportare, e più o meno nascondere,
questa prima volta che ascendea in cattedra” (p. 455). Per l’hegeliano S., è
impossibile accettare l’idea di una filosofia “nazionale” italiana. 149. R.
MARIANO, La pbilosophie contemporaine en Italie. Essai de philosophie
hégélienne, Parigi 1868, pp. 162. Si occupa di Galluppi, Rosmini, Gioberti, A.
Franchi, e, nella conclusione, di A.Vera. Ma nell’introduzione discute (pp.
13-22) la questione della filosofia “nazionale” e la tesi spaventiana della
“circolazione” del pensiero italiano, per rigettarla; v. in particolare la
lunga nota alle pp. 14-20. S. subordina — falsamente — l’oggetto della
filosofia allo spirito nazionale, costruisce un’assurda equazione: Gioberti=Hegel,
introducendo un elemento di confusione; 2487 travisa Hegel, non solo, ma la
storia della filosofia e la stessa filosofia. A_p. 20 qualche riga sui Princìpi
di filosofia [76], appena pubblicati: quello di S. è un linguaggio tortuoso e ambiguo,
un hegelismo che non è hegelismo, una logica che vuol essere nuova, ma lo è in
modo pericoloso: genera l'equivoco, la confusione e l’indisciplina delle menti.
Molti anni dopo, nel vol. X degli Scritti vari (Dall’idealismo nuovo a quello
di Hegel, Firenze 1908) M. accenna a S. come responsabile dei nuovi sviluppi dell’idealismo
in Italia (cfr. la recensione di B. Croce, in “La Critica”, VI [1908], pp.
204-206). Un tono diverso nei giudizi di M. si coglieva nelle pagine di Uorzini
e idee (vol. VII degli Scritti vari), Firenze 1905. A p. 16 sg., S. è elogiato
per gli studi su Bruno; alle pp. 313 sgg. (nel “saggio biografico” su A. Vera
[Napoli 1887], qui ristampato, pp. 227 sgg.) si legge che S. è stato “un logico
e un metafisico di prima grandezza”, sordo alle tentazioni positivistiche, scettiche
o neokantiane. La sua figura è inseparabile da quella del Vera; ma non
riconobbe lo S., col Vera, il carattere solo universale della filosofia; se è
vero che il pensiero moderno nasce col Rinascimento, l’interpretazione di
Gioberti è tuttavia audace. Di Uomini e idee scrisse F. Tocco (Fra biografie e
quadri storici, “Il Marzocco”, Firenze, 25 giugno 1905), cogliendo l’occasione
per discutere dei rapporti di S. col Vera, e per ricordare l’insegnamento del maestro:
v. l'introduzione di questa bibliografia, p. 873. 150. F. MORGOTT, Hegel in
Italia, in “Il Campo dei filosofi italiani” [Torino], IV (1868), pp. 62-80; V
(1869), pp. 16-38. Si ricava da una nota che l’a., allora professore di
filosofia a Bichstadt, in Baviera, stava lavorando a una storia della 2488 fortuna
di Hegel in Italia, da pubblicare in tedesco. La traduzione dell’articolo è del
prof. F. Rossi. La prima parte è un’esposizione del pensiero di Vera (pp. 68
sgg) e di S. (pp. 75 sgg.); per S. l’a. si serve — e lo dichiara — dei Briefe
di Straeter [146]. M. si rammarica che ci siano in Italia filosofi che hanno
abbandonato la tradizione, abbracciando una filosofia straniera. Segnala
tuttavia con o cimento — nella seconda parte — il vasto moto di reazione all’idrillilnto
liano guidato da V. De Grazia, da M. Liberatore, dalle riviste “La scienza e la
fede” e “Civiltà cattolica”, e, ancora, da T. Mamiani, da N. Toni da V. Di Giovanni,
da G. Allievo e A. Galasso, da A. Conti. 151. P. SICILIANI, GX begeliani in
Italia, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, II (1868), vol. I, fasc.
6, pp.516-549. È un’ampia rassegna, in cui si discorre dei Principi di filosofia
di S. [76], del libro di De Meis: Dopo la laurea, del saggio sull’immortalità
dell'anima di M. Florenzi Waddington, del Pietro Pomponazzi di F. Fiorentino, A
proposito della “circolazione”, pur respingendo, almeno in soluzioni di S. (la
relazione Gioberti-Hegel è estrinseca), l’a. loda l’ “accortezza” e la
“prudenza” del filosofo, che ha saputo introdurre l’idealismo assoluto in Italia
presentandolo come il frutto della nostra più autentica tradizione. Nel saggio
sulle Prizze categorie [70], S. ha certo contribuito a rendere più “logico” il
sistema di Hegel, ma non l’ha reso,perquesto, più vero; l’a. si dichiara suo
conto incapace di penetrare quel buio dell’ “indeterminato”, da viti vrebbe
svilupparsi la logica. Sulle Prize categorie, Siciliani ritorna anche nel libro
Su/ 2489 rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze 1871, pp.
XVII-542, nel quale propone “via di mezzo” tra i due estremi rappresentati
dall’hegelismo e dal positivismo, appellandosi a Vico (v., ad es., pp. Il, 31).
Per le Prize categorie, cfr. pp. 396 sgg.: quando S. risponde a Trendelenburg,
“giusto nel momento che s’hanno a decidere le sorti della logica obbiettiva,
giusto nell’istante supremo in cui la logica dee poter rivestire natura e
valore di metafisica, egli cangia bruscamente posizione, e invoca il pensiero,
invoca l’astraente, invoca l’astrazione, e così dileguatasi a un tratto
l’obbiettività, ci fa divagare nel mondo delle pure forme, ed eccoci di bel
nuovo ricacciati e ravviluppati per entro alle fitte maglie della tela di
ragno!” (pp. 403 sg.). Il libro è da vedere anche per molti altri riferimenti a
S.: nell’avvertenza, sul tema del “rinnovamento” della filosofia italiana, è
discussa, accanto a quelle di Mamiani, Rosmini e Gioberti, la posizione di S. (specialmente
della Filosofia di Gioberti; e cfr. su questa opera anche le pp. 205 sg., 374,
455). Alle pp.115 sgg., 170 sgg., si discute l’interpretazione spaventiana di
Vico; sul rapporto Vera-Spaventa, v.. pp, 126 sgg.; sulla “circolazione”, pp.
189 sgg., 194 sgg.; sull’interpretazione di Rosmini 368 sgg. Siciliani fa
comparire S. tra gli interlocutori della “giornata sesta” (367-492) de La
critica nella filosofia zoologica del XIX secolo. Dialoghi, Napoli 1876, pp.
XXXI- 555. Il dialogo si svolge tra rappresentanti, sostenitori e critici di
tre scuole: quella dei cuvieristi, quella dei trasformisti e quella degli
idealisti. Nel dialogo si colgono allusioni all’intervento di S. nella polemica
sulle psicopatie [83], e alla sua discussione sul metodo delle scienze comparate
[74]; ma la conversazione investe soprattutto le teorie esposte da De Meis ne I
tipi animali; e, più in 2490 generale, il valore metodologico della dialettica
hegeliana. 152. A. TAGLIAFERRI, Ur saggio della modestia e serietà filosopra
dei nostri filosofi hegelisti, in “Il Campo dei filosofi italiani” Torino], IV
(1868), pp. 324-352; e in A. T., Saggi di critica filosofica e religiosa, vol.
I, Firenze 1882, pp. 1-28. Lo scritto di T. è una pronta replica alla “lettera”
Paolottismo, positivismo, razionalismo [78]. Il tono è indignato e
predicatorio; l’a. definisce “indegno” di un filosofo lo scritto di S.,
respinge l’aggettivo “paolotto”, denuncia l’altezzosità di S. nei confronti di
Mamiani, accetta — ma a disdoro dell’hegelismo — la continuità (anzi, per T., l'identità)
tra materialismo del Settecento eFiosofiahegeliana, condanna l’adorazione del
Dio-stato. Respinge, ancora, il nesso Vico-Kant stabilito da S. (Vico
distingueva tra intelletto divino e intelleno umano, e il verumz ipsum factum
non è accettabile fuori di quella distinzione), e si duole delle “nebbie
teutoniche” trapiantate in Italia. Nelle ultime pagine, si scusa della
“vivacità” del proprio intervento, provocata del resto dal tono “beffardo” di
S.; e dichiara di riconoscere la parte di vero che c’è in Hegel: “l'universalità
e la comprensione del concepire” (ma l’universalità è dall’armonia del cosmo,
non dall’unità di Dio e mondo) e la “presenzialità” del divino nel mondo e
nell’uomo (che non va intesa, tuttavia, né come assoluta immedesimazione né
come assoluta separazione). Cfr. anche n. 156. 153. A. C. DE MEIS, Deus
creavit, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, III (1869), serie II,
vol. I, 2491 fasc. 5-6, pp. 724-773. È un dialogo, in cui si discute il
problema studiato da S. nelle Prize categorie della logica di Hegel [70]; uno
degli interlocutori (Giorgio) espone e soomene la soluzione spaventiana.
Gentile interpreta il Deus creavit — nelle sue Origini della filosofia
contemporanea in Italia (v. nell'edizione
e nel volume citato più avanti [cfr. n. 193] le pp. 61 sgg.) — come una disputa
ideale tra i due filosofi; per A. Del Vecchio Veneziani (La vita e l’opera di
Angelo Camillo de Meis, Bologna 1921, pp. XXIV-333) il dialogo è nato
probabilmente da una conversazione realmente avvenuta (v. pp. 118 sgg.). Il
volume della Del Vecchio Veneziani è utile per seguire alcune vicende di S.
attraverso la biografia dell’amico (e, per un confronto tra S. e De Meis, v.
pp.320 sg.). Due pagine dell’opera di De Meis Dopo la laurea (2 voll., Bologna
1868-69; vol. I, pp. 289 sg.) sono dedicate a un elogio di S.; del De Meis si
veda anche il discorso tenuto a Bologna per l’inaugurazione dell’anno
accademico 1886-87, Darwin e la scienza moderna (Bologna 1886, pp. 35), in cui l’a.
aderisce alla nota tesi spaventiana secondo la quale l’idealismo hegeliano è la
“profezia”, cioè l’ “organismo” e la “correzione” anticipata dalla scienza
moderna (v. pp. 32 sg.). Cfr. anche nn. 161, 162. 154. L. FERRI, Essaz sur
l’histoire de la philosophie en Italie au dix-neuvième siècle, 2 voll, Parigi
1869, pp. IX- 496, 359. S. ha ragione come filosofo, quando cerca di trovare nell’ultimo
Gioberti un punto d’incontro con la filosofia 2492 tedesca: questo punto
d’incontro, di fatto, c'è (F. ne tiene conto: la discussione dell’ultimo
Gioberti fa da introduzione all'esposizione dell’idealisimo italiano; il libro
quinto, dedicato ai filosofi idealisti, si intitola: Derrière philosophie de
Gioberti). Ma ha torto come storico, perché, come Hegel, procede del tutto
apriori; la storia è, per lui, una generazione o genealogia di sistemi; S.
predilige le ipotesi e ignora i fatti, l’osservazione dei fatti: di qui la
debolezza della teoria della circolazione e della ricostruzione storica proposta
nelle prime lezioni napoletane. Nella Filosofia di Gioberti [69] S. non discute
le dottrine del filosofo tenendo conto del loro sviluppo storico; le diverse
fasi del pensiero giobertiano sono per lui compresenti, e S. ha buon gioco nel moltiplicare
le contraddizioni del sistema. A S. sono dedicate in particolare le pp. 193-206
del secondo volume (capitolo terzo del libro quinto). 155. P. SICILIANI, Su/
rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze 1871, pp. XVII-452. Choi.
156.A. TAGLIAFERRI, I/ materialismo plebeo e il materialismo aristocratico
(1872); in A. T., Saggi di critica filosofica e religiosa, vol. I, Firenze
1882, pp. 73-100. L’articolo è datato: agosto 1872; ma non ho rintracciato indicazioni
relative alla prima pubblicazione. È un’analisi della polemica sulle psicopatie
[83]. Tra l’idealismo di S., il “semi-materialismo” di Tommasi e il “puro
materialismo” di De Crecchio, le differenze sono solo accidentali (quello di De
Crecchio è, semmai, un materialismo “plebeo” o “schietto”; il materialismo di
S. è “aristocratico” © 2493 “ipocrita”). Gli autori della polemica sono
concordi nel riconoscere che l’anima senza il corpo non è, e riducono l’uomo
alla sua pura “esistenza fenomenica”: tanto basta a qualificarli. S. critica, e
con validi argomenti, il materialismo volgare; ma il suo idealismo non gli
fornisce un principio capace di scongiurarne le conseguenze morali, religiose,
e sociali (l’a. accenna anche ai “comunisti” di Parigi, che hanno senz'altro
ragione, se si nega l’al di là). L'hegelismo ha una parte vera e buona [cfr. n.
152], ma è viziato alla base dalla identificazione di Dio e mondo. Per
avvalorare il rilievo della insufficienza della morale idealistica, T. esamina,
nelle ultime pagine, la recensione di S. a La vita di G. Bruno scritta da D.
Berti [82]. E conclude: “Nel vostro aristocratico materialismo, non vi lasciate
vincere di lealtà e sincerità da’ materialisti plebei, che voi combattete, ma
che pur sono i vostri fratelli carnali”. Dei Saggi di T. v. la recensione di B.
Labanca in “La filosofia delle scuole italiane”, XIV (1883), vol. XXII, pp. 302-314.
157. F. ACRI, Critica di alcune critiche di Spaventa, Fiorentino, Imbriani su i
nostri filosofi moderni. Lettera... al prof. Fiorentino, Bologna 1875, pp. 153.
Cfr. n. 158. 158. F. FIORENTINO, La filosofia contemporanea in Italia.
Risposta... al professore F. Acri, Napoli 1876, pp. XVI-474, Nel volume è
ristampato, alle pp. 1-89, il testo italiano di uno scritto di F. del 1874:
Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia dopo l’ultima
rivoluzione del 7860, 2494 già pubblicato in tedesco nel secondo volume del
periodico Italia edito da K. Hillebrand (un estratto dell’articolo, che porta
la data 19 settembre 1874, e che era probabilmente posseduto dallo S., è
conservato presso la Biblioteca civica A. Mai di Bergamo: F. F., Die
philosophische Bewegung Italiens seit 1860, Separatabdruck aus K. Hillebrands
Italia, Bd. II, Lipsia, s. d., pp. 56). Alla Philosophische Bewegung Italiens
replicò F. Acri con una Critica di alcune critiche... [v. oltre; e cfr. n.
157]; a cui F. fa seguire ora, alle pp. 91- 464 de La filosofia contemporanea
in Italia, una Risposta al prof. F. Acri. La polemica ebbe ancora un seguito
con la pubblicazione dell’opuscolo di F. Acri I critici della critica... [v.
oltre; e cfr. n. 159]; nel 1911, Acri ristamperà tutti i suoi interventi nella
vicenda, in una raccolta intitolata Dialettica turbata [186]. Nelle
Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia pubblicate anche in F.
Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli 1876, pp.
1-75), l'a. ricorda che la ricostruzione di tutta la storia della filosofia
italiana, dal Rinascimento a oggi, è opera di B. S., il cui lavoro “sta a capo
di tutto quel movimento storico e critico, che dura tuttavia, e che è il
carattere precipuo della nostra filosofia presente” (p. 12). Parla del gruppo
dei primi hegeliani, e riassume i risultati dei lavori storici di S.,
soffermandosi sugli studi bruniani, sulla Filosofia di Kant, del 1860 (“il miglior
modello di critica filosofica, che vanti l’Italia contemporane”, p. 23), e
sull’interpretazione di Galluppi, Rosmini e Gioberti; la critica di S. a
Gioberti è la più ampia e la “più profonda” tra quelle elaborate dal maestro
(p. 29). S. non è un ripetitore di Hegel, ma ne ha compreso lo spirito;l’a.accenna
all’originalità delle Prime categorie (p. 31), alla valutazione positiva della
scuola di Herbart, per la psicologia (p. 32), e al riconoscimento della
“ragionevole 2495 esigenza” del positivismo “per lo studio dei fatti storici” (ivi).
S., ribadisce Fiorentino, non è un hegeliano ortodosso, e crede in una “nuova”
metafisica, i cui caratteri sono delineati nella lettera del 1868 Paolottismo,
positivismo, razionalismo. Alle pp. 33 sgg., F. tratta di Vera (e dei suoi rapporti
con S.), di Mariano, di Franchi, di Mamiani (e del “mamianista” L. Ferri; l'a.
coglie l’occasione per ribattere le obbiezioni a S. contenute nell’ Essai del
1869 [cfr. n. 154]), del Fornari, ecc. Il giudizio decisamente negativo
espresso, nelle Considerazioni, sul Fornari (già attaccato da V. Imbriani per la
sua “estetica”), e, più ancora, l'adesione incondizionata alle tesi
storiografiche di S., provocarono la prima reazione di F. Acri. Nella Critica
di alcune critiche (il libro è stato recensito favorevolmente da T. Mamiani in
“La filosofia delle scuole italiane”, VII [1876], vol. XIII, pp. 138-142; v. la
ristampa della recensione in Dialettica turbata cfr. n. 186], pp. 127-132),
Acri sostiene che il panorama delineato da Fiorentino è altrettanto sbagliato
quanto lo è la ricostruzione spaventiana della filosofia moderna: l’interpretazione
di Galluppi (pp. 9-39), l'interpretazione di Rosmini (pp. 40-68) e quella di
Gioberti (pp. 68-113). Acri cerca di mostrare l'infondatezza delle conclusioni
di S., contrapponendo ad affermazione negazione e a negazione affermazione
(come dice lo stesso a.). Va segnalato anche, in queste pagine, il tentativo
dell’Acri di provare che la “lettura” spaventiana di Spinoza discende
direttamente dalle pagine della Geschichte der neuern Philosophie di K. Fischer
(sull'argomento Acri ritornerà in uno scritto del 1877 edito a Firenze: Una
nuova esposizione del sistema di Spinoza, ristampato nel 1911 [cfr. n. 186];
vedine la recensione in “La filosofia delle scuole italiane”, VIII, 1877, vol.
XVI, pp. 255-258). Alle pp. 135 sgg. della Critica, Acri si occupa 2496 dello
scritto di Imbriani su V. Fornari estetico, apparso nel “Giornale napoletano”
del 1872. Nella Risposta di Fiorentino al prof. Acri (La filosofia contemporanea...,
pp. 91 sgg.) sono ribattuteuna per una le obbiezioni di Acri a S. (cfr. in
particolare pp. 175-329). S. non intervenne direttamente in questa polemica
contro Acri; cfr., nella Filosofia contemporanea, una sua lettera a Fiorentino
del 10 marzo 1876 (pp. IX-XV; a p. XVI, una lettera allo stesso di V.
Imbriani). Nello stesso volume, pp. 467-471, è ristampato tuttavia l’articolo
scritto da S. contro Fornari e pubblicato nel 1876 dal “Fanfulla” di Roma [87].
Dell’opuscolo di Acri in risposta alla risposta di Fiorentino [cfr. n. 159]va
detto che l’a. racconta, nella prima parte, un sogno, in cui S., Fiorentino e
Imbriani compaiono in veste di filosofi che bisticciano (il caposcuola rampogna
i discepoli per l’imprudenza dei loro attacchi); nella seconda parte l'argomento
è continuato sotto forma di dialogo tra l’a. e un amico. La polemica tra gli
hegeliani e F. Acri è ricordata da diversi autori (v. sopra, introd., pp. 871
sg.); ma v. le pagine di Croce ne La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900
[cfr. n. 185] e, soprattutto, il volume di L. Russo su F. De Sanctis (nell’ed.
cit. al n. 210, pp. 249 sgg.). 159. F. ACRI, I critici della critica di alcune
critiche, cioè i professori Spaventa, Fiorentino e Imbriani apparsi in sogno al
professore Acri, Bologna 1876, pp. 44. Cfr. n. 158. 160. P. SICILIANI, La
critica nella filosofia zoologica 2497 del XIX secolo. Dialoghi, Napoli 1876,
pp. XXX1I-555. Christi. dl 161. R. DE CESARE, Bertrando Spaventa, in “Fanfulla della
domenica” [Roma], V (1883), n. 9, 4 marzo; ristampato da G. Gentile in
“Giornale critico della filosofia italiana”, VII (1926), pp. 378-382, con il
titolo: Una notizia biografica di B. Spaventa. Necrologio del filosofo. De
Cesare afferma, tra l’altro, che B. collaborò con articoli al giornale di
Silvio, il “Nazionale”. Nel ristampare il breve profilo biografico di S.,
Gentile segnala l’importanza di quella indicazione, ma anche alcune inesattezze
dell’a. (p. 382). Qualche anno dopo, Gentile renderà nota la fonte
dell’articolo (e delle inesattezze): il testo di alcuni appunti di De Meis,
consegnati a De Cesare per la pubblicazione del necrologio (A. C. De Meis,
Ricordi di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXI
[1940], pp. 279-281). 162. A. C. DE MEIS, Bertrando Spaventa, in “Gazzettadell'Emilia”,XXIX,
23 febbraio 1883. Il testo di questo necrologio è riprodotto a p. XVII n. I della
bibliografia degli scritti di De Meis raccolta nel volume di A. Del Vecchio
Veneziani [cfr. n. 153]. 163. F. FIORENTINO, Commemorazione di B. Spaventa,
letta nell'aula magna dell’Università di Napoli il 22 aprile 1883, in
“Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze morali e
politiche” di Napoli, XXII (1883, aprile), pp. 35-59. 2498 È il primo ampio
saggio biografico su S.; citato come fonte dal Gentile nel suo Discorso del
1900 [cfr. n. 96]. F. ricorda, oltre alle vicende del filosofo, le sue opere principali,
delineando in breve anche la tesi dello scritto, ancora inedito, Esperienza e
metafisica [94]. Tratto fondamentale del filosofo, l’ “ingegno critico”, e l'indipendenza
del pensiero; doti che ben corrispondono alla fermezza del carattere, alla
severità, all’austerità e alla franchezza, talvolta “ruvida”, dell’uomo. La
commemorazione è pubblicata anche nel “Giornale napoletano di filosofia e
lettere”, febbraio-marzo 1883, pp. 473-499, negli “Atti” dell’Accademia di
Napoli, XVIII (1884; con una bibliografia e indicazioni su lavori inediti di S.),
nelle Onoranze funebri a Bertrando Spaventa [164], pp. 37-63. Vedila ora in
Fiorentino, Ritratti storici e saggi critici, Firenze 1935, PP. 299-319. 164.
Onoranze funebri a Bertrando Spaventa, Napoli 1883, pp. 63. Contiene: una
premessa di D. Jaja (pp. 3-5), il testo dei discorsi pronunciati da A. Vera
(pp. 9-10), da E. Pessina (pp. 11-17), da R. Bonghi (pp. 18-19), da L. Miraglia
(p. 20), da D. Jaja (p. 21), da G. Abignente (pp. 22-23), da R. Cotugno (pp.
24-25), da O. Testa (p. 26). A p. 27, il frammento di un discorso di F.
D’Ovidio; alle pp. 37-63, la ristampa della commemorazione di F. Fiorentino
[163]. 165. K.
WERNER, Die ttalienische Philosophie des neunzehbnten fabrbunderts, 5 voll.,
Vienna 1884-1886, pp. XV-472,
XV-426, XIV-424, IX-281, XI-427. 2499 La seconda parte (Die pantbeistischhe
Transformation des Ontologismus im italienischen Hegelianismus, pp. 232-333) del
terzo volume (Die kritische Zersetzunr, und speculative Umbildung des
Ontologismus) è dedicata agli hegeliani. L’a., ricorda le tesi delle prime
lezioni napoletane di S.,eillustra i caratteri che distinguono le due
principali correnti dell’hegelismo, rappresentate da Vera e S. (Vera ortodosso;
S. media Hegel con la tradizione idealistica italiana, e con le esigenze del
realismo contemporaneo, antiidealistico). A_S. sono dedicate in particolare le
pp. 264-287; per esporne la filosofia, W. riassume gli Studi sull’etica
hegeliana [80]. 166. F. MASCI, Relazione per la proposta di un monumento a
Bertrando Spaventa, s. 1., s. d. [Napoli 1885 21,pps12. Ribadisce un giudizio
sul quale concordano gli scolari di S.: il filosofo napoletano fu soprattutto
un ricercatore, uno spirito critico, che non trasmise dogmi ai suoi discepoli,
ma volle e seppe sviluppare in loro l’attitudine alla ricerca. S. ebbe il
merito di far conoscere all’Italia la filosofia di Kant, e l’idealismo
assoluto; agli occhi dell’a., quest'ultimo appare come un semplice momento,
certo necessario, ma ormai superato dal “ritorno” a Kant e della “vigorosa
ripresa dell’empirismo” (v. in particolare pp. 7 sgg.). Una recensione dello
scritto di M. si legge nella “Filosofia delle scuole italiane”, XVI (1885),
vol. XXXI, pp. 303-305. 167. M. KERBAKER, Per l'inaugurazione dei monumenti a
L. Settembrini e B. Spaventa, Napoli 1886, pp. 24. Nel discorso di K.,
Settembrini e S. sono riavvicinati e 2500 elogiati: a) per l’ “indipendenza”
del loro pensiero (pp. 5 sgg.; in S. “la libera attività del pensiero era più
inquisitiva che ermeneutica”; l’a. sottolinea il temperamento socratico, la
capacità critica del filosofo; il miglior frutto di questa virtù è
rappresentato dalle lezioni sulla filosofia italiana: “comprese pel primo lo
Spaventa l’importanza del problema storico, quello cioè di scoprire le vere e
genuine tradizioni filosofiche del genio italiano e quindi la sua propria attitudine
e vocazione scientifica”, p. 12); b), per “il senno moderato e moderatore, il
senso della giusta misura nel giudicare i fatti del mondo reale e trarne le
norme regolatrici della civil convivenza”, pp. 15 sg. (cfr. pp. 17 sg.: S. “non
credeva che il riscatto morale del popolo italiano fosse compiuto pel sol fatto
della sua emancipazione civile e politica. Scorgeva invece e predicava la
necessità che si rifacessero faticosamente i materiali dell’edificio, si sostituisse
cioè a poco a poco,nellacoscienzapubblica,ilconcetto dello stato organico,
operaio, intraprendente a quello dello stato meccanico, stazionario,
pacifico”). 168. V. LAUREANI, Giordano Bruno e Bertrando Spaventa, Lanciano
1888, pp. 14. Sembra promettere, all’inizio, un discorso sulle interpretazioni
spaventiane di Bruno; ma si esaurisce in un generico profilo del pensiero di S.
169. L. FERRI, Ur Zibro postumo di Bertrando Spaventa. La dottrina della
cognizione nell’Heghelianismo, in “Rivista italiana di filosofia”, anno IV,
vol. I (1889), marzo-aprile, pp. 129-158; Il problema della coscienza divina in
un libro postumo di Bertrando Spaventa, in “Rivista italiana di filosofia”,
anno V, vol. I (1890), 2501 maggio-giugno, pp. 257-279. Due saggi su Esperienza
e metafisica [94]. Nel primo, F. dichiara di accogliere la critica spaventiana
del realismo ingenuo, ma di dover rigettare la concezione idealistica della “natura
del vero, ossia della relazione del pensiero con l'essere” (p. 135). S. difende
contro i kantiani il concetto dell’ “assoluto metodologico inseparabile
dall'andamento del pensiero in quanto esso è guidato... [dalla]... presunta e dimostrabile
unità” di “assoluto naturale, dialettico e religioso” (p.. 138); respinge
l’idea spenceriana dell’inconoscibile,
il concetto di “posizione assoluta” di Herbart, e la soluzione darwinistica,
che poggia “sopra fatti esteriori e dati empirici” (p. 139). Crede di aver
dimostrato che l’uomo è “capace di pareggiare col pensiero l'essere”, che è
capace di “conseguire il pensiero assoluto, l'assoluto sapere” (p. 141). Ma il
timore del dualismo spinge S. “a diminuire da una parte l’ingerenza
dell'esterno, e accrescere talmente quella dell'interno nella funzione
conoscitiva, che alla fine la seconda rimane sola” (p. 145; e cfr. tutta la
discussione di pp. 151 sgg., dove si denuncia l’indebita identificazione idealistica
di processi della coscienza e processi della conoscenza, che conduce
all'affermazione della presenza dell'essere infinito nell'uomo: F. pensa che si
debba mantenere un concetto “ben circoscritto” dell’ “immanenza divina”, per
salvare sia la “personalità” divina, sia quella umana, pp. 156 sg.). Per F. si
deve continuare a riconoscere la presenza di dati irriducibili all’attività
psichica; la relatività della conoscenzanonva intesa semplicemente in relazione
alla sua estensione, giacché si fonda sulla “materia” stessa del conoscere (p.
147). Nel secondo saggio, riprendendo il tema, già affrontato 2502 nella prima
parte, del rapporto tra pensiero divino (“inconscio”, secondo S.) e pensiero
umano (nel quale soltanto si realizzerebbe il sapere come coscienza), F. difende
contro S. le ragioni del teismo. 170. S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861. Lettere
scritti documenti pubblicati da B. Croce, Napoli 1898, pp. IX- 314; Bari 19232,
pp. XII-373. Gfr: n.125, 171. G. GENTILE, Della vita e degli scritti di Bertrando
Spaventa, in B. S., Scritti filosofici, raccolti e pubblicati... da G. Gentile,
Napoli 1900, pp. XXI-CLII. Cfr. n. 96. 172. D. JAJA, Prefazione a B. S.,
Scritti filosofici, raccolti e pubblicati... da G. Gentile, Napoli 1900, pp. VILXVII.
Cfr. n. 96. 173. B. VARISCO, Razionalismo e empirismo, in “Rivista di
filosofia, pedagogia e scienze affini”, III (1902), vol. VI, n. 3, pp. 298-315.
L’a. si propone di “esporre e di criticare i concetti fondamentali del
razionalismo kantiano e dell’hegeliano; e di dimostrare la possibilità d’un
empirismo, soddisfacente alle esigenze, che queste due dottrine hanno avuto il
merito di mettere in luce”. Nella sua ricerca, V. tiene presenti i saggi
spaventiani raccolti negli Scritti filosofici [96]. L’a. 2503 riconosce a S. il
merito di aver sostenuto le ragioni del “meccanismo”, di averne ammessa la
necessità per la conoscenza dei fenomeni psichici. Ma al di là di alcuni parziali
riconoscimenti, va detto che è fallita la “correzione” di Kant, tentata da
Hegel e da S. L'esigenza di salvare l’oggettività del conoscere non può
ritenersi soddisfatta attraverso la “prova” dell'identità di essere e pensiero,
escogitata da S. nelle Prizze categorie. E la radice della difficoltà va
ritrovata, in fondo, nello stesso Kant, che ha considerato la sensazione come
un fatto soltanto soggettivo, e non come un dato che si “impone” a noi. All’articolo
di V. replica prontamente Gentile [cfr. n. 174], rivendicando a sé il diritto
di rispondere in nome di S., e ribadendo, tra l’altro, la necessità di
riprendere la tradizione rappresentata dal filosofo napoletano. La risposta alle
difficoltà di V. è già contenuta nel saggio sulle Prize categorie. Il critico
fraintende S.(eHegel), perché confonde fenomenologia e logica, confonde una
questione di ordine gnoseologico con una questione di ordine logico © metafisico.
Un argomento, su cui Gentile insiste per avvalorare questa sua osservazione,
consiste nel rilievo della impossibilità di richiamarsi al principio di
contraddizione, nella discussione del rapporto essere-nulla: impossibilità ben nota,
oltre che allo S., allo stesso Trendelenburg, ma non intesa da Varisco. Alla
risposta di Gentile, V. replica con lo scritto: Per /a critica, sulla stessa
rivista, nel fascicolo di ottobre del medesimo anno (pp. 377-399). Gentile
chiude la discussione con: Polemica hegeliana, Napoli 1902, pp. 22. I due
scritti di Gentile vedili anche ristampati in Saggi critici, serie prima, Napoli
1921, pp. 45-67, 69-87. 174. G. GENTILE, Filosofia e empirismo, in “Rivista di 2504
filosofia, pedagogia e scienze affini”, III (1902), vol. VI, nn. 5-6, pp.
588-604. Cfr. n. 173. 174 bis. N. Lo PIANO, L’begelismo a Napoli, Potenza 1903,
pp. 72. Nel saggio sono indicate le ragioni — politiche e religiose, oltre che
filosofiche — della fioritura dell’hegelismo a Napoli, e quelle del suo arresto
o della sua “mancata diffusione”. Il secondo tema è trattato — tra l’altro —
attraverso il ricorso a note argomentazioni (cfr. p. 68: “Alla mente italiana,
dotata da natura di forme troppo originali per soffrire qualunque maniera
d’imitazione; al pensiero italiano, naturalmente bisognoso di realtà e di vita,
mal si convengono le astrazioni, spesse volte, troppo vuote dei Tedeschi”); ma
proprio questo taglio del discorso consente all’a. di lodare in S. la figura
del mediatore (v. il paragrafo XV, pp. 69-71, Ragioni del maggior credito e
fama dello Spaventa rispetto agli altri begeliani; e cfr. p. 69: “Ha seguito
Hegel non da noioso ripetitore, né da fedele e servile interprete, ma se ne è assimilato
lo spirito più che le formule e le parole. È l’anello di congiunzione tra
l’idealismo di Gioberti e quello di Hegel; è un moderatore o meglio il termine
medio tra la filosofia esclusivamente nazionale e l’hegelismo puro...”). Nei
paragrafi decimo e undicesimo (pp. 45-58) l’a, riassume Ia storia della
filosofia italiana elaborata da S., la sua interpretazione delle prime
categorie della logica di Hegel, e le tesi di Esperienza e metafisica; in
alcuni punti (v. ad es. p. 55, per il parallelo S.-Marx) il saggio sembra
riflettere — ma senza espliciti riferimenti — qualche indicazione contenuta nel
discorso premesso da Gentile all’edizione degli Scritti 2505 filosofici di S.
[96]. 175. G. GENTILE, Prefazione a B. S., Principi di etica, Napoli 1904. Cfr.
n. 97. 176. N. SCHIAVONI, Silvio e Bertrando Spaventa, lettera all'avv. Michele
Crisafulli (13 dicembre 1903); in Onoranze al prof. Vincenzo Lilla, Messina
1904, pp. 311- 314. È un “ricordo” dei fratelli S.; ma riguarda soprattutto Silvio.
177. G. GENTILE, Prefazione a B. S., Da Socrate a Hegel, Bari 1905. Cfr. n. 98.
178. R. MARIANO, Uorzini e idee (vol. VIII degli Scritti vari), Firenze 1905,
pp. 488. Cfr. n. 149. 179. F. TOCCO, Fra biografie e quadri storici, in “Il Marzocco”
[Firenze], 25 giugno 1905. Cfr. n. 149. 180. B. CROCE, Giovanni Bovio e la
poesia della filosofia, parte prima, in “La Critica”, V (1907), pp. 335- 2506 361.
Contiene alcune pagine su Vito Fornari e B. S. (sullo S. v. in partico lare pp.
343-348), ristampate più tardi in B. C., La letteratura della nuova Italia.
Saggi critici, qui le citazioni sono tratte dalla seconda edizione (1921) del
primo volume (lo scritto: V. Fornari-B. Spaventa occupa le pp. 379-391 SU 8. v.
pp. 385-391). Fornari viene incontrato da C. in “una visita di congedo, se non
proprio di riverenza, alla prosa italiana del buon vecchio tempo, con le sue
avvizzite graziette e moine” (p. 379). S. Si schierò contro la tradizione dei
“linguai e frasaioli” (p. 385), in forza del suo atteggiamento critico (anche
rispetto a Hegel), e della sua attenzione alle nuove forme di pensiero. È un
merito che gli va riconosciuto, “quale che sia il giudizio che si porti sulla
sua filosofia” (p. 385). A Fornari S. oppone l’ “asciuttezza del discorso, che aborre
la divagazione e la chiacchiera” (p. 386), e una eloquenza, che è tuttavia
“virilmente semplice”. Croce ricorda il vigore polemico del vecchio hegeliano,
precisando che il “suo temperamento lo portava non all’ironia, ma al sarcasmo e
alla rappresentazione grottesca” (p. 388). Di questo tratto del carattere di S.
costituisce un documento la lettera contro Fornari, del 1876, G/ spaventiani
spaventati [87]. 181. G. BARZELLOTTI, Due filosofi italiani, Augusto Conti e
Carlo Cantoni, in “Nuova Antologia”, 16 luglio 1908, pp. 177-192; e in G. B.,
L’opera storica della filosofia, Milano, s.d., pp. 305-334. Nelle ultime pagine
dell’articolo, B. muove alcune obbiezioni al “programma” degli hegeliani di
Napoli — e, in 2507 particolare, di S. — che provocarono una risposta di
Gentile [cfr. n. 182]. 182. G. GENTILE, Per la sincerità della critica e per l'esattezza
storica. Risposta al prof. Barzellotti, in “La Critica”, VI (1908), pp.
395-400; e in G. G., Saggi critici, serie seconda, Firenze 1927, pp. 209-216
(con il titolo: False accuse contro lo Spaventa. Risposta...). La risposta di
G. all’articolo di B. [cfr. n. 181] è una difesa della tesi della
“circolazione” e un richiamo a una più corretta lettura degli scritti di S.
Secondo B., S. avrebbe voluto trapiantare in Italia il sistema di Hegel, questo
prodotto “nazionale” della Germania, senzatenerconto delle differenze
specifiche dei due linguaggi e delle due mentalità, italiana e tedesca; avrebbe
mostrato, ancora, di mancare affatto di “senso storico” nella sua
interpretazione di Rosmini e di Gioberti, e con la sua affermazione del carattere
“solamente europeo” della filosofia moderna. Nella sua risposta, G. mostra che
le accuse di B. si fondano su di una interpretazione affrettata de La filosofia
italiana; e che, in particolare, l’attribuzione a S. del giudizio: la filosofia
è solamente europea, nasce da un errore materiale di lettura. 183. G. GENTILE,
prefazione a B. S., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia
europea, Bari 1908; terza edizione, Bari 1926. Cfr. n. 99. 184. R. MARIANO,
Dall’idealismo nuovo a quello di Hegel (vol. X degli Scritti vari), Firenze
1908, pp. XXXII- 2508 459. Cfr. n. 149. 185. B. CROCE, La vita letteraria a
Napoli dal 1860 al 1900, in “La Critica”, VII (1909), pp. 325-351, 405-423; VII
(1910), pp. 211-221, 241-262. Ampio panorama (ristampato in B. C., La
letteratura della nuova Italia. Saggi critici; qui si cita la sesta edizione,
Bari 1954, vol. IV, pp. 267-355) della cultura universitaria e extrauniversitaria
di Napoli nella seconda metà dell'Ottocento; con indicazioni ancora preziose
sulla vita delle accademie e delle biblioteche, sulle riviste, sul teatro e sul
giornalismo; sulla Società di storia patria, ecc. Il nome di S. vi compare più
volte, e subito a p. 271 (S. rappresentò “nel modo più visibile” la “trionfante
rivoluzione intellettuale”); qui il filosofo è legato al De Sanctis (e al Tari e
al Settembrini) con un giudizio (erano, più che insegnanti, “educatori ed
eccitatori di tutte le forze morali”, p. 295) che sarà poi ripreso e variamente
accentuato da altri studiosi. Le pp. 271 sgg. offrono un quadro assai
particolareggiato delle reazioni all’hegelismo di S. da parte dei giobertiani,
dei seguaci di V. Fornari, e di alcuni “ultraprogressisti” in filosofia e
politica (più o meno influenzati dal Mazzini). Degli scolari di S. (ma la sua
scuola fu tutt'altro che una “chiesa”, p. 282) Si discorre alle pp. 281-286.
Oltre alle pagine (con richiami alle testimonianze degli stranieri: di T. Straeter
[cfr. n. 146], di M. Monnier, di I. Taine, ecc.) sulla vita dell’università
napoletana, e sulla sua decadenzadopoil1883-85 (v. pp. 328 sgg.), sono da
vedere in particolare quelle dedicate alle riviste (pp. 306-314), che
contengono le indicazioni essenziali sugli scritti polemici di hegeliani e 2509
antihegeliani (polemiche di Fiorentino, Imbriani, S., con V. Fornari, F. Acri,
ecc.). 186. F. ACRI, Dialettica turbata, Bologna 1911, pp. VIII-262. Nella
prefazione l’a. dichiara i sentimenti (assai delicati, e malinconici) che prova
nel ristampare i documenti della disputa del 1875-76. Ripubblica qui: 1) con il
titolo La 7754 disputa con il Fiorentino e lo Spaventa e l’Imbriani, pp. 1- 103,
la Critica di alcune critiche del 1875 [157]; 2) col titolo Un sogno di B.
Spaventa, pp. 104-110, la lettera di S. Gl spaventiani spaventati [87], con
commenti in parentesi; 3) col titolo: Sogno di F. Acri, e Un dialogo dopo il
sogno, pp. 111-122, 123-127, lo scritto del 1876: I critici della critica... [159];
alle pp. 127-132, la recensione di Mamiani alla Critica del 1875 [158]; alle
pp. 133-243, la Nuova interpretazione dello Spinoza [158], seguita, pp.
244-262, da: I/ Fiorentino e lo spirito dello Spinoza celato entro una
fiammella. 187. G. GENTILE, prefazione a B. S., La politica dei gesuiti nel
secolo XVI e nel XIX. Polemica con la “Civiltà cattolica” (1854-1855),
Milano-Roma-Napoli 1911. Cfr. n. 101. 188. G. GENTILE, prefazione a B. S.,
Logica e metafisica, nuova edizione con l’aggiunta di parti inedite, Bari 1911.
Cfr. n. 102. 2510 189. B. CROCE, Noterelle di critica hegeliana. I. Il “primo”
o il “cominciamento”, in “La Critica”, X (1912), pp. 370-374. La breve nota (ad
essa si può collegare, per un riferimento esplicito a S., la discussione dello
studio di A. Moni, La dialettica positiva ossia il concetto del divenire, Teramo
1910, apparsa nella stessa annata della “Critica”, pp. 294-310; i due scritti
di C. sono stati poi raccolti nel Saggio sullo Hegel, Bari 1913, pp. 177-184,
più volte ristampato) precisa in termini chiari e definitivi la distanza che
l’a. volle frapporre fra sé e il vecchio hegeliano (per altri giudizi di C. su
S., formulati per lo più incidentalmente in pagine non dedicate al filosofo, v.
l’introduzione di questa bibliografia, pp. 880 sgg.). C. non attribuisce
dignità di problema alla questione del “primo scientifico” o del “cominciamento”,
e rifiuta come vana ogni esercitazione, per ingegnosa che sia, sul tema delle
prime categorie della logica di Hegel. Dando credito alla richiesta di una
“prova” per il principio della scienza, S. ha finito con l’escogitare una
soluzione davvero insostenibile: quella che fa nascere la filosofia da un dato
immediato epperò non provato (il “primo” della fenomenologia), e che indica poi
nell’ “idea”, assunta come maximum di intelligibilità (il “più che intelligibile”),
il risultato ultimo del suo processo; sicché può dirsi che S. si muove sul
piano di un duplice empirismo, “un empirismo del fenomeno e un empirismo del soprafenomeno
o misticismo”. L’errore sta nel continuare a mantenere — pur dopo aver negato
l’esistenza di una verità esterna al pensiero — la distinzione empirica o
didascalica della fenomenologia dalla logica, e del non filosofo dal filosofo;
distinzione che appare, ancora, indebitamente presupposta, quando S. indica
nella “risoluzione” del ZIL1 soggetto la possibilità di un cominciamento
necessario per la filosofia. 190. G. DE RUGGIERO, La filosofia contemporanea, Bari
1912, p. 485. Sullo S., v. le pp. 399-411 (nella quinta edizione in due volumi,
Bari 1947, pp. 137-147 del secondo volume). Qui il giudizio di De Ruggiero è
positivo, in linea con l’interpretazione di Gentile. Nelle Prime categorie S.
svolge, attraverso Hegel, tutta la ricchezza del cogito cartesiano; della
logica di Hegel conserva “lo scheletro”, sviluppandone il significato “più
profondo”, intendendola cioè nel suo “motivo storico”, come preparazione dell’
“assoluto psicologismo” o “assoluto empirismo”. S. mantiene, certo, la
partizione del sistema, distingue ancora la fenomenologia dalla logica, i.e. la
verità “per noi” dalla verità “in sé”, e Si mostra, in questo senso,
“platonico”, al di qua del “nuovo” idealismo. Ma c’è anche lo S.immanentista,
lo S. della lettera Paolottismo, positivismo, razionalismo, e dell’introduzione
ai Principi di etica, che raggiunge l'identità di pensiero in sé e di pensiero
in noi, di conoscenza e scienza, e che afferma la coincidenza dell’e eterna
soluzione” con l “eterno problema”: un motto, che è “linsegna della nostra vita
speculativa”. Da confrontare anche l’articolo di De Ruggiero: Echi platonici
nella filosofia italiana contemporanea (in “La Voce”, IV [1912], n. 51 [19 dicembre]),
che accetta la linea di sviluppo: Rosmini- Gioberti-Spaventa. A S. sono
dedicate le ultime pagine di G. De Ruggiero, I/ pensiero politico meridionale
nei secoli XVII e XIX, Bari 1922, pp. 303. Quello di S. (e di De Meis) è “uno
stato liberale secondo ragione”, che differisce dalla concezione 4312 che ne
ebbe il “classico” liberalismo europeo, fondato sui diritti e la libertà
dell’individuo. Ma Y “astratto razionalismo” di S. e De Meis “venne in buon
punto incontro alla prassi politica dei ‘patrioti’ e formò la filosofia della
Destra liberale italiana. Una dottrina che deduceva l’autorità e la legge dalla
libertà, celando in un nembo la dea generatrice, doveva esser propizia
all’azione storica di quelle minoranze che compirono l’unificazione ed a cui
solo una finzione razionalistica poteva attribuire un titolo di rappresentanza
universale. L’energica affermazione dell'autorità dello stato, dedotta dai
principi stessi dell’autocoscienza, corrispondeva alla pratica dell’accentramento
e della burocratizzazione; il legalismo e il costituzionalismo come criteri
superiori per dirimere tutti i conflitti degli interessi particolari, erano le
armi appropriate a un ceto di proprietari, cosiddetti liberali, una volta pervenuti
al potere” (p. 301). Sicché “la dottrina filosofica ribadiva un complesso
d’interessi conservatori e, in certa misura, reazionari”; la “grandezza
storica” (compimento dell’unità) della Destra appare “quasi del tutto estranea
a ciò che le ha conferito la qualifica liberale” (ivi). Nel volume della sua
Storia della filosofia moderna dedicato a Hegel (Bari 1948), De Ruggiero
ricorda S. solo per affermare che la sua opera è affatto inutile in un “riesame
storico-critico del sistema hegeliano”. S. conserva “L’intonazione teologica”
di Hegel, e non importa che il suoteologismoassuma i toni di un teologismo
“laico”. La critica moderna rompe l’involucro del sistema hegeliano, per coglierne
e svolgerne l’interna ricchezza; S. si muove nella direzione opposta, “verso
l’involuzione del sistema” (pp. 278 sg.). 2513 191. V. FAZIO ALLMAYER, I/
compito della filosofia italiana, in “La Voce”, IV (1912), n. 51 (19 dicembre).
L'articolo di F. A. è il primo di una serie di scritti su La filosofia
contemporanea in Italia, tema a cui è dedicato questo numero de “La Voce” (gli
altri contributi sono di G. Gentile, F. Momigliano, A. Carlini, G. Natoli, L. Salvatorelli,
G. Lombardo-Radice, B. Croce, T. Parodi, G. De Ruggiero [cfr. n. 190], G.
Saitta). L’impianto dell’articolo — scritto con indubbia decisione e chiarezza
— riflette le —linee’essenziali del programma spaventianogentiliano (e
dell’ultimo Gioberti), accentuando una tematica (necessità di riassorbire la
filosofia della natura e la logica nella fenomenologia dello spirito) che l'a.
ha sviluppato per suo conto nell’elaborazione del proprio idealismo. Con S. e
Gentile, F. A. legge nell’autentica tradizione italiana “la più forte tendenza
verso l’immanenza e la libertà”; “noi siamo avviati alla concezione della
logica come storia, sviluppo dello spirito umano concreto, e quindi al
rifacimento della Feromzenologia dello spirito in cui, oltrepassato il
dispiegamento della coscienza particolare riferentesi all'oggetto naturale,
mostrata l'identità di coscienza ed autocoscienza fin nel primo atto dello
spirito, si abbia il dispiegamento della coscienza umana come atto concreativo
della storia umana, del mondo umano, quindi come storia e logica allo stesso
tempo. Così riporteremo ai concreti problemi della vita e della storia
quell’idealismo che altrove svapora nel misticismo o si deposita nel naturalismo”.
Per questo articolo, l’a. fu chiamato in causa nel corso della polemica
Boine-Prezzolini; e intervenne con una breve risposta ne “La Voce”, VI (1914),
n. 13 (13 luglio), pp. 30 sg. 2514 Il compito della filosofia italiana apre la
raccolta degli studi ristampati nel volume di F. A. Ricerche hegeliane, con prefazione
di G. Saitta, Firenze 1959, pp. XVI-325; il saggio del 1912 è qui pubblicato
con un titolo diverso, (Spaventa e l’hegelismo) e “con alcune lievi modifiche
dove era invecchiato per la contingenza di certe affermazioni”. Nelle Ricerche
è ristampato anche, con il titolo Genzile e la riforma della dialettica
hegeliana, pp. 20-42, uno studio già apparso nel “Giornale critico della
filosofia italiana” del 1947 [cfr. n. 243]. Per S. v. le pp. 36-40: la riforma gentiliana
non si trova già in S., il quale “è ancora legato alla partizione della
Enciclopedia hegeliana e ciò a cui è arrivato è che non ci è categoria senza
pensare (mentalità) oggettivo, e che il pensiero oggettivo è presente al
pensiero soggettivo, senza di che questo non è pensiero. Si potrà ancora sostenere
perciò che per lui c’è una esigenza realistica [qui l’a. introduce un
riferimento agli studi spaventiani di F. Alderisio], la quale invece è superata
dal Gentile per cui tutta la realtà si identifica con quella vita del soggetto,
in cui il mondo vive, e rivive; e rivivere è vivere” (pp. 39 sg.). 191 bis.
RODOLAN, Ieri e oggi. Bertrando e Silvio Spaventa, in “La Nazione” [Firenze], 7
aprile 1912. Sulle ragioni che hanno portato lo S. al sacerdozio, e sulla riconoscenza
di Silvio per l’ “olocausto” del fratello. 192. G. GENTILE, La riforma della
dialettica hegeliana e B. Spaventa, con appendice (1912), in G. G., La riforma della
dialettica hegeliana, Messina 1913, pp. 1-71; ora in G. G., Opere, a cura della
Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, vol. XXVII, pp. 1-65. 2919
Cfr. n. 103. 193. G. GENTILE, La filosofia in Italia dopo il 1850. VI. Gli
hegeliani. V. La riforma dello hegelismo (Bertrando Spaventa), in “La Critica”,
XI (1913), pp. 365-384, 441-463; XII (1914), pp. 34-56, 133-146. Dei saggi
gentiliani sulla filosofia italiana della seconda metà dell’Ottocento, raccolti
poi dall’a. sotto il titolo: Le origini della filosofia contemporanea in
Italia, viene tenuta presente in questa bibliografia l’ultima e definitiva
edizione (nelle Opere complete di G. G. a cura della Fondazione Giovanni
Gentile per gli studi filosofici, voll. XXXI- XXXIV) costruita attraverso il
confronto delle edizioni del 1917 e del 1925 (migliorate nello stile, ma
mutilate di molti riferimenti ai testi e delle bibliografie) con il testo
apparso ne “La Critica” tra il 1903 e il 1914. Il saggio su S. è ristampato nel
vol. XXXIV delle Opere complete, pp. 83- 189; ma sono da vedere anche i volumi
precedenti: il XXXI, per alcuni riferimenti ai rapporti tra Mamiani (e il mamianista
Ferri) e S., il XXXII, che contiene, nelle pagine sul Tommasi, indicazioni
sulla polemica intorno alle psicopatie, e notizie sui rapporti di Angiull i e
Siciliani con lo S.; infine, nel vol. XXXIII, sono da vedere il capitolo su F.
Fiorentino, le pagine su F. Masci e le pagine che introducono alla storia degli
hegeliani di Napoli. Il saggio su S. del 1913-14, scritto quando erano oramai acquisiti
(soprattutto con la pubblicazione del Framzzzento sulla dialettica del 1880-81:
cfr. n. 103) i documenti fondamentali su cui si basa l’analisi di G., fissa in
termini conclusivi l’interpretazione avviata nel Discorso del 1900 [96]. Le
pagine su Bertrando Spaventa e la riforma dell’hegelismo sono precedute da due
capitoli, intitolati: 2516 Pietro Ceretti e la corruzione dell’hegelismo (con
paragrafi dedicati a P. D’Ercole, A. Tari, e alla Florenzi Waddington) e: A. C.
De Mess e la filosofia della natura (sono da vedere le pp. 59 sgg., sui
rapporti De Meis-S., dove si ragiona come e perché il primo non intese “il
motivo segreto e le conseguenze” degli studi spaventiani sulla logica
hegeliana); e precedono l’ultimo capitolo delle Origizi, dedicato agli Scolari
di Bertrando Spaventa, S. Maturi e D. Jaja, da vedere anch'esso, per il
rapporto istituito tra maestro e discepoli: Maturi subisce l’influsso anche di
Vera, e dà un peso eguale alle due posizioni, distinte anzi opposte nella
interpretazione corrente; Jaja “s’afferra al filo che già aveva porto lo Spaventa
per uscire da quel labirinto del congegno della logica hegeliana, determinato
dal rapporto delle prime categorie” (p. 206) e lavora all’elaborazione della
metafisica della mente (p. 208). L’ultimo paragrafo dello scritto su S.riprendeeconclude
il giudizio avanzato nella dedica degli Scritti del 1900 [961: la filosofia di
S. accoglie e compone “tutte le esigenze varie ed opposte che s’eran venute
agitando nel pensiero italiano nella seconda metà del secolo XIX”, dando ad
esse “legittima soddisfazione” (p. 187) e additando la via dell'ulteriore
progresso. La ricostruzione del “punto di vista spiritualistico raggiunto dallo
Spaventa” (p. 186) è preparata, in primo luogo, da una breve presentazione
della figura del filosofo ($$ 1-2, pp. 83-85), lodato come “uomo di parte”
orientato “verso la concretezza” storica, e opposto, così, all’ortodosso Vera
(sui diversi interessi — per la filosofia della natura e della religione in
Vera, per la logica e la teoria della conoscenza in S. — dei due filosofi, e
per la presentazione della loro opposizione secondo lo schema: metafisica dell’ente-metafisica
della mente, v. pp. 140 sgg.) e ai mistici 237 Tari e Ceretti; in secondo luogo
($$ 3-32, pp. 86-129), da una riesposizione degli studi e scritti spaventiani
sul Rinascimento, su Spinoza e sulla filosofia italiana contemporanea:
soprattutto della Fy/osofia di Gioberti, qui giudicata il “capolavoro” di S. Nel
corso di questa riesposizione, e già a proposito dei primi studi bruniani di
S., G. osserva che “questa sua storia della filosofia, che qui si viene
studiando, non è che una prima immagine della sua filosofia” (p. 109); richiama
cioè un problema affrontato nella prefazione a La filosofia italiana [99] già
dato per risolto, in quella stessa prefazione, attraverso la costruzione
teorica della identità di filosofia e storia della filosofia. Nelle Origzzi,
questa teorizzazione riaffiora in più punti, e soprattutto nelle pp. 147 sgg.,
dove si parla della “perfetta fusione di trattazione storica e filosofica” che
solo può realizzare chi, come S., ha interesse di “intendere tutto il processo,
come il processo genetico del risultato” (pp. 148 sg.). Ora, approfondito e
conosciuto veramente il “risultato” (e cioè “rivalutata” via via la filosofia
di Galluppi, Rosmini, Gioberti), è abbandonato da S. l’astratto appello al
sistema di Hegel, del 1850: il problema non era più quello “dei rapporti tra i
filosofi del secolo XVI e la posteriore filosofia europea” (i.e. l’enciclopedia
di Hegel), bensì “quello dei rapporti degli ultimi tre filosofi italiani... con
la filosofia tedesca da Kant a Hegel”. La teoria della “circolazione del
pensiero” nasce quando il processo della filosofia moderna appare a S. non più
“rettilineo e centrifugo, rispetto a noi”, ma anzi “come un moto circolare, che
ritorna al suo punto di partenza” (p. 117). Ora, l'abbandono o la correzione
del programma del 1850 era reso possibile — sottolinea G. — dall’atteggiamento indipendente
assunto da S. nei confronti dello stesso Hegel; “Spaventa, avendo fatto suo
succo e sangue la sostanza del 2518 pensiero hegeliano, non pensava né scriveva
col modello innanzi, né si faceva dei paragrafi dell’Erciclopedia la regola del
proprio giudizio” (p. 129); e G. si compiace di additare almeno un luogo della
Filosofia di Gioberti (1863, pp. 48 sg.) in cui S. mostra di avere, del
pensiero, “un concetto conforme bensì alla Ferorzenologia hegeliana, ma non
forse alla Enciclopedia, in cui il pensiero nostro, libero, personale, presuppone
la logica in sé, nella stessa relazione che la riflessione giobertiana ha con
l’intuito come sua base autorevole” (p. 131). Il vero significato della
“circolazione” sta allora nella critica o meglio “autocritica” del processo storico
del pensiero italiano che in S. si compie: “la vera importanza della critica
dello Spaventa sul Galluppi, sul Rosmini e sul Gioberti è di rappresentare il
progresso del pensiero italiano dopo Gioberti” (ivi). Con questo riconoscimento
— e qui G. si discosta dai suoi precedenti studi, e approfondisce un’obbiezione
avanzata nella prefazione a La filosofia italiana [99] — cade tuttavia lo stesso
concetto della “circolazione”: “concetto, diciamolo pure, alquanto fantastico,
implicando quello di una nazionalità come una sfera chiusa di vita spirituale:
che, a sua volta, è concetto non sostenibile né storicamente, néfilosoficamente,
fondato su una rappresentazione fantastica della nazione, come qualche cosa di
esistente in sé, in conseguenza di certi dati naturali” (p. 132). Certo, lo schema
“rigido” della “circolazione” fu reso da S. più flessibile con la “scoperta”
del nesso Vico-Kant ($$ 36-38, pp. 134-140), anche se il filosofo non riuscì a
individuare la vera origine storica della dottrina vichiana (gli sfuggì l “aspetto
incontestabilmente kantiano del Deantiquissima”, p. 136) e della esigenza
metafisica che pure ad essa riconobbe. Tuttavia, l’obbiezione di G. all'idea
spaventiana del “circolo” resta: e viene giustificata, a) sul piano storico, 2519
attraverso numerosi riferimenti (pp. 133 sg.) che mostrano come la
“circolazione” sia stata “continua” (p. 134), e h) sul piano filosofico, in
virtù dell’equazione: nazione=spirito=universale (“e se la concretezza dell’universale
importa le differenze, queste non cancellano mai quello: e la varietà della
storia non è che l’eterna variazione dell'uno e l'eterna unificazione del
vario”, p. 133). La “circolazione”, per G., è “continua”, perché coincide col
dialettismo del pensiero in atto. Le pagine, già richiamate, che chiariscono il
rapporto Vera-S. (pp. 140-143) avviano G. allo intelligenza” dell’hegelismo
spaventiano. Unico problema di S. quello della logica o teoria del conoscere,
sviluppato nella linea della sinistra hegeliana (pp. 144 sgg.) così come
l’intende G., nella linea cioè di una ricerca volta all’ “affermazione
dell’essere come mente” (p. 141) contro le concezioni imperniate sulla
rappresentazione religiosa del logo (p. 145). Ma il “problema della mente” come
problema del conoscere diventa centrale in S. non attraverso una mera
“riduzione” della filosofia a gnoseologia; è, infatti, sul piano storico — sul
piano di quel reale processo storico che va da Kant a Hegel — che la critica del
conoscere si è rivelata a S. nel suo valore: non pura gnoseologia, ma
metafisica (p. 148). G. ripercorre allora ($$ 44-50, pp. 149-159) le pagine
dello Schizzo di una storia della logica [68] dedicate allo svolgimento del
problema della conoscenza in Kant, Fichte, Schelling, Hegel; insistendo per suo
conto — ma con l’indubbio conforto dei testi — sull'importanza della lettura
spaventiana di Kant (della Critica della ragion pura, non della Critica della
ragion pratica né della Critica del giudizio; e, all’interno della prima Critica,
dell’Analitica piuttosto che della Dialettica, p. 151), che offrì al vecchio
maestro un criterio fondamentale per 2520 orientare la sua ricerca teoretica e
la stessa sua interpretazione di Hegel. Il Kant di S., il Kant “inteso a dovere”
(i. e. il Kant della “vera sintesi a priori”, “unità del senso e
dell’intelletto, in cui consiste l’atto deiconoscere”, p. 152), “rimase per lui
sempre la vera pietra di paragone dello stesso hegelismo” (p. 151), e di ogni
altro idealismo; il cui problema, come è noto, è presentato, nello Schizzo, secondo
questo semplice schema di sviluppo: l’unità (di senso e intelletto, di essere e
pensiero) richiesta da Kant, “pensata” da Fichte (ma solo “pensata”, come
processo formale) e intuita da Schelling (ma solo intuita) come processo reale,
fu “provata” da Hegel. O meglio: Hegel si accinse alla “prova” (a “pensare il
pensiero come l’in sé della realtà”, p. 159); S., sottolinea G., non ci appare
mai persuaso che Hegel fosse riuscito nell’intento attribuitogli, così come non
ci appare mai convinto di essere riuscito a condurre a termine la “prova”
richiesta (ivi). G. può procedere ormai ($$ 51-58, pp. 159-171) alla individuazione
del “vero” hegelismo di S., il quale accenna in più luoghi — e a volte dà
inizio — ad un reale progresso da compiere rispetto a Hegel, spesso restando
impigliato in difficoltà delle quali gli rimase per lo più ignota la radice (p.
160). Un primo tipo di difficoltà si rende manifesto già nell’ambito delle
riflessioni emergenti nello Schizzo, e sviluppate in Logica e metafisica,
intorno al tema del “primo scientifico”. La “prova dell’identità” si scinde in
S. (come già in Hegel; e per Hegel v. in particolare il $ 55, pp. 165- 167) in
due prove, quella della fenomenologia (la “mente” non è semplice soggettività,
ma è processo reale, è mente assoluta) e quella della logica (il processo della
mente è logico; il logo non è oggetto d’intuito). La distinzione delle due
prove comporta la separazione della logica dalla fenomenologia, e rende
necessario l'abbandono del pensiero 2921 5 2% fenomenologico per attingere il
pensiero logico, l’ “in sé della natura e dello spirito, destinato a non
coincidere mai col “per sé” o col “per noi” (p. 165). S. volle certo affermate l’
“unità originaria” di fenomenologia e logica (pp. 166 sg.), e questo è un
merito che gli va riconosciuto; ma la particolare soluzione da lui ora proposta
(il principio della scienza — il “primo scientifico”, immediato in quanto primo
— è mediato, provato, in quanto si identifica con l’ultimo grado della
fenomenologia) appare “illusoria” e accolta solo “per effetto d’una mera
abitudine scolastica”(p. 163; si ricordi un’obbiezione simile di Croce, che
definisce “didascalica” la distinzione accolta da S.: cfr. n. 189). Il rilievo
di G., che individua, senza appesantirne le conseguenze, l'accettazione da
parte di S. del sistema hegeliano nella sua architettura fondamentale
(implicante perciò l'esclusione della Fezorzenologia come semplice “propedeutica”),
sembra confortato da un’osservazione precedente, in cui si parla delle
“difficoltà insormontabili che [S.] incontrava sempre nel concetto della natura
che non è per lui, come il logo, reale soltanto nel pensiero (ossia, analogamente,
nel concetto della natura) ma in se stessa, benché non per se stessa” (p. 146).
Su questo punto però, G. si affretta a ricorrere ai testi, in particolare alla
lettera Paolottismo [78], per documentare l’avversione del filosofo al teismo e
al naturalismo, egualmente travolti “dalla sua tendenza al più schietto e
assoluto idealismo spiritualistico e umanistico” (ivi). E a gettare una miglior
luce su quelle riflessioni di S. intorno al rapporto di pensiero logico e pensiero
fenomenologico, interviene l’analisi degli studi sulle prime categorie della
logica hegeliana: lo scritto del 1863-64 [70], preparato dalla critica di
Gioberti (p. 169), e, soprattutto, il Frazzzzento inedito del 1880-81 [103],
dove l'essere è finalmente colto come “atto del pensare”; con 2322 questa
“nuova soluzione lo Spaventa toccava il più alto segno a cui era indirizzata
fin da principio la speculazione dell’idealismo trascendentale; e iniziava una
radicale riforma dello hegelismo, ricollocando la logica al suo natural posto, al
fastigio della fenomenologia, ma nella stessa fenomenologia; scrollando dalle
fondamenta la nuova fortezza in cui con Hegel s’era andato a chiudere il
vecchio ente — il trascendente — sotto nome di logo, sovrastante alla natura e
allospirito” (p. 170). Un altro gruppo di paragrafi ($$ 59-70, pp. 171-185),
che prepara la conclusione del saggio, è dedicato da G. agli studi di S. sul
positivismo, o sul “nuovo empirismo”: l’ultima fatica del filosofo. G. vuoi
giustificare la “affinità sorprendente” dell’idealismo spaventiano con
l’empirismo “raccomandato” dai positivisti (p. 171); ci ricorda (pp. 171 sgg.)
che lo stesso filosofo nella prefazione ai Principi del 1867 si dichiarò
positivista, e volle essere riconosciuto come tale, in forza di una concezione
dell’uomo (l’ “uomo è essenzialmente storia”) che ha il suo sviluppo più conseguente
negli Studi sull’etica hegeliana, del 1869: dove S. oppone alle anime sensibili
— a chi si compiace di separare il dover essere dall’essere, la legge dal
fatto, e così via — una concezione “rigorosamente immanentista”, che si
presenta con un “aspetto pauroso di cruda storicità, ossia di schietto naturalismo”
(p. 174). In che senso si muove la critica di S. al positivismo, se il suo
idealismo immanentistico toglie l'opposizione di assoluto e relativo, apriori e
aposteriori ecc.; se può apparite, come apparve ai difensori della tradizione,
una sorta di “materialismo aristocratico”? (p. 171; cfr. n. 156). “Dove s’era
dunque cacciato lo spirito coi suoi imprescrittibili diritti”? (p. 176). Alla
domanda, osserva G., si può rispondere solo se si sappiano collocare i concetti
filosofici nel contesto del loro ptocesso storico: 2523 materialismo,
naturalismo e empirismo sono momenti dell’idealismo “vero”, “storico”,
introdotto da Kant come “sviluppo” dell’empirismo di Locke e di Hume (e già,
per quanto riguarda S., va rilevato che la sua critica dell’intuito fatta nella
Filosofia di Gioberti “è, per indiretto, la celebrazione dell’empirismo
lockiano”, pp. 177). L’empirismo avversato da S. è quello che non riconosce la propria
origine storica (e quindi la propria giustificazione speculativa) nello
sviluppo dell’idealismo cartesiano, come critica dei “residui platonizzanti e
scolastici” di quella filosofia (p. 178); è l’empirismo che non riconosce più
la propria funzione nella critica dell'esperienza, contro la vecchia metafisica
dell'ente (p. 179). S. ha contribuito (soprattutto in Kant e lempirismo [88], e
negli scritti postumi Esperienza e metafisica [94] e Introduzione alla critica
della psicologia empirica [105]) a svelare l'equivoco (astrazione dal processo
storico) per cui si contrapponevano ancora, dai contemporanei, idealismo e
positivismo; tenendo fede, per suo conto, a quel “principio della certezza del
vero o della storicità dell’eterno, che era stato il primo motivo della
filosofia cartesiana e l’idea madre del Saggio di Locke” (pp. 181 sg.). Di qui
l’interpretazione spaventiana di Galileo (p. 182), ripresa in Esperienza e
metafisica, nel contesto della sua critica dell’ “ontismo: della filosofia che
concepisce la realtà come ente o enti (materia o idea)”, p. 183; di qui l’affermazione
di un “fenomenismo” assoluto (la realtà è “fenomeno a se stessa, fenomenizzarsi
eterno”, p. 184), che accoglie e legittima le esigenze del vero idealismo e del
vero positivismo. Il “nuovo fenomenismo” di S., conclude G. M 71-73, pp.
185-189), fu “annunziato”, più che “svolto”, nell'opera pubblicata postuma nel
1888; ma qui il vecchio maestro giunse a rivendicare l’ “essenza spirituale del
mondo, meccanizzatasi nell’astratto spiritualismo platonico 2524 e cartesiano”
(p. 185). Agli occhi di G., S. raggiunse proprio in queste pagine quel “punto
di vista spiritualistico” che l’attualismo era destinato a svolgere,
sviluppandone coerentemente il principio. Il “preattualismo” di S. è disegnato
con estrema chiarezza e decisione: per il “nuovo” fenomenismo, “gli enti son
negati nella loro astrattezza, dove non è dato scorgerne se non l’ombra fissa e
fallace: ma riaffermati nella vita concreta che essi vivono in seno alla realtà
spirituale, come saldi momenti del pensiero. La storia è la teofania di questa filosofia:
ma questa storia non è la dura storia che l’uomo si trova innanzi, già
realizzata e diventata una necessità che allo spirito simponga come limite
naturale; è invece la storia che l’uomo non trova mai innanzi a sé, come un
passato, ma che egli realizza, creandola. Tutto quello che è già, è ente. E l'ente
come tale nasce dalla riflessione e dall’analisi della vera realtà, che non è,
ma diviene, facendosi da sé” (p. 185). 194. M. MISSIROLI, La monarchia
socialista. Estrema destra, Bari 1914, pp. 224. Della Monarchia socialista v.
anche la seconda edizione, Bologna 1922, pp. 145. Su S. Si veda specialmente il
quinto capitolo (I/ pensiero della Destra, prima edizione, pp. 73-83; seconda
edizione, pp. 71-79), che ricorda gli scritti sul problema del rapporto dello
stato con la chiesa, quello contro Tommaseo sul tema: Rousseau-Hegel-Gioberti
[51], ecc. La tesi è riassunta in modo chiaro nella prefazione alla seconda
edizione: “lo stato moderno, inteso come stato etico, non è realizzabile, se
non nelle nazioni, che abbiano superato l’idea cattolica mediante la Riforma
protestante”. S., e con lui De Meis e Gioberti, nell’alternativa: ritorno al puro
cattolicesimo e rinuncia alla rivoluzione, oppure 2525 riforma religiosa, ha
scelto la seconda via (pp. 4, 10). Cfr. la recensione di G. Gentile alla prima
edizione della Monarchia socialista in “La Critica”, XII (1914), pp. 234 sg. 195.
Un giudizio di Bovio su B. Spaventa, in A. CARLINI, La mente di Giovanni Bovio,
Bari 1914, pp. 183-184. Ristampa di uno scritto (Augusto Vera) pubblicato nel 1885
sul “Giordano Bruno” di Napoli. S. è elogiato da Bovio, come il filosofo che
seppe rendere esplicito il “lato nuovo” di Hegel. Il “giudizio” offre nelle
prime righe una nuova presentazione del rapporto Vera-Spaventa: “Spaventa,
geometra; Vera, dotto...” (nello stesso volume, p. 185, Si legge il testo di
un’epigrafe dettata da Bovio per lo Sl 196. G. GENTILE, Prefazione a B. S.,
Introduzione alla critica della psicologia empirica, estratto dagli “Annali delle
Università toscane “, Pisa 1915. Cfr. n. 105. 197. C. CIPRIANI, La psicologia
di B. Spaventa, Bologna 1916, pp. 15. Rapida esposizione e analisi delle vedute
di S. intorno alle origini della percezione, ai rapporti tra fisiologia e psicologia,
ecc.; il saggio segue il testo della Introduzione alla critica della psicologia
empirica, pubblicato dal Gentile nel L915:[1051. 2526 198. V. FAZIO ALLMAYER,
I/ problema della nazionalità nella filosofia di B. Spaventa, in “Giornale critico
della filosofia italiana”, I (1920), pp. 173-190. Ricostruisce, con numerose
citazioni dalle opere di S. e molti riferimenti e raffronti con le dottrine dei
suoi contemporanei (Gioberti, in particolare, e Mamiani, Luigi Ferri, ecc.), la
genesi e lo sviluppo dell’idea di nazionalità in S.: dalla primitiva negazione
(contrapposta alla “boriosa” affermazione dei sostenitori di una tradizione
propria, perché esclusiva, del pensiero italiano), al riconoscimento della
necessità di una filosofia italiana nella lotta per l’unità nazionale; infine,
al pieno superamento del concetto naturalistico di nazione (la nazione come
“destino”) nell’idea dello “spirito che si crea in una forma determinata”. Un
momento decisivo in questo itinerario di S. è rappresentato dalla elaborazione
di un nuovo concetto di universale-concreto, che supera ad un tempo le
posizioni di Gioberti e di Hegel; Hegel pensava “che il mondo germanico dovesse
assorbire la nazionalità in quanto rappresentante della verità, e non intendeva
lo spirito degli altri popoli né [la] personalità autonoma di ciascuno di essi”.
Sono “indizi luminosi” di questo processo di superamento la riforma della
dialettica hegeliana proposta nel 1863 e nel 1880-81, le “lunghe meditazioni
sulla Fenomenologia”, il rifiuto della filosofia della natura, la criticadelrealismo
e del positivismo in funzione di un idealismo “che è storia, vivezza di
problemi, vera ricerca dell’identità del reale col razionale e del razionale
col reale...” (p. 188). L’articolo è ristampato in V.F.A., Il problema morale
come problema della costituzione del soggetto e altri saggi, Firenze 1942, pp.
131-154. 2527 199 G. GENTILE, prefazione a B. S., La libertà d'insegnamento.
Una polemica di settant'anni fa, Firenze 1920. Cfr. n. 108. 200. A. DEL VECCHIO
VENEZIANI, La vita e l’opera di Angelo Camillo De Meis, Bologna 1921, pp. XXIV-3
33. Ct. :455, 201. S. CARAMELLA, Il liberalismo hegeliano del Mezzogiorno. I.
Bertrando Spaventa, in “La Rivoluzione liberale”, I (1922), n. 28 (28
settembre), p. 105. Il saggio, completato con due articoli su De Meis e Silvio Spaventa
già pubblicati nello stesso periodico nel 1923, è ristampato nel volume: La
filosofia dello stato nel Risorgimento, Napoli 1947, pp. 90 (lo scritto su S.
occupa le pp. 47-55). Come si conciliano la sovranità dell'idea e l’autonomia dell’individuo?
Qual è, cioè, “la libertà propria dello stato liberale?”. Questo il problema di
S., problema che investe “la legittimità del liberalismo”. Per Hegel resta
incerto se lo stato integra o disindividua il singolo. La richiesta spaventiana
di una “mediazione tra il singolo e l’universale, tra la storia e l'assoluto” è
studiata attraverso la lettura delle polemiche coi gesuiti [101], della Libertà
d'insegnamento [108] e dei Principi di etica (97; e C. attribuisce senz'altro a
S. un articolo del “Nazionale” del 5 marzo 1848). S. non riesce a conciliare i
due termini, e resta fermo alla 2528 conclusione “che l’individuo trova nello
stato valori più alti del suo spirito pratico, e nel suo aderire allo stato
riconosce in esso raturaliter il suo più vero sé. Si son fatti molti passi innanzi
e chiarite molte relazioni: ma la domanda non ha avuto né avrà pià da Spaventa
una risposta diretta. Lo stesso conflitto tra libertà e tradizione, stato di
diritto e stato di fatto, viene risolto senza nessun riguardo all’individuo
(che invece lo sente più che mai), ma solo in rapporto allo stato per sé
preso”. Ma S. è anche il critico del costituzionalismo del 1821 e del ‘48; e
quando afferma che la costituzione non è uno schema astratto che sisovrappone
alla vita dello stato storico, positivo in quanto storico, indica una via che
sarà seguita “con più coerenza” dal fratello Silvio. “L'opposizione del singolo
e della collettività, della coscienza e dell’autorità, rimasta impigliata nelle
maglie della dialettica in Bertrando Spaventa, troncata imperiosamente a favore
del secondo termine dal De Meis, appare nel nostro [= Silvio] meno ardua perché
storica...”. 202. G. DE RUGGIERO, I/ pensiero politico meridionale nei secoli
XVIII e XIX, Bari 1922, pp. 303. Cfr. n. 190. 203. C. CURCIO, I/ pensiero
politico di Bertrando Spaventa, Napoli 1924, pp. 62. È una rapida ricostruzione
e, per lo pè, nella stessa intenzione dell’a., una parafrasi delle tesi esposte
da S. nei Principi di etica [97], nella Politica dei gesuiti [101], nella Libertà
d'insegnamento [108], ecc., a sostegno di un ideale di stato liberale, che il
C. ripropone in questa forma “per mostrare... quale sia il pensiero di un
liberale autentico... 2529 del cui nome si son fatto scudo molti e molti per
dire cose assai diverse, nonché tra loro, da quello che fu lo spirito del filosofo
meridionale”. 204. G. GENTILE, Bertrando Spaventa, Firenze, s.d. [1924];
pp:217. Nuova presentazione del Discorso premesso agli Scritti filosofici di S.
(cfr. n. 96 = Opere, I, pp. 1-170). G. dichiara nella prefazione di ristampare
il saggio del 1900 “con nuove cure e parecchie aggiunte, ma senza mutare una
linea a quello che una volta dissi, o sapevo dire” (p. 9 = Opere, I, p. 7).
L'aggiunta piè rilevante è costituita da un nuovo capitolo (VII. Contro la
nuova corruzione italiana, pp. 161-171 = Opere, I, pp. 139-148), costruito con la
riproduzione di una lettera di S. a De Meis del 13 luglio 1880, e di due
lettere dello stesso De Meis a S., del 1880-81: tre denunce amare — e, a
giudizio di G. (p. 162 = Opere,I, p. 140), parziali — del “positivismo” ormai
imperante nella vita politica italiana, dopo l’avvento della Sinistra al
potere. Va segnalata inoltre, nell’Appendice (pp. 181-199 = Opere, I, pp.
157-170), la pubblicazione — sotto il titolo Le tribolazioni di B. S.
giornalista —di documenti relativi alla collaborazione di S. alla “Rivista
contemporanea” (una lettera a De Meis del 23 febbraio 1856, un promemoria di S.,
una lettera a S. di L. Chiala del 4 aprile 1856, infine la ristampa
dell’articolo di S. La Civiltà cattolica e la Rivista contemporanea, apparso
sul “Piemonte” del 16 gennaio 1856; su queste “tribolazioni” di S. giornalista
vanno confrontate ora le integrazioni e precisazioni di S. Landucci, De Sanctis
e Tommaseo. Lettere inedite, “Belfagor”, XVII, 1962, pp. 207 sg., nota); e,
sotto il titolo B.S. e l’Accaderzia di filosofia italica, la pubblicazione di
due lettere di Mamiani 2530 a S. (3 giugno 1852, 12 ottobre 1854), e di due
lettere di S. a Mamiani (13 luglio 1854, 10 ottobre 1854). Alle pp. 201-215, la
Bibliografia degli scritti di B. S., accresciuta e corretta. Le “nuove cure” e
le aggiunte minori (o le variazioni introdotte nel testo del 1900) sono dovute
alla pubblicazione di nuovi documenti (come le Ricerche e documenti
desanctisiani [cfr. n. 130] di Croce), e alla scoperta dei nuovi testi
spaventiani editi dallo stesso G. tra il 1900 e il 1920 (il Framziento inedito
sulla dialettica, l’Introduzione alla critica della psicologia empirica, ecc.).
Così, si legge ora che la teoria della “circolazione” del pensiero italiano è
“uno dei maggiori titoli scientifici del nostro filosofo” (p. 63, e cfr. p. 102
= Opere, I, pp. 55, 90) e non più, senz'altro, il maggiore (com’era detto nel
testo del 1900); appare modificato il giudizio sulle Prize categorie (tentativo
di soluzione, rispetto al Framzzzento del 1880-81); e così via. Degna di
rilievo è infine la prefazione della monografia (pp. 7-9 = Opere, I, pp. 3-7);
per la ripresa dell’accostamento S.-De Sanctis (già sottolineato nella prefazione
a Da Socrate a Hegel; cfr. n. 98), che si specifica ora nel senso di una
preminenza del primo sul secondo (“lo Spaventa, dalla parte sua, ridusse a
concetto filosofico quello che in De Sanctis fu intuito largo, comprensivo, luminoso,
ma non sempre coerente e fermo”); perle riserve mantenute a proposito della
teoria della “circolazione” (cfr. allora i rilievi nelle Origini della
filosofia contemporanea in Italia: n. 193; e, prima ancora, i rilievi della
prefazione a La filosofia italiana, n. 99); per il compiacimento, infine, con cui
G. può annunciare, dopo venti anni, il “successo” della lezione spaventiana. 2531
205. V. PICCOLI, Storia della filosofia italiana, Torino 1924, pp. VII-338. Su
S. cfr. in particolare alcune pagine del ventisettesimo capitolo (La lotta
delle tendenze, pp. 271 sgg.). Malgrado alcuni riconoscimenti parziali, è
respinta la ricostruzione spaventiana della storia della nostra filosofia, il
cui carattere fondamentale va ritrovato, afferma l’a., nell’ “esigenza di un trascendentalismo
che è, necessariamente, antihegeliano” (p. 282). Il nome di S. è ricordato nel
primo capitolo (La tradizione filosofica nazionale); anche qui si leggono
analoghi rilievi, che interessano soltanto come documento della più ampia
discussione sul problema della tradizione del pensiero italiano. 206. B. CROCE,
Documenti di vita italiana. V. Silvio Spaventa, in “La Critica”, XXIII (1925),
pp. 316-318. È la prefazione di C. alle Lettere politiche di S. Spaventa, a
cura di G. Castellano [134]. 207. C. LICITRA, La storiografia idealistica. Dal “programma”
di B. Spaventa alla scuola di G. Gentile, Roma 1925, pp. 224. Nel primo
capitolo (I/ programma di Bertrando Spaventa, pp. 21-31), la. ribadisce che lo
schema delle lezioni napoletane di S. è ancora valido come “programma di tutta l’attività
storiografica e filosofica del nostro secolo” (p. 26); si tratta tuttavia di
uno schema, che nasconde in forma contratta i suoi possibili sviluppi. Si veda
allora il terzo capitolo (La filosofia italiana attraverso gli studi di
Giovanti Gentile, pp. 595-116), in cui si mostra come Gentile abbia ZII portato
a compimento il disegno del maestro, superandone le residue incertezze (e, per
l'impostazione teorica del discorso dell’a., cfr. il quinto capitolo, Criteri
storiografici dell’idealismo assoluto, pp. 133-143). 208. G. SAITTA, Bertrando
Spaventa, in “Il Giornale della cultura italiana” [Bologna], I (1925), fasc. 1,
pp. 7-8. Scritto dopo la pubblicazione della monografia gentiliana del 1924
[204], il breve articolo mette in rilievo la solidità e la “serietà” del
pensiero di S., e l'attualità delle opere del filosofo meridionale. 209. G.
GENTILE, Una notizia biografica di B. Spaventa, in “Giornale critico della
filosofia italiana”, VII (1926), pp. 378-382. Cfr. n. 161. 210. L. RUSSO,
Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Venezia 1928, pp.
399. Lavoro fondamentale per la ricostruzione dell'ambiente, degli
schieramenti, delle polemiche, delle varie relazioni — scontri, alleanze— tra
le diverse “culture” che si incontrano nello sviluppo della cultura nazionale
italiana. Dell’opera viene qui seguita la terza edizione, Firenze 1959, pp.
XIV- 415. Sono da vedere le pagine della prefazione alla seconda edizione — qui
riprodotte, pp. XI-XIV — dove sono indicati i motivi ispiratori e le
conclusioni generali della ricerca, in termini suggestivi e ancora stimolanti
(De Sanctis riformatore “di uomini, cioè di indirizzi mentali e spirituali”;
con lui la “cultura dell’Italia in esilio”, maturatasi 2533 tra il 1848 e il
1860, trionfa a Napoli; collocazione della cultura napoletana nella geografia
culturale d’Italia; contributo di Napoli alla formazione di una “cultura nazionale”;
ragioni del successo della cultura vichiana napoletana nel Novecento; ecc.). 2534
Nel primo capitolo (La decadenza dell’Università borbonica e la riforma del De
Sanctis), alle pp. 30 sgg., sono rievocate le sommosse studentesche contro la
nuova università, che toccarono da vicino lo S. Sul carattere dell’insegnamento
e sull’ “antiaccademismo filosofico” di S. si vedano le pp. 90-102 del capitolo
terzo (La nuova cultura e gli hegeliani); di seguito, alle pp. 202 sgg., è
ripreso il tema dell’antitesi Vera-S. Nel sesto capitolo (Gli scienziati e la reazione
alla metafisica) è ricostruita — pp. 181-184 — la polemica sulle psicopatie,
tra il Tommasi e S. (accostati, poi, a p. 186: l’ “unità scientifica” promossa
da Tommasi “poteva dirsi analoga a quell’altra che lo Spaventa realizzava nel
campo della filosofia”). S., De Sanctis, De Meis sono riavvicinati fra loro,
pp. 197 sg. (nel capitolo settimo: La cultura extrauniversitaria), in virtù del
più avveduto e critico “positivismo” (“essi, che agli ebbri gerarchi del nuovo movimento,
parevano già filosofi oltrepassati, ‘metafisici estetici’, ‘idealisti’, forse
restavano ancora i più illuminati veggenti e teorizzatori e interpreti della
nuova filosofia, maestri che, nella coscienza dei limiti di quella, precorrevano
già alla sua correzione e al suo svolgimento”); dopo aver ricordato i difficili
rapporti degli hegeliani con il “transfuga dell’idealismo”, P. Villari (pp. 214
sgg.), sono ribadite da R. le ragioni “morali” dell’avversione (condivisa dall’a.;
v. pp. 195 sgg., 225 sg.) di S. al “facile” positivismo, alleato ai paolotti
(pp. 217 sgg.). Il capitolo ottavo (Conflitti tra il vecchio e il nuovo, pp.
227 sgg.) è in gran parte dedicato alla battaglia degli hegeliani contro V.
Fornari, e alle polemiche con F. Acri (per gli interventi di S. v. in particolare
pp. 252 sgg.). I capitoli nono (Polerziche politiche, pp. 259 sgg.), decimo
(Silvio Spaventa e il liberalismo di Destra, pp. 283 sgg.), undicesimo (L'educazione
nazionale e il pensiero dei napoletani, pp. 309 2393 sgg.) e dodicesimo (I/ De
Sanctis educatore politico, pp. 339 sgg.) sono dedicati alla ricostruzione
delle posizioni assunte dagli esponenti della cultura napoletana sul terreno
dei conflitti etico-politici; sono pagine che tendono a concludersi con un
elogio di quella “medietas” politica che De Sanctis seppe dimostrare (p. 343
sg.), e il cui senso mancò agli altri hegeliani, fatta eccezione per Silvio S.
(“il solo napoletano che possa stare accanto a De Sanctis” per l’ampiezza delle
vedute politiche, p. 380). Silvio S. è del resto salvato dall’accusa di
statolatria, e lodato (come fece già Croce) per la sua battaglia intesa “a
frenare l'eccessiva ingerenza autoritaria dello stato” (p. 287). Sul De Meis, e
su B. S., per le opinioni espresse da loro sul tema dell'educazione religiosa e
del rapporto dello stato con la chiesa, cade un pesante giudizio di
“astrattezza” e un’accusa di “confusione”. S. “dialettizzava le relazioni tra
la chiesa e lo stato, come fossero due concetti puri, e si trattava invece di
due istituzioni storiche; e la separazione giuridica egli interpretava come
separazione dialettica...” (p. 318). S. non vedeva “il pericolo dello stato
etico” da lui teorizzato: “intesa la dottrina dello stato etico, come s'intende
per lo più, come uno stato che dirige, che insegna, che moralizza, che ordina
culti, avremmo uno stato pedantesco e autoritario e, in fatto di religione,
avremmo lo stato teologo, lo stato calvinista, o, per rimanere nell’ambito
della tradizione italiana, una specie di potere temporale, in laico ammanto” (e
mazziniani, democratici e neoriformatori avrebbero ragione di considerare loro
maestri lo S. e il De Meis, p. 319). Il “senso etico” nello stato moderno
appare meglio salvaguardato dai politici che adottarono la formula cavouriana,
intuendo (come intuì Silvio S.) che “la migliore soluzione del conflitto” era
la “perpetuazione del conflitto stesso”, garanzia a un tempo della libertà
religiosa e della 2536 libertà di pensiero (p. 321). Il nome di S. torna ancora
nelle pagine conclusive (Napoli e la cultura nazionale, pp. 383 sgg.), che
riassumono i caratteri generali della cultura napoletana, “lontana e comune
genitrice della nostra presente cultura nazionale” (p. 390). E vi torna in ogni
paragrafo: sia che si tratti di ribadire la “tendenza antiletteraria e
antiaccademica” di quellacultura(tendenza condivisa da S. nella sua concezione
della filosofia come “consapevolezza”, “riflessione di vita”); sia che si
tratti di sottolinearne l'esigenza “cosmopolitica” (ma in senso nuovo, e
moderno; la scienza e la filosofia diventano veramente nazionali “per la
mediazione di una coscienza europea”) o la “tendenza critica e razionalistica”;
sia che si tratti infine di lodare 1’ “antiteocratismo” dei vecchi maestri —
fondato su una nuova fede religiosa, immanentistica — o il loro “animus
critico” (come “senso storico dei problemi”: la “riforma del sistema hegeliano
avviene allora più che per trasmutati sillogismi, per energica espressione
della sua sostanza storica”, p. 395). Tra le recensioni, si ricorda qui quella
di A. Omodeo, in “La Critica”, XXVI (1928), pp. 355-360 (ristampata in A. O.,
Difesa dei Risorgimento, Torino 1955, pp. 520-526). Omodeo raccoglie e ripete
le obbiezioni allo “stato etico”, che può rovesciarsi in stato autoritario; la
moralità è, kantianamente, “forma”, che vive nella coscienza dell’individuo. 211.
C. MAZZANTINI, Lo begelismo in Italia, in Hegel nel centenario della sua morte,
supplemento speciale della “Rivista di filosofia neoscolastica”, XXIII (1931),
pp. 1-52. 2351 Nello sviluppo interno del pensiero di S. è prefigurato l’intero
svolgimento dell’hegelismo in Italia; di quel movimento che, nato con un
orientamento umanistico- storicistico, sembra destinato a rovesciarsi in un
positivismo integrale. Come attestano i più recenti sviluppi del neohegelismo:
malgrado le resistenze dei maestri (di Croce, con la sua distinzione di teoria
e pratica, e di Gentile, con la distinzione di io empirico e io
trascendentale), gli ultimi seguaci della dottrina tendono verso un fenomenismo
puro o assoluto positivismo. A S. sono dedicate specialmente le pp. 1925. M.
richiama i motivi centrali del suo pensiero (la storia della filosofia italiana
— che viene respinta, soprattutto l’interpretazione di Rosmini —, la dottrina
svolta nelle Prizzze categorie [70], ecc.), e pone in rilievo la naturale
convergenza dell’ “umanismo” di S. col positivismo. S. sperò di poter costruire
un “positivismo idealistico assoluto su basi hegeliane”, p. 21; ma ci sono, per
l’a., antitesi inconciliabili tra idealismo e positivismo, anche se appaiono
facili e suggestive certe concordanze (carattere “mondano” del filosofare,
ecc.). 211 bis. D. CANTIMORI, Sulla storia del concetto di Rinascimento, in
“Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie seconda, I (1932), fasc.
3, pp. 229-268. Su S. vedi in particolare il paragrafo sesto (La circolazione del
pensiero italiano e l’importanza del Rinascimento per la filosofia europea),
pp. 255-261; e per un raffronto col De Sanctis, il paragrafo successivo, pp.
161 sgg. Scrive l’a. che per S. la filosofia del Rinascimento “non è soltanto |
‘aurora’ della Riforma religiosa, vero sole meridiano della civiltà e della
filosofia, ma costituisce di per sé la ‘riforma filosofica. L’unilateralità
schematica e sistematica dello 2538 Hegel e del Brucker è superata. La
valutazione positiva della Riforma infatti è mantenuta, in quanto il
Rinascimento acquista il suo valore dal paragone con essa, edèconsiderato come
un altro aspetto storico di quella ‘rivoluzione degli spiriti’, che si
manifestò come protesta e come Riforma in altri paesi. Così il concetto di
‘Riforma’ è allargato, ed il suo valore non è più derivato dalla sua significazione
per la storia ecclesiastica, ma dalla sua importanza per la storia del
pensiero” (p. 258). Anche se permangono qua e là, in S., suggestioni hegeliane
(il Rinascimento come “germe indistinto e incosciente”, “torbido e
inconsapevole”), il filosofo italiano ha colto, meglio di Hegel, l'intimo nesso
di riforma religiosa e rivoluzione filosofica; nella storia della filosofia il
pensiero del Rinascimento è “equivalente” — e non “subordinato” — alla Riforma:
due aspetti di un'unica “rivoluzione spirituale”. Nello stesso paragrafo, utili
indicazioni sui riflessi di questa prospettiva e “scoperta” spaventiana nella teoria
della “circolazione”, e in tutta la ricostruzione storica del pensiero italiano
elaborata dall’hegeliano di Napoli. 212. E. GUASTALLA, Vincenzo Gioberti nella
critica di B. Spaventa, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, I
(1932), fasc. 4, pp. 349-357. Ricostruisce con accuratezza i termini in cui si
esprime la critica di S. alla filosofia di Gioberti. Si tratta della nota interpretazione
che, dopo aver denunciato la contraddizione tra il principio o contenuto (lo
spirito) e la forma o metodo (l’intuito) della metafisica giobertiana, ritrova,
nelle Postume, i germi del superamento idealistico del dualismo di ente e
esistente, Dio e mondo. A questa interpretazione vengono mossi dall’autrice due
rilievi. In primo luogo, S. 2359 sopravvaluta le opere postume, che sono un
complesso di appunti frammentari, di materiali disorganici. In secondo luogo
S., chiuso come è in una sua “visione unitaria” e semplificatrice dei problemi,
perde di vistatutta la ricchezza e la vitalità di quel dualismo, che è certo
presente in Gioberti. “Lo Spaventa non intende ‘il fuori’ dello spirito umano,
e gli sfugge quell’elemento che si oppone allo schematico dottrinarismo ed è
senso naturale e spontaneo, per cui l’Uno si moltiplica ed ha due lati,
l'oscuro e sovrintelligibile ed il chiaro e intelligibile: quello oggetto di fede;
questo, di ragione” (p. 354). L’idealismo di Gioberti non ha mai abbandonato
del tutto “il suo carattere ontologico-obbiettivo”, il riferimento all’essere
immutabile, “principio fondamentale del teismo, base della distinzione sostanziale
di Dio e mondo”. Il motivo profondo che si esprime nella doppia formula
giobertiana è l'affermazione del valore e della necessità dell'’immanentismo e
del trascendentismo, al di là di ogni tentativo di concludere per la sola
trascendenza o per la sola immanenza (p. 356). 213. S. CARAMELLA, Urnzversalità
e nazionalità nella storia della filosofia italiana, in S. C., Senso comune,
teoria e pratica, Bari 1933, pp. 129-174. Il saggio era stato già pubblicato
negli “Annali dell’Istituto superiore di Magistero di Messina”, 1930-1932. La
teoria della “circolazione” è viziata dalla “concezionedella storia della
filosofia come concatenazione dialettica di sistemi fondati sul problema della
conoscenza e come derivazione di essi e dei loro problemi l’uno dall’altro”.
L’a. si dimostra molto sobrio nel porre in rilievo le forzature e gli squilibri
cui il disegno storiografico di S. ha dato luogo, e preoccupato piuttosto di
sottolineare la necessità, che da 2540 quella critica risulta, di allargare le
maglie dello schema spaventiano, tra l’altro rinsanguando la storiografia filosofica
con quella politica e culturale; il che consentirebbe di presentare in forma
nuova il problema spaventiano del rapporto di nazionalità e filosofia, e di
prospettare una più ampia continuità tra Rinascimento e Risorgimento, individuando
i caratteri distintivi della tradizione italiana nella storia del pensiero
europeo (umanismo e laicismo, ma non antiteologismo, cioè conciliazione, “nel
contrasto”, di filosofia e religione; storicismo, coscienza dei valori storici,
piuttosto che scientismo, ecc.). 214. G. GENTILE, Hegel e il pensiero italiano,
in “Leonardo”, 1933, n. 2, pp. 185-190; e in Verbandlungen des dritten
Hegelkongresses vom: 19. bis 23. April 1933 in Rom, a cura di B. Wigersma,
Tùbingen-Haarlem 1934, pp. 9-20. È il discorso inaugurale del terzo congresso
hegeliano (Roma, 1933); vedilo anche ristampato in G. G., Merzorie italiane e
problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 205-220. L’a. vuol
chiarire in che senso noi italiani siamo hegeliani, “a modo nostro”. E si
appoggia alla ricostruzione storica fatta da S. nelle lezioni napoletane del
1861 (la “prima storia della filosofia italiana”), ne ripete le grandi linee, e
loda la scoperta di Vico, e la nuova concezione della dialettica introdotta da
S. Interessante la presentazione del parallelo S. — De Sanctis, che offre
alcune varianti rispetto a precedenti formulazioni del G. “Entrambi hegeliani,
sebbene il De Sanctis, ingegno più geniale e robusto, dopo i primi passi si muovesse
poi sempre con maggiore originalità e franchezza; ma entrambi sollevati dallo
studio di Hegel al concetto della 2541 vita, che fu il nerbo di tutto il loro
pensiero”. 215. Uno scritto inedito di Bertrando Spaventa sul problema della
cognizione e in generale dello spirito (1858), a cura di F. ALDERISIO, in
“Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e
filologiche”, serie VI, vol. IX, fasc. 7-10, luglio- ottobre 1933, pp. 964-667.
Cfr. nn. 113 e 221. 216. T. BARTOLOMEI, Bertrando Spaventa, in “Acta Pontificiae
Academiae Romanae S. Thomae”, I (1934), pp. 94-125. Per S. l’uomo “è
l’assoluto, l’unico e vero spirito, miscuglio d’eternità e di tempo,
d’istantaneo e di successivo, d’intuito e di discorso. È questo il cavallo di
battaglia di tutti i panteisti, ma anche il lato debole del loro sistema” (p. 100).
Il lato debole consiste nell’ “accozzaglia di attributi contraddittori”
(finito-infinito, atto potenziale-atto puro, ecc.). Gliidealisti moderni
propongono, sia pure in forma rinnovata, gli stessi argomenti già in uso presso
i neoplatonici, presso i panteisti indiani ecc.; e cadono sotto le stesse
obbiezioni e la stessa condanna. Alle pp. 105 segg., si legge una critica di S.
storico della filosofia. 217. S. CONTRI, Per una nuova interpretazione della storia
dell’hegelianesimo in Italia, in “Sophia”, II (1934), pp. 125-127, 305-319. L’a,
ricerca le ragioni, storiche e no, dell’atteggiamento 2542 negativo assunto dal
neoidealismo italiano nei confronti del problema della costituzione della
scienza, per confortare una sua tesi, qui accennata, che concilia e accorda la
scienza con la filosofia (i. e. con la metafisica aristotelico-tomistica). In
Hegel il problema si presenta come difficoltà del rapporto
fenomenologia-logica; di fronte alla soluzione “arbitraria”, “dogmatica”
dell’Hegel della maturità (autofondazione della logica o metafisica), S. (su di
lui v. in particolare pp. 311 sgg.) scelse una posizione di “centro”, quella
per cui si cerca di dimostrare la derivazione della logica dalla fenomenologia,
ovvero la “coordinazione in ordine sistematico di gnoseologia e metafisica”. Ma
l'esigenza rimase insoddisfatta (Logica e metafisica è una mera ripetizione
della logica di Hegel). Gli epigoni imboccarono la strada della “sinistra”:
“soppressione della logica a profittodella gnoseologia” (mentre la “destra”insiste
nella presentazione “dommatica” della logica). Se è vero lo schema, l’a. spera
di aver indicato “il senso di una nuova linea d’interpretazione della storia
delle correnti idealiste in Italia”. 218. G. GENTILE, Bertrando Spaventa nel
primo cinquantenario della sua morte, in “Annali della Scuola Normale Superiore
di Pisa”, serie seconda, III (1934), fasc. 2, pp. 165-182. È il testo di un
discorso letto nell'aula magna dell’Università di Torino il 31 gennaio 1934
(vedilo anche in G. G., Memorie italiane e problemi della filosofia e della
vita, Firenze 1936, pp. 121-149). Il discorso ripropone e chiarisce i “concetti
originali” introdotti dallo S. nella filosofia italiana: la teoria della
“circolazione del pensiero”, la riforma della dialettica hegeliana e il nuovo
concetto 2543 dell'esperienza come “esperienza attiva”, raggiunto attraverso il
superamento del positivismo e dell’empirismo e naturalismo posthegeliani. 219.
E. GUASTALLA, La fortuna di Bertrando Spaventa nell’idealismo attualistico, in
“Archivio di storia della filosofia italiana”, III (1934), fasc. 4, pp.
334-346. Richiama i temi e i motivi che giustificano lo sviluppo della linea:
Hegel-Spaventa-Jaja-Gentile. Ma l’autrice vuole soprattutto mostrare la
necessità di abbandonare l’idealismo mistico o dogmatico per riguadagnare il
senso di una problematicità più ricca e articolata (l’a. sembra rifarsi ad alcune
indicazioni di A. Banfi, del quale v. l’articolo Lineamenti della tradizione
speculativa italiana, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, I
[1932], fasc. 2, pp. 97- 114). “La lettura attenta e diretta delle opere dello
Hegel ci mette di fronte ad una implicita problematicità del reale, che
scompare del tutto nello Hegel dello Spaventa, ma è appunto a quella implicita
problematicità dello Hegelchedobbiamo volgere l’occhio attento...” (p. 345). 220.
A. PASTORE, Sulla “Parentesi” inedita di Bertrando Spaventa, in “Archivio di
storia della filosofia italiana”, III (1934), fasc. 4, pp. 273-290; e in A. P.,
Scritti di varia filosofia, Milano 1940, pp. 197-218. A proposito della recente
pubblicazione della “parentesi” del 1858 [cfr. n. 113]. Le riflessioni
spaventiane del ‘58, posteriori alla prima edizione della Protologia,
costituiscono il primo documento fondamentale della scoperta del vero Gioberti
da parte di S. Ma questa scoperta, secondo P., si deve interpretare nel senso
che fu proprio la Protologia ad 2544 “aprire la nuova via ai pensiero di
Spaventa, destandolo dal suo anti-giobertismo che era un equivoco e
sostanzialmente portandolo a prendere maggiore e migliore notizia di sé”. L’a.
rivendica la necessità di guardare al pensiero giobertiano come a un tutto
unitario; non ci sono due Gioberti, il vecchio, e quello delle Postuzze, ma uno
solo: ed è quello che S. cominciò a scoprire nel 1858, scoprendo se stesso. 221.
F. ALDERISIO, L'esigenza realistica nell’idealismo di B. Spaventa, in “Archivio
di storia della filosofia italiana”, IV (1935), fasc. 2, pp. 99-132. L’autore
riprende e sviluppa alcuni temi, da lui già introdotti nella presentazione
della Parentesi del 1858 [cfr. n. 113], e che ora vengono approfonditi
attraverso l'esame delle ultime opere di S., soprattutto l’Introduzione alla
critica della psicologia empirica [105] e Esperienza e metafisica [94]. Nei
suoi ultimi lavori, S. si domanda in che senso il pensiero possa ammettersi
come causa delle cose. E la risposta è complessa: ci sono per S. “due fasi
dell’essere (le mezze cose, e la vera realtà attinta dall’essere rel pensiero e
co/ pensiero)”; e c'è anche “un duplice porre la realtà da parte del pensiero
(prima inconsapevole enaturaleepoicosciente: sintesi apriori primitiva e
sintesi secondaria)” (p. 125). L’attualismo ha avuto il torto di assolutizzare
— peccando così di unilateralità — l’ “esatto e importantissimo senso
spirituale e idealistico” della soluzione spaventiana; amputandola della
affermazione realistica, del riconoscimento della realtà delle “cose”, che S.
non avrebbe mai negato, perché riteneva di non poter sacrificare “la innegabile
diversità della realtà (il che di essa) dal pensiero”, da quel pensiero che ne
ricerca e afferma il cos'è, e che in tal 2545 modo trae il reale alla sua
verità (p. 126). S., secondo Alderisio, sarebbe più vicino a Hegel di quanto
non faccia pensare la lettura gentiliana: questa convinzione verrà ribadita
dall’a. in un più ampio lavoro del 1940 [232] nel quale è ristampato anche il
presente articolo. 222.F. FIORENTINO, Ritratti storici e saggi critici, raccolti
da Giovanni Gentile, Firenze 1935, pp. VI-361. Cfr. n. 163. 223. A. BRUERS,
Pensatori antichi e moderni, Roma 1936, pp. 308. Contiene (pp. 233-237) la
ristampa di uno scritto del 1926, nel quale si contesta la soluzione data da S.
al problema della nazionalità della filosofia. Il “genio italiano”, dichiara
B., è “sintetico”, ed ha una “tradizione specifica” che si esprime nella
“formula” del “trascendentalismo”; nell’affermazione cioè della trascendenza
come “legame potenziatore di tutte le dottrine e attività umane”. 224. F.
ALDERISIO, Revisioni e orientamenti idealistici, in “Archivio di storia della
filosofia italiana”, VI (1937), fasc. 3, pp. 201-224. Sono i primi due capitoli
di un lavoro, che l’a. continuò a pubblicare nella stessa rivista (1938, 1939),
e che ristampò poi in un volume del 1940: l’Esazze della riforma attualistica dell’idealismo
in rapporto a Spaventa e a Hegel [232]. 225. P. CARABELLESE, L’idealismo
italiano. Saggio 2546 storico-critico, Napoli 1938, pp. 379; Roma 19462, pp. XII-304.
Tesi centrale del libro: l’Italia “ha una sua originalità speculativa”, che si
manifesta soprattutto nel nostro “idealismo storico”; si tratta di un idealismo
“oggettivo” (affermazione dell’ “immanenza dell’Oggetto vero nei soggetti
certi”), che si deve distinguere e opporre all’idealismo soggettivo, così come
è lecito distinguere e opporre, storicamente, il Rinascimento alla Riforma e Rosmini
a Fichte e a Hegel. Per S. va tenuto presente, allora, il capitolo sesto
(Caratteri dell’idealismo storico italiano; nella seconda edizione, pp. 85
sgg.) e, in particolare, il paragrafo 36: L’idealismo italiano nella filosofia
europea: inversione e integrazione delle tesi di Spaventa. S. ha voluto dimostrare
il carattere europeo della filosofia italiana, e si trattava di fare proprio il
contrario, di commisurare la filosofia straniera a quellaitaliana; di affermare
la “vitalità” del nostro pensiero nel pensiero filosofico moderno, non la “circolazione”
del pensiero italiano in quello tedesco. Annotazioni particolari a p. 12
(contro S.: non è vero che dalla Controriforma in poi non ci sia stata libertà
filosofica in Italia), a p. 50 (S. e Gentile hanno costruito una interpretazione
sbagliata di Vico: il vero Vico sta nel De antiquissima), a p. 118 (sul
rapporto S.-Gentile-Croce: nei primi due è presente almeno l’esigenza
dell’oggettività, a Croce sfugge persino il senso del problema), a pp. 125 sgg.
(sul rapporto S.-Gentile; per C. tra i due filosofi c'è una linea di sviluppo
perfettamente coerente). 226. B. DONATI, L'insegnamento della Filosofia del diritto
e l’attività didattica di Bertrando Spaventa alla Università di Modena nel
1859-60, in “Rivista 254/ internazionale di filosofia del diritto”, XVIII
(1938), pp. 541-571. L'articolo è, in gran parte, frutto di ricerche di
archivio. Sono raccolti qui e illustrati i dati relativi al conferimento, a S.,
della cattedra di Filosofia del diritto nell’università di Modena, al programma
del corso e all’attività didattica del filosofo, al suo trasferimento a Bologna
e all’insegnamento “interinale” a Modena, in relazione alla nomina del fratello
Silvio. Importante l’analisi del discorso inaugurale del 25 novembre 1859
[110], e il rilievo della sua autonomia rispetto alle altre prolusioni di S.:
il discorso di Modena è il tentativo di costruire e di sostituire la “biografia
della nazione” a quella delle grandi personalità. 227.5. PELLEGRINI,
Nazionalità e universalità della filosofia nel pensiero di B. Spaventa, Firenze
1938, pp. 45. Due modi di intendere lo svolgimento storico della filosofia:
Hegel e Vico. “In Hegel, la preoccupazione che nella sua filosofia sistematica
si esprime col concetto dello spirito obbiettivo dà luogo alla tipizzazione di
gradi o momenti o atteggiamenti dello spirito in singole e diverse nazioni. Nel
Vico la sistematicità delle forme acquista una sua concretezza nella vita di
ciascun popolo” (p. 44). Nel concetto della “circolazione” del pensiero S. fa
rivivere la prospettiva vichiana, che sola offre la possibilità di conciliare l’universalità della filosofia con la sua “nazionalità”.
Ma in S. è presente anche (per motivi polemici, e di “accondiscendenza
storica”, p. 45) la visione hegeliana; e i due motivi non giungono a fondersi.
“In lui c’è la salda preoccupazione di affermare l’elemento universale come
costitutivo della filosofia e, nello stesso tempo, lo sforzo di rendere
giustizia alla esigenza storicistica che è nel 2548 concetto, si potrebbe dire,
nazionalistico della filosofia. Non si può dire che agli abbia potuto dare la
vera risoluzione del problema, la quale avrebbe trasceso i limiti generali
entro cui è contenuta tutta la speculazione spaventiana. La vera risoluzione
suppone una filosofia dello spirito che faccia consapevolmente centro lo
spirito come atto, e che in questo veda il determinarsi delle forme che sono
della storia effettiva” (p. 42 sg.). La “realtà” della nazione va cioè, attualisticamente,
“dedotta” dal pensiero, che solo può presentarla come “fatto necessario”. Sull’opuscolo
v. una nota del “Giornale critico della filosofia italiana”, XX (1939), pp.
103-104, che richiama in breve i termini della discussione del problema dal
punto di vista dell’attualismo. 228. E. VIGORITA, Bertrando Spaventa, Napoli
1938, Di22 Cfr. n. 229. 229. E. VIGORITA, Gerovesi, Galluppi, Spaventa, Napoli
1938, pp. 173. A S. sono dedicate le pp. 87-173. Lo scritto vuol soddisfare una
duplice esigenza: a) quella di “delineare lo svolgimento e illustrare le
conclusioni” — “con maggior chiarezza e ampiezza che non si sia fatto fin qui
dagli studiosi del filosofo abruzzese” — delle ricerche che condussero alla
tesi della “circolazione”; b) quella di mostrare che, se S. non giunse a dare
unità sistematica al suo pensiero, ci sono tuttavia nella sua opera “motivi
originali” o “originalmente elaborati” che sono ancora da mettere in luce (p.
134). Quanto al primo punto, l’a. trascrive 2549 diligentemente dalle lezioni
sulla filosofia italiana, dagli studi su Bruno e Campanella. Per il secondo
punto, riassume accuratamente Logica e metafisica, le Prime categorie, il
frammento sulla dialettica del 1880-81, i Principi di etica. Ne vien fuori
l’immagine di uno S. che non si discosta molto da quello presentato da Gentile,
sia nella valutazione della teoria della “circolazione” (equilibrio di “universalismo”
e “nazionalità”, pp. 128 sgg.), sia nel giudizio complessivo sull’hegelismo del
filosofo napoletano. S. si mostra indipendente da Hegel almeno in quattro
punti: 1) rielaborazione in senso attuali neo della dialettica hegeliana; 2)
concetto dell’apriori come “attività immanente allo spirito”, i. e. come
“potenza umana”; 3) riconoscimento del valore dell’attività pratica dello
spirito nel costituirsi della conoscenza; 4) risoluzione del dualismo di logica
e fenomenologia sul piano di un «empirismo assoluto”: l'identità di pensiero edessere
non è meramente logica, ma “viene ad identificarsi con lo stesso processo
genetico della coscienza” (p. 167). Il testo di un opuscolo di V. (Bertrando
Spaventa, Napoli 1938, pp. 29) presenta in forma abbreviata il contenuto dei primi
tre paragrafi (pp. 89-133) del saggio su S. pubblicato nel Gerovesi, Galluppi,
Spaventa. 230. A. BECCARI, Nazionalità e circolazione della filosofia italiana,
in “Atti della Società italiana per il progresso delle scienze”, maggio 1939,
pp. 549-554. Cfr. n. 231. 231. F. MONTALTO, Carattere nazionale della filosofia
italiana nel pensiero filosofico di B. Spaventa, in 2550 “Atti della Società
italiana per il progresso delle scienze”, maggio 1939, pp. 555-558. È il testo
di una relazione presentata nella ventisettesima riunione della Società
italiana per il progresso delle scienze, Bologna 4-11 settembre 1938. S.
avrebbe scoperto che “il genio italico è precursore’; l’a. sviluppa questa tesi
riferendosi direttamente alla situazione politica italiana del momento (qualche
richiamo a S. anche nel libro di Montalto L’intuizione e la verità di fatto,
Roma 1930, specialmente nel terzo capitolo). Nello stesso fascicolo è
pubblicata una relazione di A. Beccari (Nazionalità e circolazione della
filosofia italiana, pp. 549-554), nella quale si afferma che S. non appare
libero da pregiudizi universalistici, e dal “fanatismo per gli oltremontani”
(oggi “l’esperienza storica... ci ha abituati a rifiutare simili intimità
universali con nazioni con le quali preferiamo non identificarci”). S. ebbe
anche il torto di affermare che la religione cattolica ha ostacolato il
progresso del sapere. 232. F. ALDERISIO, Esazze della riforma attualistica dell’idealismo
in rapporto a Spaventa e a Hegel, Todi s.d. [1940], pp. 163; seconda edizione
accresciuta, Napoli s. d. [1959], pp.211. Alle pp. 129-162della prima (ma cfr.
224) edizione — che viene tenuta presente qui — è ristampato il saggio del
1935: L'esigenza realistica... [cfr. n. 221]. L’a. si domanda se S. sia
soltanto un precorritore dell’attualismo, oppure se il suo pensiero “possa e
debba... essere rivendicato a se stesso”, come “riviviscenza” — non come
ripetizione — dell’hegelismo, del quale il filosofo 2551 corregge qualche
punto, ma intende tuttavia e fa suo e conserva “il motore dialettico” (p. 7).
Quello di S. è “il miglior punto di vista filosofico” guadagnato dal pensiero italiano;
ma venne frainteso, oltre che da Gentile e dai gentiliani, da Benedetto Croce,
del quale l’a. respinge i giudizi negativi (capitoli primo e secondo). Neppure
gli attualisti hanno colto l’esatto senso del rapporto S.-Gentile, e cioè il
carattere tutt'altro che lineare e pacifico dello “svolgimento” prospettato in
quel rapporto. Solo A. Carlini ne ha tentato una revisione, accentuando il peso
della trasformazione del pensiero di S. operata da Gentile, ma in un senso per
cui il nesso viene pur sempre riaffermato come passaggio “da attualismo ad
attualismo” (p. 18). L’analisi delle pagine dedicate da Gentile
all’interpretazione di S. conferma, secondo l’a., che ci fu un “rivolgimento
del pensiero del Gentile dopo il 1903” (p. 21), che rimane oscuro, ma che non
è, in ogni caso, imputabile a S., proprio perché consiste nella trasformazione
dell’originario idealismo realistico, hegeliano e spaventiano, a cui Gentile rimane
ancora fedele nel discorso La rinascita dell’idealismo (1903), in un idealismo
empirico o soggettivistico di stampo berkeleyano. Lo scritto di A. prosegue con
un esame della Interpretazione e critica del Gentile al dialettismo hegeliano delle
prime categorie (capitolo terzo, pp. 29 sgg.; qui si osserva che il “pensare”,
in S. e in Hegel, ha un significato “cosmico, prespirituale e presoggettivo”,
che Gentile volle poi negare), passa allo studio della Interpretazione
gentiliana del dialettismo del Fischer (quarto capitolo, pp. 51 sgg.), poi alla
discussione della Interpretazione gentiliana del dialettismo di Bertrando
Spaventa (capitolo quinto, pp. 64 sgg.). Alle pp. 69 sgg., l’a. osserva che
Gentile ha “isolato” le pagine di S. da lui analizzate nella Riforzza della
dialettica hegeliana sciogliendole dai testi ai quali sono di fatto ZIIR collegate,
da Esperienga e metafisica e dall’Introduzione alla critica della psicologia
empirica, due scritti nei quali risulta evidente l’esigenza realistica
dell'autore [cfr. nn. 103, 94, 105]. Segue un capitolo sul Frazzzzento del
1880-81 (capitolo sesto, pp. 80 sgg.). L'ultimo capitolo (pp. 102 sgg.) si
intitola: Senso e valore della memoria del 1864 su le prime categorie. La
“dichiarazione” finale di Spaventa in Esperienzae metafisica (1882). Nella
“dichiarazione finale” S. riesce a correggere il carattere soggettivistico
della soluzione del 1864, mostrando “una intelligenza acutissima ed una rielaborazione
e ripresentazione, insieme personale e fedele, del punto di vista della logica
di Hegel” (p. 114). Nell’epilogo (pp. 119 sgg.), A. indica le prospettive che vengono
aperte da questa nuova interpretazione di S., che ne afferma il
“real-idealismo”, e che lascia prosperare tutta la ricchezza del pensiero del
filosofo napoletano e di Hegel: l'abbandono dell’equivoca critica alla
tripartizione del sistema hegeliano, e la ripresa o la rielaborazione di tutte
le “categorie logiche, naturali, spirituali” in funzione della possibile
“fondazione razionale di una dottrina tanto della filosofia che della scienza”
(p. 119). Nella seconda edizione sono aggiunti: un “discorso preliminare” (pp.
5-18), nel quale l’a. ripercorre la storia dei suoi studi spaventiani, e una
“postilla” all’epilogo (pp. 164- 175), che discute testi crociani. 233. A. C.
DE MEIS, Ricordi di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia
italiana”, XXI (1940), pp. 279-281. Cfr. n. 161. 2553 234. M. GRILLI, The Nazionality of
Philosophy andBertrando Spaventa, in “Journal of the History of Ideas”, II, 3,
giugno 1941, pp. 339-371. Contro
le posteriori distorsioni “ultranazionalistiche” dell'idea di filofia
nazionale, l’a. avvia qui un tentativo di chiarificazione, seguendo gli
sviluppi del concetto di nazionalità della filosofia nel pensiero italiano del Risorgimento,
e, in particolare, negli scritti di S. L'articolo riassume le posizioni dei
protagonisti della nota discussione (Mamiani, Gioberti, Rosmini, Vera, Silvio
Spaventa [riferendosi allo scritto del 1844, reso noto da Croce], Stanislao
Gatti, e, infine, Bertrando S.), dopo averne individuato i motivi ispiratori in
Herder, Fichte, Hegel (concetto di Vo/ksgeist e sua necessaria relazione al Weltgeist).
Una distinzione preliminare guida l’analisi dell’a.: quella che oppone le
vedute dei negatori della nazionalità della filosofia (“the universalists”,
Vera) alle ragioni dei nazionalisti di stampo giobertiano, e che da entrambe
dissocia “the cosmopolitan view”, affermazione della “traducibilità” delle idee
pur nel riconoscimento della varietà della loro applicazione nei diversi paesi.
L’a. ripercorre le fasi della formazione del pensiero di S. sull'argomento,
soffermandosi sulla prolusione bolognese e, soprattutto, sulle prime lezioni
napoletane. Il filosofo, sottolinea G., non fa cadere l’accento sulle
differenze delle filosofie nazionali, ma cerca di individuare “la speciale funzione
assegnata a ciascuna di esse nel contesto del pensiero europeo” (p. 367): la
via di S. è quella del cosmopolitismo. “From the national to the international and back again
— in the resolution of this dialectical antithesis — Spaventa, the Hegelian,
sees the development of philosophy” (p. 369). Era una prospettiva destinata al 2554 successo,
efficace; al di là dei limiti in cui si restringe il programma di Mamiani, al
di là dell’ “esagerato” patriottismo di Gioberti e della “sterilità” di
Rosmini, S. “dared to propose a clear-cut program of thoroughgoing reorganization
for the future of philosophic studies in Italy” (p. 371). E nella linea
indicata da questo programma si muoveranno Gentile e Croce, consapevoli degli
errori di un vacuo universalismo, ma anche della necessità di partecipare al
più largo moto della filosofia mondiale (p. 369). 235. F. L. MUELLER, La pensée
contemporaine en Italie et l’influence de Hegel, Ginevra 1941, pp. XVII-345. La
prima parte del libro (La tradition hegélienne en Italie, pp. 1-28) è dedicata
agli hegeliani dell'Ottocento (S., Vera, De Sanctis, Labriola). La seconda (pp.
83-202) e la terza parte (pp. 203-304), rispettivamente, a Croce e a Gentile; l’ultima
(Philosopbie et culture en Italie, pp. 305-340) alle scuole di Croce e Gentile,
e alle relazioni del neoidealismo con la vita politica e sociale italiana. Su
S. si vedano in particolare i capitoli primo (La philosophie è Naples et le Risorgimento,
pp. 3-16), secondo (B. Spaventa interprète delaphilosophieitalienne,pp.17-25) e
terzo (Spaventa contre le posttivisme, pp. 26-56) della parte prima; che
contengono, nell’ordine, una rapida presentazione del filosofo e delle sue vicende,
una esposizione delle tesi de La filosofia italiana (che l’a. non intende
discutere singolarmente e in modo specifico, cfr. p. 96), e finalmente un
riassunto degli studi sulla dialettica hegeliana; qui l’a. consente nel
giudicare la soluzione di S. come una“véritableébauche” dell’attualismo. Le
opere di S. sono il frutto di uno spirito critico, più che di un pensiero
veramente costruttivo; l'originalità del filosofo si manifesta soprattutto
nella 2399 ricostruzione della storia della filosofia italiana. A distanza di
anni, S. ci appare come un vero precursore, il cui programma risulta pienamente
giustificato e confermato dalla rinascita e dal successo del nuovo idealismo,
nei primi anni del nostro secolo. 236. M. F. SCIACCA, La filosofia italiana,
Milano 1941, pp. 150. Cfr. in particolare i capitoli secondo (La filosofia
italiana secondo B. Spaventa e G. Gentile) e terzo (Critica della tesi Spaventa-Gentile),
pp. 9-37. Per l’a. “non bisogna commisurare la filosofia italiana a quella
europea, ma la filosofia europea a quella italiana, perché siano messi in luce e
fissati nei loro momenti inconfondibili e precisi il carattere e il valore del
nostro pensiero, la perenne e potente vitalità di esso entro il pensiero
filosofico europeo” (pp. 35 sg.; cfr. pp. 39 sgg., dove è discussa la tesi di
P. Carabellese [cfr. n. 225]). Il rifiuto degli schemi artificiosi di S. (e di
Gentile) e il rilievo dell’antitesii tradizione italiana (anti immanentistica,
cristiana) — idealismo tedesco, acquistano un significato più specifico nelle
pagine dedicate dall’a, a Rosmini (cfr. p. es.: La filosofia morale di A.
Rosmini, Roma 1938, pp. 165; Antonio Rostrini nella storiografia italiana, in AA.
V V.,, Studi rosminiani, Milano 1940, pp. 175 sgg.), che respingono
l’interpretazione soggettivistica sostenuta da S.- Gentile. Cfr. anche n. 246. 237.
G. ALLINEY, I pensatori della seconda metà del secolo XIX, Milano 1942, pp.
423. Nel capitolo terzo (GL hegeliani) della seconda parte (Gt 2556 oncologi)
sono dedicati a S. (e al rapporto S.-Gentile) tre paragrafi (7-9), pp. 264-294.
Il paragrafo settimo (Bertrando Spaventa) espone gli studi del filosofo
napoletano su Kant e sulla filosofia italiana, su Gioberti e sulle prime
categorie della logica di Hegel (i saggi sulla dialettica hegeliana documentano,
secondo l’a., la persistenza di un’oscillazione tra fichtismo [dialettica del
pensare] e hegelismo [“magia” del sistema]). L’ottavo paragrafo (Spaventa e
Gentile) richiama le difficoltà — per l’a., insuperabili — intorno a cui si affaticano
invano gli epigoni di Hegel: la “condanna” dell’idealismo sta nella perdita
dell’ “oggetto” (p. 284). Nel paragrafo nono (Urzanismo dello Spaventa) è
respinta la teoria della “circolazione” e, con essa, il giudizio per cui S. riassumerebbe
in sé tutta la problematica filosofica del secolo scorso; l’a. richiama i
tratti dell’ “umanismo” di S. (il suo crudo storicismo, la sua fede
immanentistica) e accentua il rilievo della sua vicinanza alle posizioni dei
positivisti. Alle pp. 406-412 è collocata una bibliografia degli scritti di e
su S., che non aggiorna completamente la bibliografia gentiliana del 1924 [cfr.
n. 204].238. [G. BERTI], Materiali in preparazione del centenario di Antonio
Labriola, in “Stato operaio” [New York], II (1942), agosto, pp. 185-189; III
(1943), marzo- aprile, pp. 61-63, maggio-giugno, pp. 92-94, dicembre, pp.
122-126. L’a. cominciò a pubblicare questi Mazerzali nel fascicolo di
ottobre-novembre, anno I, 1941, di “Stato operaio” (la stampa dei Materiali si
arresta col numero del dicembre 1943). Qui sono indicati i fascicoli in cui si
discute di S., e del rapporto S.-De Sanctis e S.-Labriola, in una prospettiva che
anticipa il disegno dell’ampio studio pubblicato dal B., 2091 nel 1954, sulla
rivista “Società” [255]. 239. M. BUCCELLATO, Di un saggio sulla dottrina di Socrate
di B. Spaventa, in “Sophia”, XII-XIV (1944-46), ottobre-dicembre 1946, PP.
294-307. Analisi del saggio pubblicato da S. a proposito delle Considerazioni
sulla dottrina di Socrate di G. M. Bertini [62]. L’a. sostiene che lo scritto
di S. non fornisce nessun contributo originale, giacché dipende direttamente e passivamente
dalle pagine di Hegel e, soprattutto, di Zeller (un accenno alla nessuna
originalità di S. storico della filosofia si trova nello stesso fascicolo di
“Sophia”, in un noto articolo di A. Tilgher sulle fonti dell’attualismo,pp.280-293).
240. A. GUZZO, Maturi, Brescia 1946, pp. 160. Cfr. n. 251. 241. C. PAPA, La
storiografia filosofica hegeliana in Italia nella seconda metà del secolo XIX,
in “Rivista di storia della filosofia” [in seguito: “Rivista critica di storia della
filosofia” ], I (1946), fasc. 3, pp. 301-319. Gli autori studiati nell’articolo
sono: S., F. Fiorentino, F. Tocco. All’interno della stessa scuola hegeliana si
è determinata una reazione ai canoni
storiografici dell’idealismo, con l’abbandono delle esigenze e preoccupazioni
speculative che caratterizzano la posizione di S., e con il maturarsi di una
“tendenza filologica” che affiora già in Fiorentino e appare ulteriormente
sviluppata da F. Tocco. 2558 242. S. CARAMELLA, La filosofia dello stato nel Risorgimento,
Napoli 1947, pp. 90. Cfr. n. 201. 243. V. FAZIO ALLMAYER, La riforma della dialettica
hegeliana, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXVI (1947), pp.
101-116. Cfr. n. 191. 244. E. GARIN, Storia dei generi letterari italiani. La filosofia,
2 voll., Milano 1947, pp. IX-3 8 5, VIII-687. Cfr. n. 290. 245. G. DE RUGGIERO,
Hegel, Bari 1948, pp. 306. Cfr. n. 190. 246. M. F. SCIACCA, La filosofia
nell'età del Risorgimento, Milano 1948; seconda edizione con il titolo: Il
pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Milano 1963, pp. 494. Su S. v. in
particolare le pp. 440-450. L’a. ripete [cfr. n. 236] i rilievi contro
l’interpretazione “tendenziosa” di Rosmini, di Gioberti, e, in generale, contro
gli schemi della ricostruzione della storia della filosofia italiana proposta
da S. Acuta e sottile, ma discutibile, è giudicata l’analisi spaventiana della
sintesi apriori; incerta, la riforma della dialettica tentata nelle Prize
categorie [70]. Il filosofo 2999 continua a oscillare tra soluzione
soggettivistica e soluzione realistica, tra la riduzione della logica a
psicologia e il riconoscimento dei diritti della metafisica. 247. F. BATTAGLIA,
L'insegnamento di Bertrando Spaventa a Bologna, in “Giornale critico della
filosofia italiana”, XXVIII (1949), pp. 339-347. Chiarisce e precisa, in base a
documenti d’archivio, le vicende del passaggio di S. da Modena a Bologna, e
illustra la sua attività nell’ateneo bolognese; soffermandosi tra l’altro sulla
nota prolusione del 1860 [67], che nonfu letta, qui si dimostra, il 10 maggio,
come è stato detto per una confusione col discorso proemiale alle lezioni di
storia della filosofia. 248. A. L. DE GAETANO, Machiavelli e alcuni discepoli
della scuola idealistica. La politica e lo stato dei fratelli Spaventa, in
“Italica” [The Quarterly Bulletin of the American Association of Teachers of
Italian, Menasha, Wisconsin], XXVII (1950), pp. 214-224. Si vedano le pp.
214-218, per un raffronto tra le teorie politiche di Bertrando S. e quelle di
Machiavelli, un autore mai discusso negli scritti del filosofo meridionale. Le conclusioni
si leggono a p. 218: “Quanto ai fini, non vi sono divergenze per lo Spaventa e
il Machiavelli. Entrambi vogliono uno Stato forte e libero dal clero. I mezzi
possono essere anche gli stessi, e Spaventa cerca di giustificarli. Le disparità
si riscontrano nel confrontare due concetti diversi della verità, cioè il
concetto della verità razionale dello Spaventa col concetto della verità
effettuale del Machiavelli”. 2560 249. F. FERGNANI, L’opera e l'eredità di
Bertrando Spaventa, in B. S., Polemiche coi gesuiti, Milano 1951, pp. TII-XXXI.
Cfr. n. 101. L'introduzione di Fergnani è divisa in due parti. Nella prima (La
posizione filosofica, pp. III sgg.), l’autore indica la necessità di allargare
l’ “angolo visuale piuttosto ristretto” con cui Gentile guardò al filosofo
hegeliano, lasciando “in ombra” la relazione Spaventa-Labriola. S. ci appare
sempre orientato verso la “concretezza”, sia quando si tratti di cogliere il
nesso di riflessione teorica e situazione storica, sia quando si tratti di
considerare lo sviluppo storico della filosofia, o di impostare il problema del
rapporto: filosofia nazionale-filosofia europea. Tanto basterebbe per comprendere
perché “linsegnamento dello Spaventa sia entrato quale importante coefficiente
nella elaborazione del materialismo storico compiuta da Antonio Labriola”. Ma
cisono punti di contatto più specifici. Risentono della lezione spaventiana
l’ispirazione “strettamente monastica della concezione labriolana della
storia”, le critiche di Labriola a E. v. Hartmann e a Spencer, e ancora
l'affermazione dell'identità di lavoro e di storia, di teoria e prassi. Nella formulazione
dell’identità di “conoscere e fare, e nella critica dell’Assoluto trascendente
che lascia fuori di sé il relativo, sono, certo, i motivi più vitali
dell’insegnamento dello Spaventa passati nel Labriola e confluiti poi nel ripensamento
gramsciano della filosofia della prassi” (p. XV). Solo che S. sembra restaurare
nell’ “al di qua” quella trascendenza che la vecchia metafisica aveva collocato
in un mondo soprannaturale e sovrintelligibile: è questo il limite dell’
“immanentismo idealistico” di S. Nella seconda parte 2561 (La concezione
politica, pp. XVI sgg.), l’autore afferma la profonda unità e continuità tra
opere teoriche e opere polemiche di S., e il carattere progressivo della sua concezione
dello stato e del rapporto stato-chiesa, politica- filosofia. Per aver
innestato “la concezione dello stato etico nelle sue esperienze e convinzioni
di liberale del Risorgimento italiano” (p. XX), S. sembra anche in grado di superare
i limiti “burocratico-corporativi” della filosofiastatuale di Hegel. La
dottrina della eticità dello stato prospetta, naturalmente, una inversione
mistificata del rapporto società civile-stato; una inversione che va rovesciata
e che sarà rovesciata solo da un movimento “radicalmente innovatore”. Ma allora
si renderanno plausibili ed effettivamente operanti le istanze di immanentismo
e laicismo assoluto, di organicità ed unitarietà del convivere umano, che sono
implicite nella concezione degli S. (p. XX1V). Nelle ultime pagine, l’autore segnala
la profonda attualità delle polemiche spaventiane: oggi, dopo la “capitolazione
ideologica della borghesia”, la solidarietà dell'ordine borghese con la chiesa
cattolica può essere denunciata con le stesse accuse che S. rivolgeva contro la
collusione di ancien régime e gesuiti, di chiesa romana e movimenti reazionari.
250. G. ARFÈ, L’begelisno napoletano e Bertrando Spaventa, in “Società”, VIII
(195 2), pp. 45-62. Gentile ha deformato la figura di S., lasciando sullo sfondo
o travisando il ruolo svolto dal filosofo nella cultura italiana del secolo
scorso. La prospettiva gentiliana va rovesciata: l’originalità del filosofo
“non è grande”, la sua opera teorica “di secondo piano”, ma importante è la battaglia
politico-culturale condotta dal vecchio hegeliano, 2562 che ebbe “alta e sicura
fede nella libertà”, fu animato da una “profonda religiosità laica”, e combatté
per l’affermazione di un ideale giacobino dello stato, concepito come strumento
per la realizzazione delle più moderne e progredite forme di vita sociale. “In
Spaventa le formulazioni teoriche restano confuse, ma gli atteggiamenti pratici
affermati con appassionata decisione” (p. 49). Se la posizione teorica di S. è
ambigua, lo è anche nel senso che poteva dar luogo a sviluppi diversi: Labriola
fu «spaventiano di sinistra». 251. Gli hbegelianid’Italia. Vera, Spaventa,
Jaja, Maturi, Gentile, a cura di A. Guzzo e A. PLEBE, Torino 1953, pp. XIX-154.
Antologia di testi di Vera, S. (pp. 39-72; da Logica e metafisica), Jaja,
Maturi, Gentile. La scelta dei testi è curata da A. Plebe, autore anche dei
brevi profili di Vera (pp. 3-8), di S. (pp. 33-38), di Jaja (pp. 75-78), di
Gentile (pp. 141- 144). Guzzo ha firmato la presentazione di Maturi (pp. 101- 105),
la prefazione e la prima parte dell’introduzione (pp. IX-XVIII), conclusa da
Plebe (pp. XVIII sg.). Il volume è completato da una rapida nota bibliografica
(pp. 151-153). L’antologia è costruita con l’intento di mostrare i tratti originali
— e, complessivamente, poco “hegeliani” — dell’hegelismo italiano
dell'Ottocento, fino a Gentile. Guzzo ricorda una conferenza di Gentile del
1942, “che purtroppo egli non scrisse” (cfr. l’introduzione alla raccolta La
filosofia italiana fra Ottocento e Novecento, scritti di G. Tarozzi, V. Alemanni,
A. Carlini, M. Marasca, U. Scatturin, A. Plebe, Torino 1954, pp. XIV-146; cfr.
inoltre A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienga idealistica in Italia, Padova 1964,
pp. 203: il libro è utile anche per diversi accenni a S., 2563 e ai suoi
rapporti con i discepoli), e nella quale fu espressa forse la valutazione più
serena di quei pensatori, e della loro importanza per il pensiero italiano:
“gli hegeliani nell’ultimo ventennio dell’Ottocento raccolsero dai loro maestri
e trasmisero ai loro discepoli alcuni concetti delicati e difficili che,
estranei alla mentalità positivistica trionfante, sarebbero andati perduti se
essi non li avessero affermati così a lungo da riuscire a dar la mano ai
giovani che contribuirono alla rinascita dell’idealismo nel primo decennio del
Novecento”. Tra questi concetti, in primo luogo, quello del “trascendentale”
(p. XVI; per igiudizidiGuzzo su S., cfr. pp. XIV sg.). Plebe individua due
caratteri specifici dell’hegelismo italiano: “il desiderio di studiare Hegel
per ‘riformarlo’; l'interesse limitato ad alcuni problemi, che fa sorgere
un'immagine convenzionale di Hegel, propria degli interpreti italiani” (p.
XVIII; e cfr. p. XIX: abbandono dei “grandi problemi della metafisica
hegeliana” — con qualche eccezione in Vera —, attenzione esclusiva per alcuni
temi della logica, ecc.). Con questo programma e con questa eredità si spiega
la scarsa o nessuna incidenza, nell’Italia del primo Novecento, degli studi di
Dilthey, di Lasson, ecc. Nella presentazione di S., Plebe accenna alla
discussione di alcuni temi (accettazione, da parte di S., dello schema: Kant- Fichte-Schelling-Hegel;
impianto fenomenologico- gnoseologico della logica, ecc.) che sono sviluppati
in uno scritto dello stesso anno [cfr. n. 252]. Plebe attira l’attenzione del
lettore su una caratteristica oscillazione del vecchio maestro, che si presenta
ora come riformatore, ora come ripetitore di Hegel; e sottolinea il forte
interesse di S. per il positivismo. Sui rapporti degli hegeliani fra loro, sono
da vedere in particolare le pp. 4 sg. (Vera e S.), 75 sg., 78 (Jaja più vicino
al gnoseologismo spaventiano), 142 (Gentile erede di S. e dell’hegelismo
italiano dell'Ottocento). Le 2564 pagine di Guzzo su Maturi (pp. 101 sgg.)
ricordano l’evoluzione del filosofo dal gnoseologismo spaventiano a un idealismo
non del tutto concorde con la lettura attualistica di S. e di Hegel. Su questo
punto si veda anche il volume di Guzzo Maturi, Brescia 1946, pp. 160; in
particolare le pp. 138-144, dove è impostato il problema del rapporto tra Maturi
e S., nel quadro di un più ampio discorso che chiama in causa Hegel e Vera, e
che è svolto in funzione di una “possibilità di sviluppo critico” del pensiero
del Maturi. 252. A. PLEBE, Bertrando Spaventa a Torino, in “Filosofia”, IV
(1953), pp. 305-322; Bertrando Spaventa a Napoli, in “Filosofia”, IV (1953),
pp. 601-624. Il saggio è stato ripubblicato dall’a. nel volume Spaventa e Vera,
Torino 1954 (aggiuntovi uno studio su Vera, a cui si accenna più avanti); e
nella raccolta: La filosofia italiana fra Ottocento e Novecento [256]. In
queste pagine, P. ha voluto “delineare la figura di Spaventa come hegeliano e
come filosofo”, muovendosi al di fuori dello “schema di derivazione”
Hegel-S.-Gentile, “che è uno dei non pochi preconcetti inesatti che ancora dominano
la storia della filosofia” (p. 624). In base ai risultati raggiunti dall’a., lo
“schema di derivazione” appare meno giustificato nella prima parte (l’hegelismo
di S. è assai distante dalle intenzioni e dai testi di Hegel) che nella seconda:
motivi spaventiani passano senz’altro in Gentile. Ma S. non sta tutto nel
Frazzzento inedito del 1880-81 [103], né si può dire che Gentile “abbia
ereditato lo spirito e l’anima di Spaventa. Spaventa fu un logico, Gentile un’anima
intimamente religiosa; Spaventa amava guardare il positivo, mentre Gentile
amava guardare lo spirito puro” (pp. 623 sg.; e cfr. p. 618: Gentile “preferirà
ignorare” 2565 quegli aspetti del pensiero dell’ultimo S., che documentano il
suo orientamentoversouna forma di “idealismo positivo”, che trovò la sua
migliore espressione nell'opera di D. Jaja Sentire e pensare). Le conclusioni
di P. sono raggiunte attraverso vari confronti, spesso dettagliati, di scritti
di S. con pagine di Hegel, o con pagine di note esposizioni o rielaborazioni
del sistema hegeliano. Si tratta di raffronti operati successivamente
all’interno di diverse fasi di sviluppo del pensiero di S., e che tendono
pertanto a misurare la persistenza di alcuni fraintendimenti, passati definitivamente
nel disegno di un idealismo soggettivistico o gnoseologistico, più fichtiano
che hegeliano. Il saggio Bertrando Spaventa a Torino si apre con un'analisi
degli Studi del 1850. Dalla lettura della Vorrede della Feromenologia (la sola
opera di Hegel che, secondo P., il filosofo mostra di conoscere direttamente,
in questi anni) S. ricava già un’idea assai personale delle intenzioni dell'autore:
l’opera di Hegel sta tutta nella polemica antikantiana e antischellinghiana
della Vorrede, e la logicahegeliana è, o sarà, un semplice sviluppo della fenomenologia.
Le False accuse del 1851 documentano il persistere e il radicarsi di un’idea
mai abbandonata da S.: l’idea “della soggettività dell’essere logico
hegeliano”; e registrano ancora, come già gli Studi, l'accettazione convinta dello
schema di derivazione: Kant-Fichte-Schelling-Hegel. L'articolo su Schelling
(1854) mostra un notevole arricchimento delle letture spaventiane, e segna
anche l’inizio di un “caratteristico ondeggiamento per cui Spaventa, da una
parte, vuol riformare Hegel, dall’altra si mostra come suo docile e fedele
espositore” (p. 310). In una recensione del 1854, non segnalata da Gentile
[18], S. manifesta la sua “fiducia illimitata” in Gans e negli altri hegeliani
tedeschi. Nello Hegel confutato da Rosmini (1854), 2566 S. appare ormaipadronedella
Scienza della logica edell’Erciclopedia, ma la distinzione di Denken e Gedanke,
da lui sostenuta, è ancora ispirata da preoccupazioni gnoseologistiche che non
possono trovare giustificazione in Hegel. E il gnoseologismo di S. diventa
sempre più dominante nella recensione al Barni (37; “Sin da ora egli è convinto
della continuità di sviluppo da Kant a Hegel. Che questa sia un'idea molto
suggestiva è dimostrato dal successo che ebbe non solo in Italia, ma anche in Inghilterra,
ad opera dello Stirling [The secret of Hegel, 1865]; ma che essa sia una via
molto pericolosa, che può portare ad un completo fraintendimento di Hegel, è
stato mostrato da cinquant'anni in qua, attraverso la pubblicazione degli
scritti inediti hegeliani”, p. 311) e, in generale, nelle pagine e negli studi
di S. dedicati a Kant. Degli influssi degli hegeliani tedeschi P. tratta diffusamente
nelle pp. 313 sgg.; segnalando le citazioni da Werder, da Erdmann, da
Weissenborn, Rosenkranz, ecc., le probabili suggestioni esercitate da Karl
Philipp Fischer (autore della Speculative Charakteristik und Kritik des Hegelschen
Systeras, 1845, e dei Crundgtige des Systems der Philosophie, 1848), e, infine,
la utilizzazione, da parte di S., della Logik und Metaphysik (1852) di Kuno
Fischer, citata ben diciotto volte in Logica e metafisica, e seguita anche in pagine
che semplificano eccessivamente o addirittura travisano la Scienza della logica
(P. riporta alcuni esempi, tratti dall’esposizione della dialettica della
parvenza, e della dialettica delle forme del giudizio). Di Fischer, S.
condivide l'entusiasmo per Kant, e da Fischer accoglie le “forzature” del testo
hegeliano che tendono ad attenuare o addirittura a mutare in lode la polemica
antikantiana di Hegel. È nota poi l’affermazione di Fischer, secondo la quale
la logica “comincia” con il Willensakt des Denkens: qui S. trova una 2567 conferma
per il proprio soggettivismo, e qui siamo anche alle origini dell’attualismo
gentiliano. A conforto della interpretazione soggettivistica della logica
hegeliana, S. trae dai suoi studi sui filosofi italiani (soprattutto
Campanella) quella idea della “mente” o “mentalità” che passerà senz'altro
nella caratterizzazione spaventiana del problema della filosofia moderna. La
seconda parte del saggio (Bertrando Spaventa a Napoli) è dedicata, in primo
luogo, all'esame della riforma dell’hegelismo tentata da S.; al tentativo cioè
di “chiarire e sviluppare un hegelismo di tipo italiano (cioè di tipo gnoseologico-soggettivistico),
sistemandolo con più rigore di quel che fece Gioberti” (p. 601). Persiste anche
ora l’oscillazione tra lo S. riformatore e lo S. ripetitore di Hegel, una
oscillazione forse inspiegabile, ma che non impedisce, in ogni modo, di
ricostruire con chiarezza le linee della singolare impresa di S. L'analisi
delle Prize categorie [70] è preparata: 4) da un paragrafo, in cui P. mostra la
fedeltà di S. alla “logica del giudizio” (la critica che S. muove a Kant — necessità
del passaggio dal giudizio al sillogismo — “non esce essa stessa dalla
mentalità diadica ed è una critica rivolta da un punto di vista non meno
soggettivistico di quello kantiano”, perché “quel che importa a S., a
differenza di Hegel, non è già la circolarità logica, bensì l’attività dello spirito”,
p. 603); b), da alcune pagine sull’interpretazione spaventiana della logica
dell'essenza, che occupano una posizione centrale nel saggio di P. (pp.
604-608); qui si rende manifesta, nella sua intera misura e nelle sue gravi conseguenze,
la distanza che separa la logica di S. da quella di Hegel. Il movimento che
conduce dall'essere all’essenza è visto da S. come un processo gnoseologico, e
qui è l'origine del fraintendimento radicale: “se ... come voleva Hegel, Spaventa
avesse visto il passaggio dall’essere all’essenza 2568 come processo di
auto-internamento, di auto-giustificazione dell'essere, il problema delle prime
categorie sarebbe passato in secondo piano di fronte a quelli della logica dell'essenza,
che ne sono il fondamento” (p. 606). Coerente con questo fraintendimento è
l’introduzione dell’attualità mentale nella logica dell’essenza, ravvisabile,
secondo P., nelle pagine di S. dedicate al concetto di “esser-posto», alla discussione
dell’ “identità” e del “fondamento” (pp. 607 sg.). La fedeltà alla logica del
giudizio, l’ “incomprensione” della logica dell’essenza, e l’assunzione dell’
“identità” come “atto” illuminano il significato delle Prize categorie, che confermano
il carattere soggettivistico e gnoscologistico della logica spaventiana, di
quella logica per la quale il filosofo ha richiesto, fin dal 1850, una
fondazione gnoseologica. Le ultime pagine dell’articolo sono dedicate ai rapporti
di S. col positivismo (pp. 616 sgg.) e, soprattutto, a Esperienza e metafisica
[94]. Due convinzioni sempre più radicate nella mente di S., e già rese
pubbliche negli scritti polemici: “l’affermazione dell’assoluta immanenza della
ragione (e quindi la sua identificazione con la mente umana), e l’affermazionedella
naturalità del principio di ogni cosa.” (p. 616), preparano il maturarsi di un orientamento
assai favorevole al positivismo, o almeno a quella forma di “idealismo
positivo” che fu poi condiviso da Jaja. Anche questa evoluzione è spiegabile
con il particolare impianto dell’interpretazione di Hegel: il kantismo (o neokantismo)
e il “fenomenologismo gnoseologico” che stanno a fondamento di Esperienza e
metafisica hanno un’origine assai lontana. E l “aporia fondamentale” dell’ultimo
scritto di S. (come può giustificarsi una metafisica che deve “stare” al
“dato”?) coincide con quella dell’interpretazione spaventiana di Hegel (come è
possibile fondare la logica sulla fenomenologia, “lassoluto sul 2569 relativo,
l’unità sul dualismo”?; pp. 620 sg.). Se questi rilievi sono esatti, Esperienza
e metafisica costituisce il vero “testamento spirituale” di S.; il Frazzzzento
sulla dialettica del 1880-81 [n. 103] non aggiunge nulla, secondo P., alla riforma
del 1863, anzi oscura in più punti quella soluzione. Che è stata una soluzione
feconda, per un certo aspetto (per lo sviluppo dell’attualismo), ma anche piena
di pericoli: “Spaventa, identificando l’essere con l’atto del pensare, rende
impossibile (senza accorgersene) il consistere delle determinatezze, che
vengono tutte affogate nell’unità dell’atto” (p. 623). Dell’a. si veda anche il
saggio: AugustoVera,filosofodella mediazione, in “Filosofia”, V (1954), pp.
640-657 (Vera accoglie da Hegel il problema di una mediazione “metafisica” di
reale e razionale, che in S. vive solo nella forma ristretta della mediazione
“concettuale”; il saggio è ristampato in A. P., Spaventa e Vera, cit.). P.
accenna ancora a S. (e a Esperienza e meta-fisica) nello scritto: L’empirismo come
filosofia e come antifilosofia, in “Giornale critico della filosofia italiana”,
XXXVII (1959), pp. 301-311. Cfr. inoltre di Plebe la voce “Spaventa” in
Enciclopedia filosofica, vol. IV, Venezia-Roma 1957, coll. 824-827.253. F.
ALDERISIO, Cownoscenza scientifica e conoscenza filosofica, Napoli 1934, pp.
112. Del libro esiste una seconda edizione riveduta e accresciuta, Napoli 1963,
pp. 190. Per S. è da vedere soprattutto il capitolo settimo (La gnoseologia
vichiana e galileiana nella rivalutazione critica di B. Spaventa, prima
edizione, pp. 85-100). L’a. discute in particolare: la “lettera” Paolottismo,
positivismo, 2570 razionalismo, del 1868; Un luogo di Galilei, del 1882; Esperienza
e metafisica (1888). In questi scritti spaventiani, e specialmente nell’ultimo,
“risultano vigorosamente illustrati non solo il vero significato del
collegamento gnoseologico tra il Vico e il Galilei, ma anche la verità e il
senso più alto che si possa dare all’altro rapporto... tra la gnoseologia e metafisica
del Vico e quelle tedesche del periodo da Kant a Hegel”. 254. G. ARFÈ, Labriola
e Spaventa, in “Mondo operaio”, VII (1954), n. 7 (aprile), pp. 17-18. È
riprodotta qui in breve la tesi già prospettata dall’a. in un articolo
precedente [cfr. n. 250]. 255. G. BERTI, Bertrando Spaventa, Antonio Labriola e
l’hegelismo napoletano, in “Società”, X (1954), pp. 406- 430, 583-607, 764-791.
La tesi centrale dello scritto di B. si lascia riassumere agevolmente: da S.
(“la mente filosofica dirigente dell’hegelisrno napoletano”, p. 415) al
Labriola si delinea uno sviluppo dello storicismo italiano — certo complesso,
ma coerente nel suo interno svolgimento, e conforme alle tendenze già dominanti
negli hegeliani più avanzati — che trova il suo naturale punto di arrivo nella
prima elaborazione del marxismo, in Italia. Gli intellettuali che si raccolsero
attorno a S. e a De Sanctis costituirono un gruppo omogeneo, legato da tre
caratteristiche: “lo stretto legame con la vita, con la lotta politica, con la
storia”; l’avversione per l’ “idealismo dommatico, ortodosso...”; infine “il
tentativo, nel gruppo a tutti comune, di un superamento dell’hegelismo che
avveniva in tutti in una ZIFA analoga direzione: dall’astratto al concreto,
dalla metafisica delle idee a un tentativo di filosofia dell'esperienza, di filosofia
del reale” (p. 411). Nella prima parte del lavoro, B. studia soprattutto le riflessioni
di S. sulla “grande questione della filosofia: materialismo-idealismo” (p.
415). Sono riflessioni in cui si rispecchia lo sforzo di comprendere la
necessità del passaggio dal “vecchio” al “nuovo” (v. Esperienza e metafisica),
anzi lo sforzo di favorire questo passaggio, pur tra incertezze che finirono
per arrestare il cammino di S. (e di De Sanctis: sull'indirizzo e sui limiti
comuni al De Sanctis e allo S., v. pp. 413 sg.). Il discorso sui “limiti” di S.
non è mai abbandonato dall’a. “Dare un giudizio d’insieme su B. Spaventa non è
semplice” (p. 428), proprio per le “contraddizioni” che permangono nella sua
opera. E come è giusto sottolineare “la contraddizione tra il drastico radicalismo
del suo pensiero e il suo moderato liberalismo” (p. 419), così è necessario
respingere l’idea di una evoluzione chiara ed esplicita di S. dall’idealismo al
materialismo (p. 429). Tuttavia i limiti di S. si collocano ai confini estremi
di una posizione già prossima al suo rovesciamento. Allo S. “giacobino”,
rappresentante di un “Illuminismo sui gezeris”, di un “illuminismo dopo Hegel”,
bastava avvertire “che il prius doveva consistere non nella educazione della
plebe e nella sua elevazione a popolo, ma nel cambiamento dei rapporti sociali
(che avrebbe esso di conseguenza portato a questa elevazione)”, per trovarsi
nella posizione che fu poi di Labriola (p. 421; cfr. p. 420, e, per il “cauto”
atteggiamento di S. nei confronti dell'illuminismo francese, pp. 417 sgg.).
Allo stesso modo, S. appare assai prossimo al materialismo nella polemica col
Tommasi: “è nello studio Sulle psicopatie in generale che Spaventa arrivò alla
formulazione ultima della sua filosofia, allorquando, ZITZ criticando
radicalmente la definizione spiritualistica della psicopatia del Tommasi,
combattendo il concetto di una esistenzasostanziale dell'anima, affermò che lo
spirito era ‘nulla senza la materia’, gli parve cioè, lo spirito, materia e nient'altro
che materia, ma materia che nega e supera se stessa, ‘ed è quella che è solo in
quanto la supera” (p. 424). Lo scritto del 1872 Si colloca nel punto estremo di
“un momento decisivo” della evoluzione di S., che ha inizio nel 1864. In questi
anni, guidando Labriola, S. “riprese a considerate Feuerbach” (p. 422; e B.
ritorna spesso sulle tracce di un incontro Spaventa-Feuerbach, che gioverebbe, tra
l’altro, a spiegare le ragioni di un rifiuto, l’identificazione di tutto il
materialismo con il materialismo settecentesco). Anche qui, B. nega di voler
“puramente e semplicemente instaurare un parallelo storico-filosofico tra
Spaventa e Feuerbach”; suggerisce tuttavia che un tale parallelo “sarebbe...
forte di molte solide ragioni” (p. 429; e v. anche pp. 605-607). In nessun
modo, comunque, sarebbe possibile negare l’energica tendenza del filosofo “a
non lasciarsi incasellare... nell’una scuola o nell’altra, sotto l'una o
l’altra denominazione. In lui, in altri termini, l'assoluto non era più lo
spirito come in Hegel... e ... nemmeno la materia ...: l'assoluto, per lui, era
il divenire — ma profondamente differenziato — dell’ ‘una e unica sostanza’.
Qui non regge più il paragone con gli hegeliani spiritualisti o con Feuerbach.
Qui è Spaventa” (p. 430). La seconda parte del saggio è dedicata alla interpretazione
neoidealistica di S. L’a. discute in breve i giudizi incerti — e viziati, in
ultima analisi, “da una antipatia preconcetta” — di Croce (pp. 583-586), per
affrontare partitamente i tre temi — teoria della “circolazione”, riforma della
dialettica, “tentativo di una filosofia dell’esperienza come esperienza attiva”
— su cui si sofferma l’interpretazione 2573 di Gentile. Quanto al primo punto:
Gentile tendearovesciare la prospettiva spaventiana, attribuendo alla “circolazione”
quella priorità che spetta invece al “nesso dialettico vita
sociale-pensiero-storia”; sicché l’idea di S. diventa “una banale teoria dei
vasi comunicanti” (pp. 589- 591). Secondo punto (pp. 591-601). La riforma della
dialettica tentata da S. si costruisce in due momenti ben precisi: a)
riconoscimento che “il processo dialettico avviene interamente nella natura”,
dando luogo al differenziarsi di spirito e materia come forme distinte di
un’unica sostanza; b) su questa base, ma solo su questa base, affermazione dell'autonomia
del pensiero e trascrizione “logica” delle leggi del divenire naturale. Dato
l’impianto del suo discorso, S. non avrebbe mai potuto concludere, come
Gentile, che il divenire è solo divenire del pensare (p. 598; e, per un confronto
S.-Engels, v. pp. 599 sg.). Infine: nel concetto di “esperienza attiva” Gentile
vede anticipata la costruzione attualistica della identità di teoria e prassi.
Ma la forte accentuazione spaventiana del “lato attivo” dell’uomo va interpretata
tenendo presenti le indicazioni di Esperienza e meta-fisica: l’esperienza è
storia, ed è storia in quanto è lavoro; qui s'incontrano S. e Labriola (pp.
601-605). Nell'ultima parte del saggio, B. richiama, in primo luogo, l’attenzione
del lettore sulle dimensioni politiche delle polemiche sostenute da S. negli
anni dell’esilio torinese. Sono vicende non trascrivibili interamente sul piano
di una storia delle idee; non si intendono appieno, se non si ha presente il
quadro dell’ “accerchiamento ideologico e politico”, il quadro delle “generali
e minacciose ostilità” (p. 767) che colpirono gli hegeliani meridionali, a
Torino. B. ricorda soprattutto l’attacco di Gioberti ai giovani hegeliani (democratici,
quindi socialisti, comunisti) dalle pagine del Rinnovamento. La risposta di S.
(nell’articolo contro 2574 Tommaseo [51]) è “abile”, se si vuole; ma va notato
che mai il filosofo si difende dissociandosi dagli hegeliani di sinistra, e
sottoscrivendo una professione di “fede moderata” (p. 768, e cfr. p. 770).
Un’altra importante testimonianza di questo atteggiamento è offerta dalla
recensione alla Storia di uno studente di filosofia di G. Piola (pp. 768 sgg.;
e cfr. n. 41). Sono fatti che trovano la loro giusta interpretazione in Gramsci,
e che indicano una diversa collocazione politica degli intellettuali
meridionali, rispetto a quella dei liberali piemontesi e lombardi. Da “Hegel
gli hegeliani napoletani avevano elaborata tutta una dottrina sulla funzione
degli intellettuali ai quali sarebbe spettato il compito di elevare la plebe a
popolo e di creare, quindi, le condizioni pregiudiziali per una futura
democrazia: che essi vedevano possibile soltanto proiettata in un lontano
avvenire” (p. 771). Sarà, anche questo, un limite del loro democratismo; ma
intanto sta a indicare la presenza di una ispirazione democratica, che B. trova
confermata nel programma politico degli hegeliani nel 1848 (“utopistico, ma non
certo conservatore”) e nelle prime formulazioni dello “stato etico” (pp. 773
sgg.). Le originarie convinzioni progressiste di un De Meis non si oscureranno
mai del tutto, neppure nel Sovrano; e i Princìpi di etica di S. (pp. 776-779) confermeranno,
ancora, la presenza vitale di un disegno rivoluzionario (e sia pure di una
“rivoluzione intellettuale”). “Dopo il ‘60 Bertrando più di Silvio sentì la
necessità di conservare al liberalismo il suo slancio rivoluzionario, il suo momento
di rottura col passato” (p. 780). E mantenne una pur “inconfessata
collaborazione” con i positivisti più avanzati, lungo una strada percorsa anche
dal Labriola, che seppe distinguerci positivismo da positivismo (pp. 782 sgg.).
Anche su questo piano Labriola si incontra col vecchio maestro, e meglio di
ogni altro scolaro di S. (p. 785). Le ZITI ultime pagine dello studio di B.
(pp. 787 sgg.) fissano le tappe del progressivo distacco di Labriola dallo
illuminismo posthegeliano” dello S. e dalla concezione dello stato etico. In
una lettera del luglio 1875 [cfr. n. 137] B. individua il momento in cui, agli
occhi di Labriola, appare ormai “rovesciata”, con la subordinazione della
rivoluzione intellettuale alla rivoluzione sociale, la posizione del maestro.
Negli anni in cui Labriola veniva via via precisando il suo orientamento verso
il socialismo, non venne mai meno tuttavia l’amicizia per il vecchio hegeliano
(come non venne meno, più tardi, l'amicizia per Silvio). Anche questo dato esterno
conferma in qualche modo i risultati di tutta la ricerca. Sui rapporti
personali di Labriola e S., cfr. le lettere pubblicate a cura di B. [137]. Per
alcune pagine dello stesso autore che anticipano il discorso del 1954, cfr. n.
238. 256. La filosofia italiana fra Ottocento e Novecento, scritti di G.
TAROZZI, V. ALEMANNI, A. CARLINI, M. MARESCA, U. SCATTURIN, A. PLEBE, Torino 1954,
pp. XIV-146. Contiene la ristampa, col titolo Bertrando Spaventa hegeliano
eflosofo (pp. 85-126), del saggio pubblicato da A. Plebe in “Filosofia”, 1953[z52].
Accennano variamente a S. i saggi qui raccolti (e anch'essi già pubblicati
nella rivista “Filosofia”) di V. Alemanni (Pietro Ceretti, pp. 17 sgg.), di A.
Carlini (F. Acri, pp. 33 sgg.), di M. Maresca (I/ pensiero filosofico di
Filippo Nasci, pp. 51 sgg.). Cfr. inoltre n. 251. 257. P. SALVUCCI, Di alcuni
recenti interessi per i 2576 neohegeliani italiani dell'’800, in “Studi
Urbinati”, XXVIII (1954), n. 1-2, pp. 420-423. La rassegna è dedicata
all’antologia a cura di A. Guzzo e A. Plebe [251], ai saggi di A. Plebe del
1953 [252], all’articolo di G. Arfè del 1952 [250], allo scritto di F. Battaglia
del 1449 [247]. 258. P. TOGLIATTI, Per una giusta comprensione del pensiero di
A. Labriola, in “Rinascita”, XI (1954), pp. 254- 256, 336-339, 387-393,
483-491. Per S., si veda il quarto paragrafo (Movimento e crisi del pensiero
italiano dell'Ottocento, pp. 483-491). L’a. rileva gli aspetti “contraddittori”
della posizione del filosofo (S. afferma che la filosofia nasce dalla storia,
ma tenta poi una deduzione logica del processo storico; ci offre una corretta valutazione
del naturalismo, e di Darwin, ma resta imbrigliato nell’interpretazione
“kantiana” di Hegel e precorre, nelle Prize categorie, l’attualismo, ecc.); ma conclude
segnalando quelle pagine spaventiane (in particolare, la p. 138 di Esperienza e
metafisica, dove è affermata l’identità di storia e lavoro) che ci consentono
di comprendere come dalla scuola del “più grande dei filosofi hegeliani
d’Italia” sia potuto uscire Antonio Labriola. 259. F. ALDERISIO, R:presa
spaventiana, in “Il Saggiatore”, V (1955), pp. 159-168, 325-365; VI (1956), pp.
157-208. Il saggio di A. (vedilo anche ristampato in volume: Ripresa
spaventiana. Considerazioni sull'idealismo assoluto, sul materialismo
evoluzionistico e sul materialismo storico,Napoli 1959, pp. 174; in questa
edizione “riveduta e ZIaccresciuta” l’aggiunta più notevole è lo scritto:
Ri/lessioni di A. Gramsci sul concetto della finalità nella filosofia della prassi,
pp. 149 sgg.) è una rassegna assai minuziosa di recenti studi spaventiani.
Nella prima parte (pp. 159-168), dopo un breve accenno al giudizio negativo sul
filosofo napoletano espresso da G. De Ruggiero nel suo Hegel (1948), l'a.
ripropone le linee della propria interpretazione di S., costruita a partire dal
1933 in una serie di scritti ordinati in questa bibliografia con i nn. 113,
221, 224, 232, 253. S., secondo A., non fu, né volle essere, un “riformatore”
della dialettica hegeliana, nel senso voluto dall’attualismo; intese semmai
proporre una migliore interpretazione della deduzione delle prime categorie
della Scienza della logica. Gentile costruì il proprio idealismo attuale
indipendentemente da S.; la sua lettura del Frammento inedito del 880-81 è
sostanzialmente sbagliata, e costituisce, in ogni caso, un riconoscimento post
festum. Nella seconda parte (pp. 325-365), A. discute due scritti: quello di G.
Berti, del 1954 [255], e il saggio di P. Togliatti, dello stesso anno [258]. A.
respinge la tesi di una evoluzione di S. verso il materialismo, anche nella sua
formulazione più cauta (S. avrebbe “vissuto” la contraddizione di idealismo e materialismo).
Ma è giusto poi, secondo l’a., rivalutare, nell’opera di S., gli aspetti di un
orientamento politico progressista; lo stesso Gentile, individuando nel riconoscimento
spaventiano della natura “pratica” dell’autocoscienza la “chiave d’oro” della
“nuova” gnoseologia, di Marx e di S., ha fornito una prima indicazione sul
carattere “progressivo” di questi sviluppi paralleli di pensiero, nati da una
comune ispirazione hegeliana. Su questo punto, l'a. si sofferma nel paragrafo intitolato:
Breve indagine sul pensiero etico politico di Spaventa riguardante lo sviluppo
storico della coscienza sociale 2578 (pp. 340 sgg.). La terza parte della
Ripresa (pp. 157-208) è dedicata allo studio di A. Plebe del 1953 [252]: un
saggio, a giudizio dell’a., “troppo denso e forse scarsamente elaborato”, che
si riassume “in una critica negativa ed acerba”. Contro le stesse intenzioni
del suo a. (rottura dello schema: Hegel-S.-Gentile), lo scritto di Plebe
finisce per dar credito all’interpretazione gentiliana di S., solo rovesciando il
giudizio di valore sui motivi dell’apprezzamento di Gentile per il vecchio
maestro. A. discute e respinge via via le conclusioni di Plebe, difendendo
l’autentico hegelismo di S., la sua corretta lettura dei testi e la sua
interpretazione del sistema, per nulla ispirata dal proposito di una vistosa “riforma”.
Né sembra giustificato, per A., assumere Esperienza e metafisica come il testo
di un “idealismo positivistico”. La revisione delle analisi di Plebe, condotta attraverso
una ricostruzione diversa ma altrettanto particolareggiata dei testi in
discussione, e qui non riproducibile nel dettaglio, si conclude con la
riaffermazione della “profonda hegelianità” del filosofo napoletano. 260. N.
BADALONI, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze 1955, pp. 369. Si veda
soprattutto il capitolo quinto (Intorzo alla fama del Bruno, pp. 279-366), nel
quale sono ricordati (pp. 310 sgg.) gli studi spaventiani sull’argomento. Gli
scritti di S. sono accostati a quelli di Labriola e di De Sanctis (i quali seppero
cogliere il “messaggio di liberazione umana” racchiuso nelle pagine del
filosofo); ma all’a. sembrano poi viziati da un’analisi svolta in termini
speculativi, e sorda alla comprensione del “fondo materialistico” del pensierobruniano.
Si vedano anche le pp. 54. sgg. (sull’interpretazione, in S., del mito di
Atteone) e le pp. 113 ZIT9 sgg., 186 sg., sulla ricostruzione spaventiana della
morale e della politica di G. Bruno. 261. I CUBEDDU, Interpretazioni di
Bertrando Spaventa, in “Rassegna di filosofia”, IV (1955), pp. 38-47. Breve
resoconto degli scritti di G. Arfè [254], di G. Berti [255; limitato alle prime
due parti del saggio], e di A. Plebe [252]. 262. E. GARIN, Cronache di
filosofia italiana. 1900- 1943, Bari 1955, 19592; ristampa in due voll., Bari
1966, pp. VII-637. Cfr. n. 290. 263. E. GARIN, Felice Tocco alla scuola di
Bertrando Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXIV
(1955), pp. 489-495. Cfr. n. 115. 264. G. FICHERA, Il problema del
cominciamento logico e la categoria del divenire in Hegel e nei suoi critici, Catania
1956, pp. 166. I critici di Hegel studiati dall’autore sono K. Fischer, S. e Gentile.
Sullo S., v. in particolare il capitolo quarto, L’interpretazione spaventiana,
pp. 99-137, che discute le Prime categorie [70] e il Frammento inedito del
1880-81 [103]. Tesi centrale: nell’impostazione del problema del cominciamento
c’è, in Hegel, un vizio di fondo, che riaffiora e permane nel discorso degli
interpreti. Si vedano le pagine in cui l’autore conclude su S.: “la soluzione
spaventiana vale, a nostro avviso, solo a chiarire l’insolubilità del problema del
cominciamento logico e l’inconcepibilità dell'Essere, del Nulla e del Divenire
come categorie, nella cui determinazione è implicito l'equivoco hegeliano di
isolare i momenti strutturali della dialettica’ del pensiero (l’affermazione,
la negazione, il superamento), per farne altrettante determinazioni categoriali
che, come tali, presuppongono e non pongono il farsi o il dialettizzarsi del pensiero
logico. Ecco perché Spaventa, allorché vuol mantenere la posizione hegeliana
circa il problema del cominciamento, e parte dall’Essere come il puro
Immediato, si avvolge nelle medesime aporie hegeliane di presupporre al processo
del pensiero ciò che dovrebbe essere invece un suo prodotto. E quando [= nel
Framzzento inedito] chiarisce l'equivoco, assumendo l’Essere come pensiero,
deve sostanzialmente abbandonare il problema della deduzione del divenire: il
divenire non può essere dedotto, ma è se mai implicito nell’autoriflessione
dell'Essere, come pensare, essendo il pensare T'Essere stesso dell’Essere’””
(pp. 136- 137). 265. Sviluppi dello begelismo in Italia. F. De Sanctis, S. Tommasi,
A. Labriola. Una antologia dagli scritti a cura di M. Rossi, Torino 1957, pp.
CXI-201. A S. sono dedicate in particolare le pp. XVI-XXV dell’introduzione di
Rossi, precedute da una ricostruzione dell'ambiente napoletano del 1840-48, in
cui sono indicate le ragioni del prevalente interesse dei primi hegeliani per i
problemi teoretico-gnoseologici, e quindi per l’interpretazione fischeriana del
pensiero tedesco. All’a. la “circolazione del pensiero” appare una veduta
“ingenua, semplicistica e unilaterale”, che ha avuto tuttavia il merito di sprovincializzare
la nostra cultura, ponendola a contatto col pensiero europeo. Manca però in S.
una reale esperienza e quindi una giusta valutazione dell’illuminismo. La
riforma della dialettica hegeliana proposta da S. costituisce senz'altro la
premessa da cui discende l’attualismo di Gentile. L’a. osserva che “il
tentativo estremo di eliminare ogni residuo ontologico oggettivo, per quanto
possa sembrare legittimo in quanto si operi sul vuoto e astratto primum che è
l’essere”, si allarga fatalmente ad ogni determinatezza. Il tentativo può
sembrare giustificato rispetto a Hegel, perché in Hegel c’è, appunto, anche
questo aspetto; ma c’è anche l’altro, per cui la dialettica deve provarsi con
il contenuto determinato delle scienze, della natura e della storia.
Dall’attenzione per il lato formale nasce l’attualismo, dall’attenzione per i
contenuti la nuova dialettica, della sinistra hegeliana e di Marx. S. anticipa,
dunque, Gentile. Ma non trae tutte le conclusioni della sua riforma, e lascia
vivere il sistema. Questa contraddizione, “positiva”, dal punto di vista di R.,
è il riflesso di un’altra contraddizione: tra lo S. prcattualista e lo S.
liberale, l’esule, l’antigesuita, il filosofo attento all’evoluzionismo e al positivismo.
L’accoglimento di Hegel corrispondeva alla volontà di uscire dal marasma
intellettuale di Napoli. Ma S. “cercava la libertà e incontrò la monotriade
dialettica”; “i suoi interessi etici di liberale procedettero paralleli ai suoi
interessi teoretici, vi rimasero giustapposti, e con essi non s'incontrarono
mai”. Tant'è vero, che nei Principi di etica S. lascia cadere la deduzione
della monarchia ereditaria e ignora tutte le pagine reazionarie della Filosofia
del diritto: “liberalizza” Hegel sopprimendo — semplicemente — il reazionario
(a p. LIX cfr. anche un’annotazione particolare a proposito della polemica
sulle psicopatie: S. ci offre una “stranissima soluzione”. che “contamina” il
realismo herbartiano con la dottrina hegeliana dell’autocoscienza). Dalla linea
S.-Gentile divergela linea De Sanctis- Tommasi-Labriola, la linea “umanistica”
dell’hegelismo italiano già proposta da F. Lombardi nel suo Ludovico Feuerbacb
(1935) e ribadita in scritti posteriori. Degli Sviluppi dell’hegelismo cfr. la
recensione di N. Merher, in “Società”, XIV (1958), pp. 125-132; e, per un successivo
dibattito: G. Mastroianni, M. Rossi, N. Mediar, A proposito di alcuni studi
recenti sul Labriola, in “Società”, XV (1959), pp. 1011-1032. 266. F.
ALDERISIO, Introduzione a B. S., Sul problema della cognizione e in generale
dello spirito, Torino 1958, pp. IX-XXXVII. Nuova presentazione
dell’introduzione al testo spaventiano del 1858 [113], qui ritoccata e adattata
a “finalità didattiche”. L’a. riafferma la “piena e congeniale aderenza” dello
scritto di S. “col principio e senso fondamentale dell’assoluto razionalismo di
Hegel” (p. XXXIII). 267. V. FAZIO ALLMAYER, Ricerche hegeliane, con prefazione
di G. Saitta, Firenze 1959, pp. XVI-325. Cfr. n. 191. 268. F. E. MARCIANO,
Storia della filosofia italiana, Romza 1959, pp. VII-425. A S. sono dedicate le
ultime pagine dell’ottavo capitolo, che espone il pensiero italiano
dell'Ottocento (cfr. in particolare le pp. 334-337). Ma il nome del filosofo è
citato spesso nell’introduzione, che riprende e dibatte la questione della
“filosofia nazionale”, e quindi del “carattere” della filosofia italiana. La
tesi di S. (e di Gentile) vien fatta reagire con quelle di M. F. Sciacca [cfr.
nn. 236, 246], di P. Carabellese [cfr. n. 225], e con le vedute di F. De Sarto,
che l’a. è incline ad accettate (la filosofia italiana è filosofia dell'esperienza,
è sperimentalismo, ha carattere realistico, ecc.). 269. Un “pamphlet”
antidemocratico inedito di Bertrando Spaventa (1880), a cura di P. C. MASINI,
ir “Rivista storica del socialismo”, II (1959), pp. 304-326. Cfr. n. 116270. E.
GARIN, Ur “pamphlet” antidemocratico inedito di B. Spaventa, in “Giornale
critico della filosofia italiana”, XXXVIII (1959), pp. 572-574. Cfr. n. 116. 271.
A. BERTONDINI, Irtorno al “Socrate” di Labriola e Spaventa, in “Studi
Urbinati”, XXXV (1961), n. 2, pp. 236-248. Dalla lettura dello scritto di
Labriola su Socrate è possibile far affiorare il rifiuto della impostazione speculativa
che caratterizza l’analisi spaventiana [62] delle Considerazioni di G. M.
Bertini. 2584 272. F. ALDERISIO, Introduzione a B. S., Lo stato moderno e la
libertà d'insegnamento, Firenze 1962, pp. V- XXXVII. Cfr. nn. 101, 108.
L'’introduzione contiene utili indicazioni per favorire una prima lettura delle
due polemiche di S., i cui testi — si legge nella “postilla”, pp. XXXVIIT-XLI —
ben si prestavano, per la loro “affinità” e “complementarità”, per la “comune
ispirazione filosofica ed ideologica,tuttaprotesa verso l'ammodernamento della cultura
e dell'educazione e verso il rinnovamento più profondo della filosofia e della
vita politica in Italia”, ad essere presentati in un’unica raccolta antologica
(tra le recensioni dell’antologia cfr. S. C. Landucci in “Critica storica”, II,
1963, n. 1, pp. 112 sg.; e L. Pinto, in “Il Baretti”, IV, 1963, n. 21, pp.
168-171). 273.S. MAZZILLI, L’hegelismo in Italia, in “Cynthia”, 1962, n. 1-2,
pp. 28-32. È l'undicesima puntata di un lavoro, che ha come sottotitolo
costante: La problematicità. Qui sono avanzate esplicite riserve contro la
teoria della circolazione e contro l’interpretazione spaventiana di Hegel (cfr.
il saggio precedente, intitolato I/ divenire Iriadico, 1961, n. 5-6, pp. 39-43:
non è vero che Hegel volle “provare l'identità”, come pretende S.; ma v. anche
le pagine dedicate a L’attualismo, 1962, n. 4-5, pp. 27-33: è vero che S. ebbe
una concezione intellettualistica dell’“atto”, ne vide l'impotenza ad autodeterminarsi;
questo, che a Gentile apparve un limite, è per l’a. un pregio della posizione
di S., il quale sembra offrirci una confutazione anticipata dell’attualismo). 274.
P. ZAMBELLI, Tradizione nazionale italiana e sovranità etica razionale
nel’ideologia degli hegeliani di Napoli, in Problemi dell’unità d'Italia, atti
del secondo convegno di studi gramsciani (19-21 marzo 1960), Roma 1962, pp.
521-572. Contiene una minuziosa analisi e ricostruzione — con ricchi
riferimenti bibliografici - del pensiero etico-politico di S.: dai primi
documenti (Pensieri sull’insegnamento della filosofia [2]; l’a. tocca con la
dovuta cautela la questione della collaborazione di S. al “Nazionale” del
fratello Silvio) ai Principi di elica [97]. La posizione di S. appare all’a.
assai “avanzata”, pur nei limiti suggeriti dalla lettura delle pagine dedicateda
Gramsci al Risorgimento italiano. Muovendo da una primitiva avversione al
Cousin, e dai suggerimenti del fratello Silvio, S. sviluppò il disegno di una storiografia
fortemente critica, ispirata da una corretta concezione del nesso che collega
la filosofia con il processo storico (va riconosciuto, del resto, che “per la
provincia filosofica italiana lo ‘storicismo’ hegeliano non trovò superatori
fino al 1895 del primo saggio di Labriola”, p. 535); altrettanto progressive
appaiono le vedute di S. sul problema della “nazionalità” della filosofia. Se è
lecito riconoscere la disinvoltura “speculativa” dell'equazione: Gioberti =
Hegel, assai più importante è individuare e ribadire il valore “pratico”,
“efficace”, dell’operazione compiuta da S. (p. 556). Nella Libertà
d'insegnamento [108] è disegnato il concetto della moralità autonoma dello
stato, i. e. il concetto dello stato-guida, che prepara il momento della
libertà, difendendo e promuovendo gli interessi dei cittadini (pp. 537 sg.); ci
muoviamo qui su di un piano ben diverso da quello su cui Gentile affermerà il
suo ideale dello “Stato forte” (cfr. p. 568: appare equivoca all’a.
l'annessione di S. all’attualismo fascista; ai principi di S. si è potuto richiamare
il gruppo liberale borghese più avanzato, rappresentato da Gobetti). L'analisi
dei Principi di etica consente di concludere che nella prospettiva di S. “i problemi
della tradizione nazionale e della autonomia razionale e etica dello stato
vengono a convergere con un'impostazione che (se mantiene ovviamente il limite
di classe di tutte le ideologie borghesi, che non prendono in considerazione le
classi subalterne ed i loro specifici problemi, fittiziamente ridotti e
dissolti nell'unità nazionale) pur rappresenta la raggiunta maturità della
ideologia liberale in Italia; essa venne condivisa da tutto il gruppo d’opinione
che faceva capo ai due Spaventa, a De Meis e a Francesco Fiorentino” (p. 563).
Negli scritti della maturità non tornano più le rivendicazioni democratiche
(l’appello alla “ragione”, che si identifica con la richiesta del suffragio universale
e della gestione repubblicana dello stato) del 1850-51; ma resta e si afferma
ancora l’idea dell’ “evoluzione progressiva delle costituzioni” (p. 567). S. Si
muoverà certo entro prospettive “borghesi”, e nutrirà forse eccessiva fiducia
negli “espedienti” costituzionali; ma vi sono, nel suo pensiero, spunti e
riconoscimenti che meriteranno di passare negli scritti e nell’opera del suo
allievo Labriola. Nello studio della Z. si dà notizia di una lettera inedita di
S. a G. Del Re, del 12 ottobre 1850, che costituisce un altro documento
relativo al progetto di traduzione del volume di L. Stein sul socialismo e il
comunismo in Francia. 275. I CUBEDDU, Bertrando Spaventa pubblicista (giugno-dicermbre
1851), in “Giornale critico della filosofia italiana”, XLII (1963), pp. 46-65. Lo
scritto presenta la ristampa dei testi ordinati in questa bibliografia con i
nn. 5, 12, 14 [e cfr. n. 118]. L’autore rende note le ragioni che consentono di
attribuirne la paternità allo S. (pp. 50 sg.); riproduce i titoli di altri
articoli pubblicati sul “Progresso” di Torino e attribuibili anch'essi, ma con
qualche dubbio residuo, al filosofo (pp.52 sg., n. I); indica nello scritto di
L. Stein Der Socialismus und Communismus des beutigen Frankreichs la fonte di
alcuni articoli spaventiani (pp. 55 sgg.). L'autore conclude (pp. 62 sgg.) con
una cauta valutazione di questi testi “democratici” di Spaventa, nei quali il
filosofo esprime convinzioni successivamente attenuate o abbandonate. 276. S.
LANDUCCI, Di un celebre paragone tra Rivolnione francese e filosofia classica
tedesca, in “Belfagor”, XIII (1963), n. I, pp. 88-93. Analisi della
formulazione spaventiana del nesso: Rivoluzione francese-pensiero tedesco (in
Paolottismo, positivismo, razionalismo, 78), estesa dall’a. all'esame della presentazione
del paragone nel discorso di De Meis Darwin e la scienza moderna. L’a. conclude
per la derivazione da Heine (fonte anche del Carducci) del paragone
spaventiano; e ne individua, attraverso le varianti introdotte da S., gli elementi
di originalità. Si legge a p. 93 che S. — con De Meis — volle prospettare e
sostenere un “idealismo filosofico” che è “il corrispettivo teoretico delle
possibilità pratiche di razionalizzazione dcl mondo, di umanizzazione della
realtà, potentemente messe in luce dalla Rivoluzione francese...”. 277. F.
TESSITORE, Crisi e trasformazioni dello stato, Napoli 1963, pp. 259. Si veda in
particolare, nel primo capitolo (I compiti dello stato), il quinto paragrafo
(I/ significato dello stato per Silvio e Bertrando Spaventa, pp. 24-44), che
contiene un raffronto delle posizioni di Silvio e di B. sul concetto dello
stato libetale e sul problema delle garanzie costituzionali (e cfr., per B.,
un’osservazione di pp. 30 sg.: lo S. “trascurava, quasi subito, l'interesse
generoso di Hegel, che pur a tratti lo attirava, per le manifestazioni
‘oggettive’ del diritto, della moralità, dell’ethos, e seguiva... la via meno
certa, meno hegeliana: quella di formulazioni
nell’intimo neogiusnaturalistiche, che ritrovano un’assonanza, certo non
fortuita, con lo statalismo di Fichte”). 279.1. CUBEDDU, Berztrando Spaventa,
Firenze 1964, pp. 306. Il libro si divide in quattro capitoli. Nei primi due
(La nazione vivente, pp. 11-64; Ragione e libertà, pp. 65-118) sono studiati
gli scritti spaventiani del 1850-56, dal programma degli Studi sopra la
filosofia di Hegel [41] e dei Pensieri sull'insegnamento della filosofia [21],
al frammento sulla riforma filosofica, politica e religiosa nel XVI secolo [30];
attraverso gli articoli pubblicati sul “Progresso” nel 1851 (è ripreso qui, pp.
70 sgg., il tema del rapporto S.- Stein), le polemiche con la “Civiltà
cattolica”, gli scritti sulla libertà di insegnamento, i saggi su Bruno e
Campanella. Un riepilogo (pp. 110-118) di questa prima parte discute l “ampiezza
e la struttura specifica... della problematica nella quale si compongono e
prendono rilievo gli interessi più vivi del filosofo”, in quegli anni; si
allarga “alla considerazione del rapporto di Spaventa a Hegel e agli hegeliani,
del significato che è possibile attribuire agli studi sul Rinascimento, e
all’atteggiamento genericamente negativo nei confronti dei filosofi italiani
contemporanei”; e si conclude “con qualche osservazione sugli orientamenti pratici
e politici del giovane filosofo” (p. 110).Quantoalprimopunto,l’a.indica in che
senso e entro quali limiti le prime riflessioni e polemiche di S. presentino
“uno sviluppo affine alle grandi linee della polemica di Hegel contro Schelling,
contro l’empirismo e contro le filosofie della riflessione in genere” (p. 111).
Nei saggi sul Rinascimento, viene messo in rilievo un “duplice orientamento”
del filosofo, il quale, per un verso, tenta di rielaborare in modo autonomo i
temi speculativi individuati in Bruno e Campanella, per un altro verso impegna
quegli autori in un confronto esplicito con gli sviluppi dell’idealismo
tedesco; con risultati non del tutto convincenti, o non ancora convincenti,
prima che S. abbia raccolto i frutti degli studi su Spinoza e Jacobi, e della
nuova lettura di Gioberti. I lavori sui Rinascimento vanno ricondotti tuttavia
alla “più estesa prospettiva nella quale si inquadrano le esigenze e le convinzioni
etico-politiche del giovane Spaventa”, che tenta di cogliere e di elaborare i
primi germi di una concezione “organica” della società, nella quale sia dato
finalmente “al’uomo di conciliare la propria individualità, la soggettività dei
suoi impulsi e dei suoi bisogni, con la necessità della legge” (pp. 115 sg.).
In quella prospettiva appaiono all’a. semplicemente riaccostati elementi
attinti da diverse matrici (come per es. la critica di Rousseau, che coesisteconlapienaaffermazione
della sovranità popolare). All’a. non sembra dubbio, tuttavia, che le
formulazioni di S. “non costituiscono né vogliono costituire un vero e proprio programma
politico chiaramente e concretamente articolato, e quindi valutabile e
criticabile in quanto tale. Il quadro .... programmatico ... di quelle
dichiarazioni va trasposto e interpretato su quello stesso terreno sul quale
fermentano i propositi di una rigenerazione morale e intellettuale del 2590 popolo,
che deve attuarsi attraverso una totale rivoluzione filosofica” (p. 117). Se è
possibile ascrivere alla concezione di S. un limite, “che deriva dal carattere
parziale della prospettiva in cui si muove il filosofo”, non sarebbe giustificato
“svalutare i contributi particolari che Spaventa ha voluto apportare nella
discussione di problemi concreti e attuali, come è risultato dall'esame delle
polemiche sostenute in questi anni dalle colonne dei periodici piemontesi” (pp.
117 sg.). Il terzo capitolo (Fede e sapere, pp. 119-186) esamina gli scritti
spaventiani dcl 1856-59. Tra i lavori studiati in queste pagine vanno
segnalati, oltre ai primi saggi su Bruno e Spinoza, l'importante articolo su La
filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofia italiana, del 1856-60
[66], un manoscritto inedito di 66 pagine intitolato a Jacobi e qui datato:
1856-57 (per l’analisi dell’inedito, v. pp.151sgg.), e la cosiddetta
“parentesi” del 1858, pubblicata da F. Alderisio nel 1933 [113] e qui discussa
alle pp. 167 sgg. L’ultimo capitolo (La metafisica perplessa, pp. 187 sgg.) è dedicato
all'esame delle prime lezioni napoletane e della Filosofia di Gioberti. [69],
il “capolavoro” di S., minuziosamente ricostruito dall’a. (pp. 197-236); segue
un ampio paragrafo dedicato agli scritti sulla logica e sull’etica di Hegel
(pp. 236-274); le pp. 274-289 sono dedicate a Esperienza e metafisica [94], e
agli scritti sulla psicologia empirica. Un riepilogo (pp. 290 sgg.), che
discute tra l’altro lo scritto del 1881: Kart e l’empirismo [88], chiude anche questa
seconda parte del lavoro. Per una presentazione sintetica delle conclusioni, si
vedano le pp. 290-291: “Se volessimo indicare in breve, trasponendo queste considerazioni
sul piano di un bilancio complessivo, quale sia il limite che ci sembra
risultare dall’analisi della produzione scientifica di Spaventa, dopo il 1860,
dovremmo parlare di una riflessione critica che ha spunti e accenti fortemente
originali, che abbiamo visto maturarsi sul terreno di una sostanziale armonia
con gli interessi e con le esigenze espresse nel programma del 1850, ma che non
è riuscita a tradursi — e a placarsi — nella elaborazione di una dottrina
altrettanto autonoma e originale. Nel corso dell’ultimo capitolo abbiamo
sottolineato di volta in volta quali siano le oscillazioni, le suggestioni, e
soprattutto le esitazioni che è legittimo porre in rilievo attraverso la
lettura delle opere più fortunate ed anche più mature di Spaventa. La
considerazione non ci dispensa dal compito di giustificare, almeno in forma
sintetica, il titolo che abbiamo voluto dare all’ultima parte di questo lavoro.
In esso si esprime la convinzione che l’interpretazione di Spaventa data da
Gentile sia sostanzialmente aderente ai motivi fondamentali e alle esigenze
autentiche del pensiero del maestro. Accentuando il tema della perplessità,
abbiamo inteso indicare quali e quanti tributi il filosofo ha voluto pagare
all’enciclopedia hegeliana, pur continuando a prospettarsi la necessità di
prolungarne e di rielaborarne, in forma originale, i risultati e
l'insegnamento. Non ci è sembrato proficuo ricercare minuziosamente quali fraintendimenti
si frappongano fra l’analisi di Spaventa e il testo di Hegel. L’adesione del
filosofo al programma della prefazione alla Ferorzenologia e, più in generale,
alle pagine nelle quali Hegel sviluppa con maggiore asprezza la sua critica dei
filosofi contemporanei, avrebbe dovuto consentire al maestro — tale era
l'intenzione di Spaventa — la ricostruzione della vera ‘enciclopedia
giobettiana. Ma il filosofo, a nostro avviso, si è dimostrato consapevole, e
fin nelle sue ultime pagine, che questo programma non era giunto al suo
perfetto compimento”. I risultati ultimi della ricerca sono resi anche più
espliciti nella prefazione (pp. 5- 6): “il proposito di ricondurre a unità
l'insieme dei motivi che si innestano nella speculazione di Spaventa, di ricostruirne
la fisionomia complessiva e di riprodurne la problematica in un linguaggio non
troppo distante dalla nostra sensibilità, riesce a raggiungere il proprio scopo
— è una conclusione certamentenonnuova, della quale intendiamo tuttavia
assumerci la nostra parte di responsabilità — soltanto accogliendo la critica
spaventiana di Gioberti come l’unico strumento che ci consenta di penetrare
agevolmente il senso riposto fin nelle pagine più disperse e frammentarie del
filosofo, e più lontane, fra loro, nel tempo, dai primi scritti torinesi del
1850 alle ultime polemiche contro il positivismo. Svuotata dei toni e degli accenti
ormai estranei al nostro gusto e ai nostri interessi, liberata dalle
incrostazioni che costituiscono l’inevitabile residuo nella produzione di un
autore dotato di una personalità per molti versi fortemente recettiva, la
critica di Spaventa, largamente imperniata sulla polemica con il giobertismo, è
in grado di restituirci l’esatta misura dello hegelismo di cui si nutrì il
filosofo; il quale seppe mostrarsi hegeliano, per quel tanto che riuscì a
tenere insieme le innegabili doti e tentazioni sistematiche con una polemica aderente
al “carattere” e allo “sviluppo” proprio del pensiero moderno, italiano e
europeo. Questo convincimento implica che si ritenga ancora esatto e accettabile,
nelle sue linee essenziali, il giudizio che sull’opera di Spaventa volle dare
Giovanni Gentile; il che non significa, ovviamente, accogliere anche le
conclusioni teoriche dell’attualismo, ma, più semplicemente, attribuire a Spaventa
il merito o la responsabilità di aver avviato — tra incertezze e perplessità
che sono pure messe in luce in queste pagine — un’interpretazione di Hegel alla
cui storia il suo nome ci appare tuttora indissolubilmente legato”. 2593 279.
G. DE CRESCENZO, La fortuna di Vincenzo Gioberti nel mezzogiorno d’Italia,
Brescia 1964, pp. 569. Cfr. n. 147. 280. A. GUZZO, Cinquant'anni di esperienza
idealistica in Italia, Padova 1964, pp. 203. Cfr. n. 251. 281. S. LANDUCCI,
Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano 1964, pp. 512. Cfr. n. 287.
282. S. LANDUCCI, Il giovane Spaventa fra hegelismo e socialismo, in “Annali
dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli”, VI (1963), Milano 1964, pp. 647-707. Il
titolo non vuole indicare un’incertezza o un’oscillazione che sia da addebitare
al giovane S. democratico, collaboratore del “Progresso” e autore degli Studi
sopra la filosofia di Hegel. La ristampa degli articoli su La rivoluzione e
l’Italia e Le utopie [118], scritti negli stessi mesi in cui il filosofo
combatteva dalle colonne del giornale torinese la sua polemica sulla libertà
d’insegnamento, offre ormai — secondo L. — il materiale necessario per
ricostruire nella sua intera e coerente fisionomia un momento ben preciso della
biografia di S.; quel momento in cui si intrecciano, sostenendosi e
confermandosi a vicenda, un hegelismo “assai preciso e articolato” (anche se
“‘interpretato’ o fortemente sollecitato”, p. 661) e una autentica fede democratica
e repubblicana, traducibile in termini di “démocratie sociale, alla francese”
(p. 657); per cui gli scritti spaventiani del 1851 vanno a collocarsi “accanto
alle opere dei repubblicani non mazziniani fiorite in questi stessi anni e caratterizzate
dal continuo riferimento alle vicende francesi” (p. 658). Sullo stesso terreno
in cui si incontrano hegelismo, democrazia e socialismo, fermentano i propositi
di rigenerazione civile e intellettuale della società italiana, che caratterizzano
il primo “programma” di S.; alle discussioni di questo tema L. contribuisce
anche ripubblicando un “annuncio” della traduzione spaventiana di Stein [120], rimasto
finora ignoto. L’ampio saggio di L. offre al lettore,in sessanta pagine, tante
analisi, riflessioni, suggerimenti,non riproducibili qui nei particolari. In
generale, il discorso è sviluppato con la preoccupazione di aderire alle varie utilizzazioni
— da parte di S. — delle due fonti, Hegel e Stein, nella specifica situazione
politica e culturale di quegli anni; sicché il rilievo di residue “astrattezze”
non nasce da un impianto già “ideologico” della lettura (cfr. p. es. p. 663: “tutte
le rappresentazioni dell’hegelismo italiano che partono da pregiudiziali
equazioni ‘ideologiche’ (hegelismo = speculazione, o hegelismo =
conservatorismo, ecc.), talvolta non distinguendo sufficientemente neppure tra Hegel
e i vari ‘hegeliani’, non possono che fallire il bersaglio”). Nelle prime
pagine del saggio, L. difende le convinzioni democratiche e repubblicane di S.
(anche contro le riserve di altri interpreti [cfr. n. 275], p. 655; e v.
ancora, per questi dissensi interpretativi, pp. 661, 673, 704), accettando la derivazione
steiniana degli articoli sul “Progresso” (p. 649), ma rivendicando l’autonomia
della lettura spaventiana in molti punti (v. pp. 650, 660, 671, 682). Nel
democratismo di S. cè un’ “indubbia precarietà”; c'è una “astrattezza teorica”
nella posizione del filosofo che, dopo il 1851, comincia a orientarsi verso un
atteggiamento da ultimo conservatore-autoritario. Gioverà tener presenti i due aspetti
dell'ideologia di S. (e di molti hegeliani, con lui): l’aspetto, appunto,
“conservatore” dello “stato etico”, e quello “giacobineggiante e
antidottrinario”, che ha la sue radici nelle polemiche torinesi del 1850-51, e
che continuerà ad operare anche dopo il 1860 (pp. 656 sg.). Ma c'è, poi, “astrattezza”
e “astrattezza”; c’è il socialismo “escatologico” e “universalistico” di La
rivoluzione e Le utopie, c'è il più corposo antidottrinarismo della polemica
sulla libertà d'insegnamento, in cui la prospettiva escatologica, a contatto
con problemi attuali e reali, si precisa come “tentativo di sollecitare da
sinistra un’evoluzione in senso più democratico della politica del Regno sardo”
(pp. 681 sg.: e cfr. p. 695). Gli articoli sul socialismo hanno certo un “carattere
tutto teorico, ideologico’: “la formula democraticorepubblicana del popolo
oppresso” non coglie gli effetti specifici del “meccanismo del profitto
industriale” (p. 671); ma da Stein S. mostra di ricavare anche indicazioni sul rapporto
tra das Gesellschaftliche e das Wirtschaftliche (ivi; cfr. p. 649). Nella
ricerca delle dimensioni reali, storiche, che strutturano gli orientamenti del
giovane S., acquistano allora particolare rilievo, per il L., le prime
battaglie del filosofo: la sua critica della religione (pp. 652 sgg.; e cfr. p.
654, sull’uso “non speculativo” della dialettica hegeliana dello spirito
assoluto), gli scritti sul problema della libertà d’insegnamento (contro le
tesi del “Risorgimento”, organo dei cavouriani), e la polemica contro la
“Civiltà cattolica”, e contro la critica cattolico-reazionaria dell’hegelismo
(matrice del socialismo, del comunismo ecc.; v. soprattutto le pp. 663 sgg.).
Se si tiene presente il contesto storico (anche sotto il profilo della
diffusione delle idee) da cui emergono questi primi scritti di S., sarà
possibile trovare una collocazione reale per il socialismo “astratto” del loro
autore; la prospettiva “escatologica”, espressa in termini “ideologici”, “speculativi”,
non si traduce mai in mera esercitazione “retorica”: sicché non sarebbe giusto
sommergere le formulazioni spaventiane sotto il peso dell’Ideologia tedesca (cfr.
pp. 651, 658, 680), né sarebbe esatto, neppure filologicamente, rintracciarne i
limiti nel peso esercitato dagli schemi di una filosofia della storia già
distorta in senso speculativo. Giacché l’hegelismo del primo S. è tutt’altro che
“accademico”; il rapporto filosofia hegeliana-democrazia francese si
costruisce, in S., attraverso il richiamo alle pagine più “progressive” di
Hegel (e alle pagine della Filosofia della storia, prima ancora che a quelle della
Filosofia del diritto): si vedano i rilievi di L. a proposito della concezione
della libertà come libertà “categoriale”, dell’ “assunzione estremamente seria,
e praticizzata, dei concetti hegeliani di Fresbeitsbewusstsein e di freie Personlichkeit”,
della giustificazione delle rivoluzioni in base allo “scarto” tra “ragione” e
“esistente”, tra la realtà e le (nuove) idee, tra la realtà e gli istituti
giuridico-politici ormai superati (pp. 660-663). Nella critica spaventiana di Rousseau
— sviata, in certa misura, dagli equivoci giudizi di Hegel — va dato rilievo
all’ “intenzione giacobina, contro i criteri formalistici di rispetto delle
forme liberaldemocratiche” (p. 672 sg.). Nella critica degli appelli alla
natura va letto il rifiuto di quella “tipica commistione del naturalismo
biblico teologico con il naturalismo ideologico della moderna economia
politica” che è prospettata nel Rirzovamento di Gioberti (p. 675). “In queste
prese di posizioni, non si ha se non un’accentuazione estremamente progressiva
della concezione hegeliana della storia: è del tutto superata l’identità
settecentesca di ratura e ragione; tra i due termini è istituita una scissione
radicale, e quella razionalità reale che domina nella storia universale è considerata
foto coelo diversa e opposta alla immediata natura. Questo è il grande acquisto
intellettuale ormai raggiunto dallo Spaventa” (ivi). È l'acquisto “vichiano” e “hegeliano”
di S., la scoperta del “lato attivo” dell’uomo, nel suo rapporto con la natura;
scoperta celebrata da Marx, e da Labriola (p. 676). Tutto questo implica
l'abbandono del naturalismo illuministico, in una prospettiva ancora illuministica
“se per ‘illuminismo’ si vuoi semplicemente intendere, categorizzando il
termine, il particolare radicalismo di una critica razionalistica
dell’esistente storico” (p. 677). In che senso le pagine di Hegel riescano a
confortare questo orientamento di S. — che si sostiene, tra l’altro, in base a
numerosi richiami a Kant, e al Kant della Critica della ragione pratica —, L .
lo ricava da un’analisi (pp. 683-693) dell’articolo su Schelling, del 1854, qui
largamente riprodotto [22]. Nel necrologio diSchellingvengono alla luce le
“origini” della riflessione di S., “l’ispirazione rivoluzionaria, ‘francese’,
l'ispirazione della Filosofia della storia... [e la]... polemica contro
l’intuizionismo irrazionalistico, la rivendicazione della ragione e delle determinatezze
in contrasto col formalismo insieme intellettualistico e mistico’ (i. e.
l'ispirazione della Prefazione alla Fenomenologia): i due temi (pp. 690 sg.)
che strutturano gli Studi sopra la filosofia di Hegel e che rappresentano i due
aspetti di una stessa polemica, contro Gioberti (pp. 692 sg.; alle pp. 687 sg.
v. anche alcune osservazioni sulle radici del parallelo Rivoluzione francese — filosofia
tedesca in S., per il quale cfr. n. 276). Nell’ultima parte del saggio (pp. 693
sgg.) L. riproduce e commenta l’ “annuncio” della traduzione di Stein, da lui 2598
scoperto [cfr. n. 120]; un testo più “moderato” degli articoli del ‘51, ma che
interviene anch’esso a confermare il quadro delle “origini” del pensiero di S.:
le — prime — fonti hegeliane (Feromenologia e Filosofia della storia) confluiscono
in una Weltgeschichte, la cui prospettiva universalistica appare anche come il
riflesso del riconosciuto “carattere internazionale dei fenomeni economici e
dei problemi sociali in età moderna” (p. 698). A p. 696 si legge questa
osservazione: “In certo senso si potrebbe dire che la lettura dello Stein tenne
il luogo, per Spaventa, di quegli studi degli economisti moderni che lo Hegel
aveva compiuto in gioventù e dei quali il nostro autore poteva avere qualche sentore
solo attraverso la biografia del Rosenkranz”. Ora L. conclude: “Così,
attraverso questa presentazione [scil. l’ “annuncio” del 1850], l'interesse di
Spaventa per lo Stein appare tutt'altro che estemporaneo nella biografia intellettuale
del filosofo: in qualche modo parallelo a quello per Hegel. Da un lato una
traduzione dal francese, dall’altro una traduzione dal tedesco; ma traduzioni
che volevano essere interpretazioni, non ‘calchi’. Non provincialismo, ma neppure
vacuo cosmopolitismo...” (p. 699). Dunque queste “origini” forniscono
indicazioni concrete anche rispetto agli sviluppi posteriori del programma
degli Stud:: alla teoria della “circolazione” e alle tesi sulla “nazionalità”
della filosofia. Resta il problema del passaggio di S. (e deglialtri hegeliani)
dal democratismo avanzato degli inizi al più tardo conservatorismo, “certo
illuminato ma anche assai chiuso e non di rado arcigno” (p. 703). Lo studio di
L. si chiude con un richiamo alle indicazioni di Gramsci sulle ragioni di “classe”
che determinarono l'assorbimento nelle file dei moderati di quegli
intellettuali democratici. 283. G. OLDRINI, Gt begeliani di Napoli. Augusto 2399
Vera e la corrente ortodossa, Milano 1964, pp. 299. La figura di Augusto Vera
merita “la più attenta considerazione e il più attento esame” per “la complessa
natura delle intersezioni della sua filosofia con i problemi della società
contemporanea lungo tutto l’arco del Risorgimento europeo, in paesi chiave
(Francia, Inghilterra, Italia) e in nodi storici culminanti (il 1848,
l’unificazione italiana, la Comune, i prodromi dell’imperialismo)” (p. 13). L'impostazione
e il metodo della ricerca, che tiene conto delvario e complesso intreccio di
prospettive filosofiche e atteggiamenti pratici, sotto la spinta degli eventi
via via maturati nella storia italiana e europea, consentono di offrire allo
studioso di S. (e della sua scuola) nuove prospettive: in primo luogo, la
presentazione del rapporto S.-Vera (del rapporto tra idealismo “critico” e
idealismo “ortodosso”) al di fuori dello schema tradizionale, che oppone i due
filosofi come rappresentanti di due diversi orientamenti speculativi, in ultima
analisi come due diverse “personalità” filosofiche. Interessa lo studioso di S.
e della scuola spaventiana soprattutto il secondo capitolo della parte seconda,
intitolato: Le lotte filosofiche interne del circolo di Napoli, pp. 164-239.
L’unità apparente (e necessariamente apparente, se si bada alle diverse “radici
della formazione hegeliana di Vera”, che “non sono le stesse di quelle del gruppo
spaventiano dei fuorusciti”, p. 168; ma su questo punto, si veda tutta la prima
parte del lavoro, dedicata alla “genesi dell’hegelismo napoletano”, alla
“formazione filosofica” e alla “svolta hegeliana” di Vera) che caratterizza il
“fronte hegeliano” di Napoli fino al 1863-64, comincia a incrinarsi
visibilmente nei primi scontri tra “ortodossi” e “critici” sul problema della
nazionalità della filosofia (pp. 167-171); la portata e le ragioni del dissidio
che 2600 contrappone l’uno all’altro i due orientamenti si rendono più
esplicite attraverso l’analisi delle divergenze rilevabili nella presa di
posizione di S. e di Vera sulla questione del rapporto fenomenologia-logica
(pp. 172-180; cfr. pp. 177 sg.: dal momento che S. nella fenomenologia “non
sottolinea come Vera — o non sottolinea accentuatamente come V era — il momento
della denegazione del processo di elevazione della coscienza a scienza in
favore dello sbocco nel‘sapereassoluto’, può anche mantenere nei confronti
della riforma ‘auspicata da Trendelenburg un atteggiamento molto più elastico e
libero... può... scorgere nel ‘movimento’ assunto come ‘primo’ ... il lato
realmente attivo, positivo, che lo assimila al ‘pensiero’, poiché anche il
pensiero, in se stesso, è movimento: movimento logico”). Il contrasto tra le
due scuole si approfondisce sotto la spinta di nuove tendenze (naturalismo,
positivismo...) che si impongono come riflesso del “progresso impetuoso
dell’attività pratica” (p. 181), e che contribuiscono alla formazione di una
“terza scuola” (Siciliani; Fiorentino, Tocco, poi Masci; ecc.), ancora in qualche
modo controllata o almeno ispirata da S.; la nuova scuola si presenta come
“fronte unico” contro l’ortodossia, e costringe gli ortodossi ad arroccarsi “in
una strenua difesa a qualunque costo della filosofia della natura di Hegel” (p.
194). La paura del positivismo e del materialismo spinge sempre più decisamente
Vera sulla strada che sbocca nella presentazione della scienza e della
metafisica “come rigidi estremi contrapposti” (p. 197). Ma se il destino di
Vera e degli ortodossi si consuma, attraverso il progressivo “isolamento” del
gruppo, nella totale autodissoluzione della dottrina (pp. 228-239), il
profilarsi di una “sinistra materialista” come espressione di una spinta
popolare sempre più minacciosa e temuta blocca gli intellettuali borghesi
meridionali più avanzati su posizioni di difesa. Per 2601 l’analisi del
fenomeno, allargata all’individuazione dei suoi fattori economici e politici,
si vedano le pp. 201-215. “Gli intellettuali borghesi meridionali si
stabilizzano sulle proprie posizioni egemoniche di classe, cessano di
rappresentare, sia nei confronti dell'evoluzione sociale del paese, sia nei confronti
della classe borghese in generale, una forza viva, attiva,storicamente
progressiva, e preoccupati più di non cedere terreno, di non farsi soverchiare
dalla pressione popolare in crescita, che di promuovere una spinta in avanti, perdono
in capacità di iniziativa, organizzazione, penetrazione” (p. 207). Matura così
la formazione di una “nuova destra” (Maturi, Jaja) nel circolo di Napoli. “Come
le pericolose oscillazioni della struttura quanto mai instabile della società
spingono la borghesia a puntare sulla dissoluzione dei vecchi partiti politici,
così altrettanto, in filosofia, la vecchia destra ‘ortodossa’ e la vecchia
sinistra ‘critica’sono travolte e dissolte dal movimento della nuova generazione
intellettuale; e come gli ideologi borghesi giustificano l’operazione dell’
‘endosmosi istorica” e del ‘trasformismo’ col pretesto di sbarrare la via alla
marea montante del proletariato e di salvare in questo modo il patrimonio di
libertà e di civiltà faticosamente acquistato nei lunghi anni delle lotte
risorgimentali, così col pretesto di salvare tutt’intera l'eredità culturale
dei vecchi maestri del circolo, di Vera e di Spaventa, la tendenza
trasformistica del tardo idealismo filosofico napoletano giustifica il rilancio
del loro insegnamento in guisa volutamente così truccata... da presentarne
l’apporto in sostanza come identico, come due facce della stessa medaglia” (pp.
215 sg.). Ma né Spaventa né De Sanctis appaiono travolti in questo processo involutivo:
si vedano le pagine dedicate al loro “tentativo di un superamento ‘critico’
interno dello hegelismo” (pp. 220- 225), seguite da un paragrafo sulla “eredità
spaventiana di Antonio Labriola” (pp. 225-227). Riprendendo, tra l’altro, la
proposta di G. Berti [cfr. n. 255], l’a. scrive: “Contro la chiusura filosofica
della ‘nuova destra’, contro l’involuzione trasformistica, in politica, della
Sinistra storica, De Sanctis e Spaventa attuano in filosofia e in politica, per
quanto riescono, rimedi lungo un arco che va, politicamente, dalla fondazione
di una ‘giovane sinistra’ costituzionale... alla lotta per la moralizzazione e
la riforma dello ‘spirito di consorteria prevalente nell’andazzo di una
politica governativa che alimenta discriminazioni e privilegi in favore delle
classi agiate, e a una linea programmatica di rinnovamento profondamente
democratico del paese, di ricambio dei quadri dirigenti, di irradiazione e
diffusione della libertà, della civiltà, della cultura, di una moderna concezione
laica del mondo; e che ha d’altra parte il suo correlativo, sul piano delle
idee, in un forte movimento di pressione per una svolta anche filosofica a
sinistra, inaugurata proprio dal tentativo di Spaventa e De Sanctis di un
superamento ‘critico’ interno dello hegelistno, che in loro avviene, come si è
detto, nella stessa direzione:dall’astratto al concreto, dalla metafisica delle
idee a un assorbimento della metafisica nella ‘filosofia del reale’”” (pp. 22330.)
Oltre ai rimanenti, numerosi richiami a S., si veda, a p. 250, il testo di una
lettera inedita di Vera a S. sul rapporto di politica e religione, lettera che
è l’“unico documento epistolare che ci resta” dei rapporti tra i due filosofi. Di
G. Oldrini v. anche La crisi della cultura filosofica napoletana sul declino
dell'Ottocento, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXI (1966),
pp.141-177, 264-284. 284. B. WIDMAR, Antonio Labriola, Napoli 1964, pp. Viene
citato qui soprattutto per il primo capitolo (pp. 393-441) della seconda parte,
dedicata a Labriola e i suoi critici; il capitolo presenta un’ampia rassegna di
studi, fra i quali il saggio di Berti del 1954 [255], lo scritto di Togliatti dello
stesso anno [258], gli articoli di A. Plebe del 1953-54 [252], la Ripresa
spaventiana di F. Alderisio [259], gli Sviluppi dell’hegelismo di M. Rossi
[265], ecc. Per i rapporti S.-Labriola vedi anche il primo capitolo della parte
prima (La giovinezza di A. Labriola, pp. 9-81). L’a. tende ad attenuare il
nesso S.-Labriola, rifiutando la tesi proposta da G. Berti (per il rilievo dei
limiti della posizione di S., cfr. anche l’introduzione di W. All’edizione de
La filosofia italiana, da lui curata [cfr. n. 99], pp. 5-19). 285. D. D'ORSI,
Uxa scoperta di notevole importanza; il testo inedito della “Fenomenologia” di
Bertrando Spaventa, in “Sophia”, XXXIII (1965), n. 1-2, pp. 138-147. 286. E.
GARIN, Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico, introduzione a A.
LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Bari, 1965, p. VII- 287.
S. LANDUCCI, L’hegelismo in Italia nell’età del Risorgimento, in “Studi
storici”, VI (1965), pp. 597-628. Alcuni temi già individuati in precedenti
analisi [cfr. n. 276, 282] sono ripresi qui e riproposti nel più ampio disegno
di “un problema autentico nostro, di noi italiani” (p. 597, n.): un problema di
“tradizione”, nei confronti di quell’hegelismo che “non è stato solo un
movimento accademico, di professori, ma è stato un elemento della vita civile
della nazione nel momento culminante del suo Risorgimento” (p. 615). C'è una
duplice “eredità teorica” dello S. La scoperta delladimensione“pratica” dell’autocoscienza,
nella rielaborazione della Ferorzenologia (pp. 605 sg.); la rivalutazione del
“positivo umano” (pp. 607 sgg.); la reinterpretazione della logica hegeliana
nei termini di una metodologia imperniata sulla “definizione genetica” e il
disegno di una antropologia filosofica, non naturalistica (p. 610): questa è
l'eredità ripresa da A. Labriola. C’è anche l'eredità dell’ultimo S., raccolta
da Jaja e da Gentile: la “rivendicazione dell’apriori gnoseologico”, che mette
capo a “una forma di umanismo spiritualistico” (p. 611); l’ultimo S. lavora
alla “conservazione del sistema [hegeliano]... con modificazioni al suo
interno” (p. 614; sul “riformismo” di S. in sede di logica, cfr. pp. 603 sg., e
relativa nota). Più complesso appare il discorso sullo S. politico. Per lui (come
per De Sanctis, De Meis, ecc.) si “fanno subito avanti problemi di sviluppo
ideologico legati allo sviluppo politico del nostro paese”; problemi che non si
risolvono registrando -— semplicemente — la “conversione” di alcuni
intellettuali democratici a posizioni di moderatismo variamente colorato, o
rubricando, per S., le polemiche contro la “Civiltà cattolica” e le riflessioni
sul rapporto stato-chiesa sotto la voce: “anticlericalismo” di moda (pp. 614,
627). Dal 1848 l’hegelismo italiano acquistò un vigore “civile” che non andò
perduto dopo il 1860. “Se nacque in provincia e finì poi come fenomeno
‘europeo’, nel suo momento di maggior vigore l’hegelismo italiano fu altro: un
fatto nazionale — come interpretazione della rivoluzione ‘nazionale’ che s'andava
compiendo e sollecitazione per uno sviluppo moderno, avanzato, di essa; e come
teoria, in una parola, della connotazione eminentemente politica che avrebbe dovuto
assumere il concetto di nazionalità” (p. 616). Riaffiorano ora nel discorso di
L. temi già emersi nello scritto sul giovane S. [282]: l’appello alla Filosofia
della storia, il motivo hegeliano-illuministico della ragione che “rovescia
l'esistente”, il superamento del cosmopolitismo astratto (Vera) e del
cosmopolitismo reazionario, controriformistico (Gioberti), nelle prime lezioni napoletane.
Nella teoria della “circolazione”, al di là degli schemi e delle forzature, va
letto “l’avvertimento di un problema reale, e di ungrande problema, anzi la
prima esatta presa di coscienza di esso in senso critico, il problema stesso al
quale si ritroverà di fronte anche il Labriola in rapporto al materialismo
storico”: il problema della tradizione nazionale. “Che l’hegelismo di Spaventa
non sia stato solo teoria della rivoluzione nazionale, ma anche, in connessione,
posizione del problema stesso della ‘tradizione nazionale’, comporta di nuovo
ch’esso non risulta chiuso nella sua epoca storica, bensì lascia un’altra
eredità che attraverso una linea precisa torna a giungere a noi. Inoltre, della
concreta ricostruzione spaventiana rimangono indicazioni non più smentite:
Bruno, Campanella, Vico” (p. 620). E restano la battaglia contro il
giobertismo, contro l’ “abito retorico” e la “mentalità retrograda” dei secoli
bui, resta la rivendicazione dell’Italia del “libero pensiero” contro l’Italia
“dei carnefici e degli oscurantisti” (p. 621). Le ultime pagine (622 sgg.)
ribadiscono il “carattere accentuatamente radicale” che l’hegelismo di S. seppe
mantenere anche negli ultimi scritti dedicati alla discussione di questioni
etico-politiche; i motivi ispiratori del “giovane” S. continuarono ad operare
nella difesa dello stato laico, che trae “la sua legalità dalla sovranità
popolare anziché dal diritto storico o da consacrazioni superiori”, e nella delineazione
di un “ethos nuovo” (p. 627 sg.). Questa è l'eredità che rimane, malgrado le
formulazioni “ideologiche” di cui pur appare rivestita; “se una memoria tragica
si è storicamente interposta fra noi e la formula dello ‘stato etico’, ben di
qui si impone di riattingere nella sua genuinità il contenuto di quell’eticità
reale che allora rivendicarono, quando si costruiva una realtà nuova, i nostri hegeliani”
(p. 628). Dello stesso autore va segnalato anche il volume: Cultura e ideologia
in Francesco De Sanctis, Milano 1964, pp. 512. Il nome di S. è avvicinato più
volte a quello del De Sanctis, per indicare i numerosi punti di contatto tra i
due autori, sul piano di un comune impegno culturale sviluppato in una direzione
“nazionale” e non astrattamente intellettualistica o anacronisticamente cosmopolitica, con. la piena consapevolezza
del compito “politico-pedagogico” che spetta al lavoro degli intellettuali. 288.
F. ALDERISIO, Ur articolo ineditodi B. Spaventa circa l’unità organica della
filosofia di Bruno e circa l’attinenga di questa con la filosofia di Spinga, in
“Giornale critico della filosofia italiana”, XLV (1966), pp. 218-225. 289. D.
D’ORSI, prefazione a B. S., Scritti inediti e rari (1840-1880), Padova 1966,
pp. IX-XVI. 290. E. GARIN, Storia della filosofia italiana, 3 voll., Torino
1966, pp. XIV-495, VII+496-954, VII+955-1383. Da vedere l’ “avvertenza” del
1966, per il raffronto tra questa edizione e la precedente [cfr. n. 244]. La
seconda edizione presenta integrazioni e correzioni soprattutto nell’apparato
delle note, “trasformato in un inizio di bibliografia essenziale ma
sistematica”, che rende conto di nuove e mutate prospettive storico-critiche.
Le pagine che riguardano direttamente S. appaiono sostanzialmente identiche
nelle due edizioni. Si vedano, dell’introduzione del 1966 (vol. I), soprattutto
le pp. 10-14 (= 1947, vol. I, pp. 7-10), dedicate alle tesi delle prime lezioni
napoletane di S. (con qualche riserva sulla storiografia spaventiana “fatta di precorrimenti”,
ma anche col riconoscimento della sua fecondità), nel corso di una rassegna
delle diverse interpretazioni e valutazioni della tradizione filosofica italiana
nella storiografia illuministica e risorgimentale, fino a Croce e Gentile e
agli storici più recenti (su S., cfr. ancora pp. 22-24). Nel capitolo sugli
hegeliani italiani, a S. sono dedicate dieci pagine (vol. III, pp. 1229-1238 =
1947, vol. II, pp. 627-636). L’itinerario di S. si snoda, secondo G., senza fratture
lungo una linea la cui coerenza risulta soprattutto se si tengono presenti il
programma di rinnovamento culturale e i bersagli polemici del maestro; le
pagine sulla nazionalità, la tesi della “circolazione”, la ricerca di un
hegclismo “autonomo” (S. “intendeva ascendere alla sua logica attraverso una
sv4 fenomenologia”) si accordano bene con le ultime indagini sul “valore
dell’esperienza”, rivalutata appieno in nome di un “assoluto umanismo”, che è
“rigida aderenza all'attualità spirituale nella sua storica concretezza”. Un
“epilogo” (rinascita e tramonto dell’idealismo, vol. II, pp. 1261 sgg.)
aggiunto nella edizione del 1966, indica già nel titolo il taglio con cui è
condotto il discorso sulla filosofia italiana del Novecento. Si conclude
accennando a una “problematicanuova”, ispirata alla lezione di Gramsci; e si
apre con un richiamo alle reali, autentiche esigenze di S., filosofo “della
rivoluzione” negli anni giovanili, aperto più tardi a una problematica
‘positiva’, anche se antipositivistica, mai chiuso entro “limiti provinciali”; interprete,
sì, di Galluppi, Rosmini e Gioberti, teorico certo della “circolazione”, ma
“sotto la doppia urgenza di un processo politico in atto, e di una presa di
posizione polemica all’interno di quel processo politico medesimo”. La figura
di S. appare nella sua giusta luce, più che nelle interpretazioni “speculative”
dei suoi scritti, nella lettura attenta delle sue pagine polemiche, contro la
tradizione platonizzante della filosofia italiana, contro il “rinnovamento” del
Mamiani; si disegna chiara nella «più sfumata discussione del positivismo: una
discussione, questa, ben consapevole dell’importanza dell’avversario”. Qui, S.
si incontra con De Sanctis (vol. III, pp. 1262-1264). Questa insistenza
sull’umanismo di S., sul carattere “positivo”, “critico” del suo filosofare;
questa nuova presentazione del parallelo S.-De Sanctis (e del rapporto S.- Labriola),
rimandano alla lettura di altre pagine di G. Intanto, al primo capitolo delle
Cronache di filosofia italiana (nell'edizione del 1966 [Bari], pp. 1-20; cfr.,
in particolare, pp. 14 sgg.). Poi, allo scritto Antonio Labriola e i saggi sul materialismo
storico,premesso a A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Bari
1965, pp. VII-LXV. Sono da vedere, qui, soprattutto le’ pp. XXII-XXX, sull’insegnamento
di S. dopo il 1862, e sul peso che ebbe, quell’insegnamento, nella formazione
di Labriola. Il “rapporto fra Labriola e S., così come l’hegelismo e l’herbartismo
coesistenti dialetticamente in Labriola, e il suo atteggiamento tanto duramente
polemico contro il positivismo, e poi il suo movimento verso il marxismo, non si
intendono se non si restituisce il suo volto al magistero napoletano di S. dal
‘62 in poi, così poco hegeliano ‘ortodosso’, ma anche così lontano dalle vie
percorse, attraverso l’esperienza feuerbachiana, dai ‘giovani hegeliani” tedeschi”
(p. XXIX). L'incontro S.-Labriola ha avuto un significato decisivo, che va
ribadito, non certo “ai fini di più o meno artificiose genealogie
(Hegel-S.-Labriola) o di improponibili simmetrie (Hegel-S.-Labriola, corze
Hegel- Feuerbach-Marx). Quel che importa sottolineare è altro: è la trascrizione
della ‘circolazione’ operata da Labriola sul terreno storico, nel senso che
nell’Italia comunale si individua l’avvio della società borghese (‘comincia
prima che altrove... e poi si arresta’), ponendosi così il problema dei motivi
di quell’arresto, e l’esigenza di una consapevolezza, necessaria per rientrare
nel circolo del processo politico europeo” (p. XX sg.). Non basta, però: c’è un
passaggio reale, un legame che resta, tra il rigore critico e scientifico del
maestro, e quello dello scolaro, avviatosi poi su altra strada. Da S., Labriola
eredita l’ “immagine della filosofia come ‘scienza’, come elaborazione di
concetti, come coscienza critica”, “contrapponendola alla ‘filosofia scientifica”;
con S., Labriola vede in Hegel “un punto fermo, ma non un sistema definitivo”;
più tardi, “vedrà analogamente in Marx una conquista in campi determinati, una
tappa necessaria, un’acquisizione metodica essenziale, non un’ ‘onniscienza’,
una enciclopedia da ripetere per sempre” (p. XXXII). In questa prospettiva si
può parlare di un nesso S.-Labriola, presentato qui in pagine che vogliono servire
a illuminare la figura e l’opera di entrambi i filosofi. 291. M. A. RASCHINI,
Validità e limiti dell’interpretazione spaventiana del Rosmini e del Gioberti,
in “Giornaledi metafisica”, XXI (1966), pp. 265-269. “Lo Spaventa afferma che
la coscienza o unità originaria del conoscere come puro conoscere, in quanto è
sintesi, è relazione tra i termini ad essa immanenti. In questo concetto fondamentale
di relazione sta il problema attraverso cui cercare l’incontro; esso è
veramente il centro della problematica post-kantiana e, per quel che ci
interessa, spaventiana, rosminiana, giobertiana”. Su questo piano, che fissa i
limiti entro i quali è autentico l’incontro di S. con Rosmini e Gioberti, può
svilupparsi un discorso che indica nel concetto di “relazione” proposto da S.,
e nella dialettica che dovrebbe esprimerla, la “contrazione di una tesi più ampia”,
di una più valida “mediazione” che, in Rosmini e Gioberti (e sia pure con
qualche differenza tra i due autori), è aperta alla ricerca di una fondazione
ontologica. 292. G. VACCA, Recenti studi
sull’hegelismo napoletano, in “Studi storici”, VII (1966), pp. 159-209. L’ampia
rassegna prende in esame tutti gli studi apparsi nell’ultimo quindicennio, ma
si richiama anche a lavori e prospettive meno recenti (Croce, Gentile, L.
Russo...) per presentare un preciso raffronto delle diverse linee in cui si svolgono,
convergendo o divergendo fra loro, le varie interpretazioni. Il discorso
critico di V. — sviluppato in forma autonoma nella ricerca condotta dall’a. sul
nesso di politica e filosofia nello S. [cfr. n. 295] — è ispirato dalla esigenza
di riconoscere nel momento etico-politico e politico-culturale il filo
conduttore di tutta l’opera del filosofo napoletano. Tra le opere richiamate o
esaminate dall’a. interessa qui segnalare: gli studi di G. Arfè [254], G. Berti
[255], P. Zambelli [274], I/ giovane Spaventa di S. Landucci ([282]; ma anche
il lavoro su De Sanctis e la relazione del 1965 [287]), lo Spaventa e Vera di
A. Plebe [252], i lavori di I. Cubeddu [275, 278] e di G. Oldrini [283]. 293.
M. AGRIMI, Bertrando Spaventa e l'eredità hegeliana, in “Trimestre”, I (1967),
n. I, pp. 141-153. Ampia nota, che prende l’avvio dal recente volume di G. Vacca
[cfr. n. 295], “un lavoro rigoroso e certamente il più completo ad articolato
sull'argomento, che inquadra l’accurata informazione critica e la dettagliata e
lucida ricostruzione dello svolgimento del pensiero spaventiano in una più
ampia prospettiva storiografica” (p. 150). A proposito del libro di Vacca, l’a.
conclude: “Una così energica rivalutazione di Spaventa non può comunque non determinare
un riesame della linea di svolgimento del pensiero italiano contemporaneo:
linea peraltro in più parti indistinguibile o appena tratteggiata. Può muovere
da Spaventa un filone di pensiero in direzione di una filosofia della prassi?
Non è facile ammetterlo, e comunque si dovrebbe passare per mediazioni e
recuperi molto difficili. Ma sono ancora ammissibili ricerche di genealogie filosofiche
‘nazionali’, in cospetto di eventi storici che ci costringono a ‘pensare
mondialmente’? Gramsci, come si sa, su questo terreno urtava non di rado in
contraddizioni e incertezze...” (p. 152). Per l’a., resta aperto il problema di
“stabilire le ragioni per cui, malgrado l'appassionato sforzo spaventiano,
l’hegelismo non riuscì a divenire l’ideologia politica e culturale del nuovo
Stato nazionale...” (p. 148; cfr. p. 152: “lhegelismo spaventiano esce dalle
pagine del Vacca ricco di una carica innovatrice e progressista, che non sembra
però incidere sulla vita nazionale del tempo”). Per qualche suggerimento
offerto dall’a., si veda, tra l’altro, pp. 148. sg.: la teoria spaventiana
della circolazione, l'adattamento dell’hegelismo “all’antica tradizione
italiana” finisce col ricongiungersi — o comincia a ricongiungersi — con le
intenzioni di uno storicismo pacificatore, che ha perduto il senso della
lezione illuministica, il senso della “insopprimibile distanza” e dello
“scontro dialettico tra ‘razionale e reale’, tra ‘verità’ e ‘storia’, tra
‘pensiero’ e ‘realtà’, condizione indispensabile di una tensione costruttiva e
progressiva rivolta a trasformare la realtà...”. 294. S. ONUFRIO, Lo “stato
etico” e gli hegeliani di Napoli, in “Nuovi Quaderni del Meridione”, V (1967), pp.
76-90, 171-188, 271-287, 436-457. Alle pp. 76-90 e 171-188, ampia rassegna
degli studi sul pensiero politico degli hegeliani napoletani, pubblicati a partire
dal 1920 (l’a. esamina tra gli altri i lavori di De Ruggicro [202], S.
Caramella [201], L. Russo [210], il S/vz0 Spaventa di P. Romano [P. Alatri;
1942], gli studi della Zambelli [274] e di G. Berti [255], il volume di G.
Oldrini su Vera [283]). Alle pp. 271-287 Onufrio affronta un riesame degli
articoli del “Nazionale” (anche in connessione con le indicazioni di G. Vacca
[295]); e nelle pagine 436- 457 offre al lettore una analisi degli scritti
politici di S. — dagli articoli sul “Progresso” ai Principi di etica — che, pur
accogliendo diverse indicazioni dei più recenti studi sull'argomento, si
conclude con il rilievo dell’ispirazione sostanzialmente liberale della
filosofia politica del vecchio hegeliano. 295. G. VACCA, Politica e filosofia
in Bertrando Spaventa, Bari 1967, pp. 301. Tutti gli scritti di S. sono
sorretti da “un’intenzione politico-culturale, risalente ad una precisa’
visione dell’unificazione nazionale e della necessaria ricostruzione culturale.
La curvatura ideologica con cui Spaventa visse i fatti e le passioni del
Risorgimento italiano, si delinea dunque come il filo rosso della sua
filosofia”. L'analisi, condotta attraverso il continuo riferimento al terreno
in cui si incontrano passione politica e riflessione teorica, restaura la
connessione “genetica” dell’ “intero impianto” della filosofia di S. e consente
la presentazione di uno S. “modernissimo e ‘europeo’, che andava smarrito nella
prospettiva attualistica” (p. 7). La monografia di V. è sviluppata nella linea
dei recenti studi, che tendono a recuperare la dimensione etico-politica
dell’opera di S. (per una discussione di questi scritti impostata dall’a. del
libro, cfr. n.292). V. disegna tuttavia con tratti più decisi la figura del
primo S. democratico, ricollegando gli scritti sul “Progresso”, anche quelli
ristampati nel 1963 [118], all’attività del “Nazionale”, e restaurando le linee
di una “formazione politica militante” dei due S.; e rimette in discussione
l’opera dello S. maturo, dello storico, del riformatore della dialettica e del
critico del positivismo, che nasconde “a livelli sempre nuovi e a volte estremi
di mediazione”(p. 66; cfr. pp. 119, 171), senza però abbandonarla,
l’ispirazione e le esigenze originarie (l’ultimo capitolo si intitola:
Storicismo e antropologia. La filosofia come fondazione metafisica della
prassi). Il primo capitolo (Il “Nazionale” e il ‘48 napoletano nella formazione
degli Spaventa, pp. 9-62) si conclude con un’importante appendice (pp. 63-84),
in cui l’a. affronta il problema della formazione di B. nel decennio 1840-50, riprendendo
l’ipotesi della sua collaborazione attiva al “Nazionale” e alla rivista di
Silvio del 1844. È evidente lo stretto rapporto (identità di temi, e finanche
di espressioni letterali) che lega gli articoli di B. del 1851 a quelli del “Nazionale”,
attribuiti a Silvio. Le origini delle convinzioni democratiche e repubblicane
degli S., la fonte — non libresca — del socialismo (si parla però di “una non
ben precisa forma di socialismo” a p. 88; e cfr. p. 90 e relativa nota 13, a p.
144) di B., piuttosto che nella lettura del noto libro di L. Stein sul
socialismo e comunismo in Francia, vanno ritrovate nell’azione politica dei due
fratelli, nella loro appartenenza ad “uno schieramento politico che concepiva
la lotta per l'indipendenza strettamente intrecciata alla lotta per l'emancipazione
politica e costituzionale, senza ancora una precisa subordinazione della
seconda alla prima” (p. 13). Contro il vecchio giudizio di Croce, V. parla
dello schietto “liberalismo democratico’. (e non, semplicemente, “progressista”)
degli S.; i quali, quando cederanno all'iniziativa piemontese, rimarranno
tuttavia sempre fedeli alla loro concezione dello stato come formazione storica
destinata ad evolversi sotto la spinta di nuove idee e dì nuovi bisogni (p.
16). AI di là di una prima caratterizzazione degli schieramenti politici e
delle varie correnti compresenti, anche contraddittoriamente, nella stessa
redazione del “Nazionale”, la ricostruzione della linea seguita dagli S. viene
precisandosi attraverso la lettura del giornale di Silvio: V. documenta le
“simpatie repubblicane” del “Nazionale” (p. 28 sgg.), ravvisa nei suoi articoli
la difesa di una democrazia “piena, politica e sociale’, contro il contrattualismo
giusnaturalistico (p. 31), chiarisce il carattere “strumentale” dell’
“albertismo” di Silvio e dell’accostamento al programma neoguelfo (pp.33 sgg.),
distingue dall’ “unitarismo” e dal “gradualismo” tattico (p. 36) un complesso
di richieste illuminate da principi più avanzati. E l’analisi si concentra su
due temi che saranno costantemente presenti nei primi scritti di B. a Torino:
l’idea di nazione e di stato, e la sovranità popolare (pp. 36 sgg.). Quanto al
primo: il rapporto fra Stato e nazione è costruito secondo una dialettica
idea-esperienza, dover essere-essere, che comporta e mantiene una polarità, per
cui giammai l'essere annichila il dover-essere” (pp. 39 sg.). E, per il secondo
punto, V. spiega la coesistenza della difesa della sovranità popolare con la
critica della “volontà generale”, riadducendo quest’ultima non ai paragrafi
antigiacobini della Filosofia del diritto di Hegel, ma alla convinzione che la
legge del numero, meccanicamente intesa, serve a contrabbandare una forma
particolare di volontà, in luogo della volontà del popolo. Emergono ancora, a
chiusura del capitolo, tre punti importanti: il rilievo di una prima critica del
diritto di proprietà come diritto innato (pp. 43 sg.); quello dell’apertura
alle masse popolari, come sostegno indispensabile della rivoluzione; infine, in
connessione con il punto precedente, la “formulazione di una teorica politico- pedagogica
dello stato — che sarà compito degli Spaventa maturi sviluppare —, nella quale
è sempre più chiaramente visibile la preoccupazione di accompagnare la
fondazione del nuovo Stato alla fondazione di una reale egemonia borghese” (p.
46). Il secondo capitolo (Politica e filosofia nel primo Spaventa, pp. 85-152),
studia gli scritti spaventiani del 1850-51, rilevando il carattere “pratico”
dell’hegelismo di S., accolto in origine come strumento di rottura
dell’egemonia eclettica operante nel liberalismo moderato napoletano (p. 121). Questa
genesi dell’idealismo spaventiano va tenuta presente per una corretta lettura
delle pagine “hegeliane” di questi anni. La difesa, dalle colonne del
“Progresso”, della democrazia repubblicana e l'affermazione della necessità della
“riforma sociale”, condizione anch'essa della pacifica convivenza di libere
nazioni, vanno ricondotte ad un’autonoma concezione della storia, in cui è
accentuato “laspetto deontologico del principio della libertà e della razionalità
del reale” (p. 92). La funzione degli intellettuali così come è prospettata da
S. richiama l’immagine illuministica del philosophe, piuttosto che la figura
dell’ “eroe” hegeliano (p. 94). La distinzione di “utopie” e “idee storiche”, e
la critica delle “utopie”, si sviluppa in virtù di “un criterio di
discriminazione fra filosofie teologiche e filosofie scientifiche”,
conformemente al “principio di una perfetta rispondenza, sempre, del pensiero
con determinate posizioni della vita”(p. 97). Quello di S. è uno “storicismo avanzato”;
la realtà è storia in quanto “opera umana”, “lavoro”; e 1° “assoluta
mediazione” coincide col processo infinito della prassi (p. 101). La concezione
politico- pedagogica dello stato, primo nucleo dello “stato etico”, nasce da
una critica degli stati liberali sorti dalle rivoluzioni borghesi; nella
polemica spaventiana sulla libertà d'insegnamento è posto in primo piano il
problema “dell’eguaglianza materiale delle condizioni sociali dei destinatari
dell’insegnamento” (p. 106). S. mira ad “una egemonia ideale laica come portato
e cemento di una moderna costruzione pubblica dell’organizzazione della cultura”
(p. 114); la richiesta si fonda sulla “concezione della filosofia come coerenza
e rigore di principi, come unità logica del pensare e dell’operare degli
uomini”: un “dato permanente del ‘carattere’ di Spaventa” (p. 115). La fedeltà a
Hegel degli scritti del 1850-51 è apparente; nel processo di “adattamento
dell’hegelismo alle lotte rivoluzionarie del Risorgimento” (p. 127). Si
determina una elaborazione autonoma di temi hegeliani che tocca questioni di
principio e di metodo. L’a. torna ora sulla “caratterizzazione deontologica del
nesso reale-razionale” (p. 125), che distingue la filosofia di S. dalle
ricostruzioni speculative del processo storico; l'identità di pensiero e essere
affermata negli Studi del 1850 implica che la riflessione possa “spaziare fino
ad identificarsi con tutta la storia degli uomini, nel senso di costituirne e
rivelarne l’unità, l’intercompenetrazione e la conoscibilità da parte dell’uomo,
come conseguenza dell’essere quella opera sua” (pp. 132 sg.). La riflessione
non è abbandonata al gioco dell’ “astrazione indeterminata”; S. sa che la
“concretezza” del nesso delle determinazioni astratte (ma non, appunto, “generiche”)
fissate dalla riflessione non riposa su una mera “autoconsapevolezza dell’unità
dell'esperienza, che rifiuti, in ultima analisi, la differenza”; lo sa “per
un’originaria intelligenza della dialettica come nesso del pensiero come riflessione
con l’essere come lavoro umano” (p. 135), come mostrano proprio le sue pagine
sul tema del lavoro, visto sempre alla luce di rapporti e relazioni concrete
(pp. 135 sg.). Le pagine conclusive del capitolo offrono un primo quadro dei
motivi che caratterizzano l’autonomia dell’hegelismo spaventiano (uso
determinato della astrazione, consapevolezza del nesso storico di filosofia e vita,
critica della metafisica teologica, teorizzazione del primato del fare,
rifiuto, in ultima analisi, della “scissione hegeliana degli opposti”, pp. 138
sgg.). I mutamenti che affiorano nel programma di S. dopo il 1851 sono studiati
nel terzo capitolo (Etica e politica della maturità, pp. 153-217), che si
conclude con un’analisi degli Studi sull’etica hegeliana (pp. 192 sgg.). Negli
anni in cui il filosofo dà la sua adesione alla politica ufficiale del Piemonte,
va registrato un atteggiamento più distaccato — ma sempre “oggettivo” — nei
confronti del socialismo (p. 157). La democrazia difesa da S. perde molti
contorni specifici; il riferimento alle lotte sociali in Francia sembra abbandonato
per il richiamo a un liberalismo di tipo inglese. È cambiato, del resto, il
bersaglio della polemica: ora S. combatte i clericali, i fautori
dell’assolutismo, anche a difesa delle “grandi conquiste della civiltà
borghese”, ma “senza identificarsi”, sottolinea V., “specie sotto il profilo
delle matrici culturali — con i valori della civiltà liberale” (p. 160). S. si
mostra del resto ancora un giacobino nella nota discussione del rapporto
religione-filosofia, stato-chiesa (e qui V. respinge i rilievi di “astrattezza”
avanzati da Croce e da L. Russo [cfr. nn. 206, 210]). S. difende una
“concezione dello stato ‘in termini di egemonia’, destinata ad una resa dei
conti critica con l'ideologia liberale” e che “non ha nulla a che spartire con
le successive ideologie totalitarie” dello stato etico (p. 162; e cfr. pp. 183,
186, 192 sgg.); è in questa prospettiva — di “critica dei limiti formalistici
della democrazia liberale” (p. 170) — che vanno letti gli articoli sulla
politica dei gesuiti e il rifiuto della rousseauiana volontà generale (pp.
163-170). Ed è ancora questa prospettiva che consente di far riaffiorare tutti
i contorni del “disegno politico” implicito negli studi sulla filosofia
italiana e sulla filosofia classica tedesca, disegno che presenta ormai in
forma molto mediata, ma non stravolta, l’originaria ispirazione democratica del
suo autore. “L’unificazione reale della società, che ancor il ‘51 era un
compito politico, per Bertrando, è divenuto, al momento dell’unità, un compito
di i/luminazione culturale e ideale” (p. 182). S. Si limita ora a “vagheggiare
una missione pedagogicopolitica della scienza in quanto tale” (p. 180); elabora
temi e affina strumenti “ideali” di unificazione (l’ “unità dello spirito”, della
“mente”, 1’ “identità di conoscere e fare”, l “autonomia del pensiero” e la sua
“infinità”) che valgono come premesse di una realtà ancora da costruire; ma abbandona,
anche, le analisi storiche in termini di dialettica delle “classi”, e accorda
la sua preferenza a categorie come “nazione”, “spirito nazionale”, ecc. (p.
183, e cfr. p. 189). Senza riprodurre le numerose osservazioni che riguardano gli
altri scritti spaventiani (soprattutto le lezioni napoletane del 1861) vediamo
come l’a. si serve di questi rilievi per la lettura degli Studi sull’etica
begeliana [80, 97]. La preferenza accordata a certe categorie (la comunità
nazionale, identificata senz'altro con la comunità etica) può condurre e di
fatto conduce S. ad un uso non corretto della astrazione (assunzione di
strutture particolari dello stato nazionale moderno come contenuto “puro”
dell’ethos). Un caso macroscopico è offerto dalla deduzione della “eternità” delle
classi e della divisione in classi in base allo schema generico della divisione
del lavoro. Tuttavia nelle riflessioni sullo stato, ‘organoessenziale del
disegno egemonico dello Spaventa” (p. 192), Si assiste “ad una più corretta combinazione
del metodo dialettico. con. un uso relativamente determinato dell’astrazione”
(p. 197). Lo stato è la “mediazione vivente dei processi storici che maturano nella
società civile”, è l’unità-risultato “della più ampia e libera partecipazione
dei singoli a formare la volontà politica che nello stato si fa soggetto” (p.
199). La concezione dello stato come funzioneverità della società civile è
costruita proprio attraverso la denuncia di una serie di mediazioni mancate:
come mostrano, p. es., le pagine sulla “costituzione”, nelle quali si legge la
condanna di chi vorrebbe mantenere lo stato al di sopra delle lotte sociali, “mentre
il problema è di fondare uno stato etico, capace di interpretare e di tradurre
in istituzioni, al limite sempre nuove, tutta l’eticità di un popolo: i suoi
bisogni materiali e spirituali, le sue ragioni, le ragioni della sua storia”
(p. 200). Certo, l'esigenza di un legame più stretto dello stato con la società
civile è in primo luogo, in questi anni, ricerca di un “consenso ideale delle
masse popolari italiane al nuovo stato”, su di un piano “culturale” (pp. 202
sg.); ma la critica del contrattualismo e della concezione sostanzialistica
dello stato, costruita in virtù di una logica che sa vedere la matrice comune
delle opposte teorie, liberale e assolutistica, corrisponde ancora a una
concezione democratica: “purché con tale aggettivo si intenda non già riferirsi
alle esperienze storiche degli stati liberal-democratici”, ma ad “una forma di
stato, se si vuole originale, che abbia una funzione attiva e motrice verso la
società civile, nell’intento di superare la propria scissione da essa, prodotta
dalla civiltà borghese...” (p. 204). L’ultimo capitolo (pp. 219-295) è dedicato
all’interpretazione della “metafisica” di S., i. e. della sua filosofia della
“relazione” o “mediazione assoluta”, sviluppata attraverso una critica sempre
più approfondita di Hegel e nella prospettiva di una nuova impostazione del rapporto
teoriaprassi, scienza-filosofia. Nelle pp. 221-233 sono anticipate le
conclusioni generali, attraverso un diretto riferimento ai risultati acquisiti
nei capitoli precedenti. La costruzione della filosofia come fondazione
metafisica della prassi avviene in varie tappe. La prima è individuata nella cosiddetta
“parentesi” del 1858 [113], che studia il rapporto fenomenologia-logica,
giungendo tuttavia a un risultato ancora “idealistico” (nel senso
dell’idealismo soggettivo: il soggetto è, immediatamente, autocoscienza, e non
viene superato il parallelismo di natura e pensiero; pp. 237-240). Le
riflessioni sullo stesso tema raccolte nelle prime lezioni napoletane (1861)
rappresentano un secondo momento della costruzione: qui S. continua ad
avvertire l’insufficienza dell'identità logica di essere e pensiero (tutto è
logico, ma la logica non è tutto) e cerca, invano, di uscire dallo schema della
mera pensabilità attraverso “il sistema della logica e della fenomenologia,
combinate”; invano, giacché la fenomenologia, che dovrebbe fondare la logica,
non riesce a fondare neppure se stessa, dato che la coscienza è assunta originariamente
come un fatto che non siprova(pp. 240- 244). L'identità (e l'opposizione)
immediata — e quindi “inerte” — che si presenta nella coscienza, come fenomeno,
si riproduce come tale sulla soglia della logica; Trendelenburg rischia di
avere ragione. Tra le riflessioni del 1861 e il saggio sulle Prize categorie
(quarta fase) si collocano le lezioni di antropologia del 1863-64, e la Filosofia
di Gioberti (1863): in queste pagine V. rintraccia (pp. 244-249) l'acquisizione
di un punto di vista (è il “vario sensibile” che “discrimina” l’esperienza del
soggetto; il vero immediato-mediato è la natura, non la coscienza; e il rapporto
di materia e idea è un rapporto di “continuità e compenetrazione dialettica”,
p. 247) che prepara la soluzione delle Prize categorie (pp. 249-253). Qui S. afferma
l’ “identità del puro pensiero-essere con il puro pensiero-volere”:
autocoscienza, certo, ma come “risultato e espressione formale di quell’eterna
mediazione con se stesso che è il soggetto pratico-storico”, cioè come “il più
alto attributo” dell’ “uomo storico concreto” (pp. 249, 244). Il pensiero dal
quale non si esce, che nella massima astrazione (l’astrazione da sé) ritrova se
stesso e la conferma di sé, “non è se non la prova della infinità e della
processualità del pensiero come esserci, esistenza, esperienza” (p. 251), la necessità,
pensata, dell’infinita attività umana: attività, i. e. “risoluzione”,
“deliberazione”, “e non certo solo giudizio” (p. 252). Ai due momenti
immediatamente precedenti — che 2622 rappresentano la “fase più acutamente
evolutiva” degli studi hegeliani di S. (p. 254) — si ricollega Logica e
metafisica: la lettura del manuale (pp. 253-267) conferma la analisi degli scritti
sull’antropologia e sulle Prizze categorie. “Le categorie che Spaventa deduce
dialetticamente attraverso tutta la logica, partendo dal puro essere, sono
quelle delle scienze nei loro diversi gradi e momenti. Tutte queste categorie culminano
nella posizione della diade logica per eccellenza: la posizione del soggetto e
dell’oggetto; e una volta posta questa, provano di dipendere da essa, che è la
posizione del nesso dialettico assoluto capace di comprenderle (produrle) tutte
in quanto posizione dell’uomo storico concreto. La logica prova allora la
storicità di tutto il sapere, nel duplice senso che esso dipende e riceve senso
e valore dalla posizione storica del soggetto umano. E la prassi umana, che è
tutto il reale, è veramente tale in quanto si conosce: si fa sistema, logismo,
scienza (certezza di sé)” (p. 259). E questa è l “istanza umanistica” di S. “Il
suo problema è di costruire scientificamente la certezza umana del mondo in
quanto mondo naturale-umano. E tale disegno la sua filosofia esegue provando
questa certezza, in ultima analisi, in uno schema logico risultante dalla
suprema astrazione di cui il pensiero come tale è capace rispetto a se stesso
in quanto determinato” (p. 263). La filosofia come mediazione o “relazione
assoluta” è “intelligenza del contesto umano nel quale le scienze particolari
ricevono significato” (p. 265); non dissoluzione delle scienze, ma esigenza “di
una loro integrazione umanistica, presentata in maniera speculativa” (p. 265);
non “sistema” come “riduzione delmondo a filosofia” (= auto-coscienza), ma
“sistema dell’esperienza in ogni momento del suo farsi”, “critica della ragione
storica e scientifica” (pp. 266 sg.). Come risulta dalla lettura di Esperienza
e metafisica, e degli scritti ad essa collegati (pp. 267 sgg.), le riflessioni
sul rapporto scienza-filosofia, che caratterizzano l’ultima fase del pensiero
di S., confermano i risultati fin qui acquisiti: S. ricerca i “princìpi che presiedono
all'elaborazione delle scienze umane nella loro autonomia e distinzione dalle
scienze naturali” (p. 270), sul piano di una metafisica delle e idee che non
rinnega la continuità-distinzione di physis e psiche, ma solo colpisce le “rozze”
metafisiche che vorrebbero ricondurre la psicologia, dal terreno delle scienze
storico sociali, su quello del naturalismo meccanicistico. La polemica
antipositivistica e antinaturalistica e la critica a Hegel appaiono, del resto,
complementari: si vedano (a proposito del rapporto scienza- filosofia) le
indicazioni di pp. 267 sg., 272 sg. L'appello a Kant e la difesa del
“trascendentale” — in Esperienza e metafisica 6 non’ rappresentano una
“ricaduta nell’epistemologismo” (pp. 274 sg.), ma continuano a ribadire “la
posizione della conoscenza come assoluta produzione”. In che senso poi le
ultime opere di S. accentuino e specifichino la distanza che ormai separa il filosofo
da Hegel, si legge alle pp. 280 sgg. Nello scritto contro Teichmiiller, la
“negazione” è difesa come semplice “ipotesi” dell’ “unità razionale” di una
esperienza non defraudata dei suoi nessi empiricoprammatici (pp. 282 sg.). Ancora:
la nota critica a Hegel — che rifiutò l’evoluzione naturale — investe uno dei
caposaldi del sistema hegeliano: l’ “opposizione” di natura e spirito (p. 286).
Riflessioni altrettanto eterodosse si leggono in Esperienza e metafisica, a proposito
di Aufhebung e salto qualitativo (pp. 283 sgg.). Da queste pagine, e da quelle
precedentemente esaminate, V. ricava due osservazioni: l'accoglimento del
meccanismo, che scongiura la trasfigurazione dei processi naturali in processi ideali,
“è la premessa di quel definitivo ripudio della filosofia come sistema
analizzato in Esperienza e metafisica”. Ma è anche vero che S. non conclude
senz’altro per la risoluzione della filosofia nelle scienze, “senzaresidui”;e continua
a mantenere l’hegelismo come termine di confronto con le scienze. Le due
osservazioni si fondono e autorizzano una conclusione: “il problema filosofico
di Spaventa è sempre più chiaramente quello di provare l’unità razionale
dell’esperienza e l’unità critica del sapere” (pp. 286 sg.). “Vi è perciò, in
Spaventa, lo sforzo di esprimere nella filosofia il senso della scienza
moderna, di rendere esplicito, in quella, l’interno problema di questa” (p.
287). S. ha scritto che la metafisica hegeliana è la “profezia” della “scienza
della moderna esperienza”. Ma Hegel “avrebbe certo ricusato una tale lettura
della sua filosofia” (p. 288). Tra le pubblicazioni apparse dopo il 1967 ci
limitiamo a segnalare qui: BORTOT, L’hbegelismo di Bertrando Spaventa, Firenze 1968,
pp. 127; ONUFRIO, Vico maestro di Bertrando Spaventa, in “Nuovi Quaderni del
Meridione”, VI (1968), n. 21-22, pp. 238-249; I/ primo begelismo italiano, a
cura di G. Oldrini, con prefazione di E. Garin, Firenze 1969 (riproduce testi
di D. Mazzoni, G. Passerini, S. Cusani, S. Gatti, F. De Sanctis, A. Vera e B.
Spaventa. Di S. sono ristampati i Pensieri sull’insegnamento della filosofia
[2] e, in parte, gli Studi del 1850 [4]. Molto. importante l'introduzione, che
offre un quadro assai chiaro delle vicende dell’hegelismo italiano nel decennio
1840-1850; ricchissime le indicazioni bibliografiche); B. SPAVENTA, Unificazione
nazionale ed egemonia culturale, a cura di G. Vacca, Bari 1969 (nell’antologia
sono ristampati: un brano degli Studi sopra la filosofia di Hegel [4], alcuni
articoli apparsi sul “Progresso” [cfr. 5, 10, 11, 12], lo scritto I/ lavoro e
le macchine [117], una scelta dalla Politica dei gesuiti [101], lo scritto Del
principio della riforma [30], brani della corrispondenza tra i fratelli S.
[125], la prolusione di Modena [no], lo scritto Paolottismo, positivismo, razionalismo
[78], una scelta dai Princìpi di etica [97]. Seguono tre-dici lettere inedite
di A. De Meis a B. Spaventa e G. Ricciardi, già pubblicate in “Il pensiero
politico”, I, 1968, fasc. 2, pp. 225-251; nella stessa annata della rivista cit.,
n. 3, pp. 408-437, era già apparsa, con il titolo Introduzione alla riflessione
politica di B. Spaventa, l'introduzione all’antologia del 1969); G. VACCA,Lo hegelismo
a Napoli, in “Rinascita”, 12 settembre 1969. Alcune Lettere inedite di B. S. a
Vittorio Imbriani ha pubblicato A. Pellicani in «Realtà del mezzogiorno»,
ottobre 1969, pp. 881-891. Pagine di Gentile sullo S. si leggono ora in G.
GENTILE, Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 2 voll., Firenze
1969 (con una notevole introduzione, che discute tra l’altro della
interpretazione gentiliana dell’opera e delle tesi storiografiche di S.).
Importanti, anche per seguire le vicende della stampa degli Scritti filosofici
[96], le lettere di Croce a Gentile (1896-1899) pubblicate nel “Giornale
critico della filosofia italiana”, XLVII (1969), pp. 1-100; e i due volumi
delle lettere Gentile-Jaja (in G. GENTILE, Opere, a cura della Fondazione
Gentile per gli studi filosofici, voll. I-II del Carteggio a cura di M.
Sandirocco, Firenze 1969). Si ricordano infine i saggi di E. Garin, Problemi e
polemiche dell’ begelismo italiano dell'ottocento (1832-1860), di V. A. Bellezza,
La riforma spaventiano-gentiliana della dialettica hegeliana, di I. Cubeddu, B.
Spaventa riformatore di Hegel nella cultura italiana del 900, raccolti nel
volume Incidenza di Hegel (Napoli 1970), a cura di F. Tessitore (pp. 625-662, 683-756,
757-790; v. anche, nella stessa opera, la bibliografia a cura di G. Cacciatore
Hegel in Italia e in italiano, pp. OPERE DI SPAVENTA PUBBLICATE DAL 1970 AL La
filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, A. MARCHESI (a
cura di), Minerva italica, ISTE: Opere, CUBEDDU I. (a cura di), Sansoni,
Firenze 1972, 3 vol. Un frammento inedito di Bertrando Spaventa su Vico e Darwin,
SAVORELLI A. (a cura di), in “Bollettino del Centro di studi vichiani”, IV
(1974), pp. 171-175. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia
europea, P. OTTONELLO (a cura di), Marzorati, Milano 1974. Opere psicologiche
inedite, in D. D’ORSI, Contributi alla ricostruzione integrale del pensiero di
B. Spaventa: inediti, accertamenti filologici, nuovi itinerari e assetti critici,
in “Le ragioni critiche”, IV, (1974), pp. 433-490; V (1975), pp. 54-88;
168-198. Lezioni di antropologia, D. D'ORSI (a cura di), Casa editrice G.
D'Anna, Messina-Firenze 1976. Psiche e metafisica, D. D’ORSI (a cura di), Casa
editrice G. D'Anna, Messina-Firenze 1978 Una lettera di Bertrando Spaventa a
Pasquale Villari, M. T. RASCAGLIA (a cura di), Istituto italiano per gli studi filosofici,
Napoli 1981. Lezioni inedite di Filosofia del diritto. Modena 1860, G. TOGNON
(a cura di), in “Archivio storico bergamasco”, II (1982), pp. 37-60; 275-290. Esperienza
e metafisica, A. SAVORELLI (a cura di), Morano, Napoli 1983. Prolusione di B.
Spaventa al corso di Filosofia del diritto (Modena, 4 gennaio 1860), G. TOGNON
(a cura di), in E. GARIN, Filosofia e politica in Bertrando Spaventa, Bibliopolis,
Napoli 1983, pp. 41-89. Nuovi testi di Bertrando Spaventa, in Rivoluzione,
partiti politici e stato nazionale, R. DI ATTILIO (a cura di), Giuffrè, Milano
1983. R. H. LOTZE, Elementi di psicologia speculativa, Traduzione italiana di
Bertrando Spaventa, D. D’'ORSI (a cura di), Casa Editrice G. D'Anna,
Messina-Firenze 1983. Epistolario, RASCAGLIA M., (a cura di), Istituto poligrafico
dello Stato, Roma 1995. Lettera sulla dottrina di Bruno: scritti inediti, 1853-
1854, SAVORELLI A e RASCAGLIA M. (a cura di), Bibliopolis, Napoli 2000. Giordano
Bruno [edizioni per la scuola], La città del Sole, Napoli 2001. Sulle
Psicopatie in generale. Con appunti e frammenti inediti, D. D'ORSI (a cura di),
Cedam, Padova 2001. Studi sopra la filosofia di Hegel. Prime categoriedella logica
di Hegel, E. COLOMBO (a cura di), CUSL, Firenze 2001. Le “Lezioni” sulla storia
della filosofia italiana nell’anno accademico 1861-1862, F. RIZZO (a cura di),
Siciliano, Messina 2001. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la
filosofia europea, SAVORELLI A. (a cura di), Storia e letteratura, Roma 2003. La
filosofia del Risorgimento: le prolusioni di Bertrando Spaventa, La scuola di
Pitagora, Napoli 2005. Saggi di critica filosofica, critica e religiosa, DE GIOVANNI
B. (a cura di), La scuola di Pitagora, Napoli, 2008. OPERE SU SPAVENTA
PUBBLICATE DAL 1970 AL 2007 R. FRANCHINI, La cultura a Napoli dal 1860 al 1960,
in AAVV, Storia di Napoli, vol. X, Napoli contemporanea, E.S.I., Napoli 1971,
pp. 159-217, ora anche in I/ diritto alla filosofia, SEN, Napoli 1982, pp.
307-375. Nella prima parte del saggio, dedicata alla cultura filosofica
napoletana dal 1860 al 1900, si mostra grande attenzione alla prolusione, con
cui iniziò l'insegnamento napoletano di Spaventa, sulla Nazionalità della
filosofia. Oltre a ricordare le numerose contestazioni subite da Spaventa
orchestrate dall'abate Vito Fornari, da Capocelatro, Mola e Crocchetti, si
precisa che l’opposizione al pensiero del filosofo abruzzese era assai forte
persino nelle aule universitarie, citando il caso di Tulelli, Professore di
filosofia morale ed allievo di Galluppi e dallo stesso Tari, benché legato a
Spaventa da una amicizia di vecchia data, per finire con il caso di Vera,
hegeliano di prospettive radicalmente differenti da quelle di Spaventa. La
superiorità di Spaventa rispetto a questi suoi rivali si manifesta, secondo,
Franchini, se si tiene conto della discepolanza del filosofo di Bomba, nella
quale si possono annoverare personalità come Angiulli e Labriola, quest’ultimo influenzato
poi dalla corrente degli herbartiani. Franchini ricorda anche l’altra figura di
grande levatura della tradizione classica napoletana, Francesco De Sanctis, che
però non viene mai posto in conflitto o in contrapposizione rispetto a
Spaventa. Viene menzionata, inoltre, l’esperienza del “Giornale Napoletano di
filosofia e lettere”, diretto da Spaventa, Imbriani e Fiorentino. Il saggio
prosegue poi analizzando le altre fasi dello sviluppo culturale della città di Napoli
a partire dal periodo 1900-1940, affrontando la prima e la seconda scuola
crociata, oltre al tema della filosofia nell'Università tra il 1920 ed il 1960.
E. GARIN, La “fortuna” nella filosofia italiana, in AAVV, L'eredità di Hegel
dopo due secoli dalla nascita, pp. 77-89, in “Terzoprogramma”, 1971, 3. Nell’intervento
di Garin la “presenza” di Hegel viene giudicata non neutrale né accademica (p.
78) e proprio per questa vittima di alterne fortune. Se Romagnosi non esitava a
definire nebulosa la nozione di “spirito del mondo”, benché nemmeno Mazzini
svalutasse a tal punto l’hegelismo, Spaventa e De Sanctis terranno una
posizione diversa, se non addirittura opposta. A ragione si precisa quale fosse
l’importanza della Filosofia della storia nella stesura del 1830-31 per la
penetrazione del pensiero hegeliano in Italia: da Passerini, che ne curò la
prefazione nel ‘40, a Cattaneo, molti intellettuali si accorserodelgenio del
filosofo di Stoccarda. All’Hegel rivoluzionario di Napoli, segue, nel percorso
spaventiano, una più attenta lettura della Fenomenologia negli anni ‘50, che lo
porterà ad una nuova interpretazione della filosofia italiana ed europea: Garin
ripercorre con puntualità le tappe di questa evoluzione, dai primi studi del
’50-’53, fino alla prolusione napoletana del °61, passando per le crisi e le
svolte del ‘55 (comuni a Spaventa e De Sanctis). L’autentica esigenza di creare
una ideologia di supporto alla rivoluzione italiana condusse all’interpretazione
della filosofia hegeliana come alternativa al neotomismo in Italia. Garin
sostiene che ai tempi eroici dei primi hegeliani si scivolò nell’aneddoto
pittoresco: non solo Maturi, ma nemmeno Jaja riuscì a recuperare la forza di Spaventa
o De Sanctis. Soltanto grazie a Croce e Gentile Hegel tornò ad essere studiato
e commentato, dando vita poi nel corso del Novecento alle correnti più
disparato, citato a sostegno sia dell’esistenzialismo, sia della teoria dello
Stato etico. L. MALUSA, Bertrando Spaventa interprete della filosofia di G. B.
Vico, in AAVV, Saggi e ricerche su Aristotele, Marsilio da Padova, M. Eckhart,
Rosmini, Spaventa [etc], Editrice Antenore, Padova, 1971, pp. 71- 108. La
rilevanza di Spaventa nel panorama culturale italiano si coglie anche
considerando la sua influenza sul modo di fare storia della filosofia. Il suo
scontro con Palmieri sul ruolo della scolastica all’interno della tradizione
italiana. Venendo all’analisi di Vico, si deve rilevare che l’indubbia affinità
con Vico sulle questioni relative alla distinzione del mondo in natura e
spirito trovano però un luogo di scontro a proposito del ruolo del cogito,
sostenuto da Spaventa e avversato dal filosofo napoletano. Avendo come
obiettivo quello di guadagnare grazie all’analisi del pensiero filosofico italiano
progressiva indipendenza dall’autorità della Chiesa, non stupisce che Spaventa
abbia svalutato il ruolo della grazia e della Provvidenza presente in Vico. Se
la linea Vico- Kant-Hegel divenne quasi un dogma della filosofia neohegeliana
italiana, ciò è dovuto indubbiamente all'influenza di Spaventa che per primo
percorse le tracce di questo rapporto. E. GARIN, Hegel nella storia della
filosofia italiana, in “De Homine”, 38-40, 1971, pp. 68-86. Garin rileva il che
“il nome di Hegel è indissolubilmente legato alla storia d’Italia” (p. 70),
considerando non solo l’hegelismo napoletano, ma anche i successivi sviluppi
legati al fascismo. Riferendosi a Orestano, Gentile e Padre Agostino Gemelli,
Garin mostra l’influenza della filosofia hegeliana nel dibattito culturale
italiano, accennando a quel singolare destino per cui il filosofo di Stoccarda
che aveva inteso la filosofia come nottola di Minerva inaugurò quella stagione
in cui la filosofia contribuì ad influenzare direttamente gli eventi storici e
non solo a comprenderli ex post. Proprio su questo punto decisiva è la figura
di Bertrando Spaventa, che rivisitò il sistema hegeliano in chiave
antigesuitica. Garin cita anche Passerini come precursore e Villari come
compagno dello Spaventa in questa difficile operazione intellettuale:
riportando un lungo intervento di Spaventa del 1850 Garin vuole trasmettere il clima
di entusiasmo che caratterizzò l'avvento dell’hegelismo nella Napoli
prequarantottesca. L'esigenza di un’ideologia del Risorgimento, avvertita da
Mamiani e Gioberti, fu soddisfatta proprio da Bertrando Spaventa con l’immagine
del “sacro filo della tradizione”, benché Garin rivaluti la posizione di
Rosmini e Gioberti rispetto al giudizio negativo di Spaventa, il quale fu molto
tentato—a giudizio di Garin — dalla soluzione dell’attualismo ed del soggettivismo.
L’articolo prosegue sottolineando l’atteggiamento sarcastico assunto da
Spaventa di fronte al tentativo di accostamento di Hegel a Comte: proprio l’importanza
del ruolo del positivo rendeva del tutto contraddittoria la posizione del
positivismo. L'intervento di Garin termina citando le posizioni di Labriola,
Gentile e Croce di fronte al sistema hegeliano. M. QUARANTA, Posttivismo ed
hegelismo in Italia, in L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico,
vol. VI, Dall’Ottocento al Novecento, Garzanti, Milano 1971, in particolare le
pagine 215-225. Le sezioni VII e VIII del saggio di Mario Quaranta sono dedicate
rispettivamente alla vita e opere di Spaventa e al suo pensiero. Nella prima si
analizza la vita del pensatore abruzzese e si elencano gran parte delle sue
opere, nella seconda ci si concentra sui tre contributi essenziali: un riesame
della tradizione filosofica italiana, in particolar modo con la teoria della
circolazione; una reinterpretazione di Hegel tale da escludere qualsiasi
intento materialistico o teologico; la proposta di una serie di strumenti
concettuali contro il positivismo, attraverso la figura di Kant, al fine di rivalutare
umanesimo. D. CANTIMORI, La circolazione del pensiero italiano e l’importanza
del Rinascimento per la filosofia europea, in Storici e storia, Einaudi, Torino
1971, pp. 446-254. Il breve capitolo dedicato
all’interpretazione del Rinascimento di Bertrando Spaventa mostra il
tentativo di superamento della visione neoguelfa di Gioberti e di maggiore
profondità rispetto a quelle di Mazzini e Ferrari. In particolare si evidenzia
quanto stretto sia il nesso tra la teoria della circolazione ed il concetto di
nazionalità: se è vero da un lato che lo Spaventa definisce la filosofia moderna
come europea, ciò non significa l’eliminazione del concetto di nazione, anzi,
proprio dal contributo delle diverse nazioni si può parlare della modernità
all’insegna dell'Europa. Naturalmente il Rinascimento italiano in quanto per
primo ha turbato l’uniformità di pensiero imposta dalla Scolastica. In tal
senso si rileva una dipendenza profonda da schemi illuministici più che dalle tesi
hegeliane, che continuano comunque ad essere il panorama di riferimento. Il
pensiero di Spaventa viene dunque definito come quella consapevolezza di sé che
era mancata al pensiero italiano al suo primo sorgere e che fu assunta dal
pensiero tedesco grazie alla Riforma protestante. Problema di Spaventa non era
solo quello di superare Rosmini e Gioberti, bensì di assegnare un senso e uno
scopo alla tradizione filosofica italiana. La rivendicazione dell’Italia come
nazione e come tradizione filosofica mirava ad un inserimento all’interno del
contesto europeo. G. TARALLI, Bertrando Spaventa tra Stato etico e democrazia,
in “Trimestre”, V, 1971, pp. 409-424. Il grande problema del rapporto tra
nazionalità e libertà, già posto da Mazzini, tormenta anche il pensiero di Spaventa,
con l'aggravante di una piena consapevolezza della debolezza delle istituzioni
democratiche, elemento che rese assai difficile il governo della Destra
storica. Taralli esponecomechiaveinterpretativa forte l’acattolicesimo spaventiano,
derivante senz’altro dalla mondanizzazione dello spirito di matrice hegeliana:
le aporie presenti nel pensiero spaventiano dipenderebbero in tal senso dalle tensioni
irrisolte tra Illuminismo ed hegelismo; se da un lato è vero che la ragione
storica avrebbe dovuto assicurare una risoluzione delle contraddizioni, il
conflitto tra Spaventa e la corrente socialista testimonia una tensione
irrisolta tra Stato e società, tra governo e rivoluzione. E. GARIN, Rassegna di
studi spaventiani, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXVII, 1972,
pp. 332- 335. In questo breve intervento Garin sottolinea l’importanza dell’interpretazione
del pensiero di Spaventa proposta da autori quali Felice Battaglia, Italo
Cubeddu, Sergio Landucci e P. C. Masini, per concludere citando i due volumi
del Vacca.. S. ONUFRIO, Lo “Stato etico” e gli hegeliani di Napoli, Celebes,
Milano 1972. Il testo ripropone gli interventi di Onufrio apparsi sui “Nuovi
quaderni del Meridione”, nn. 1,18,19, 20 (1967), nn. 21, 22 (1968), 24 (1969),
nn. 25, 26 (1969) e sulla “Rassegna di Politica e storia” n. 164 (giugno 1969),
già parzialmente presenti nella bibliografia di Italo Cubeddu del 1972. Il primo
capitolo riepiloga lo status quaestionis, mediante una rassegna delle tesi di
De Ruggiero, Santino Caramella, Russo e Tagliacozzo. Il secondo capitolo è
dedicato alla storiografia marxista e al tentativo di sostituire a Gentile la figura
di Labriola come autentico discepolo ed erede di Spaventa. Il terzo capitolo si
concentra sugli sviluppi della concezione dello Stato in Spaventa dall’attività
giornalistica piemontese ai Principi di Etica. Il capitolo quarto prende in considerazione
il tema dello Stato etico nelle riflessioni della Destra storica. L’ultimo
capitolo esamina il rapporto tra Stato e nazionalismo oltre alle reazioni della
Destra storica dopo l'avvento della Sinistra storica al potere. Il libro si conclude
con tre appendici: G. B. Vico e il liberalismo moderato; Vico maestro di
Spaventa; Unificazione nazionale ed egemonia nazionale (commento al testo di G.
Vacca). I. CUBEDDU, Bibliografia in B. SPAVENTA, Opere, Sansoni, Firenze 1972,
3 vol. L’amplissimo studio di Cubeddu è suddiviso in duesezioni, la prima è
dedicata alle opere edite di Spaventa, la seconda elenca le opere scritte sul
pensiero del filosofo abruzzese fino al 1969; si compone di un’ampia introduzione,
una prima parte sugli scritti di Bertrando Spaventa ed una seconda parte
relativa ai saggi e gli studi sulla figura del pensatore abruzzese. F.
TESSITORE, La cultura filosofica tra due rivoluzioni (1799-1860), in Storia di
Napoli, vol. IX, Dalla restaurazione al crollo del Reame, E.S.I., Napoli 1972,
pp. 225-293. Il saggio di Tessitore si articola in quattro sezioni, la prima
dedicata all’eco vichiana in Cuoco, Salfi, Jannelli e Delfico, all'insegna di
quella umanologia che tenta di recuperare l’ “uomo intero”, secondo differenti
prospettive; alla trattazione dell’eclettismo napoletano legato ai nomi di Manna,
Piccolini, Borrelli e Bozzelli, segue una rapida presentazione di Galluppi e
del suo rivale Collecchi. La terza sezione si concentra sul passaggio
dall’eclettismo all’hegelismo e affronta le figure di Cusani e Gatti, precisando
l'influenza francese nella scoperta dell’idealismo tedesco in Italia. L’ultima
parte del lavoro è esplicitamente legata all’hegelismo e allo storicismo: un
ruolo di primo piano è svolto da De Sanctis, di cui si sottolinea l’esigenza di
purismo e la tensione verso la semplicità della lingua, atteggiamenti che lo
portarono a respingere, sulla scorta della lezione vichiana, l’apriorismo del
sistema ed il panteismo hegeliano. Alcuni brevi cenni alle teorie del Gioberti
(che ricevettero la benedizione di Papa Pio IX) introducono la personalità di
Bertrando Spaventa, fiero sostenitore di Hegel, tanto da considerarlo una sorta
di demiurgo del mondo, in polemica con il Palmieri. N. SICILIANI DE CUMIS,
Herbart e Herbartiani alla scuola di Bertrando Spaventa, in “Giornale Critico
della Filosofia italiana”, 1973; 52, pp. 517-561. De Cumis non vuole solo
mostrare l’ormai indiscutibile legame, confermato da più parti, tra Spaventa e
Herbart, ma in particolare anche l’attenzione di cui questi è oggetto anche da
parte del Fiorentino e del Labriola, fino a suggerire l'ipotesi che Spaventa
sia stato un caposaldo nella formazione del Labriola proprio per averlo
introdotto allo studio del filosofo tedesco, quasi vi fosse una “curvatura herbartiana
dello hegelimso nel Labriola”. La stessa contrapposizione tra Spaventa e
Herbart vorrebbe essere se non attenuata per lo meno sfumata e a sostegno di
queste tesi De Cumis indica un’ampia raccolta di luoghi nei quali Spaventa
parla esplicitamente delle tesi herbartiane, per sottolineare l’accordo tra i
due per lo meno su alcune istanze dell’hegelismo. E. GARIN, Noterella
spaventiana, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXVIII, 1973, pp.
342-345. Il testo appare quasi come una recensione delle Opere di Spaventa
curate da Cubeddu, sottolineandone anche alcune carenze, come ad esempio il
mancato inserimento del testo Esperienza e metafisica. A questo proposito si
sviluppa il tema del rapporto tra Spaventa e le nuove scoperte scientifiche del
suo tempo, prima tra tutte la teoria della selezione naturale. Per rafforzare
la sensazione della problematicità del rapporto si cita il frammento datato 21 luglio
1875. Obiettivo di Garin è mostrare che in Spaventa non si accetta il
meccanicismo, ma vi si vuole contrapporre l’idea di disegno, di teleologia,
senza con questo dover ammettere l'intervento soprannaturale. G. OLDRINI, La
cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Laterza, Bari 1973. Nel volume di
Oldrini il nome di Bertrando Spaventa risulta il più citato dopo quello del De
Sanctis. Alcune sezioni del testo, che tuttavia affronta un tema assai vasto, sono
dedicate specificamente al filosofo, ad esempio come modello paradigmatico di
intellettuale fuoriuscito da Napoli che contribuisce ad alimentare focolai
rivoluzionari e liberali nel Piemonte degli anni ’50. Si segnala anche il peso dell’autore
nell’evitare qualsiasi compromesso tra hegelismo ed ideologie, nella ricerca di
una terza via tra realismo e idealismo. P. PIOVANI, I/ pensiero idealistico, in
AAVV., Storia d’Italia, V. 2.1 I documenti,Einaudi, Torino 1973, pp. 1549-1581.
La figura di Spaventa viene posta in risalto soprattutto in relazione al primo
punto della trattazione, dedicato alla predicazione dell’idea hegeliana e nel
terzo, in cui si mostrano i tentativi di superare l’hegelismo in nome del realismo,
anche per contrastare lo strapotere del positivismo. Da ultimo, nel quinto
punto, si evidenzia la differenza di interpretazione del pensiero spaventiano proposta
da Croce e Gentile. G. BROCCOLINI, Vincenzo Finamore e le origini dell’hegelismo
in Italia, in “De Homine”, 51-52, 1972, pp. 149-184. Per evitare di conformarsi
alla vecchia interpretazione dell’idealismo napoletano secondo cui
all’ortodossia di Vera si contrappone il criticismo di Spaventa, si deve
tentare, secondo Broccolini, di leggere l'evoluzione della cultura filosofica
napoletana indipendentemente dai suoi sviluppi economici e sociali. Broccolini
sostiene l’analogia tra la legittimazione hegeliana dello Jurkertum prussiano e
quella napoletana della nuova classe egemone; il parallelismo prosegue
individuando in De Sanctis, Tommasi, Villari e Labriola gli Strass, Bauer,
Feuerbach e Marx napoletani. Il retroterra da cui emerge l’hegelismo napoletano
deve essere comunque ricercato nelle vicissitudini del 1799: l’intelligentia
partenopea sfrutterà Hegel per “patinare di nuovo l'antico” (p. 160). Non sono
risparmiate le critiche alla conoscenza frammentaria di Hegel da parte di
Spaventa, di contro alla conoscenza integrale che poteva vantare Vera. L’analisi
della Napoli prequarantottesca attraversa le figure di Colecchi, Cubani e
Gatti, rispetto ai quali le elaborazioni di Spaventa sono giudicate “tardive”
(p. 170). Vincenzo Finamore sl inserisce in questa rassegna e si ascrive immediatamente
a questa figura la paternità della teoria della circolazione del pensiero e
dell’analisi della logica hegeliana, al fine di mostrare quanti e quali punti
oscuri si possono ancora rintracciare nello studio dell’hegelismo italiano. T.
SERRA, Oltre la lettura idealistica di Bertrando Spaventa, in “Giornale critico
della Filosofia italiana”, 1974; 53, pp. 175-202. La possibilità di un
superamento dell’interpretazione idealistica di Spaventa si basa, secondo
Teresa Serra, su una rivalutazione storicisticadell'autore.L'ombra nella quale rimase
Spaventa anche rispetto a Rosmini e Gioberti non si può spiegare soltanto con
la clandestinità della sua attività di pubblicista peraltro giustamente
segnalata da Gentile: se è vero che il legame Spaventa Hegel non può essere radicalizzato,
d’altra parte non può nemmeno svaporare, eliminando il carattere sistemico e
logico del pensiero spaventiano. La versatilità di Spaventa ne fa un precursore
dell’attualismo Gentiliano da un lato e un anticipatore del Labriola
dall’altro: certamente sottolineare la forte laicità, il rigore scientifico ed
il vigore storicistico consente a Teresa Serra di mostrare come il pensiero del
filosofo di Bomba si presti a diverse interpretazioni. Spaventa supera
l’astratto coscienzialismo, ma senza giungere alle conseguenze che la Serra
definisce antispeculative, di Feurbach e Marx. Persino l’ultima fase, legata
alla polemica con il positivismo, mira a riproporre l’istanza e la concretezza
del sistema. P. OTTONELLO, Introduzione a B. SPAVENTA, La filosofia italiana
nelle sue relazioni con la filosofia europea, Marzorati, Milano 1974. Nella
breve presentazione vengono sottolineati i caratteri salienti del programma di
riabilitazione della filosofia italiana agli occhi del dibattito filosofico
europeo: mostrare l'originaria presenza di temi filosofici tipici della
modernità europea nel pensiero rinascimentale voleva produrre il duplice
effetto di rivalutare la filosofia italiana e di aggiornarla al dibattito
europeo. A. SAVORELLI, Ux frammento inedito di Bertrando Spaventa su Vico e
Darwin, in “Bollettino del Centro di Studi vichiani”, IV, 1974, pp. 171-175. Il
frammento, recuperato nella Biblioteca civica “A. Mai” di Bergamo, testimonia
gli intensi studi spaventiani degli anni ’70 attorno a Vico e al problema dellascienza.
È Savorelli a segnalare che Spaventa, come ogni buon hegeliano, esclude
l’intervento soprannaturale, ma senza con ciò cedere ad una mera dimensione
evoluzionistica, da inserire in quella totalità spirituale di cui le scienze
naturali fanno parte. Duro è l’attacco verso la critica tradizionalista a Darwin,
legata a Vera e alla sua scuola. Del manoscritto di diciotto pagine è riportata
soltanto la seconda parte (fogli 7- 11). A. CAMILLERI, Problemi inediti
dell'ultimo Spaventa, Scuola salesiana del libro, Catania 1974. Il primo ed il
secondo capitolo del libro sono dedicati rispettivamente alla biografia e alla
bibliografia dell’autore, mentre il terzo si dedica all’analisi di Esperienza e
metafisica all’interno della parabola del pensiero spaventiano, ricordando il
silenzio editoriale dal 1870 e la polemica con i positivisti che caratterizzerà
i suoi ultimi dieci anni di vita. La rivalutazione del ruolo dello spirito,
come attività che ricrea l’oggetto rappresenta l'elemento essenziale del pensiero
spaventiano, capace di conciliare, in tal modo, teoretica e pratica. Obiettivo
centrale della polemica sono teismo e materialismo, analizzati nel quarto
capitolo in relazione alla nuova teoria dell’evoluzionismo: è nota la volontà
di conciliare dialettica hegeliana e darwinismo, superando da un lato il
dualismo proposto dal teismo, dall’altro l’insano monismo su cui si basa la
concezione materialistica. Il problema della conoscenza trova nel quinto capitolo
un’ampia trattazione, grazie alla quale si evidenzia l’affinità di Spaventa con
la filosofia idealistica ed il suo rifiuto dell’origine biologica e psicologica
del pensiero: tale tema impone di ritornare sul rapporto tra darwinismo e metafisica,
già nel capitolo successivo. Attraverso un uso abbondante di citazioni da
Esperienza e Metafisica Camilleri ripercorre l'itinerario di Spaventa, disposto
ad accogliere quanto vi sia di valido anche nella posizione dell’avversario, senza
alcun pregiudizio di carattere teoretico. Oltre alla figura di Darwin,
obiettivo della critica spaventiana è il positivismo di Spencer, colpevole di
concepire l Assoluto come separato dalla realtà e quindi totalmente
inconoscibile: il capitolo settimo mostra l’inconciliabilità di questa posizione
con l’hegelismo di Spaventa. La prospettiva si allarga sulla critica
dell’empirismo in generale, dove emerge la crescente influenza della filosofia
kantiana sul pensiero dell’ultimo Spaventa: si tratta quasi di un prologo al
capitolo nono in cui si affronta il problema della coscienza e della conoscenza,
da intendere all'insegna del processo come attività assoluta. Le considerazioni
critiche finali sono precedute da una introduzione al manoscritto inedito dal titolo
Che cos'èè il materialismo, riportato al termine del I. CUBEDDU, Bertrando
Spaventa. Edizioni e studi (1840-1970), Sansoni, Firenze 1974. Il testo
ripropone per intero la bibliografia curata da Cubeddu per l'edizione Sansoni
delle Opere di Spaventa, apparsa nel 1972. Si mantengono le stesse scansioni: un’ampia
introduzione, seguita da una prima parte sugli scritti di spaventa e una
seconda sui testi scritti sulla figura di Spaventa. Si deve aggiungere,
inoltre, una appendice dedicata a Spaventa come riformatore di Hegel nella
cultura italiana del Novecento, in cui sono presentate le differenti interpretazioni,
da quella di Gentile a quella di Vacca, passando per Berti, Garin e Landucci. T.
SERRA, Bertrando Spaventa. Etica e politica, Bulzoni Editore, Roma 1974. Il
volume, introdotto da una breve presentazione di Negri nella quale si
sottolinea l’immanentismo dinamico di Spaventa, mira a ridimensionare il durogiudiziodi
Benedetto Croce secondo il quale l’autore abruzzese sarebbe stato soltanto un
purus logicus, concentrando l’attenzione sul rapporto conoscere-fare.
Innanzitutto un tratto essenziale viene individuato nell’attenzione al religioso, benché assunto
nell’immanenza del divino: per questo la visione logico-metafisica della mente
viene valutata senza perdere la ricchezza dell'orizzonte storico. Si vuole rimarcare
l’idealismo di Spaventa, avverso ad ogni degenerazione materialista e
determinista, senza dimenticare però la sua attenzione per la scienza e la
storia. Se troppo spesso il logicismo hegeliano viene interpretato come foriero
di una insuperabile staticità del reale, l’interpretazione spaventiana mostra
l’insostenibilità di tale tesi. Eterno è il dualismo che genera e assicura una
continua evoluzione sul piano storico, scientifico e politico: in questo senso
il dualismo dell’autore è contrapposto al monismo del suo più grande
divulgatore e allievo (benché indiretto) Giovanni Gentile. La seconda parte del
testo è dedicata specificamente a problemi di carattere politico, legati soprattutto
alla contraddizione tra Stato etico ed purzanitas: il tentativo di divinizzare
lo Stato da parte del filosofo di Bomba non giunge mai ad un profetismo
metafisico; si mantiene sempre un atteggiamento di grande umiltà nei confronti
della storia. Opere psicologiche inedite, in D. D’ORSI, Contributi alla
ricostruzione integrale del pensiero di B. Spaventa: inediti, accertamenti
filologici, nuovi itinerari e assetti critici, in “Le ragioni critiche”, IV,
(1974), pp. 433-490; V (1975), pp. 54-88, 168-198. Il primo articolo si apre
con una presentazione di D’Orsi nella quale si rivendica il profilo
antidogmatico del pensiero spaventiano, fortemente debitore nei confronti dell’hegelismo;
si evidenzia la discontinuità tra il corso del 1863 sulla Filosofia della
natura rispetto a quello del ’63-°64 sull’antropologia, che raccoglieva una
serie di appunti e di riflessioni cui l’autore non aveva mai dato una forma sistematica.
Elemento essenziale del corso, secondo D’Orsi è la distinzione tra la meccanica
ripetitività dell'animale e la possibilità di mutazioni da parte dello spirito.
Citando un passo di Gentile, dove si presenta Spaventa come uomo dal pensiero
tormentato sino agli ultimi giorni di vita, si sottolinea che l’inesausto
tentativo di conciliare analisi e critica concerne non solo il suo ruolo di
filosofo e di storico della filosofia, bensì anche quello di pensatore che si interroga
di fronte ai progressi del pensiero scientifico. Il primo articolo prosegue
riportando la prima parte del testo originale di Spaventa dal titolo L’arnzzza
universale (pp. 465- 490); i due articoli successivi, riportano il secondo
capitolo Animali e uomo, e il capitolo terzo intitolato Dall’universalità alla
particolarità dell'anima. A. ASOR ROSA, La cultura, in AAVV., Storia d'Italia, IV,
2. Dall’Unità ad oggi, Einaudi, Tornino 1975, pp. 821- 1664 e particolarmente
pp. 821-999. Spaventa viene citato, insieme a Villari, come uno dei maggiori
responsabili della rinascita di Campanella e Bruno (p. 844). Asor Rosa presenta
anche un breve estratto di Spaventa tratto dagli Studi sopra la filosofia diHegel(p.852),
ma il tema cardine rimane l'influenza dell’autore abruzzese nel dibattito
sull’hegelismo all’interno della Destra storica (p. 881-882): alla sintesi
speculativa per un certo verso raggiunta tra il sistema hegeliano e il
liberalismo di sicuro non seguì una attuazione pratica e politica. M. A.
RASCHINI, L’idealismo anglosassone, francese e italiano, in Grande antologia
filosofica, vol. XXII, Il pensiero contemporaneo, Milano 1975, pp. 607-614. Spaventa
è qui presentato come autore di grande vigore, all’insegna della continuità tra
Kant e Hegel, a differenza di Vera. L’opera di Spaventa viene giudicata come fenomenismo
che tuttavia non riuscì né a rinnovare il sistema hegeliano, né ad instaurare
un proficuo dialogo con il positivismo. L. GENTILE, La Scolastica, Cartesio e
Bertrando Spaventa, in “Filosofia” 1975; 26; pp. 139-148. Dal parallelismo tra
Cartesio e Spaventa, entrambi contestatori della scolastica, ma altresì allievi
dei Gesuiti, Gentile individua proprio nel dualismo intelletto-verità il luogo
di dissidio tra Spaventa e la filosofia scolastica. Rivendicando il ruolo
attivo del soggetto e l’immanenza del reale, Spaventa critica aspramente la
prova ontologica di Anselmo preferendovi quella cartesiana, benché anche quest’ultima
risulti imperfetta. Gentile tende a rilevare che il punto di vista dal quale
Spaventa polemizza contro la Scolastica prima e Cartesio poi, può inficiare la
validità stessa della critica, dal momento che l’idea di Dio come mediazione
assoluta non sarebbe accettata da nessuno dei due avversari. V. CAVALLO, Note
sulla cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, in “Protagora”, 1976, pp.
7-50. L’ampio articolo di Cavallo tratteggia per sommi capi il panorama
culturale napoletano, all'insegna di una rivisitazione del ruolo e della figura
del De Sanctis, mediante la quale si rivaluta anche Spaventa, De Meis, Vera, Imbriani
e Villari. Concentrandosi sul libro di Oldrini del °73, del quale si sottolinea
la visione organica che evita di proporre trattazioni isolate dei diversi
autori, un ruolo di primo piano viene ravvisato nell’analisi dell’arretratezza culturale
di Napoli nell’ultima parte del XVIII secolo, dovuta alla mancanza di
personalità di spicco e ad una ripresa dell’autorità religiosa appoggiatadaiBorboni
per evitare il dilagare di movimenti rivoluzionari. Cavallo cita due passaggi
di Spaventa sul tema della rivoluzione proprio per rilevarne la stretta
relazione con la filosofia hegeliana, presente già negli anni ‘40 e affermata
definitivamente solo negli anni ’60. L’articolo si conclude sottolineando la reinterpretazione
in chiave speculativa del darwinismo offerta da Spaventa. D. D'ORSI,
Introduzione a B. SPAVENTA, Lezioni di antropologia, Casa editrice G. D'Anna,
Messina-Firenze 1976, pp. 2-70. Per avvalorare l’immenso lavoro filologico
svolto sulle carte Spaventa al fine di correggere in alcuni tratti la versione
gentiliana, D’Orsi ricorre ad una vera e propria comparazione dei luoghi in cui
sono poste le differenze più significative, con l’intento di rilevare che la
tensione al vero, anche in un senso filologico, contribuisce a mantenere aperto
il sistema spaventiano. Oltre all’analisi di alcune interpretazioni storiche
offerte da Spaventa, l’attenzione si concentra sugli effetti che il
materialismo provocava nel filosofo abruzzese, sempre impegnato nell’affermare
una discontinuità tra natura e spirito, non certo nell’ottica di una separazione
tra le due sfere, ma nella consapevolezza che la nascita della coscienza non
potesse essere spiegata in soluzione di continuità rispetto alla natura
animale. S. LANDUCCI, Hegelismo e positivismo in Italia, in AAVV., Storia della
filosofia contemporanea, vol. IX, Vallardi, Milano 1976, pp. 365-398. L’intervento
di Lancucci si apre con una rassegna della traduzione spiritualistica, cui
segue la trattazione dell’hegelismo napoletano, capitolo nel quale si nominano oltre
a Passerini, Spaventa, De Meis e Vera, anche gli eredi di quella tradizione
come Jaja e Gentile. Un'attenzione particolare è dedicata a Spaventa e al suo
primo corsonapoletano nel quale viene presentata in forma compiuta la teoria
della circolazione. Gli inizi della ripresa del pensiero scientifico sono
affrontati proprio attraverso la figura di Spaventa che nel ’67 individua
proprio il positivismo ed il materialismo quali nuovi avversari dell’idealismo
al posto dello spiritualismo. Si accenna ‘anche alla polemica sull’eredita di
Galilei, nominando la figura di Villari e Gabelli. Le sezioni successive sono
dedicate al pensiero di Ardigò in connessione alla morale dei positivisti, alla
psicologia e all'evoluzione cosmica. Sergio Landucci conclude con la
presentazione della cultura positivistica e con il marxismo di Antonio
Labriola, di cui si ricorda l'appartenenza alla scuola spaventiana. G. VILLA,
Bertrando Spaventa in Piemonte (1850- 1859), in “Studi piemontesi”, V, 1976,
pp. 53-68. La breve rassegna del clima culturale del Piemonte degli anni ‘40,
in cui si evidenzia la censura di giornali e libri, le difficoltà di Gioberti,
il domino incontrastato di Rosmini, contribuisce a mostrare perché l’attività
di Spaventa si stata particolarmente tormentata durante il decennio torinese.
Lo scontro con il teismo di Bertini farà di Spaventa il campione della nuova
filosofia hegeliana, sui principi della quale giungerà a proporre persino una
modifica dello Statuto, in nome dell’istanza nazionale. Già negli scritti del
‘54-55 il filosofo abruzzese studia le relazioni tra Risorgimento italiano e
idealismo tedesco; individuando nella libertà assoluta il principio della
modernità, Spaventa potrà avvalorare la tesi di un pensiero italiano costretto
in catene nel XV secolo e rinato in Germania nel XIX secolo. In questa ottica
sono collocate le dispute contro la logica di Rosmini, il teismo di Schelling e
la disputa con i Gesuiti. L. MALUSA, La storiografia filosofica italiana nellaseconda
metà dell'Ottocento, I Tra positivismo e neokantismo, Marzorati, Milano 1977. L’ampio
volume di Malusa contiene una prima parte interamente dedicata alla scuola di
Bertrando Spaventa e a Francesco Fiorentino. Di Spaventa si parla già nell’Introduzione
(pp. 50-54), individuando nella sua opera uno dei maggiori contributi
all'elaborazione dell’hegelismo. Degno di nota è il fatto che, insieme a
Gentile e Fiorentino, Spaventa è l’autore più citato nel testo di Malusa. I
primi due capitoli della prima parte, esplicitamente incentrati su Spaventa
(pp. 71-95), lo presentano come il maggior pensatore del Meridione della
seconda metà dell'Ottocento: indubbi restano i meriti per aver elaborato la
tesi della circolazione del pensiero italiano. Il compito di aggiornare il dibattito
e la cultura della penisola per dare vita ad una unità autentica viene
considerato sia un impegno speculativo, sia una missione civile. Spaventa, che combatteva
senza posa il dilettantismo e ogni tendenza divinatoria, non pretese mai di
aver concluso la scienza, ma si sforzava sempre di sviluppare una critica
capace di riaprire il sistema. Se è vero che nessun allievo seguì Spaventa
sulla via troppo ardua di una storiografia speculativa, si deve ammettere che
la serietà speculativa dei suoi discepoli, pur allontanando i consensi,
mantenne vivo il suo pensiero, ancorché in un circolo assai ristretto di pensatori.
P. PICCONE, From
Spaventa to Gramsci, in “Telos. A Quarterly Journal of Radical Thought”, n. 31,
1977, pp. 35-65. Nel tentativo di
far risalire le influenze esercitate sul pensiero di Gramsci non più soltanto
ad Antonio Labriola, ma all’hegelismo napoletano della seconda metà del XIX secolo,
l’autore mostra quale peso abbiano avuto le speculazioni di Bertrando Spaventa
sullo storicismo assoluto di Gramsci, poco incline alle grandi astrazioni,
incapaci di cogliere la multidimensionalità della vita reale. Dopo una rapida
panoramica sulla ricezione di Hegel in Europa, ad esempio in Gran Bretagna
grazie ai lavori di William James, Stirling e Green, si sottolinea come in
Italia l’hegelismo abbia avuto un impatto non solo accademico, ma socio politico
assai profondo. Per sottolineare il legame Spaventa- Gramsci si cita la famosa
lettera dell’8 ottobre del 1851 in cui dice di temere di più le idee e
l'influenza del papato che non i cannoni austriaci. Il pensiero hegeliano,
giunto in Italia grazie alla mediazione francese (viene citato naturalmente il
nome di Victor Cousin) fu bollato subito come pensiero della Rivoluzione
francese, precursore dell’ateismo e del socialismo: contro questa tesi si è
battuto Spaventa, cercando di mostrare la continuità tra il Rinascimento
italiano e l’idealismo tedesco. Se è vero che il nazionalismo spaventiano verrà
poi strumentalizzato da Gentile e dal fascismo, è anche vero che la tesi della circolazione
del pensiero era l’unico modo per non presentare Hegel come pensatore straniero
“piovuto dal cielo”, come afferma Piccone. Il parallelismo Spaventa- Gramsci
viene ribadito sottolineando che entrambi hanno vissuto il fallimento di una
rivoluzione, hanno cercato di interpretare la sconfitta in senso concettuale
negli anni successivi, e sono stati apprezzati soltanto due decenni dopo la
morte. L'articolo si conclude sottolineando la differenza tra hegelismo
ortodosso di Vera e hegelismo critico di Spaventa, continuato idealmente da
Gramsci. A. SAVORELLI, Da Darwin a Vaihinger; scienza e filosofia nell'ultimo
Spaventa, “Atti dell’Accademia di scienze morali”, Napoli, LKXXVIII, 1977, pp.
57-80. Tema di fondo dell’articolo è la volontà spaventiana di garantire alla
metafisica una funzione all’interno dello studio scientifico. Nonostante la
fase sistematica si fosse già conclusa negli anni ’60, sarebbe errato
interpretare il cedennio successivo se non alla luce di una esigenza di sistematicità.
Lo stesso antipositivismo cui si ispira da principio il “Giornale napoletano di
filosofia e lettere” non mirava alla rigida contrapposizione, bensì a mostrare
lo sviluppo interdipendente di filosofia e scienza. Savorelli sottolineacome
gli appunti di Spaventa testimonino la lettura di Leclair, Schuppe, Goring,
Bagehot e Vaihinger, quest’ultimo in particolare criticato proprio perché le
sue categorie empiristiche potevano essere ottenute mediante un procedimento
dialettico. L’esigenza del fenomenismo di Vaihinger di trovare la legge
fondamentale della realtà contraddiceva, secondo Spaventa, l’idea della
sensazione come posizione assoluta. La rivisitazione persino dell’evoluzionismo
in chiave hegeliana mostra un intento preciso: eliminata la trascendenza, si
doveva recuperare una prospettiva teleologica per non cedere al mero determinismo
meccanicistico. Savorelli segnala come l’attenzione alla scienza verrà
segnalata anche dal Gentile, per il quale però soprattutto certe tematiche non costituiscono
più motivo di interesse. C. CESA, Hegel in Italien. Positionen im Streit um die Interpretation
der Hegelschen Rechtsphilosophie, in “Allgemeine Zeitschrift
fur Philosophie”, 1978, a. III, n.2, pp. 1-21. A differenza che in Francia, in Italia lo studio dell’hegelismo
fu recepito solo all’insegna del rinnovamento della nazione e dell'idea di
Sato. La prima traduzione italiana di Hegel apparve in Svizzera e solo nel 1848
i Lineamenti di filosofia del diritto furono tradotti a Napoli, città simbolo
degli studi hegeliani in Italia. Dopo aver rilevato che in Spaventa e De Meis
la perspicacia speculativa si univa ad una incapacità pratica (ovviamente
diverso è il giudizio su De Sanctis), Cesa mostra a quali opere si deve la diffusione
del pensiero politico di Hegel. Si sottolinea la l’attività giornalistica di
Silvio Spaventa, anche al fine di dimostrare la differenza di opinione dei due
fratelli sul concetto di Rivoluzione. Dopo aver analizzato l'influsso e la diffusione
del pensiero hegeliano sulla prima generazione (significativi in tal senso gli
accenni al pensiero di Vera), ci si concentra sulla seconda generazione, in
particolare su Croce e Gentile. D. D’ORSI, Introduzione a B. SPAVENTA, Psiche e
metafisica, Editrice G. D'Anna, Messina-Firenze, 1978, pp. VII-CXVII. Nell’introduzione
al volume D’Orsi sottolinea le significative variazioni al testo spaventiano in
seguito al suo lavoro filologico, anche attraverso una valutazione comparata
con i testi editati dal Gentileeutilizzati poi da Cubeddu nella edizione del
1972. Si sottolinea la sfortuna delle vicende editoriali di Spaventa, benché in
chiave filosofica si possa interpretare questo fenomeno come tensione che anche
a livello filologico e non solo contenutistico contribuisce a mantenere aperto
il sistema. Venendo specificamente al testo, Spaventa appariva turbato dal
materialismo, a motivo del fatto che l’anima doveva essere mantenuta come
garante dell'unità organica e sistemica del mondo spirituale. La continuità
scimmia-uomo era un elemento inaccettabile per l’autore abruzzese, sempre preoccupato
di opporre al mero meccanicismo l’idea di una unità viva, tipica della
concezione organicistica. F. TESSITORE, Bertrando Spaventa e il “Giornale napoletano
di filosofia e lettere”, Bibliopolis, Napoli 1978. Presentando le vicissitudini
dell’organizzazione si un giornale filosofico a Napoli, tentativo più volte
fallito e più volte tenacemente ripetuto fino alla sua definitiva riuscita, soprattutto
in risposta alla “Nuova Antologia” nata a Firenze nel 1866, Tessitore si
concentra sulle polemiche suscitate dall’articolo piuttosto polemico di
Spaventa sulla Vita di Giordano Bruno scritta dal Berti nel 1867. Elemento essenziale
per comprendere il senso e l’intento con cui venne fondato il “Giornale
napoletano di filosofia e lettere” è comprendere l’espressione di Spaventa
secondo il quale si rendeva necessario “ripigliare il sacro filo della nostra tradizione
filosofica”. Al termine del volume sono inserite sei lettere di Spaventa (Carte
Fiorentino, 8c, busta 63) e quattro lettere di Vittorio Imbriani (Carte
Filosofiche, busta B 2/5). G. BRESCIA, Editori e autori dell’idealismo. LL Bertrando
Spaventa postumo nel carteggio del fratello Silvio, Donato Jaja e Benedetto
Croce, in “Rivista di studi crociani”, XVII, 1, gennaio-marzo, 1980, pp. 68-76.
L’articolo rileva come alla complicata vicenda della stesura degli appunti da
parte di Spaventa, che secondo Gentile scrupolosamente scriveva i suoi testi
senza mai pubblicarli, sia seguita una seria problematica anche nell’editarli.
Il Loscher fu editore soltanto di nome, perché l'onere della pubblicazione dei
manoscritti di Spaventa fu assunta dal Vecchi di Trani, con il quale si avviò
una fitta corrispondenza da parte di Silvio Spaventa, Jaja e Croce. Il travaglio
editoriale angustierà Spaventa e Croce per tutto l’87, anche a motivo dello
smarrimento della pagina ventuno del manoscritto nella tipografia del Vecchi,
puntualmente ricordata da Brescia. R. FRANCHINI, La storiografia filosofica da
Spaventa a Gentile, in “Nord e Sud”, 1980, pp. 131-146. Ora in I/ diritto alla
filosofia, SEN, Napoli 1982, pp. 229-249. La “Rivista di filosofia” avviata da
Silvio Spaventa viene considerata da Franchini come anticipazione della teoria della
circolazione che sarà poi affermata con ben altro tenore dal fratello Bertrando
quasi vent'anni dopo. Anche Silvio, non solo Bertrando, vedeva una strettissima connessione tra la rinascita
della tradizione filosofica e la rinascita nazionale. Introdurre Hegel
all’interno del dibattito filosofico italiano rappresentava un azzardo, a causa
delle forti resistenze del neoguelfismo e del neotomismo; l’unico modo per
inserire l’idealismo tedesco in Italia, rendendolo accettabile senza farlo
percepire come elemento straniero, consisteva nel rivalutare il pensiero rinascimentale
italiano come anticipatore degli sviluppi della filosofia moderna. In
particolare Bruno come antesignano di Spinoza ed Hegel da una parte e Vico come
precursore di Kant dall’altra. Si ricorda anche lo sfortunato episodio del rifiuto
dell'editore Le Monnier di pubblicare l’opera di Spaventa su Bruno, nonostante
l’influenza e l’insistenza del Villari. Nazionalità e precorrimento sono i
tratti tipici del pensiero di Spaventa secondo Franchini. La seconda parte dell'intervento
riguarda Gentile e la sua assimilazione del concetto di storia della filosofia
mutuato da Spaventa, che tuttavia non viene mai citato esplicitamente: Gentile attribuirà
piuttosto molto peso all’influenza di Windelband. Il saggio si trasforma poi in
una valutazione del pensiero stesso di Gentile, il cui errore principale,
secondo Franchini, sarebbe stato quello di non aver distinto tra teoretica e pratica,
tentando di mostrarne la profonda identità. G. MICHELI, Scienza e filosofia da
Vico ad oggi, in Storia d’Italia-Annali, 3. Scienza e tecnica nella cultura e nella
società dal Rinascimento ad oggi, Einaudi, Torino 1980, pp. 549-675. Alla
figura di Spaventa sono dedicate alcune pagine in cui si tratta la sua critica
ai principi della filosofia vichiana sulla scorta del pensiero hegeliano (pp.
582-585). Si accenna anche alla sua teoria della nazionalità della filosofia,
rimasta in Gentile. Forse un po’ troppo sbrigativamente si annovera il
pensatore abruzzese tra coloro che adattarono il pensiero kantiano ed hegeliano
alla cultura napoletana, in parte tradendone gli effettivi contenuti. Brevi
cenni sull’attività di Spaventa sono presente anche nella trattazione del
rapporto tra Illuminismo e positivismo. A. SAVORELLI, Le carte Spaventa della
biblioteca nazionale di Napoli, Bibliopolis, Napoli 1980. Il preziosissimo
lavoro di catalogazione delle carte Spaventa eseguito da Savorelli trova una
testimonianza editoriale in questo volume nel quale l’autore lamenta l’incompiutezza
del lavoro fino a quel momento eseguito sulle carte ed in generale mostra il
livello di dispersione dei lavori del filosofo abruzzese, dovuto non tanto,
come voleva il Gentile, alla sua attività pubblicistica su giornali e alla mancata
pubblicazione in vita dei suoi studi, quanto piuttosto ai litigi occorsi tra il
fratello Silvio e il figlio Camillo. Un secondo momento di dispersione riguarda
il periodo successivo alla morte del Maturi. Si accenna anche al ritrovamento
di alcune carte presso la Biblioteca civica “A. Mai” di Bergamo da parte di
Masini nel 1959. Sicuramente, però, la situazione più complessa è legata alla Biblioteca
Nazionale di Napoli. Se si tiene conto del lavoro filologico di Jaja, Masci e
Maturi, oltre a quello di Gentile (che sicuramente occupa un posto di eccezione
nella riscoperta del pensiero di Spaventa) e quello di D’Orsi nel dopoguerra,
risulta frustrante che vi siano ancora delle notevoli lacune nello studio
dell’autore: soprattutto per quanto riguarda il periodo precedente al 1850 e il
primo periodo di Torino. A. GUZZO, Hegel in Italia, in “Filosofia”, XXXII, 1981,
4, 497-506. Nell’articolo l’importanza del Cousin per la diffusione di Hegel in
Italia viene avvalorata dall’interesse del Galluppi per l’intellettuale
francese. Non si dimentica la lettura di Hegel da parte di Rosmini e Gioberti,
ma ci si concentra soprattutto sullo studio dell’autore tedesco, approfondito a
più riprese, da parte di Spaventa: da Torino, a Modena, a Napoli. Guzzo collega
la lettura di Spaventa alla nuova corrente europea inaugurata dallo Zeller con
la formula “Zurick zu Kant”; in dialogo ed in polemica con questa tesi,
Spaventa non accentuò mai le differenze, quanto piuttosto la continuità tra
Kant ed il movimento dell’idealismo tedesco. Nella seconda parte dell’articolo l’attenzione
si concentra su Gentile e Croce (di cui Guzzo riporta l’incontro con Nyman e
Martinetti): le divergenze di pensiero tra i due non intaccheranno la solida
amicizia, compromessa solo dopo il delitto Matteotti e la presa di posizione di
Gentile a favore del fascismo. G. LANDUCCI, Scienza, cultura e ideologia nello
stato unitario, in Storia della società italiana, vol. XVIII, Milano 1981, pp.
201-249. Fin dalle premesse emerge il contributo portato da Spaventa alla
riforma dell’università avviata da De Sanctis, precisando l’importanza della
prolusione del 10 maggio 1860 e l’opposizione al darwinismo, appoggiata
dall’amico De Meis. Due fattori sono individuati come caratteri imprescindibili
del pensatore abruzzese: il riferimento alla nazionalità e la strenue lotta
contro ogni forma di materialismo. Al positivismo dilagante De Sanctis e Spaventa
opposero la validità della critica e della dialettica come metodo del
conoscere. La presentazione della riforma intellettuale avviata dal De Sanctis
precede una disamina dello scritto postumo Esperienza e metafisica, nel quale
si ribadiva il rifiuto ad ogni concezione che affermasse l’inconoscibilità o
peggio l'assenza dell’assoluto. Spaventa al termine è definito “l’intelletto
filosofico più dignitoso che l’Italia unita aveva avuto” (p. 248). A.
SAVORELLI, Alla vigilia di un centenario dieci anni di studi su Bertrando
Spaventa (1971-1981), in “Cultura e società”, 1982, pp. 113-118. Nel suo breve
articolo Savorelli ripercorre le linee guida della diffusione del pensiero di
Spaventa, dominata per tutta la metà del XX secolo dalle tesi gentiliane,
criticate soltanto nel secondo dopoguerra da interventi militanti, con
l’intento di recuperare la linea Spaventa-Labriola-Gramsci. Il lavoro di Teresa
Serra del ’74 mostra già l’infondatezza delle interpretazioni marxiste, mentre
la lettura di Oldrini è ricordata a proposito della distinzione tra hegelismo ortodosso
di Augusto Vera ed hegelismo critico di Bertrando Spaventa. Si accenna
all’articolo di Cumis del ’76 sui rapporti tra Spaventa ed Herbart e alle
Lezioni di Antropologia curate da D’Orsi. Al termine Savorelli propone la tesi
secondo cui l’originalità ed insieme il limite di Spaventa sarebbe stato quello
della rinuncia all’eclettismo in favore di un sistema che tenesse insieme le
differenze. G. OLDRINI., L’hegelismo italiano tra Napoli e Torino, in
“Filosofia”, XXXIII, 1982, p. 247-270. Volontà dichiarata di Oldrini è mostrare
la linea di continuità tra il periodo napoletano prequarantottesco e gli sviluppi
torinesi, soprattutto in virtù dello stretto rapporto tra la scientificità come
metodologia filosofica e la cultura dell’Italia unita, nel senso che si
reputava necessaria una trattazione scientifica del pensiero per farne emergere
la nazionalità. Oldrini individua nel coscienzialismo di Galluppi e
nell’eclettismo di Cousin il retroterra dello sviluppo dell’hegelismo a Napoli;
dopo l’esperienza del “Museo di letteratura e filosofia” di Gatti e Cubani, il
tenore culturale della città subì, se non un tracollo, per lo meno una drastica
involuzione. Il processo di sviluppo dell’hegelismo continuò a Torino,
soprattutto grazie all’apporto degli esuli meridionali tra i quali spiccano Spaventa
e De Sanctis. G. TOGNON, Bertrando Spaventa. Lezioni inedite di filosofia del
diritto. Modena 1860. (1) e in “Archivio storico bergamasco”, n. 1, anno II,
Maggio 1982, pp. 37- 60. L’articolo di Tognon illustra le disavventure della biblioteca
dei fratelli Spaventa, trasferita a Bergamo, divisa tra Silvio e il figlio di
Bertrando, Camillo, con riferimento alle carte recuperate da Croce e donate
alla Biblioteca di Napoli. Si elogia il lavoro di riordino e catalogazione di Savorelli.
Si riporta poi il testo parziale delle lezioni di “Filosofia del diritto” e di
“Storia della filosofia” tenuti a Modena e Bologna. Alla difficoltà nel
ricostruite il calendario delle lezioni supplisce una notevole chiarezza del progetto
steso da Spaventa all’inizio dei corsi. Si riporta il manoscritto per i primi
sei fogli (MM 760/18). G. TOGNON, Bertrando Spaventa. Lezioni inedite di filosofia
del diritto. Modena 1860. (2) in “Archivio storico bergamasco”, n. 2, anno II,
Novembre 1982, pp. 275-290. La brevissima introduzione di Tognon ribadisce l’influenza
di Hegel sulle lezioni di Spaventa, in particolare l’Hegel della Fenomenologia
e dei corsi sulla Filosofia della storia. Spaventa coglie l'occasione per
sottolineare che in Italia manca completamente la coscienza del diritto. Secondo
Tognon “mai filosofo straniero divenne più italiano di quanto lo fu lo Hegel
dello Spaventa”. Segue lo scritto di Spaventa che completa la pubblicazione del
Maggio ’82. (MM 760/18 e MM 760/22). A. SAVORELLI, Note sul Vico di Bertrando
Spaventa, in “Bollettino del Centro Studi Vichiani”, 1982-83, 12-13; pp.
101-130. Vico costituisce un caso quasi unico di riscoperte e abbandoni
continui da parte degli studiosi, ed è in questo senso che Gentile poteva
parlare di storia a doppia faccia, di sporadici omaggi in uno sfondo di
completa dimenticanza. Merito di Spaventa è quello di aver rivalutato la figura
di Vico agganciandola al panorama europeo, in quanto precursore dell’idealismo.
Savorelli tende comunque a ridimensionare l’importanza della lettura
spaventiana di Vico, in quanto si appoggia in larga misura a canoni e modelli
di critica vichiana ottocentesca; la stessa lezione VI del corso del 61-62,
dedicata a Vico, sembra inserita di getto in uno schema completamente
indipendente ed autonomo. Savorelli riconosce, d’altra parte, il ruolo
essenziale che la lettura di Vico ebbe nello sgretolamento delle teorie hegeliane
sulla filosofia della storia: nel frammento del 1875 Spaventa giunge a
considerare addirittura Vico e non Hegel come filosofo della storia. La crisi
dell’idealismo cui Spaventa assiste nell’ultimo decennio della sua vita lo
portò a rivalutare Vico, ma non come radicale critica dello Hegel, bensì
piuttosto come interpretazione alternativa della filosofia della storia che
tuttavia mantiene imprescindibile la distinzione tra mondo della natura e mondo
dello spirito. M. BISCIONE, Rinascimento, Riforma, Restaurazione cattolica nel
pensiero di Bertrando Spaventa, in “Clio”, XIX, 1983, pp. 277-288. A partire
dalla scarsa diffusione all’estero come tratto che accomuna l’opera di De
Sanctis e di Spaventa, Biscione tenta una messa a fuoco del personaggio in
quanto storico della filosofia, anche per smarcarlo dall’interpretazione in chiave
esclusivamente idealistica proposta da Gentile e dominante almeno per tutta la
prima metà del Novecento. Se da un lato hanno un valido fondamento le critiche
del Croce relative ad una trascuratezza da parte di Spaventa verso i dettagli
storici in favore della prospettiva teoretica, bisogna precisare che non si
tratta di puro razionalismo, bensì piuttosto di una fede moderna nella storia.
Benché si tenda ad accentuare l’influenza di Michelet e di Mazzini, non si può
negare una larga concessione nei confronti delle suggestioni hegeliane. La
filosofia della storia proposta da Spaventa coincide, in sostanza, con la
teoria della circolazione del pensiero italiano: ruolo principale è svolto dalla
figura di Campanella, senz'altro tra le più studiate da Spaventa, insieme a
quella di Bruno. L’interpretazione che Spaventa propone del Rinascimento e
della restaurazione cattolica assume una notevole distanza rispetto alle teorie
hegeliane, anzi, per certi versi le sue tesi sulla soggettività liberata
anticipano di qualche anno le tesi di Burckhardt. Dal lavoro di Campanella del
1854, che l’autore definisce poco più che una osservazione supportata da alacre
speranza, furono necessari anni di studio prima di giungere alla teoria della
circolazione intesa come autentica metafisica della storia. E. GARIN, Filosofia
e politica in Bertrando Spaventa, Bibliopolis, Napoli 1983. Il testo di Garin
si apre con la citazione di una lettera del Labriola che informa Engels della
connessione trovata da Spaventa tra hegelismo e darwinismo già nel 1864. Se è
vero che negli sviluppi successivi della tradizione hegeliana la nottola lascia
il posto alla talpa che trasforma il terreno lavorando nel sottosuolo, risulta
inefficace l’idea di Passerini secondo la quale la filosofia della storia di
Hegel non tiene conto del futuro: piuttosto lo spirito che si diffonde nel mondo
mostra il potere del concetto che vuole ricreare la realtà. Garin precisa che
Spaventa non tradì mai il suo autentico maestro, lo Hegel, a differenza di
quanto accadde per il De Sanctis, cui Hegel aveva “seccata l’anima”: l’interpretazione
originale del pensiero hegeliano, mai allinsegna di una mera ripetizione
meccanica, portò Spaventa ad utilizzare gli strumenti della dialettica per ribadire
l’importanza dei due soli (Rinascimento italiano e Idealismo tedesco) e per
legittimare l’intima affinità tra i due, accomunati da una intrinseca
avversione a qualsiasi forma di dogmatismo. In appendice è riportato un
intervento di Tognon, la prolusione bolognese, di cui si sottolinea una
correzione di data (30 aprile e non 10 maggio come si riporta solitamente) e
infine una lettera di Bertando Spaventa al fratello Silvio datata 27 ottobre
1859. G. OLDRINI, U/tizzi contributi alla storia della cultura filosofica
napoletana dell'Ottocento, in “Rivista critica di storia della filosofia”,
XXXVIII, 1983, pp. 325-357. Mostrando l’interconnessione tra la storia della
vita reale e la storia della cultura nella Napoli dell'Ottocento, Oldrini si
sofferma sul centralismo della classe dirigente italiana e sulla malformazione
dello sviluppo del meridione come fattori della crisi della città negli anni
’30. Oldrini lamenta numerose lacune della storiografia sulla pubblicistica e
sul vichismo napoletano, contestando la tesi di Broccolini, secondo cui
Spaventa sarebbe un epigono di Finamore. Veri snodi critici sono i legami tra
hegelismo e Destra storica da un lato e ridimensionamento dell’hegelismo e del
vichismo in favore del positivismo dall’altro. Per questi motivi si apprezza il
monumentale lavoro di Malusa del ‘77, dedicato al positivismo e al neokantismo,
benché alcuni limiti siano rintracciati per esempio nell’eccesso di analisi
espositive e in alcuni difetti di interpretazione sul pensiero del Fiorentino. R.
FRANCHINI, Cozze riscoprire Bertrando Spaventa, Il Tempo, Roma 20/2/1983. Di
contro all’interpretazione comune di Bertrando Spaventa come bieco
immanentista, Franchini rivendica tutto il criticismo del filosofo abruzzese,
sottolineando che “non credette mai all’unicità e alla definitività della costruzione
hegeliana”; oltre allo straordinario sforzo di chirificazione del pensiero di
Hegel, si deve aggiungere la capacità di elevare il dibattito italiano ai
livelli di quello europeo, tratto che dovrebbe delegittimare ogni tentativo di interpretare
la sua esperienza filosofica all’insegna del provincialismo. Alla base del
pensiero spaventiano Franchini individua l’unità del sapere, esposta nella prolusione
del 1862. G. MARTANO, Bertrando Spaventa e la filosofia del Rinascimento, in
“Discorsi”, 1983, pp. 266-278. La nomina di Bertrando Spaventa a Professore di
Logica e Metafisica dell’Università di Napoli, voluta da De Sanctis, scandalizzò
il resto del corpo docente, a causa dell’elogio del panteismo germanico
proposto dal filosofo abruzzese: suo autentico obiettivo, d’altro canto, era
mostrare l’intima affinità tra il pensiero idealistico tedesco e quello rinascimentale
italiano. L’assunzione della realtà soltanto nel suo essere pensata costituiva
il nucleo dell’insegnamento spaventiano, per cui Cusano, Valla, Pomponazzi,
Telesio e lo stesso Leonardo con il suo richiamo alla “sperienza” dovevano
essere visti quali precursori di Kant ed Hegel. Privilegiato fu il rapporto con
Bruno e Spinoza, che Spaventa associò tra loro, ma non sulla base di interpretazioni
teologizzanti. Da ultimo Campanella viene certamente considerato come filosofo
della Restaurazione cattolica, ma non di può dimenticare il suo senzzr di
sentire, l’importanza del ruolo della soggettività, benché ancora compromesso
da un residuo naturalistico. Il carattere precursore di Vico rispetto
all’idealismo tedesco è dichiarato da Spaventa con il preciso intento di
mostrarne le affinità nella trattazione del materiale storico. Tutto questo percorso
deve essere valutato alla luce della profonda fede che Spaventa nutriva verso
il progresso, alimentato da costanti e continui sforzi umani. P. DI ATTILIO,
Rivoluzione, partiti politici e stato nazionale. Nuovi testi di Bertrando
Spaventa, Giuffrè, Milano 1983. Il primo capitolo del libro analizza la
formazione del giovane Spaventa, riferendosi all’influenza di padre Testi al monastero
di Montecassino; proprio in quegli anni emerge già una vocazione più pratica
del fratello Silvio rispetto all'anima teoretica di Bertrando. Il capitolo
secondo si concentra sulla prolusione di Modena del 1859, dove si mostrava la
nuova scienza storica in contrapposizione al puro arbitrio della libertà da un
lato e alla bieca necessità meccanicistica dall'altro. Nella disamina degli
articoli pubblicati sul “Progresso”, all’interno del capitolo terzo, si sottolinea
l’importanza e la superiorità delle idee nel creare l’unità, laddove al Dio
Cannone veniva contrapposta la Dea Ragione. A. SAVORELLI, Riforma della
dialettica, riforma del sistema: crisi e trasformazioni dell’'hegelismo in
Spaventa (1861-1883), in B. SPAVENTA, Esperienza e metafisica, Napoli, Morano,
1983, pagg. 7-80. Savorelli sottolinea che la prima fase degli anni ’60 è legata
ad un utilizzo della filosofia hegeliana nel senso di una filosofia della
storia che attraverso la teoria della circolazione del pensiero italiano
consolida su basi metafisiche l'indipendenza e l’unità d’Italia, mentre invece già
dalla seconda metà degli anni ’60 sino al 1883 Spaventa dovette affrontare la
cosiddetta crisi dell’idealismo (già un quegli anni lo Zeller si faceva
promotore dell’esigenza di ritorno a Kant). I temi sollevati dalle teorie di
Darwin e dal positivismo imponevano un serio confronto con il sistema della
dialettica: il progressivo sgretolamento del sistema comportò per Spaventa non
un abbandono del pensiero hegeliano, quanto piuttosto il consolidamento di un
nucleo originario di verità metafisiche idealistiche, non certo nel senso di
una rigidità dogmatica, quanto piuttosto di apertura del sistema a nuovi
sviluppi che tuttavia, lungi dallo smentire, contribuivano a confermare la
logica dialettica correttamente interpretata. M. LEOTTA, La filosofia di A.
Tari, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1983. In particolare pp.
17-84. L’opera, che analizza il pensiero di Tari secondo una triplice
scansione, ossia Metafisica, Estetica e Filosofia della natura, prevede
un’ampia Introduzione dove si presenta una biografia molto dettagliata
dell’autore: in queste pagine il riferimento a Spaventa è assai frequente. Si
ricorda la passione per la matematica che accomunava i due pensatori, l'amicizia
nata nel soggiorno a Montecassino nel soggiorno tra il ‘38 ed il ’40, durante
il quale Tari insegnò a Spaventa i rudimenti della lingua tedesca ed infine la
collaborazione all’Università di Napoli dopo la riforma avviata da De Sanctis.
Nell’introduzione sono anche riportate due lettere di Tari a Spaventa, la prima
datata 18 luglio 1861 e la seconda 30 ottobre 1973, nelle quali si ringrazia il
filosofo abruzzese per l’aiuto offerto in occasione della nomina di Tari
rispettivamente a Professore straordinario nel 1861 e la ben più sofferta ed
attesa nomina del ‘73 a Professore ordinario. Nell’ultima parte
dell’Introduzione si riportano anche alcune parti della lettera con cui Tari
raccomandava a Spaventa Antonio Labriola, allora giovane studente di filosofia
notato da Tari per la sua vivacità intellettuale. D. D’'ORSI, Introduzione a R.
H. LOTZE, Elementi di psicologia speculativa, Casa Editrice G. D'Anna, Messina-
Firenze 1983. La prefazione di Antimo Negri elogia D’Orsi come il più fedele
studioso di Bertrando Spaventa. L’Introduzione di D’Orsi interpreta il binomio
Lotze-Spaventa come anticipazione di quella collaborazione tra filosofo e psicologo
tanto comune nel Novecento. Di entrambi si sottolinea l’anticonformismo
rispetto al positivismo e al materialismo imperanti negli anni ‘70 e ’80. Lotze
in Germania e Maine de Biran in Francia adottano una visione non riduzionistica
della mente umana, privilegiando l’impenetrabilità dell’intimità dell'anima. Il
recupero di un'ottica speculativa e metafisica, precisa D’Orsi, implica una
ripresa della prospettiva teleologica ed una esaltazione della valenza critica
della soggettività. L’affinità elettiva e speculativa tra Bertrando Spaventa e
Lotze è dovuta al medesimo atteggiamento di rifiuto della trascendenza e insieme
di rifiuto del mero materialismo; nel caso di Spaventa D’Orsi sottolinea quanto
la vicenda personale di Spaventa, che è stato prete per circa un decennio prima
dell’esilio torinese. Questa psicologia speculativa — secondo D’Orsi — appare
quale autentico gioiello speculativo. All’Introduzione segue la traduzione di
Bertrando Spaventa degli Elementi di psicologia, preceduta da una serie di appunti
e preliminari che costituiscono il materiale preparatorio. R. ROMEO, Cavour e
il suo tempo (1854-1861), Laterza, Bari 1984, vol. III, pp. 107-109. Nell’ampio
studio di Romeo sulla figura di Cavour, articolato in tre libri, alcune pagine
dedicate esplicitamente a Spaventa si trovano nell’ultimo volume, dove lo si
presenta come autore di una nuova interpretazione di Hegel come filosofo
dell’innovazione, contro le tesi che circolavano a Napoli prima del ’48 per cui
il filosofo tedesco era considerato filosofo del fatto compiuto. Altri cenni sporadici
a Spaventa riguardano la sua attività di scrittore su “Il Cimento”, assieme a
De Sanctis (p. 112) ed il suo giudizio negativo sulla situazione piemontese
espresso in una lettera al fratello Silvio (p. 381). F. BARONE, Bertrando
Spaventa e il positivismo, in “Libro aperto”, A. 5, n. 1 (1984), pp. 25-37. Barone
ricorda di aver attraversato il pensiero di Spaventa nei suoi studi sul
positivismo, riferendosi in particolare alle opere psicologiche edite dal
Gentile. Prendendo spunto dalla famosa lettera del Labriola ad Engels in cui
Spaventa viene presentato come conciliatore tra Darwin e Hegel, Barone concorda
con l’opinione di Gentile secondo la quale Spaventa fece sempre i conti
onestamente con il positivismo, benché lo stesso Gentile svaluti troppo il
ruolo ed il peso della scienza nel suo sistema: certamente il gran valore assegnato
alle riflessioni politiche e metafisiche contribuisce a porre in secondo piano
il rapporto di Spaventa con la scienza. L’elemento che ogni autore tende a
sottolineare, da Cubeddu a D’Orsi passando per Vacca, è la volontà di evitare
ogni riduzionismo fisiologico a proposito della psichicità, rivendicando la
superiorità dell’atto rispetto al fatto da cui prende avvio ogni analisi
scientifica. Barone non risparmia critiche
all’interpretazione superficiale dell’evoluzionismo darwiniano proposta
da Spaventa, ma concorda sull'efficacia e l’attualità delle analisi critiche di
Spaventa ai concetti utilizzati dalla fisiologia. L'articolo confluirà poi nel
volume Dalla scienza della logica alla logica della scienza. F. FOCHER,
Spaventa di fronte al positivismo, in “Criterio” 1984, pp. 46-61. Dopo aver
presentato Spaventa come uno di quegli intellettuali convinti che la propria
epoca coincidesse con la piena manifestazione del regno dello Spirito, Focher
precisa che le riflessioni del filosofo abruzzese, nel tentativo di rendere
popolare Hegel e non volgare, come scrisse al Villari, risultano ancora assai
attuali sul piano politico, molto meno su quello scientifico, a causa delle
grandi novità della scienza del XX secolo. Per recuperare il valore della critica
spaventiana al positivismo, si deve quindi porre in risalto il valore che
assume l’uomo nel contesto storico: la storia è positivismo, è l'assoluto fare
umano. In questa chiave è possibile vedere in Spaventa un elemento di stringente
attualità in quanto esalta l’uomo in quanto essere libero e assoluto.
L’articolo di Focher sarà inserito tra gli interventi che compongono il libro
Dalla scienza della logica alla logica della scienza. A. SAVORELLI, Hegel e
Gioberti: Prime reinterpretazioni e revisioni in Bertrando Spaventa, in “Annali
della Scuola Normale Superiore di Pisa”, 1984; 14 (4), 1415-1439. Il rapporto
tra Spaventa e Gioberti ha subito numerose modifiche nel corso degli anni:
Savorelli rileva che al superamento di una lettura e di una comprensione
generica dell’hegelismo segue una rivalutazione da parte di Spaventa del
pensiero italiano ed in particolare di Gioberti. Se è vero che nel ‘49 Gioberti
viene denigrato da Spaventa, già nel ’55 si assiste ad una parziali
rivalutazione del suo pensiero, in quanto conciliatore della nuova visione del
mondo hegeliana con il cattolicesimo. Nel ’57, tuttavia, Gioberti è di nuovo “un
fanfarone” e soltanto negli anni ’60 ‘anche per consolidare la tesi di
circolazione del pensiero italiano Gioberti viene definitivamente rivalutato.
Savorelli, tuttavia, non accetta l’idea che l'apprezzamento per il teorico del neoguelfismo
sia dovuto solo ad una esigenza del momento, ma tende piuttosto ad inserirlo
all’interno di una più vasta operazione di aggiornamento del dibattito
filosofico italiano. Gioberti verrebbe rivalutato anche come risposta ad Hegel:
la stessa riforma della dialettica mira ad un superamento della dicotomia
arbitrio/necessità all’interno della filosofia della storia. A questo proposito
Savorelli avanza l'ipotesi che anche lo Schelling sia stato utilizzato da
Spaventa non tanto per confutare, quanto piuttosto per integrare e consolidare
le tesi hegeliane. La medesima integrazione e difesa di Hegel avviene sul campo
politico: Savorelli tende a precisare che la soluzione individuata da Spaventa
in questo campo è il calco di quella attuata sul piano logico e metafisico. AAVV.,
Bertrando Spaventa. Dalla scienza della logica alla logica della scienza,
Pironti, Napoli 1986. Il volume raccoglie una serie di saggi ed è introdotto da
Raffaello Franchini con un analisi sui caratteri del pensiero spaventiano in
rapporto al tema della nazionalità. Il saggio di Francesco Valentini riguarda
il rapporto Hegel-Spaventa in relazione alla Scienza della logica. L'intervento
di Italo Cubeddu si concentra sul binomio Gentile-Spaventa e sull'importanza
della circolazione a proposito della riforma della dialettica hegeliana.
Vittorio Stella contribuisce a mostrare l'influenza di Spaventa sul pensiero di
Gentile e di Croce, pur nella diversità delle loro interpretazioni sulla vicenda
del filosofo abruzzese. Arturo Martano presenta Spaventa storico della
filosofia, la cui teoria della circolazione si muove all’insegna della fede nel
progresso della storia (articolo apparso in “Discorsi”, 1983, vedi sopra).
Mentre Valerio Verra approfondisce i nessi tra Spaventa ed il trio di logici
tedeschi Trendelenburg- Werder-Fischer, Fulvio Tessitore si occupa del nesso decadenza-rinascenza,
evidenziando due linee di continuità, Machiavelli-Lutero e Cartesio-Lutero,
nella quale si inserisce anche la figura di Galileo. D’Orsi si sofferma sui criteri
ecdotici nella ricostruzione filologica del pensiero di Spaventa. Franco Barone
e Ferruccio Focher specificano il rapporto tra Spaventa e la scienza della
seconda metà dell'Ottocento (rispettivamente in “Libro aperto” e “Criterio”,
1984, vedi sopra). Girolamo Cotroneo distingue all’interno della scuola
spaventiana la direttrice Maturi-Jaja da quella di Tocco e Masci. Roehssen
esamina la figura del fratello di Bertrando Spaventa. A questi saggi si
aggiungono interventi di Pasquale Socco, Primo Di Attilio, Alessandro Savorelli,
Clementina Gily Reda e Giuseppe Brescia. Al termine del volume è presentata una
bibliografia di testi scritti tra il 1970 ed il 1983 su Bertrando Spaventa,
curata da Savorelli, Rascaglia e Reda, come prosecuzione della bibliografia
ragionata di Italo Cubeddu del 1972. I. CUBEDDU, Da Spaventa a Gentile: Kant e
il neotdealismo, in La tradizione kantiana in Italia, Atti del convegno della
Società filosofica italiana (Messina 15-17 novembre 1984), Edizioni G.B.M.,
Messina 1986, I, pp. 325-350. Secondo Cubeddu l’interpretazione del pensiero
kantiano offerta da Spaventa dipende nelle sue linee essenziali dalle critiche
presenti in Fede e sapere, benché il difetto del dualismo e della “tenerezza
per le cose del mondo” non impedisca al pensatore di Bomba di ammirare l’idea dell’unità
della coscienza e della sintesi a priori. Assai apprezzato risulta il
capolavoro su Gioberti, nel quale Kant, pur non essendo un protagonista
assoluto, non è mai relegato al ruolo di semplice comprimario. Passando al Novecento,
Cubeddu si sofferma sulla posizione gentiliana che aveva proposto un ritorno da
Kant a Hegel, ravvisando nell’intrascendibilità del pensare il guadagno comune
di entrambi. A tal proposito si cita il saggio sulla Riforzza della dialettica
del 1912, dove si tenta di correggere la posizione kantiana mediante
l’hegelismo, corretto esso stesso nel Sistema di logica, nel quale si propone
una categoria unica del pensare. Cubeddu precisa come Spaventa non abbia mai compiuto
quella riforma neohegeliana di Kant, in quanto non considerò la conoscenza come
pura unità analitica della mente. P. MARCHI, Spaventa e Popper, in “Criterio”,
1986, pp. 65-76. Molti sono i preamboli necessari a Marchi per introdurre questo
insolito parallelismo: nonostante la diversa, per non dire opposta,
interpretazione che i due autori offrono di Hegel e dell’idealismo tedesco in
generale, l’elemento comune ai due pensatori è il rifiuto di qualsiasi
prospettiva riduzionistica. Non è certo necessario precisare quanto Spaventa
sia sensibile alle sollecitazioni delle scienze del proprio tempo, senza però
mai rinunciare all'importanza dell’analisi critica, possibile solo tramite il
pensiero filosofico: le sue tesi contrarie ad ogni riduzionismo dell'anima (del
pensiero) al semplice cervello o ad un insieme di elementi materiali sono ben
note. A partire da un percorso intellettuale decisamente differente, anche
Popper si oppone alla “chiusura del mondo fisico”, dimostrandosi non molto
lontano, su questo punto, dallo Spaventa di Psiche e Metafisica. Popper,
particolarmente, rinvia all'esistenza di tre mondi, quello materiale, quello
della coscienza e quello della cultura, interagenti tra di loro, ma di certo
non riducibili al primo. Infine, mediante alcune citazioni dall'opera di Popper
Lio e #/ suo cervello, si tende a sottolineare come l’autore sia convinto che
l’io possieda il cervello e non viceversa, avvicinandosi molto in tal senso alle
tesi spaventiane del “senso di sé” come nucleo profondo del pensare. AA.VV.,
Gli begeliani di Napoli e la costruzione dello stato unitario, Istituto
italiano per gli studi filosofici, Napoli 1987. Già nell’Introduzione al volume
il ruolo svolto dai fratelli Spaventa assume un'importanza centrale nella
costruzione teorica e pratica dello stato unitario. Se il lungo intervento di
Croce si riferisce spesso alla figura di Bertrando Spaventa, nella lettera di
Strater, pubblicata per intero nel volume, appare evidente l'ammirazione nei
confronti del filosofo di Bomba per aver posto in relazione pensiero italiano e
pensiero europeo. La prima parte dell’opera, curata da Saverio Ricci,
sottolinea il declino culturale di Napoli causato dalle emigrazioni degli
intellettuali nel ’99 e nel ’21; altro elemento cruciale è la sostanziale
inefficacia del tentativo di educazione delle masse che portò alla repressione
del ‘49. La seconda sezione, di Maria Rascaglia, mostra quale fosse
l’arretratezza del Piemonte in campo culturale rispetto a Napoli e quindi le
difficoltà di De Sanctis e Spaventa, costretti all’attività di giornalisti. Ben
diversa la situazione al ritorno a Napoli dove ai due protagonisti si aggiunge
anche la figura di Vera. La terza parte è dedicata alla scuola di Bertrando
Spaventa, in particolare a Francesco Fiorentino e Antonio Labriola. Una quarta
sezione è dedicata al fratello Silvio. Il volume si conclude con due appendici
di Giampiero Griffo e Piera Russo. A. SAVORELLI, Spaventa e Galileo, in Galileo
a Napoli (F. LOMONACO e M. TORRINI a cura di), Guida, Napoli 1987, in
particolare pp. 469-481. L’intervento di Savorelli tende a precisare che le
letture spaventiane e le sue tesi sui precorrimenti, benché segnate da forti
deformazioni e distorsioni, rappresentano un contributo originale e sempre
innovatore rispetto al dibattito storico-filosofico dell'Ottocento. Galileo non
solo non è un autore classico della trattazione spaventiana, anzi, viene citato
raramente nei suoi lavori e solo nel 1882 viene studiato in maniera specifica.
Spesso Spaventa attenuò il lato di modernità attribuito dalla critica a
Galileo, che fu pertanto escluso dalla ricostruzione del pensiero italiano, in quanto
considerato un uomo di scienza piuttosto che un intelletto speculativo; ben
nota è la ritrattazione a pochi mesi dalla morte. Essenziale, secondo
Savorelli, l’influenza di Natorp nella riscoperta di un Gelileo criticista e
non semplice empirista: sotto questa luce Galileo fu assimilato forse troppo
frettolosamente da Spaventa alla linea Kant- Hegel, accentuandone alcuni
tratti, come ad esempio lo studio dell'a priori che lo distingueva
dall’ingenuità dei positivisti della seconda metà dell'Ottocento. Forse eccessive
sono le tesi di un Galileo precursore di Kant, anche perché lo studio di
Spaventa assume un taglio speculativo più che storico, avendo come obiettivo la
confutazione di alcune tesi di Vaihinger. G. OLDRINI, Filosofia e coscienza
nazionale in Bertando Spaventa, Quattroventi, Urbino 1988. L’idea che
l’assoluto avesse definitivamente perso il proprio carattere trascendente non
deve condannare al determinismo immanentista, bensì aprire la strada all’idea della
ragione come autentica creatrice di storia. Le due anime che si mostrano in
Spaventa, ossia il demone speculativo da un lato e la necessità di una
diffusione di Hegel sul piano filosofico e politico, determinano il contrasto
con il neotomismo che in quegli anni voleva proporsi, grazie al sostegno di
Corinaldi e Liberatore, come autentico erede della tradizione filosofica
italiana. Oldrini non manifesta particolare entusiasmo per le continue alterazioni
del testo spaventiano dovute a ricerche filologiche proposte da D’Orsi e
sottolinea che il cuore del discorso dell’abruzzese era l’affermazione
dell’hegelismo di contro al cattolicesimo neotomista. Nel volume sono presenti
interventi di Alessandro Savorelli, Franco Ottonello, Luciano Malusa, Guido
Oldrini, Giuseppe Tognon, Giovanni Mastroianni e Roberto Racinaro. F.
TESSITORE, M:nghetti, Spaventa De Sanctis: le trasformazioni del liberalismo,
in AAV., Marco Minghetti statista e pensatore politico dalla realtà italiana
alla dimensione europea, R. GHERARDI e N. MATTEUCCI (a cura di), Il Mulino,
Bologna 1988, in particolare pp. 47-66. Nella triade citata il nome Spaventa si
riferisce al fratello Silvio, ma la perspicacia di alcune analisi lasciano intravedere
un pensamento profondo della forma Stato, nel quale non si può non ravvisare
l’influenza del pensiero del fratello Bertrando. La posizione di Silvio è
riassunta mediante alcune citazioni sull'unità di Italia e la necessità di una
forte attività amministrativa, che si conciliava non molto bene con le tesi di
Minghetti di restringimento dei compiti dello Stato. Tessitore assegna a De
Sanctis il maggior rigore nel trattare la contraddizione tra libertà e governo,
nella quale si ravvisa il pericolo della decadenza della cultura e dello
spirito d’iniziativa della neonata nazione italiana. F. OTTONELLO, Pasquale
Galluppi nell’ “infedele” interpretazione di Bertrando Spaventa, in “Rivista Rosminiana
di Filosofia e Cultura”, 1988; 82 (1), pp. 41- 50. L'infedeltà dello Spaventa,
“senza cui non si viene a capo di nulla”, è presente anche nel commento alla
filosofia del Galluppi, che il filosofo di Bomba strappò dall’oblio in cui era
piombato. La critica alla teoria dell’oggettività della sensazione è fondata
sull’impossibilità di percepire una esistenza esterna, benché in senso
hegeliano si debba parlare di un “oggetto dell’atto chiamato coscienza”. Nella
presenza di una sostanza esterna da percepire Spaventa vede ripresentarsi il
fantasma del noumeno kantiano: proprio estremizzando i tratti del Galluppi,
però, Spaventa riesce a trarne i germi di uno sviluppo futuro; non ripetendo
mai in modo meccanico il pensiero altrui, Spaventa riesce a valorizzare le
tematiche trattate, come ad esempio nel caso del famoso “luogo d’oro”. A.
MARTONE, Lo scarto del linguaggio: eredità vichiane in Bertrando Spaventa, in
Furor verba ministrat. Eredità vichiane e Illuminismo in alcune teorie
linguistiche della cultura napoletana tra ‘700 e ‘800, Franco Angeli, Milano
1989, pp. 79-108. Spaventa viene qui presentato come pensatore intimamente
legato a Vico, in quanto filosofo della storia, nello sforzo di una
riunificazione del sapere e persino nel tentativo di dotare il pensiero
filosofico italiano di una propria autonoma tradizione. Vico stesso fu inserito
da Spaventa nella sua teoria sulla circolazione del pensiero. Rimane tuttavia
una incolmabile distanza tra Vico e Spaventa, il quale sembra non essere molto
sensibile alla glottogonia vichiana. A. SAVORELLI, Bruno Tulliano’
nell’idealismo italiano dell'Ottocento (con un inedito di B. Spaventa),
“Giornale critico della filosofia italiana”, LXXX (1989), pp. 45-77. Savorelli
ribadisce il merito di Bertrando Spaventa di aver dato impulso agli studi
bruniani, seguito dai suoi discepoli Felice Tocco e Francesco Fiorentino: lo
spiacevole episodio con l’editore Le Monnier testimonia, d’altra parte, l’arretratezza
culturale in cui versava all’epoca l’Italia, nella quale non riuscì a trovare
spazio il primo studio scientifico sulla figura del Nolano. L’inedito di
Spaventa, infatti, rimane il primo saggio che tenti di analizzare il pensiero bruniano
in chiave sistematica. Proprio in questo senso assume valore l’attenzione
dedicata da Spaventa alle opere cosiddette lulliane o mnemotecniche, che
secondo Brucker e Buhle erano da considerare la parte più oscura dei testi di Bruno.
Il testo di Spaventa si fonda su una critica del Ritter e su un confronto
costante con il pensiero di Lullo, Cusano e Spinoza. Certamente di grande
importanza è stata l'influenza di Barholméss, la cui interpretazione indica in Bruno
un anticipatore dell’idealismo tedesco: è noto quanto questa tesi sia
essenziale anche rispetto alla teoria della circolazione del pensiero italiano.
Savorelli precisa che ogni tentativo di porre in luce il misticismo di Bruno è considerato
vano ed errato da parte del pensatore abruzzese, che dedica attenzione alle
opere lulliane proprio per mostrarne la relazione con la teoria della
conoscenza proposta da Bruno. Il carattere di precursore della modernità
attribuito al pensatore di Nola, tuttavia, subirà lungo l’itineratio
spaventiano anche drastiche limitazioni, dovute, per esempio, alla sua errata
comprensione del cristianesimo. Nella trattazione del ’61-’62 Bruno non è più lullista
e l’ultimo vestigio lulliano del saggio torinese è un breve saggio dei Principi
di filosofia: le differenze sono dovute ai diversi intenti interpretativi
secondo Savorelli. Un segno dei tempi è il progressivo disinteresse da parte di
Spaventa e De Sanctis nei confronti di Bruno. Al termine dell'intervento di
Savorelli si riporta una sezione del Saggio inedito di B. Spaventa su Bruno
(1854-1854). Manoscritto 3.6.4 conservato alla Biblioteca nazionale di Napoli. L.
MALUSA, L'idea di tradizione nazionale nella storiografia filosofica italiana
dell'Ottocento, Tilgher, Genova 1989. La figura di Spaventa è presente in tutto
il testo, dedicato nella prima parte all'idea di “tradizione nazionale” nella storiografia
filosofica e nella seconda ai rapporti tra la tradizione filosofica italiana e
la “Civiltà cattolica”: ben si comprende come la personalità di Spaventa svolga
un ruolo di primo piano in entrambe. Nelle pagine centrali della prima parte si
sottolinea il ruolo che Spaventa attribuì al genio italico nella distruzione dell’immobilismo
cui per secoli la Scolastica aveva costretto il pensiero. Il “primato” della
filosofia tedesca nel panorama europeo dipendeva strettamente da quel
criticismo che per la prima volta trovò in Italia la propria espressione.
Inutile ribadire quali furono i risvolti politici di una tale prospettiva filosofica:
il pensiero spaventiano era in grado di assicurare l'immanenza del pensiero,
superando le istanze clericali, senza cadere nell’aridità dell'Illuminismo. Si
citano le ricostruzioni storiografiche di Garin e la progressiva appropriazione
del pensiero spaventiano sulla linea Spaventa-Labriola-Gramsci (e Togliatti),
che consentì di sottrarre l’autore abruzzese all’esclusivismo dell’interpretazione
attualistica. Nella seconda parte si definisce Spaventa autentica “bestia nera”
(p. 69) del periodico gesuita: la critica della filosofia hegeliana, principale
obiettivo della rivista, non poteva esimersi da ripetuti attacchi anche nei
confronti del pensatore abruzzese, quando ancora questi non aveva elaborato il proprio
pensiero in maniera sistematica. Non sfugge all'analisi che all'origine dello
scontro si poneva la convinzione che Tommaso d'Aquino e non Hegel dovesse essere
il modello della filosofia italiana. G.
MOSSANO, Bertrando Spaventa e la psicologizzazione
dell’a priori nel neocriticismo italiano, in “Accademia di scienze morali e
politiche”, volume XCIX, Napoli 1988, pp. 279-304. L'intervento di Mossano
analizza la sostituzione dell’incantesimo idealistico mediante l’incantesimo psicologico,
ossia quella comprensione della critica kantiana che scivola dall’appercezione
trascendentale all’a priori come funzione ordinatrice dell’esperienza. Se
ancora in Spaventa il problema critico è inteso come problema della conoscenza
sul piano trascendentale, nella generazione successiva molti sono i tentativi
di fornire interpretazioni differenti della tesi kantiana. Mossano ricorda come
Spaventa avesse cercato ci riassorbire il positivismo nell’hegelismo, dal
momento che il soggetto è ciò che letteralmente “fa”, costruisce il proprio
oggetto. Dalle analisi del pensiero di Masci, tuttavia, si deduce come già in Spaventa
“le forme kantiane siano intese in senso dinamico ed evolutivo, reale e non
ideale” (p. 282). Questa tesi viene però corretta attraverso una lunga
citazione tratta da La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia
europea grazie alla quale si vuole dimostrare come la concezione di Spaventa
intenda il giudizio non soltanto come formativo, ma costitutivo dell'oggetto.
Mossano ricorda come Masci abbia apprezzato il tentativo di sintesi del maestro
tra hegelismo e darwinismo, soprattutto nelle opere dell’ultimo decennio di
attività. È importante sottolineare come il nuovo empirismo proposto da
Spaventa (fondato cioè sul superamento della contrapposizione tra realismo e idealismo)
non distrugga il lato attivo e originario della soggettività, ma lo possa
riconfermare, in una accezione in cui Kant si incontra con Hegel. Ciò che deve
essere tenuto fermo, secondo il pensatore abruzzese, è il carattere non biologico,
né psicologico del problema della conoscenza, che è essenzialmente critico.
Analizzando il dibattito critico, Mossano individua in Tocco e Cantoni due
assertori del limite intrinseco della prima Critica legato alla mancanza di una
psicologia nell’architettura kantiana; diversamente Chiappelli tenta una
mediazione, cercando quale tendenza psicologica si conformi maggiormente al
problema del criticismo. Non mancano i riferimenti, in questo caso, alle tesi
di Spencer, contro il quale, però, più volte Spaventa si espresse
negativamente. Al termine si citano i giudizi del Gentile sulla errata
interpretazione del criticismo offerta dal Masci. In conclusione si torna a
ribadire l’esigenza si stabilire una radicale distinzione tra il lato empirico-
evolutivo e quello trascendentale, ricordando come solo dopo il 1945 a
psicologia si sia affrancata dalla filosofia. M. RASCAGLIA., Venti lettere
inedite di Angelo Camillo de Meis a Bertrando Spaventa, in “Giornale Critico
della Filosofia italiana”, 1990; 10 (1), pp. 39-74. Nella presentazione di
questo nuovo, ennesimo impegno di ricostruzione del carteggio spaventiano,
Maria Rascaglia indica come preciso intento la ricostruzione delle vicende biografiche
di De Meis e Spaventa, in relazione al ventennio (1861-1882) coperto dalle
venti lettere inedite. Molti sono i temi trattati, dove autentico protagonista
romane la figura di De Sanctis, oggetto di continue polemiche sia sul piano politico
sia sul piano del suo mestiere di critico letterario. Si sottolinea anche la
tormentata vicenda della pubblicazione dell’articolo di Spaventa Paolottismo,
positivismo, naturalismo: nelle lettere De Meis giustifica le correzioni apportata
prima della stampa per ammorbidire almeno in parte i toni e la satira pungente
dello Spaventa. Viene posta in risalto dalla Rascaglia anche la lettera del 22
luglio 1869 in cui De Meis si difende dalla accusa dell’Imbriani di “non far
deduzione”. Sullo sfondo rimane una sfiducia nella gestione politica dell’unità
di Italia, soltanto a volte mitigata da un cauto ottimismo, come in occasione
del governo Minghetti del °73. G. OLDRINI, Napoli e i suoi filosofi.
Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell’Ottocento, FrancoAngeli,
Milano 1990. Il volume raccoglie una serie di interventi di Oldrini sulla cultura
filosofia napoletana dell'Ottocento. Il ruolo di Spaventa appare con grande
chiarezza nel VI capitolo, dedicato all’hegelismo italiano tra Napoli e Torino
(saggio apparso in “Filosofia” nel 1982) e nel VII capitolo sull’hegelismo
‘critico’ del filosofo abruzzese (apparso già nel 1988). Il capitolo IX, sulle
ragioni dello Stato etico, inedito, confronta le posizioni di Vera con quella
dei fratelli Spaventa, mostrando la loro progressiva interpretazione dell’hegelismo
da supporto alle teorie rivoluzionarie a sfondo teorico del concetto di Stato
etico, inteso come ciò che dà direzione, unità e senso alla dimensione
economico- sociale. V. VITIELLO, Bertrando Spaventa e il problema del cominciamento,
Guida Editori, Napoli 1990. Punto focale dell’interpretazione di Vitiello è il
dualismo di essere e pensare che Spaventa eredita dalla tradizione filosofica.
Acquisita la novità kantiana di una conoscenza che non è più fatto, bensì
attività, Spaventa mostra come Hegel sia la sintesi tra il soggettivismo
radicale di Fichte e l’oggettismo schellinghiano. Punto focale proposto da Vitello
è l’indeducibilità del pensare dall’essere nella filosofia antica e
l’indeducibilità del reale dal possibile nella filosofia moderna (p. 16): la
filosofia hegeliana vuole dar ragione a Fichte senza smentire Schelling (p.
18); su questo punto l’interpretazione di Spaventa raggiunge un'intensità che
verrà persa nei suoi eredi, persino in Gentile, che rimane chiuso nella logica
fichtiana. Il circolo Fenomenologia-Logica deve essere intepretato alla luce della
separazione del sapere dal suo contenuto come atto di volontà: il puro essere
che ne risulta, come pura relazione a sé del pensare, dovrà mostrarsi capace di
dedurre da sé l’intera ricchezza degli enti. Di fronte al pensare si erge dunque
un Essere che è prima e fuori del pensare (p. 51). Qui si apre l'enigma della
“genesi del No, dopo e nonostante il sì” (p. 61). G. CALABRÒ, La concezione
etica dello Stato in Bertrando Spaventa, in Silvio Spaventa (S. RICCI a cura di),
Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1991, pp. 263-274. Il breve
intervento di Calabrò riassume innanzitutto il contributo kantiano alla
filosofia del diritto, in particolare sul rapporto tra morale e diritto nella
cornice dello Stato. Il problema di Hegel, invece, riguarda proprio la
conciliazione tra diritto e Stato in ordine al tema della volontà libera del singolo
individuo. Spaventa rientra in questa trattazione, come scolaro di Hegel,
definito “tutt'altro che inerte”: le sue speculazioni acquistano uno spessore
mai più raggiunto dalla tradizione liberale. Spaventa sostiene che l’equilibrio
di ragione e storia si trova proprio nella prospettiva dello Stato nazionale,
anzi, sostiene esplicitamente che la pluralità degli Stati in quanto
espressione della naturalità dovrà essere risolta in una figura ulteriore che
non sarà lo Stato degli Stati, bensì è l’umanità, già attiva e perfettamente concreta.
Per Spaventa, ancor più esplicitamente che in Hegel lo Stato è delimitato sia
dall'alto che dal basso; centrale, sia in Spaventa che nel suo maestro ideale
rimane il problema del rapporto tra individuo e Stato. Se da un lato il filosofo
di Stoccarda mostra la concretezza della libertà nella prospettiva etica
universale, il pensatore abruzzese rimane ad un livello più schematico e
astratto, benché egli stesso avverta l'esigenza di una conciliazione tra
sovranità statale e libertà individuale. M. MORETTI, Savio Spaventa e Villari,
in Silvio Spaventa (S. RICCI a cura di), Istituto italiano per gli studi
filosofici, Napoli 1991, pp. 303-386. L’intervento di Moretti individua le
tappe salienti che hanno caratterizzato il rapporto intellettuale e politico
tra Silvio Spaventa e Villari, di cui si hanno notizie dettagliate grazie al
loro scambio epistolare. Uno dei momenti di maggiore tensione tra i due si
verifica dopo la lettera al De Meis scritta da Bertrando Spaventa nel ’68,
tensione che verrà acuita in seguito al progetto di far eleggere Bertrando nel
collegio di Gesso Palena nel 1870. Le frizioni tra Silvio Spaventa e Pasquale
Villari rientreranno già verso la fine del 1870, mentre il rapporto con
Bertrando rimarrà in gran parte compromesso. Il testo prosegue sottolineando le
differenti prospettive dei due autori sul problema meridionale, sul ruolo
dell'educazione e sulla riforma universitaria. TERESA SERRA, B. Spaventa
interprete di Galluppi, in AAVV. Studi galluppiani. Atti del convegno
galluppiano di Tropea del 28-30 maggio 1987, Brenner, 1991, pp. 281- Il
kantismo del filosofo di Tropea viene individuato da Teresa Serra quale
autentico punto di riferimento dell’interpretazione spaventiana: tenendo
presente che Galluppi lavora fino al 1831 in totale isolamento dal mondo, ritirato
nelle “nuvole filosofiche”, per approdare poi a Napoli nove anni prima
dell’arrivo dei fratelli Spaventa, non è difficile supporre una lettura dei
suoi testi da parte di Bertrando già prima dell’esillio torinese. La nota ammirazione
per il Colecchi porterà ad uno scontro con il filosofo di Tropea, che pure
aveva il merito di aver superato un certo provincialismo della filosofia
italiana. Già nel 1850 i giudizi su Galluppi non appaiono lusinghieri:
l'influenza hegeliana porta Spaventa ad una radicale svalutazione dovuta alla
mancata comprensione di Kant ed alla inaccettabile prossimità con Locke. Tale
prospettiva sarà sconfessata nel 1860, nella prolusione in cui si annunciano Galluppi,
Rosmini e Gioberti quali autentici filosofi italiani, ma le radici di un tale
ripensamento devono essere rintracciate proprio nella svolta hegeliana del ’56,
che offrì la possibilità a Spaventa di recuperare in una luce innovativa l’intero
percorso del pensiero europeo: Galluppi rientra così nella filosofia cristiana,
benché i tre autori dell'Ottocento non possiedano l’originalità del loro
precursore Vico, di cui rappresentano soltanto una maturazione. La
riabilitazione della sensibilità di Galluppi implica un suo riavvicinamento alle
posizioni kantiane: in questo consiste, secondo Teresa Serra, la novità
dell’ottica spaventiana, che non fu comunque immune da polemiche. N. CAPUTO,
Prospettive real-idealistiche per una nuova metafisica, Morano, Napoli 1991. Il
testo, suddiviso in sei capitoli e una conclusione, si apre con il problema di
rivalutare l’umanesimo, superando il dualismo tra scienza e filosofia, non però
in senso fenomenologico, come è stato suggerito da più parti nel corso del
Novecento, o mediante teorie crociane, bensì alla ricerca di un umanesimo
integrale che riabiliti Vico e Hegel. Il secondo e terzo capitolo propongono
una critica serrata delle principali esegesi spaventiane: dal giudizio di
Garin, all’'errata comprensione del rapporto tra politica e teoresi proposta da
Vacca; non viene apprezzata né l’interpretazione dualistica di Spaventa offerta
da Teresa Serra, né quella di Vito Bellezza, dipendente dalla visione gentiliana.
Anche il volume di Cubeddu del ’64 viene svalutato. Sui risultati dell’indagine
storiografica su Spaventa si citano i lavori di Savorelli sulle riserve antignoseologiche
del filosofo abruzzese; le edizioni di alcune opere curate da D’Orsi per
mostrare il legame con il pensiero di Lotze, i mutamenti di prospettiva di
Cubeddu. Superate, nel quarto capitolo, le interpretazioni sul teologismo di
Spaventa proposte da Croce e sul misticismo legate all’opera di De Ruggiero, il
capitolo quinto mostra come unica possibilità di intendere il pensiero di
Spaventa il real-idelismo di Felice Alderisio, che rivaluta l’unità di realismo
e idealismo soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero, segnata dal
confronto con Kant. L’attualismo gentiliano, le tesi di Guzzo, Carabellese e
Calogero sono considerate deviazioni rispetto alla strada tracciata da 2686 Spaventa.
L’esame delle teorie di Berti sull’assoluto di Spaventa ed i vari tentativi di
interpretazione marxista da parte di Togliatti e Plebe si rivelano
insufficienti secondo Caputo, almeno tanto quanto le proposte di analisi dell’hegelismo
proposte da Kojève e Vitiello. La polemica contro l’indirizzo epistemologico di Barone, il convenzionalismo
di Geymonat, l’irrazionalismo di Abbagnano e l’antiidealismo proposto da
Filiasi-Carcano è affrontata nell'ultimo capitolo. La conclusione propone un superamento
di attualismo, marxismo e positivismo facendo riferimento ai testi cardine del
pensiero di Spaventa quali Logica e metafisica da un lato ed Esperienza e
metafisica dall’altro. G. LANDOLFI PETRONE, Ux inedito di Bertrando Spaventa
sul Concetto di Filosofia, in “Studi filosofici”, 1991-92, pp. 195-212. La
breve presentazione dello scritto Sopra Kant (Carte Spaventa 1.1.16) di Petrone
si concentra sulla novità assoluta della trattazione spaventiana di Kant nel
1851-52, sottolineando che la linea Kant-Hegel rafforza l’idea dell'impronta
tedesca della filosofia europea. La tematizzazione di Kant avviene circa
tredici anni dopo la prima lettura della Critica della ragion pura, primo testo
filosofico cui l’autore si avvicinò nel 1838-39. Spaventa rileva come la
dialettica sia già in Kant il tratto centrale della riflessione come insieme di
identità e non identità. Petrone sottolinea anche il rilievo dato da Spaventa
alla distinzione kantiana tra filosofia e senso comune. Alla recensione segue poi
il saggio spaventiano. I. BERTOLETTI, Dialettica del cominciamento. Un 2687 saggio
di Vincenzo Vitiello su Bertrando Spaventa, in “Humanitas”, 1992, pp. 122-126. Il
commento di Vitiello si concentra sul problema del Primo, diversamente
interpretato a seconda che ci si trovi in Fenomenologia o in Logica. Al di là
delle singole polemiche con Trendelenburg, nelle quali tuttavia Spaventa
dimostra grande padronanza della materia logico-metafisica, l’intervento di
Vitiello risulta interessante perché proietta il pensiero di Spaventa oltre lo
stesso Hegel, verso un Essere che è prima e fuori dal pensiero. Lungi
dall'essere la rivisitazione di un presupposto realistico, Vitiello interpreta questa
posizione collegandola alla presenza di un limite del pensiero che è volontà.
Esaltata la fecondità del ripensamento di Spaventa offerto da Vitiello,
Bertoletti considera le prospettive ermeneutiche che si aprono a partire da
questa lettura, prospettando in Spaventa un anticipatore di Wittgenstein e
Adorno. F. M. DE SANCTIS, Lorenz von Stein e il giovane Spaventa, in
Dall’assolutismo alla democrazia, Giappichelli editore, Torino 1993, pp.
185-197. Il settimo capitolo del testo di De Sanctis mostra l’interesse di
Spaventa per il testo di von Stein I/ socialismo e il comunismo in Francia: la
petizione per la traduzione del testo in italiano fu sostenuta dall’abruzzese
in un articolo apparso sul “Nazionale” di Firenze. Si avanza l'ipotesi che i nuclei
teorici dello Stein siano lo sfondo concettuale di molti articoli apparsi sul
“Progresso”. E. GARIN, Tra due secoli. Socialismo e Filosofia în Italia dopo
l’unità, De Donato, Bari, 1993. 2688 Non molti nomi sono citati quanto quello
di Bertrando Spaventa, a dimostrazione dell'importanza e della rilevanza dell'autore
nel contesto italiano dopo l’unità. Soprattutto nella prima parte, dedicata
agli hegeliani dell’Ottocento, Spaventa occupa un luogo centrale, anche per
l’influenza esercitata sul pensiero di Labriola. G. OLDRINI, La “Rinascita
dell’Idealismo” e il suo Retroterra Napoletano, in “Giornale Critico della
filosofia italiana”, 1994, 73 (2-3), pp. 205-225. Oldrini comincia con il
rilevare che il destino comune dei due grandi leader della tradizione classica
napoletana, De Sanctis e Spaventa, fu quello di non avere una scuola in grado
di continuare e diffondere i loro insegnamenti. La rinascita dei due autori è
dovuta, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, all'operato,
rispettivamente di Croce e Gentile. Di contro all’atrofia culturale che
imperava in quegli anni a Napoli, questi ultimi rivendicano un ruolo decisivo
all’idealismo storico, nonostante le differenze, anche radicali, sui singoli
temi: in questa ottica sono interpretati da Oldrini anche gli attacchi ai
letterati ed eruditi dell’epoca. L’involuzione della cultura napoletana è intesa
come conseguenza del parassitismo della classe borghese e della boria
accademica, cui l’idea di un idealismo storicistico promossa da Gentile e Croce
impresse certamente una svolta. C. TUOZZOLO, Schelling e il “cominciamento” begeliano,
Città del sole, Napoli 1995. Significativo è il fatto che i titoli di ben due
capitoli su tre 2689 nel libro recano il nome di Spaventa. Il punto di partenza
è la valutazione della critica schellinghiana al pensiero hegeliano: da qui si
mostra il profondo legame Werder- Fischer-Spaventa, in quanto linea di pensiero
che recupera le critiche di Schelling. La tendenza di autori come Spaventa consiste
nell’identificare il primo della logica con il Dio di Schelling: non vuoto e
astratto cominciamento, bensì atto di volontà pura. Si evidenzia anche l’interpretazione spaventiana del passaggio
dallo Spirito Assoluto presente al termine della Ferorzenologia e l’Essere
astratto da cui comincia la Scienza della Logica: l’inizio della logica non è
il depotenziamento del risultato della Fezorzerologia, bensì l’essere già ricco
di differenze, dalle quali si può effettuare l’astrazione. Il problema
concettuale ravvisato da Tuozzolo in Spaventa è l'impossibilità di conciliare
la dottrina creazionista di Schelling con l’incrollabile caposaldo hegeliano
della identità tra logica e metafisica. Per questo l'operazione di molti
studiosi di Hegel, tra cui anche Spaventa, sarà quella di tentare una
conciliazione ed integrazione del pensiero di Hegel mediante le ultime speculazioni
di Schelling. M.RASCAGLIA, Introduzione a Epistolario, Istituto poligrafico
dello Stato, Roma 1995. La premessa di Oldrini è seguita da un intervento di Maria
Rascaglia che include un apparato bibliografico relativo alle fonti e alle
prime edizioni dei carteggi. Rivendicare l’importanza del patrimonio epistolare
come punto di osservazione privilegiato per comprendere la vita e l'evoluzione
intellettuale dell'autore assume senso soprattutto nel caso di Bertrando
Spaventa, a causa della dispersione editoriale subita dagli scritti. Se nei
carteggi, in cui il fratello Silvio rimane sempre un interlocutore privilegiato,
si può recuperare lo stile arguto e la vis polemica del filosofo, si deve
aggiungere che emergono anche una serie di nuovi progetti editoriali, mai
portati a termine, oltre alla ben nota traduzione dell’opera dello Stein. Nelle
lettere rivolte al fratello soprattutto è possibile specificare meglio lo stato
d’animo di Spaventa nel decennio piemontese e soprattutto le preoccupazioni
dovute alle ristrettezze economiche. Maria Rascaglia rivendica l’importanza di
uno studio attento dell’epistolario anche per comprendere il legame tra
Spaventa e Fiorentino ad esempio, sviluppato su due livelli: al rapporto
maestro- allievo ormai conosciuto, si aggiungono anche dettagli importanti
sulla collaborazione in campo pubblicistico. Oltre agli attacchi e all’ironia
nei confronti della “colonia romana” composta da Berti, Mamiani e Ferri,
emergono anche le considerazioni sulla situazione politica e amministrativa in
cui Spaventa fu coinvolto, prima come membro della Commissione di indagine del
consiglio superiore della Pubblica istruzione, poi come deputato dal "70
fino alla caduta della Destra storica. In realtà molte sono le occasioni nelle
quali si possono rilevare atteggiamenti di sconforto e di sfiducia
nell’attività politica, rispetto alla quale il fratello Silvio diventa simbolo
di una battaglia anche morale. Sulla dispersione dell’epistolario hanno
influito certamente la morte prematura dello Spaventa e i diversi orientamenti
assunti dai principali allievi della scuola. N. SICILIANI DE CUMIS, Il
“tecnico” e l’ “educativo” da Spaventa a Labriola, in “Scuola e città”, 1996,
pp. 99- IBS De Cumis affronta da subito la vexata quaestio dei molti e diversi
Spaventa proprio al fine di valutare i nessi tra Spaventa e Labriola in
rapporto alla “politica immanente”. Evidenziare le conseguenze della lezione
spaventiana, proprio a partire da Labriola, di cui si riporta uno stralcio della
famosa lettera del ’94 indirizzata a Engels, è essenziale per mostrare la
relazione tra i due. La prospettiva tecnica e meccanica in Spaventa si spiega
soprattutto in rapporto alla dimensione etico-sociale, che sarà decisiva anche
per la dimensione educativa del pensiero di Labriola. In realtà entrambi
concordano sul carattere antipositivistico dell'educazione e sulla necessità
dell'incrocio di politica e scienza. Pur sottolineando la diversità di esiti
cui sarà condotto il Labriola marxista, a motivo del materialismo, della mutata
concezione della storia e delle differenti concezioni metodologiche ed
epistemologiche, De Cumis nota una certa affinità tra le tesi di Labriola del
’96 e quelle di Spaventa del ‘51. Certamente non si possono dimenticare le
influenze del liberalismo sullo Spaventa giovane giornalista de “Il Progresso”,
rispetto al diverso orientamento assunto da Labriola, per cui non si può liquidare
quest’ultimo semplicemente come “allievo”. Non solo Spaventa già aspira a
quella universalità delle intelligenze quale compito essenziale della filosofia
politica, ma sul piano etico-politico-pedagogico le sue affermazioni risultano
addirittura più ardite di quelle di Labriola: De Cumis precisa che anche
Spaventa analizza la dialettica servo-signore in chiave rivoluzionaria,
rintracciando in questa dinamica una lotta contro l’egoismo naturale, mentre Labriola
si schiera già nell’ottica di una maggiore passività nei confronti della
storia, il cui ritmo è già scandito da leggi universali ben individuate. D.
LOSURDO, Da fratelli Spaventa a Gramsci: per una storia politico sociale della
fortuna di Hegel in Italia, Città del sole, Napoli, 1997. Il testo si compone
di sei capitoli nei quali si analizza l’influenze della filosofia hegeliana sul
pensiero politico europeo ed in particolare su quello italiano, avendo sempre come
riferimento la figura dei fratelli Spaventa. Il primo capitolo si concentra sul
declino della filosofia hegeliana e sul suo totale fallimento registrato nel
‘48. Se è vero che Hegel aveva trasmesso al mondo l’assoluta mondanità e politicità
dell’uomo, le vicende di Napoli saranno decisive per confutare
l’interpretazione di Hegel come filosofo dello status quo. Il fallimento del
°48 portò ad un abbandono della politica e ad un ritorno tra le braccia della
natura, dal quale poi sarebbe scaturito il positivismo. Il secondo capitolo è dedicato
al rapporto tra rivoluzione e nazione, di cui si seguono parallelamente il
filone tedesco, con Strauss e Vischer, quello francese di Thiers e Guizot, ed
infine quello italiano, proprio tramite i fratelli Spaventa, che mai accetteranno
l’idea di una scienza positiva, ma rintracceranno nella storia l’autentico fare
positivo dell’uomo, strettamente connesso alla sua nazionalità. Risultato di un
tale “nazionalismo” è la teoria della circolazione del pensiero, che da un lato
assume lo sfondo di filosofia della storia proposto da Hegel, dall’altro
anticipa i germi del moderno, rintracciandoli nel Rinascimento italiano, più
che nella Riforma,nonostante le resistenze di neoguelfi e mazziniani. Il terzo
capitolo mostra il recupero europeo in chiave politica della tradizione inglese
in contrapposizione allo stato etico hegeliano dopo le rivoluzioni del 48, cui
si contrappone in Italia un’esperienza liberale che invece ha in Hegel, più o
meno consapevolmente, il proprio teorico. Comincia in queste pagine il lavoro
di Losurdo teso a smantellare la linea Hegel- Spaventa-Gentile a favore della
linea Spaventa-Labriola- Gramsci. Nel quarto capitolo si riassumono i motivi principali
dell'opposizione della Chiesa alle tesi hegeliane, contro cui Spaventa dovrà
lottare scrivendo numerosi articoli. Soprattutto nelle tesi di Rosmini è
rintracciata una teoria che, svalutando lo Stato in favore del ruolo della Chiesa,
ripropone le tesi liberiste dello Stato minimo, fieramente osteggiato dai
fratelli Spaventa. Il quinto capitolo si concentra sull’adesione di Gentile al
fascismo intesa come progressiva separazione proprio dalle idee di Bertrando Spaventa,
soprattutto rispetto all’idea del valore assoluto del singolo. Il sesto
capitolo contesta alcuni stereotipi secondo cui il pensiero tedesco rappresenta
una china che da Lutero giunge ad Hitler, mostrando come, più che Gentile, Gramsci
ed il suo “comunismo critico” accolgano l'eredità spaventiana. A. SAVORELLI,
Bertrando Spaventa e la via stretta tra Bruno e Hegel, in “Giornale critico
della filosofia italiana”, 1998; 18 (1), pp. 33-43. Il confronto Bruno-Spinoza
era un luogo privilegiato del dibattito filosofico dell'Ottocento. Spaventa può
associare i due sulla scorta della lezione hegeliana, evidenziandone anche i
rispettivi limiti, come ad esempio l'eccessivo formalismo e l’assenza del ruolo
del soggetto come fonte di movimento della realtà. Anche Fischer influenzò le
tesi di Spaventa che, contro Hegel, vide in Spinoza il filosofo della differenza:
Savorelli suggerisce di legare questa differente interpretazione alla riforma
della dialettica hegeliana, benché rimanga alta la considerazione di Spinoza
come superamento del presupposto neoplatonico e naturalista. L’idealismo,
rafforzato da questi confronti tra Bruno e Spinoza, permette di affrontare con
risultati migliori il positivismo che si diffondeva in quegli anni. Anche
Sigwart esprime opinioni simili a quelle di Spaventa sul rapporto Bruno-Spinoza,
benché il dibattito che in quegli anni animava la Germania non avrebbe poi
trovato altrettanta fortuna in Italia, che pure avrebbe dovuto prestare verso
tali autori un’attenzione anche maggiore di quella tedesca. L. MALUSA, I
filosofi e la genesi della coscienza culturale della “Nuova Italia”
(1799-1900). Stato delle ricerche e prospettive dell’interpretazione, Istituto
italiano per gli studi filosofici, Napoli 1997. Benché la figura di Spaventa
sia presente in molti dei saggi di cui il libro è costituito, sono
essenzialmente due gli interventi dedicati esplicitamente al pensatore
abruzzese. Innanzitutto il testo di Oldrini Bertrando Spaventa e l'Europa (pp.
201-212), che anticipa il saggio del 1998 dal titolo L’idealismo italiano tra
Napoli e l’Europa. Al testo si deve aggiungere una breve postilla di Enrico
Rambaldi (pp. 213-216). L'altro saggio di Nicola Siciliani De Cumis riprende
l'articolo apparso nel 1996 I/ “tecnico” e | “educativo” da Spaventa a
Labriola. M. FERRARI, I/ primo volume dell’epistolario di Bertrando Spaventa,
in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1998, 78 (3), pp. 451-457. Oltre
a sottolineare l’indubbio merito di aver raccolto 181 lettere, Ferrari si
riferisce soprattutto alla lettera indirizzata al Villari, in cui Spaventa
ribadisce l’importanza dello studio del pensiero tedesco. Ferrari sottolinea
quale sia il vantaggio che l’epistolario può offrire per ricostruire la vita dell’autore,
soprattutto nel caso di una vita particolarmente travagliata e sconosciuta come
quella di Bertrando Spaventa. Il corpus dell’epistolario sembrerebbe confermare
l’ipotesi dei “molti Spaventa”. G. OLDRINI, L’idealismo italiano tra Napoli e
Europa, Guerini, Milano 1998. La figura di Spaventa è presente in quasi tutti i
capitoli del libro: si ricorda l'amicizia con De Meis, il rapporto col fratello
Silvio, il confronto con il positivismo (suo e del suo allievo Angiulli),
l’ultimo capitolo ripropone l’articolo del °94 La “rinascita dell’idealismo” e
il suo retroterra napoletano, apparso sul “Giornale critico di filosofia
italiana”. In particolare il capitolo quinto è dedicato alla figura di Bertrando
Spaventa, nel suo rapporto con l’idea di Europa. Oldrini introduce alcune
premesse per analizzare la figura del filosofo abruzzese: innanzitutto
l’arretratezza politica e sociale nella quale fiorisce l’hegelismo napoletano;
la sfasatura cronologica e il ritardo storico nell’assimilazione dell’idealismo;
la necessità di superare il ritardo culturale dell’Italia; l'esigenza di
applicare le categorie di Hegel al Risorgimento italiano; la lotta contro il
provincialismo ed il materialismo; il confronto polemico con il positivismo. Oldrini
critica molte delle interpretazioni del pensiero spaventiano proposte da Gianni
Micheli, Asor Rosa, Franchini, Marchi e Vitiello. L'intervento di Oldrini si conclude
con l’idea che l’indagine storiografica su Spaventa si trovi in un periodo di
stallo e si auspica un rilancio degli studi. M. RASCAGLIA, Bruno nell’epistolario e nei manoscritti di
Bertrando Spaventa, in Brunus redivivus: momenti della fortuna di Giordano
Bruno nel XIX secolo, E. CANONE (a cura di), Istituti editoriali e poligrafici internazionali,
Pisa Roma 1998. Maria Rascaglia rintraccia negli Studi sopra la filosofia di Hegel
il primo nucleo embrionale della ben nota tesi della circolazione del pensiero
italiani, progetto confermato in una lettera a Villari del ‘51: in quelle
occasioni Bruno è presente come autore di riferimento ed eroe della libertà del
pensiero italiano nella fase rinascimentale. L’idea di uno studio approfondito
della figura del Nolano è confermata dalla lettura di Bartholméss e Ritter,
benché l’interpretazione hegeliana sarebbe rimasta dominante. Rascaglia
analizza in maniera approfondità la relazione tra Spaventa e Mamiani, che
comincerà a deteriorarsi proprio a causa dei dissensi sul panteismo, finché
Mamiani divenne uno dei bersagli preferiti di Spaventa nelle sue polemiche. Rascaglia
mostra come la lettura stessa degli scritti di Bruno segua un preciso ordine
logico: il confronto tra Bruno e Spinoza obbliga Spaventa ad anticipare la
lettura di De /a causa, principio et uno e di De l'infinito, universo e mondi rispetto
al De rzirim0, De mondo e De immenso; tutte queste indicazioni sono essenziali
se si tiene conto che l'intento di Spaventa era proprio quello di ricostruire
in maniera sistematica il pensiero bruniano. Al progressivo interesse di Villari
corrisponde l’indifferenza di Mariani. Dopo aver citato il famoso tentennamento
di Spaventa ed il rifiuto di Le Monnier di pubblicare i tre studi su Bruno,
Rascaglia precisa che il primo studio sarà pubblicato a Napoli nel 1866, il
secondo su “Il Cimento” nel 1856 e l’ultimo sarebbe rimasto inedito. Se nel
primo quinquennio dell’esilio torinese la figura di Bruno sarà oggetto di
attenzioni sempre maggiori, negli ultimi anni il confronto con Gioberti, la parentesi
fenomenologica del ’58 e la riscoperta di Kant e Vico allontaneranno Spaventa
dal filosofo di Nola, salvo una sua riscoperta nei primi anni ’60.
All’intervento di Rascaglia seguono circa sessanta pagine di analisi dei
contributi allo studio di Bruno presenti nei manoscritti di Spaventa, di cui si
riportano interi brani. G. CHIMIRRI (a cura di), La filosofia morale italiana tra
neohegelismo, attualismo e spiritualismo, Mimesis, Milano 1999. Nella
presentazione di Chimirri si fa riferimento all’attualità dell’idealismo senza
dimenticare la pluralità di prospettive da cui l’idealismo può essere inteso e
sviluppato; dopo aver tematizzato i motivi di frizione tra l’idealismo e la scolastica,
si mostra quale sia il ruolo dell’etica nel pensiero dell’idealismo, per
concludere con alcune riflessioni critiche. Si riporta, proprio per
esemplificare il rapporto tra etica ed idealismo, un brano dai Principi di
Etica. C. TUOZZOLO, Dialettica e norma razionale, Giuffrè, Milano 1999. Rispetto
alle diverse polemiche sul presunto monismo spaventiano, anticipatore in
qualche modo delle tesi gentiliane sulla dialettica hegeliana, Tuozzolo vuole
ribadire insieme il carattere di un “pensiero incapace di sfiducia in se stesso”,
ma insieme la capacità di Spaventa di non compiere mai il passo, di mantenersi
nel guado, approfondendo il nucleo problematico, consapevole che ogni soluzione
torna ad essere problema. Si presenta un’analisi dei principali scritti di
logica di Spaventa, il saggio su Le prize categorie della logica di Hegel e
Logica e Metafisica, per mostrare come progressivamente negli anni ‘70 torni la
meditazione sulla scienza e sul ruolo di Kant. La logica e la fenomenologia
dell’ultimo Spaventa seguono la linea di interpretazione di Alderisio, secondo
cui, se è vero che Spaventa eliminò progressivamente le differenze tra Denken e
Nachdenken, non giunse mai alla pura identificazione dei due, come accadde in
Gentile. L’ultimo capitolo è dedicato alla presenza di un ineffabile come
dimensione precedente al sistema della scienza. A SAVORELLI e M. RASCAGLIA,
Introduzione, in B. SPAVENTA, Lettera sulla dottrina di Bruno. Scritti inediti 1853-1854,
Bibliopolis, Napoli 2000. La costruzione dell'immagine di Hegel come profeta
del nuovo immanentismo è il risultato di un lungo lavoro da parte di Spaventa.
L'intenzione di trattare la personalità di Bruno affiora già in una lettera al
Villari del 1851, ma verrà iniziato concretamente soltanto nel 1853, grazie
alla disponibilità da parte dell’editore Le Monnier di pubblicare un’opera in
tre tomi, di cui due dedicati ai testi del Nolano ed uno all’interpretazione
spaventiana del filosofo di Bruno. Quello che sarebbe stato il primo studio
italiano su Bruno e uno dei primi a livello europeo verrà poi rifiutato dall'editore,
e rimarrà sostanzialmente sconosciuto persino alla filologia spinoziana
tedesca, da sempre molto sensibile ai precorrimenti bruniani. Le fonti
principali di Spaventa furono il manuale del Ritter e il testo Jordazo Bruno di
Bartholmèss, ma certamente dominante è la prospettiva hegeliana: obiettivi
prioritari di Spaventa furono la ricostruzione del pensiero di Bruno in chiave
sistematica e anticipatrice della dialettica di Hegel. In contrapposizione alla
storiografia dominante che presentava Bruno come un autore oscuro, Spaventa ne
sottolinea i tratti di eroe e martire, marcando le differenze rispetto alla
figura di Nicola Cusano. Indugiando sul rapporto Bruno-Spinoza, un classico
filosofico dell’Ottocento, se ne rileva l’affinità, di contro
all’interpretazione corrente sostenuta da Hegel e Cousin. Gli studi su Bruno si
inseriranno poi nella teoria della circolazione, in cui saranno tenute insieme
da un lato la continuità del pensiero italiano con quello europeo, dall'altro
la valorizzazione della filosofia italiana del XIX secolo, due linee che
nell’introduzione, sono definite non sempre convergenti. Da segnalare, infine,
è l'evoluzione nel giudizio sulla figura di Bruno: gli studi sulla
Ferorzenologia ed il recupero di Kant (soprattutto a partire dal ‘56) non consentiranno
più di vedere nel filosofo di Nola una anticipazione, ma soltanto la preistoria
della dialettica, analisi sulla quale si verifica una significativa convergenza
con la filologia tedesca ed in particolare con Sigwart. Alla presentazione
seguono la Lettera sulla dottrina di Bruno (ms 3.6.4 datato 1853-54) e Della
coincidenza degli opposti (ms. 3.5.3. pp. 93-122) entrambi presenti nella
Biblioteca Nazionale di Napoli. L. GENTILE, Coscienza nazionale e pensiero
europeo in Bertrando Spaventa, Edizioni Noubs, Chieti 2000. Il libro si
articola in cinque capitoli, il primo dei quali mostra come filosofia e cultura
non siano mai disgiunte nel pensiero di Spaventa: la rigorosa riflessione di
carattere metafisico sul reale non è mai astratta dai concreti problemi storici
e dalla situazione politica. L'analisi del rapporto tra oggettività storica e
soggettività filosofica occupa l’intero secondo capitolo, nel quale si
tematizza uno dei problemi maggiori dello Spaventa, ossia l'armonizzazione tra
genio italiano e modernità europea. Il tentativo di rivalutare la tradizione
rinascimentale italiana come anticipatrice degli sviluppi europei fino
all’idealismo tedesco non poteva che sviluppare un’avversione nei confronti
della scolastica. A proposito della volontà di aggiornare il dibattito
filosofico italiano, nel terzo capitolo si mostra l’itinerario spaventiano, dagli
studi sulla fenomenologia dello Spirito ai rapporti con Gans e Michelet, per
arrivare a Darwin ed Herbart. Nel capitolo successivo si prendono in esame
soprattutto le influenze di Werder e Fischer sul pensiero spaventiano, al fine
di contribuire alla vexata quaestio sulla riforma della dialettica hegeliana. A
conclusione si evidenzia l’attenzione che l’autore nutriva per le nuove
correnti come il positivismo, lo scientismo, l’evoluzionismo, nello sforzo di reintrodurre
un principio teleologico dopo il definitivo abbandono di qualsiasi fattore
soprasensibile, carattere che accomuna tanto la scienza dell’apoca, quanto
l’hegelismo. D. D'ORSI, Introduzione a B. SPAVENTA, Sulle Psicopatie in
generale. Con appunti e frammenti inediti, Cedam, Padova 2001. L'introduzione
avvia una disamina del nuovo materiale ritrovato da D’Orsi, relativamente ai
cinque nuovi foglietti recuperati, alle voci dell’Erciclopedia Popolare
italiana del 1860 ed altri contributi. Vi è anche spazio per una polemica con
Tessitore a proposito della misteriosa figura di Basilio Scalzi, che secondo
D’Orsi altro non era che uno pseudonimo di Bertrando Spaventa, mentre per
Tessitore si trattava di un epigono della scuola di Spaventa. D’Orsi si occupa
anche di stabilire un possibile nesso tra gli studi di Bertrando sulle
Psicopatologie e la Psicopatologia generale di Jaspers, dal momento che
entrambi si concentrano sul problema dell'unità psichica come autentico
problema di carattere filosofico. Il testo include la riproduzione dei cinque
foglietti stampati, le voci curate da Spaventa per l’Enciclopedia, alcuni
appunti autografi e la riproduzione dei 4 articoli sulla Gita a Montecassino. G.
ORIGO, Crisi e trasformazione della metafisica nel maturo Spaventa, Edizioni
FERV, Roma 2001. Tema centrale del libro è il testo postumo Esperienza e Metafisica
(1888), nel quale Spaventa tenta non solo di arginare la nuova ondata di
scientismo che attraversava il suo tempo sotto il nome di positivismo ed
evoluzionismo, ma anche di confrontare queste due nuove linee di pensiero con
la dialettica e la riflessione speculativa. Origo sottolinea che il tentativo
di Spaventa non è arroccarsi nella fortezza della metafisica, quanto piuttosto
evidenziare l’ingenuità dei presupposti filosofici. da cui queste nuove
correnti dipendono. L’intrascendibilità del pensiero, quella stessa che
Spaventa ribattezzerà ‘metafisica della mente” costituisce il patrimonio
filosofico di cui l’autore abruzzese non è in alcun modo disposto a privarsi. F.
RIZZO, Bertrando spaventa. Le lezioni sulla storia della filosofia italiana
nell’anno accademico 1861-1862, Armando Siciliano Editore, Messina 2001. Il
primo capitolo del testo analizza la dipendenza dell’interpretazione del
pensiero di Spaventa dalle figure di Gentile e Croce, autori delle principali
pubblicazioni con le quali l’autore abruzzese venne letteralmente riscoperto
tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Pur prendendo in
considerazione le critiche relative alla mancanza di valore storico della
teoria della circolazione, troppo legata ad un accanimento speculativo,
Francesca Rizzo rivendica la possibilità di sviluppare un europeismo più maturo
proprio a partire dalla inattualità del pensiero di Spaventa, ingiustamente
accusato di provincialismo e di eccessiva dipendenza dal sistema hegeliano. Il
capitolo secondo si apre con una contestualizzazione del clima culturale nel quale
spaventa tenne la sua prima lezione presso l’Università di Napoli: la
trasformazione di ogni nazione in una stazione del progresso dello spirito, il
cui agere non abita nessun luogo non comportano il rischio della fantasia al
potere, ma si presentano come l’unico modo per evitare di costruire la storia
della filosofia quasi fosse un inventario. Il capitolo terzo rifiuta l'accusa
di deduttivismo storico e ripercorre le prime lezioni del corso del 61-62, nel
quale viene stigmatizzata la dogmaticità del pensiero italiano, capace di soffocare
i grandi del Rinascimento. Il capitolo quarto ripercorre le lezioni su
Campanella, Bruno e Vico. Molto saggiamente il nome di Galileo è posto tra
parentesi, dal momento che Spaventa ne tratterà soltanto in Esperienza e metafisica.
Il capitolo quinto è dedicato all’ultima filosofia italiana, in particolare le
lezioni su Galluppi, Rosmini e Gioberti, fortemente svalutati rispetto alla
genialità delle intuizioni dell’idealismo. Essenziale novità per Spaventa rimane
il problema della conoscenza, tema principe della filosofia da Kant in poi. Il
testo prosegue con l’analisi delle interpretazioni del pensiero di Vico
proposte da Francesco Fiorentino e Giovanni Gentile e si conclude riportando il
testo della prima lezione del corso tenuto da Bertrando Spaventa nell’anno
1864-1865. L. LA PORTA, Recensione a G. ORIGO, Crisi e trasformazione della
metafisica nel maturo Spaventa, Edizioni FERV, Roma 2001, in “Rinascita della
scuola”, 2001; 25, (2), p. 124. La breve recensione tende a sottolineare il
rapporto tra criticismo kantiano e neoidealismo italiano. G. GENTILE, Bertrando
Spaventa, V. A. BELLEZZA (a cura di), Le lettere, Firenze 2001. L’ampio volume
preparato agli inizi degli anni ’70 riporta quasi tutti i testi prodotti da
Giovanni Gentile come commenti alle opere di Spaventa in occasione delle varie pubblicazioni.
La prima parte raccoglie tre complessi studi sulla figura del filosofo
abruzzese: il primo coincide con la biografia inserita anche nella edizione
delle Opere del ’72, il secondo riguarda la riforma dell’hegelismo, il terzo è
un bilancio a cinquant'anni dalla morte del filosofo. La seconda parte riprende
le prefazioni e le note di Gentile a diversi scritti spaventiani, per la
maggior parte inseriti già nelle Opere del ‘72. Al termine è inserita una
Appendice che raccoglie altri interventi di Gentile. Una breve nota di Vito Bellezza
conclude il testo. E. COLOMBO, Introduzione a B. SPAVENTA, Studi sopra la
filosofia di Hegel. Prime categorie della logica di Hegel, CUSL, 2001. Il
saggio mostra i motivi di scontro con le obiezioni di Trendelenburg che
tendevano a mettere in discussione la concretezza del sistema hegeliano. Anche
con l’aiuto della logica di Fischer, Spaventa vuole ribadire il nucleo centrale
della sua visione ossia che la logica è metafisica. L’autore sottolinea anche
il ruolo essenziale che nel pensiero di Spaventa svolge la Fenomenologia quale
“ancilla scientiae alla soglia del tempio”. A. SAVORELLI, Gentile editore e
interprete di Spaventa. L'ultimo volume delle “Opere”, in “Giornale Critico
della filosofia italiana”, 2002, 22(2), pp. 320-330. Savorelli attribuisce la
riscoperta di Spaventa a merito esclusivo del Gentile, il quale costrinse gli
italiani a cibarsene. La mancanza di una scuola capace di sostenere e diffondere
l'insegnamento di Spaventa contribuì ad un inesorabile declino: la polemica tra
Gentile e Croce contribuì quantomeno a risollevare le sorti del filosofo abruzzese.
È stato Gentile a interpretare in chiave squisitamente filosofica la teoria
della circolazione del pensiero, benché la riforma avviata dallo Spaventa sia
stata interpretata come inizio dell’attualismo più che come crisi dell’hegelismo.
Savorelli aggiunge una appendice sul libro di Francesca Rizzo in cui spaventa è
presentato come un classico della cultura italiana dell’unità assieme a De
Sanctis, Labriola e Villari. P. DE LUCIA, Donato Jaja e il significato
teoretico e storico della filosofia rosminiana, in “Filosofia oggi”, 2002, 25:43)
339-373. L’articolo propone una disamina del rapporto tra lo spiritualismo
rosminiani e l’attualismo gentiliano, anche con l'intento di valutare la
consistenza della tesi sul presunto carattere cattolico del suo idealismo
sottolineata già da Del Noce e Carabellese. Punto focale della ricerca è
mostrare la dipendenza degli studi jajani dall’interpretazione spaventiana
secondo la quale Rosmini sarebbe il Kant italiano. Elemento centrale che
accomuna i due pensatori è la cosiddetta mentalizzazione del fondamento.
Spaventa riconobbe a Kant il merito di aver risolto il problema della conoscenza
in base ad un principio superiore (l’unità sintetica originaria cui equivale il
rosminiano sentimento fondamentale). Spaventa denuncia poi l’imperfezione dualistica
che caratterizza tanto Kant quanto Rosmini, Jaja riprende nei suoi studi la
critica spaventiana al Rosmini, il quale non colse il superamento kantiano
della concezione della estraneità dello spirito rispetto alla realtà esterna.
Il Bullia criticherà Jaja per non aver tenuto conto, all’interno di questa sua
valutazione, della dottrina della creazione che svolge un ruolo essenziale
nella teosofia rosminiana. Rimane dunque la possibilità di istituire un
parallelo tra i due sulla base del fatto che per entrambi pensare equivale a
giudicare, ma senza dimenticare le differenze nel rapporto con la realtà esterna:
il giudizio di Jaja e gi sviluppi gentiliani hanno salde radici, dunque, nella
lettura spaventiana. A. SAVORELLI, Introduzione a B. SPAVENTA, La filosofia
italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Storia e letteratura,
Roma 2003. Savorelli ricorda che il testo, pubblicato nel 1862, non solo è il
più discusso ed il più innovatore degli scritti di Spaventa, ma è anche l’unico
che l’autore abbia condotto a termine, date le disavventure editoriali di opere
quali Logica e Metafisica e la dispersione dei suoi saggi filosofici. La scelta
di Gentile di modificare il titolo originario nell’attuale tende a sottolineare
che l’interpretazione storica fornita da Spaventa è innanzitutto una operazione
filosofica, anzi, forse l’unica autentica storia della filosofia italiana.
Savorelli tenta di ricostruire le fonti cui Spaventa si è ispirato, dai testi
di Cattaneo alle tesi di Gatti e Cusani, dovendo però riconoscere che l'apporto
di Spaventa in termini di chiarezza e originalità è stato determinante,
soprattutto grazie alla conoscenza profonda dei testi hegeliani che i suoi contemporanei
non possedevano. Savorelli concentra la propria attenzione su alcuni aspetti
decisivi del contributo spaventiano come la capacità di agganciare la filosofia
italiana al pensiero europeo e di contrastare le tendenze neoguelfe. Dopo aver
messo in luce che l’eroe della Rinascenza italiana è senz'altro Giordano Bruno,
Savorelli chiarisce che l'elaborazione di una nuova prospettiva storica mediante
la quale comprendere il Rinascimento non segue un percorso lineare, ma subisce
una drastica rivoluzione dovuta all’approfondimento del pensiero hegeliano. A motivo
della sua sincera ammirazione per l’idealismo tedesco Spaventa, benché rivaluti
la filosofia italiana dell'Ottocento a integrazione della sua teoria della circolazione,
non smetterà mai di evidenziarne le lacune. Savorelli conclude mostrando come
Gentile abbia manifestato un chiaro dissenso su diversi punti rispetto alle tesi
spaventiane, in alcuni casi fino a tradire le intenzioni del filosofo
abruzzese: vero merito di Spaventa rimane in ogni caso quello di aver fornito
all’Italia una chiave di lettura della modernità, o meglio una alternativa al
neoguelfismo da un lato e all’empirismo dall’altro. VITIELLO, Hegel in Italia.
Dalla storia alla logica. Guerini e Associati, Milano.Vitiello individua
l’hegelismo di fondo di Spaventa nell’attenzione dedicata al problema della
relazione. Hegel si pone, nel pensiero del filosofo abruzzese quale risposta ad
una domanda: come dare ragione a Fiche senza smentire Schelling? Tale la
questione filosofica che coinvolge in realtà l’intero pensiero moderno. La
risposta si trova nella reciproca fondazione di Fenomenologia e Logica (benché
in realtà profonda sia la differenza tra il “primo” dell’una e dell’altra),
fondazione rimasta incompresa tanto da Gentile quanto da Croce. Servendosi
anche dei contributi di Fischer e Werder in quanto oppositori di Trendelenburg,
Vitiello mostra quale sia lo sfondo storico di quella identità tra pensiero e
realtà che si trova oltre la relazione medesima. Alla base della Logica si
trova la volontà. L'analisi della contraddizione intrinseca all'essere conduce
alla consapevolezza che l’Essere dell'inizio della logica non è interamente
riconducibile al pensiero. Qui si avverte l’intima prossimità di Spaventa a
quel Prius di Schelling che non è pensiero, bensì volontà. Al fondo rimane
l’enigma della vita, senza ragione. ORIGO, S.. Interprete della circolazione
filosofica italiana, Edizioni FERV, Roma Obiettivo dichiarato di Bertrando
Spaventa era quello di creare un autentico spirito nazionale rifacendosi alla tradizione
filosofica rinascimentale e mostrandone il carattere precursore rispetto al
pensiero europeo moderno. Il pensiero moderno non è nazionale, ma innanzitutto europeo:
nel testo si sottolinea la distanza su questo punto tra Vico e Kant: benché
alcune riflessioni del filosofo napoletano possano essere lette come
anticipazioni del pensatore tedesco, rimane al fondo una differente consapevolezza,
dal momento che Kant è conscio di inserirsi in un dibattito europeo, non così
Vico. La dimensione europea del moderno non significa rinuncia, bensì valorizzazione
delle componenti nazionali: il carattere della circolazione filosofica italiana
è intrinsecamente hegeliano. Il progetto di una connessione tra Rinascimento e
idealismo matura progressivamente durante il periodo torinese, ma trova il suo
pieno e compiuto sviluppo soltanto nel periodo napoletano, anche grazie alla
posizione accademica dello Spaventa, prima costretto a brevi interventi
sottoforma di articoli di giornale. Oltre alla necessità di una rivalutazione del
pensiero di Rosmini e Gioberti al fine di portare a termine una sorta di
rivincita sul genio germanico, essenziale è individuare nelle meditazioni
spaventiane un problema di logica della storia per cui furono i fatti a
condannare Bruno. A. SAVORELLI, Croce e Bertrando Spaventa, in “Giornale
Critico della Filosofia Italiana”Se già nel 1907, in occasione del confronto
diretto con Hegel, Croce “dovette riprendere in mano anche i testi dello zio
Bertrando”, la sintonia si deteriorerà progressivamente negli anni, benché
secondo Savorelli Croce non sarebbe mai giunto ad una rottura definitiva, né a
pronunciare una condanna senza appello. L’ambiguità dell’atteggiamento di Croce
è legato da un lato alla critica della dialettica hegeliana che dal 1912
investirà non solo Hegel, ma anche Spaventa, dall’altro alla sostanziale
accondiscendenza di Croce all’interpretazione di Vico proposta da Bertrando Spaventa.
Nel 1909 Spaventa è ancora un “gagliardo tentativo di alta cultura”, ma dal
1912 si avrà, secondo Savorelli, una accelerazione critica nei suoi confronti: sottolineando
le origini “clericali” e la statolatria (presupposto dell’adesione di Gentile
al Fascismo), Croce prenderà le distanze dal filosofo abruzzese, benché nel ’48
la rilettura di Hegel passasse nuovamente dagli scritti di Spaventa. A.
SAVORELLI, Croce e Spaventa, in A. SAVORELLI, L’aurea catena. Saggi sulla
storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Le lettere, Firenze.Il testo
riprende le tesi dell’articolo apparso sul “Giornale critico della filosofia
italiana”, Ja-A23 (1), 42-58. AA.VV, La filosofia del Risorgimento. Le
prolusioni di Bertrando Spaventa, La scuola di Pitagora editrice, Napoli Il
libro presenta la lezione proemiale al corso di filosofia del diritto letta il
4 gennaio 1860 all’Università di Modena e le due prolusioni alle lezioni
rispettivamente al corso di storia della filosofia tenuto all’Università di
Bologna nel 1860 e al corso di filosofia teoretica dello stesso anno, tenuto
all’Università di Napoli, oltre alla “Nota alla prolusione. Introduzione alla
filosofia indiana”. I testi sono preceduti dal già menzionato saggio di Garin
Filosofia e politica in Bertrando Spaventa; al termine sono riportati due brevi
interventi di T. Stràter e di B. Croce. G. ROTA, La circolazione del pensiero
secondo Bertrando Spaventa, “Rivista di Storia della Filosofia”, 2005, n.4, pp.
655-686. Gramsci, che certo non stimava Spaventa, a motivo della sua
provincialità e della mancanza di stimoli da parte del suo tempo a pensare in
maniera epocale, attribuisce comunque al filosofo di Bomba una certa importanza
in relazione alla teoria della circolazione del pensiero. “Siamo arrivati tardi
dopo essere stati i primi” è una formula che riassume con incisività e
concisione il pensiero di Spaventa, che voleva superare la miseria delle gare
di parte che ancora caratterizzavano il dibattito italiano per elevarlo sulla scienza
europea. Per attualizzare Hegel in Italia non si poteva utilizzare la figura di
Lutero, destinato comunque sempre a rimanere un forestiero. La Chiesa cattolica
che per Hegel era ormai passiva nella storia, risultò per Spaventa una zavorra
estremamente attiva: abbandonato Lutero, dunque, si guarda a Bruno e Vico. Rota
accenna anche alla polemica con Mariano, secondo il quale il genio italico non era
un tema che potesse assumere rilievo scientifico. Rota conclude precisando che,
sebbene si debba a Gentile la riscoperta di Spaventa, questi non condivideva la
filosofizzazione della storia attuata dal suo maestro ideale su due punti:
Gentile non accettava la diagnosi di encefalogramma piatto dell’Italia del XVI
e XVII secolo, rifiutando altresì la concezione ancora troppo naturalistica del
concetto di nazione formulata dal filosofo abruzzese. CAPUTO, S. e la sua
scuola. Saggio storico-teoretico, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli.
Il libro si divide in tre parti. La prima dedicata alla delicata sintesi che
Spaventa tentò di sviluppare tra hegelismo e liberalismo, in cui si sottolinea
l’importanza del Collecchi nella formazione del filosofo abruzzese, l’importanza
di una esegesi unitaria degli scritti spaventiani, l’importanza dell’attività
di pubblicista nel periodo torinese e la parentesi del 1858 sulla logica di
Hegel. La seconda parte riguarda la linea mediana tra realismo e idealismo che Spaventa
cercò dagli anni ’60 in poi, dove si segnala l’importanza di una
interpretazione originale della dialettica hegeliana anche rispetto al
confronto con le correnti scientiste dell’epoca, senza dimenticare l’intenso
studio sulla politica hegeliana e sul problema del sopramondo. L'ultima parte è
dedicata alla scuola di Spaventa, in particolare in riferimento alla crisi
dell’hegelismo e al binomio Croce- Gentile, cui l’autore contrappone il
real-idealismo diAlderisio. Si menzionano anche le interpretazine materialistica
di Labriola e l’hegelismo critico di Sebastiano Maturi, per concludere con una
disamina dell’idealismo di Jaja e dello spiritualismo critico di Filippo Masci.
M. RASCAGLIA, Paolottismo, positivismo, razionalismo (la stesura originaria di
Maria Rascaglia), in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, vol. 2, 2006,
n.2, pp. 220-236. Una brevissima introduzione, dove si ricorda l’importanza del
riordino dei materiali scompigliati dai bombardamenti del ‘43 nella sede della
Società Napoletana di Storia Patria e l’importanza della figura di De Meis
nella corrispondenza dei fratelli Spaventa, accompagna il testo della lettera
datata 8 maggio 1868, indirizzata prima a Fiorentino e poi in un secondo tempo
proprio al De Meis da Bertrando Spaventa. Lettera nota poi con il titolo di
Paolottismo, positivismo, razionalismo. Oltre alla versione iniziale della
lettera, sono state inserite i passi della minuta che consentono di comprendere
il lavoro di revisione compiuto da Spaventa. G. ORIGO, Da Bruno a Spaventa.
Perpetuazione e difesa della filosofia italica, Bibliosofica, Roma 2006. Sin
dalla Prefazione l’obiettivo dichiarato di Origo è una rivalutazione della
filosofia italica, mentre nell’Introduzione si rivendica l’opera di
ricomposizione della tradizione italiana operata da Spaventa di contro ad una
arbitraria dissoluzione a causa della quale si sorvola troppo spesso sui nessi
che legano Bruno, Campanella, Galilei e Vico. Innanzitutto mettere a fuoco il
concetto di conato in Bacone e in Bruno consente a Origo di evidenziare subito
l’opera di disincantamento attuata da Bruno nei confronti della teologia
dogmatica che non compie alcuno sforzo filologico: l’universo come articolarsi
che trascende se stesso prepara la via a Galilei, oggetto di studio del secondo
capitolo del testo. La medesima volontà di superare le visioni dogmatico- esaustive
muove Galilei verso una trasformazione epocale, di portata senz’altro europea:
la ricostruzione dello scienziato è sempre anche costruzione, anticipando così
la lezione dello stesso Vico; di nuovo l’articolazione discorsiva delle forze
costituisce la chiave di lettura del gran libro della natura, benché Origo
tenga a precisare come l'equilibrio tra lo scienziato ed il filosofo sia
destinato a rimanere precario. L'esigenza di scandagliare ancora più a fondo i
contributi scientifici del Rinascimento conduce Origo a esaminare nel terzo
capitolo il ruolo di Vico, Bacone e Grozio. Vico è citato non solo per l’idea
di mutamento che si realizza nelle tre età della storia, ma anche per la
concezione della pubblica giurisprudenza, in connessione con la figura di Grozio
e con la sua “destabilizzazione ermeneutica” (p. 99) che conduce ad una
preponderanza del diritto umano su quello naturale. A tali studi, come precisa
Origo, si ricollegherà Spaventa anche nella sua polemica con i Gesuiti,
ulteriore occasione per sostenere l’unità riflessiva di verocerto di contro al
monismo scolastico. Prima di affrontare, nel quarto capitolo, il rapporto tra
storicismo vichiano e spaventiano, Origo presenta alcune indicazioni per una
ricostruzione filologico-giuridica del rapporto Vico- Grozio. L’affinità tra
Vico e Spaventa implica sempre, tuttavia, il riconoscimento di una essenziale
distanza, dovuta all'influenza hegeliana: il progetto vichiano appare sotto molti
aspetti innovativo, ma rimane incompiuto. A conclusione si vuole rimarcare la
capacità della filosofia italica di scardinare la dogmatica scolastica di
stampo accademico. ORIGO, Bruno visto da S., Bibliosofica, Roma. Nella
prospettiva di Origo Spaventa incontra Bruno come l’allievo si imbatte nel
vecchio Maestro, ponendo in evidenza in particolare le categorie del
precursionismo e dell’eroicità del pensiero. Il parallelismo tra le due figure,
non solo su un piano intellettuale, bensì coinvolgendo anche quello biografico,
percorre i cinque capitoli in cui si snoda il testo. Essenziale è comprendere,
innanzitutto, la posizione di Bruno sulla posizione fede-ragione, laddove 1°
“intellego ut credam” è pensato come sforzo e tensione continua del pensiero
contro ogni pregiudizio alla ricerca di Dio: già in questa luce è possibile
individuare l’eroismo come tratto che caratterizza gli sforzi umani e la
vittoria della filosofia sulla teologia, nel senso preciso del dubbio che
inquieta il dogma. Il terreno dello scontro, attorno a cui ruota il secondo capitolo,
viene individuato nell’ambito accademico, che attraversava una forte crisi in
Italia già durante il XIV secolo, proprio a motivo dei contrasti tra teologia e
filosofia: di fronte alla rigidità istituzionale imposta dalla Chiesa anche in
ambito culturale, Origo vede in Bruno il nuovo “filologo”, capace di analizzare
la realtà partendo da punti di vista differenti; inevitabile, anche in questo
caso, come in quello della tolleranza accademica, discusso nel terzo capitolo,
la ripresa del parallelismo tra Bruno e Spaventa. Origo pone addirittura un
parallelismo esplicito tra l'università di Padova del XIV secolo e quelle di
Torino, Bologna e Modena del XIX secolo. Superare i limiti imposti dall’autoritarismo
accademico accomuna Spaventa e Bruno, presentati come menti “eroiche” nel
penultimo capitolo, di contro all’intolleranza prevaricatrice di quei
grammatici e pedanti che Bruno non esitava a chiamare asini, assuefatti ed abituati
alla stabile quiete del reale, perché incapaci di cogliere la coincidenza degli
opposti. Il progresso filosofico, reso possibile appunto da quegli sforzi
eroici di pochi pensatori, rivela, all’interno del quinto capitolo, il ruolo della
magia come ricerca sconfinata ed inesausta. GARIN, S., Bibliopolis, Napoli. Il
testo si compone di una serie di saggi. Oltre al già menzionato Filosofia e
politica in Bertrando Spaventa, Noterella spaventiana e Rassegne di studi
spaventiani è presente un intervento dal titolo Da ur secolo all’altro, che si apre
con la famosa lettera del luglio 1862 in cui si associa Napoli alla filosofia,
continuando poi citando l’altrettanto nota lettera del Villari sull'importanza
della filosofia per creare l’unità d’Italia. Nel testo Felice Tocco alla scuola
di S., l’alllevo è considerato come il maggior storico della filosofia del suo
secolo, non solo per la vastità delle sue nozioni ma anche per
l’approfondimento su questioni come la logica e l’anima intesa come intimo
fonte della conoscenza del reale. A questo intervento si deve aggiungere Ur
“pamphlet” antidemocratico inedito di S., incentrato sullo scritto destinato al
“Fanfulla”. Di qui l'occasione per approfondire il rapporto polemico tra
Spaventa e molta parte della sinistra hegeliana. Di argomento più vasto è lo
scritto Filosofia a Bologna fra Ottocento Novecento, dove si mostrano pregi e
difetti dell’interpretazione del Rinascimento proposta da Spaventa, anche in
polemica con alcuni suoi contemporanei, desiderosi di annunciare la definitiva
liquidazione di ogni metafisica. Bertrando Spaventa. Spaventa. Keywords: italianita,
Englishry, Englishness, English nation, the English, the English tongue, the
tongue of the English, the tongue of the Anglians, the English spirit, the
English ghost. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spaventa” – The
Swimming-Pool Library. Spaventa.
Grice e Spedalieri: l’implicatura
conversazionale dei diritti dell’uomo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bronte). Filosofo italiano. Studia nell'oratorio
di Neri di Bronte e nel seminario di Monreale. Insegna filosofia a Monreale. Alcune
sue tesi, considerate eretiche a Palermo, sono invece approvate e stampate a
Roma con il titolo di “Pro-positionum theologicarum specimen”. Trasfere a Roma.
Pio VI gli da il titolo di beneficiato della basilica vaticana che comporta una
modesta rendita mensilee l'incarica di scrivere la storia del prosciugamento
dell'Agro pontino, “De' bonificamenti delle terre pontine”. Contro l'Enciclopedia
degl’illuministi, usce la sua “Analisi dell'esame critico sulle prove di Dio”,
il “Ragionamento sopra l'arte di governare”, e “Ragionamento sull’influenza del
sacro nella società e nella civilita”. Scrive
la “Confutazione della dottrina della caduta dell’impero romano”, contro Gibbon
che imputa la caduta all'influenza negativa del sacro. Nel saggio più
importante “Dei diritti dell'uomo”, pubblicata a Roma ma, per volontà del papa,
con la falsa indicazione di Assisi, si rifece alla concezioni rousseauiane
relativamente alla dottrina di un CONTRATTO sociale come origine della società.
Contesta la tesi di un originario stato di *natura* a cui occorrerebbe tornare,
perché soltanto all'interno della società e civilta gl’uomini possono
realizzare i suoi bisogni di felicità e di perfezione. Lo STATO, a cui è
destinato l'uomo dalla natura, è la società e la civilta. Ciò e dimostrato e
vuol dire che gl’uomini non possono rinunziare, generalmente parlando, alla
società e a la civilita senz’opporsi alla sua propria natura. È parte
essenziale della costituzione sociale il principato. Il popolo degl’uomini non
ha diritto di disfare il principato. La forma migliore di governo è il
principato. Al principe il popolo degl’uomini affida tre facoltà: giudicare, di
decretare e di eseguire. Il popolo degl’uomini non può togliergli il principato
a suo beneplacito, cioè quando gli pare, per motivi leggieri, senza motivi, perché
violerebbe il patto sotto-scritto, a meno che il principe non violi la
condizione essenziale del contratto stipulato, il “do ut facias”, a meno che il
principe non faccia ciò che si era impegnato a fare in cambio della proprietà
del principato, ossia, custodire i diritti naturali di ciascuno degl’uomini del
popolo, e dirigere tutte le operazioni del principato alla felicità degl’uomini
sudditi e cittadini. Questa è la base del contratto. Se invece il principe
prende a distruggere i diritti naturali di ognuno, a sostituire il capriccio
alle leggi, e ad immergere nella miseria i poveri SUDDITI, il contratto
resterebbe sciolto da sé. Lo scioglimento del contratto non significa che il
popolo eserciti per proprio conto il governo, ma che debba investirne un altro
con auspici migliori. Ma chi deciderà che il contratto stabilito con il
principe sia nullo? Intanto, osserva che il contratto siasi sciolto già da sé
stesso, si dee legalmente dichiarare. Prima della quale dichiarazione, a niuno
è permesso di sottrarsi dall'ubbidienza del principe. E il diritto di far tale
dichiarazione non appartiene a verun privato, né alla unione di alcuni, né anco
alla moltitudine. Solo un corpo che rappresenti *OGNI SUDDITO* può dichiarare
lo scioglimento del patto con il principe. Questo vero corpo e formato da ogni magistrato,
ogni ordine de' cittadini, ogni persona illuminata, proba, e non soggetta
all'impeto del momento. La colta nazione italiana nella costituzione
fondamentale, che dà a sé stessa, e che inerisce nel contratto che fa con la persona
che vuole innalzare al principato, e che questa giura di mantenere, sempre,
forma un corpo o sia un collegio che rappresenta permanetutti ogni cittadino. Laonde
basta che la dichiarazione si faccia da questo corpo per esser legale. Qualora
il principe resista e voglia mantenere il potere non più riconosciutogli, comportandosi
così da tiranno. Il corpo di LA NAZIONE ITALIANA mai però un singolo cittadino
italiano puo legittimamente giungere fino all'estrema soluzione di condannarlo
a morte. Si mostra avverso sia al dispotismo illuminato che rifiuta tanto
il principio della sovranità del popolo quanto il primato del sacro nel governo
dello stato, sia i princìpi laici della rivoluzione. La garanzia di assicurare
i diritti fondamentali di ogni uomo italiano è data dalla natura che ha come
princìpi essenziali l'amore e la carità verso il prossimo. Polemizza anche contro
i giansenisti che accusa di giacobinismo e di spirito sovvertitore dei troni. Gli rispose con asprezza TAMBURINI in “Lettere
teologico politiche”. Il riconoscimento che la sovranità deriva dal popolo degl’uomini
e che questi uomini italiani, attraverso i suoi delegati, possa giungere a
rovesciarne il potere, gli procurarono violente critiche e inimicizie da parte
dei circoli reazionari e in parte anche moderati, e al saggio, che ha alla sua
uscita una notevole diffusione, il divieto di pubblicazione in tutta Italia. Puo
nuovamente circolare, anche se in Italia, mutato il clima politico e culturale,
venne nuovamente ignorato. GEYMONAT, “Il pensiero filosofico-pedagogico
italiano, Filosofi e pedagogisti estranei all'illuminismo in GEYMONAT, Storia
del pensiero filosofico e scientifico” (Milano, Garzanti); Melzi, Dizionario di
opere anonime e pseudonime di scrittori italiani: o come che sia aventi
relazione all'Italia. Milano: Coi torchi di Pirola, Nicolini, op. cit.., Giurintano,
Società e Stato (Palermo). Pisanò, “Una teoria comunitaria dei diritti umani: i
diritti dell'uomo” (Milano). bronteinsieme Enciclopedia Italiana, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Melanzio Alcioneo, arcadi. Nicola Spedalieri.
Spedalieri. Keywords:gl’arcadii, diritti degl’uomini, polemica con Gibbon, il
sacro, il crollo del principato romano, Gibbon. Refs.: Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Spadalieri sul contratto conversazionale.” H. P. Grice, “A critique to
conversational quasi-contrastualism.” Luigi Speranza, “Grice e Spedalieri” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Speranza – implicatura ed implicatura
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Albalonga). Filosofo. Speranza, Ugo -- Speranza,
Alessandro -- Speranza, Ettore -- Speranza, Gianni -- Speranza, Paola --
Speranza, Anna-Maria -- Speranza-Ghersi –Ghersi-Speranza, Anna-Maria --
Speranza lui speranza: luigi della
--. Italian
philosopher, attracted, for some reason, to H. P. Grice. Speranza knows St.
John’s very well. He is the author of “Dorothea Oxoniensis.” He is a member of a
number of cultivated Anglo-Italian societies, like H. P. Grice’s Playgroup. He
is the custodian of Villa Grice, not far from Villa Speranza. He works at the
Swimming-Pool Library. Cuisine is one of his hobbiesgrisottoa alla ligure, his
specialty. He can be reached via H.
P. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Vita ed opinion di Luigi Speranza,” par Luigi
Speranza. A. M. Ghersi Speranza -- vide Ghersi-Speranza. Ghersi is a
collaborator of Speranza. Grice: “It’s easy enough to list Speranza’s publications.” Speranza,
like Mill, was fortunate to belong to a literary familyand he would read
Descartes’s Meditations, which drew him to philosophy. His studies in logic
drew him to semanticsHis first love was Oxonian analysis as summarised in
Hartnack’s essay on ‘contemporary’ philosophy. One of Speranza’s earliest
essays is on Plato’s Cratylus, relying mainly on Cassierer, but also drawing
from Austin’s Philosophical Papesr. Spearnza’s idea is that “ … mean …” is a
dyadic relation and what’s behind Plato’s theory of forms. This was Speranza’s
contribution to a seminar in ancient philosophy. For his contribution on
medieaval philosophy, Speranza drew on the modistae, and the Patrologia Latina
for the use of ‘intentio’ in various writers, up to AquinoSperanza finds it
fascinating that the earliest modistae do find a conceptual link between the
‘intentio’ and the ‘significatio.’ For a seminar on scepticism, Speranza
contributed with a paper on Gricedrawing on Sextus Empiricus and Bar-Hillel. It
relates to Grice’s problem with the conversational category of fortitude.
Speranza concludes that a phenomenalist account is possible, but there are two
other options: ‘silence’ (“not to participate in the conversational game”) or
the utterance of non-alethic utterances, such as questions and commands. For a
seminar on political philosophy, Speranza contributed with an essay on
‘Contractualism’ from Rousseau onwards --. For a seminar on phenomenology and
the social sciences, Speranza contributed with an essay on ‘The conversational
unit,’ the idea that the emic approach is preferable to the etic approach. For
a seminar on argumentation theory on Habermas, Speranza contributed with a
“German Grice,” the idea of a ‘strategy’ is a momer. Grice is into co-operative
proceduresand those who provide taxonomies of rationality should be made aware
of this. For “The Carrollian,” Speranza contributed with “Humpty Dumpty’s
Impenetrability.” The idea that Davidson is right and Alice does not mean that
there is a knock-down argument, or that she should change the topiche draws on
Grice’s collaborator at Oxford, D. F. Pears, for his insights on “Intention and
belief.” At the request of the editor of a bibliographical bulletin, M. Costa,
Speranza contributed with reviews of oeuvre by R. M. Hare (“Sub-atomic
particles of logic”), J. F. Thomson (“if and If”) and work on the English
philosopher H. P. Grice (J. Baker, etc.). His review on Way of Words spramg
from the same project, and it is an ‘invitation.’ For a congress of philosophy,
Speranza presented “On the way of conversation,” playing on Grice’s “way of
words”“Surely there’s more than words to conversation.” Speranza focuses on
what Grice amusingly calls a ‘minro problem,’ that of expression
meaningSperanza’s example: “How do you find Bologna?” “I haven’t been mugged
yet” was inspired by a remark of an attendant to the conference. For a congress
on conversational reasoning, Speranza contributed with “First time at Bologna?”
providing twenty five possible answers“first time in the region, actually.”
Etc. Speranza, following Grice, refers to this sort of reasoning as a sort of
‘brooding’to ‘brood’ is to ‘reason’ in a calculated fashion. As an invitation
project, Speranza collaborated with “Rational face to rational face: a study in
conversational pragmatics from a Griceian perspective.” In his essay
“Post-modernist Grice,” he deals with the unary and dyadic connectors. For a
congress on “Current Issues,” Speranza presented his “The feast of reason,”
three steps in the critique of conversational reason. The first step is
empirical, the second is quasi-contractualist, and the third is rational,
undersood weakly and strongly. For an essay on relativism, Speranza presented
an essay on ‘The cunning of conversational reason.’ Speranza maintains Grice’s
jocular references to Kant -- the Conversational Immanuel. For an essay on
desirability, Speranza explored the issues connected with mise-en-abyme and
self-reflectionsome of these were published. There is published correspondence
with members of what Speranza calls the Grice Club. Refs.: The H. P. Grice
Papers, BANC MSS 90/135c, The Bancroft Library, The University of California,
Berkeley. Speranza, villaThe Swimming-Pool Library, H. P. Grice’s Play Group,
Liguria, Italia. Luigi Speranza, “Grice e la storia della filosofia italiana.” Speranza
has done crucial research on Griceianism, unearthing some documents by O.Wood,
J. O. Urmson, P. H. Nowell-Smith, and many many others – not just H. P. Grice. Vide: The Grice Papers, BANC, MSS. Speranza
Grice e Spintaro: filosofia pre-romanica -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Teacher –
and father – of Aristosseno. Grice: “Oxonians might wonder why Italians are so
obsessed with Crotona, Taranto, and the rest of them, but I SEE it: it’s all
about the pre-Roman!”
Grice e Spirito: la filosofia dello spirito – filosofia
fascista – ventennio fascista – i corpi – corpo e corporazione -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Arezzo).
Filosofo. Studia sotto GENTILE. Firma il manifesto dei filosofi fascisti. Teorico
del corporativismo. Insegna a Pisa, Messina, Genova e Roma. Tra i principali
filosofi a Roma insieme con ANTONI, allievo di CROCE, CALOGERO -- filosofo del
"dialogo" -- Cf. Grice – “dialogo” vs. “conversazione” -- e NARDI
grande studioso di filosofia di ALIGHERI e medievale. Rinomate sono non tanto
le sue lezioni quanto i suoi pomeriggi di discussione del GIOVEDÌ. Tre ore, non
di lezione, ma di discussione serrata su un problema filosofico -- uno soltanto
per un intero anno. Uno, per esemptio, e dedicato al concetto di sogno. Ai
giovedì nell'aula grande dell'istituto di filosofia interveneno tante e diverse
persone: gli studenti, i numerosi assistenti e inoltre partecipanti di convinzioni
e provenienze. Ascolta tutti, rilancia e guida la discussione verso nuove
prospettive interpretative. Pubblica saggi connessi a quei giovedì. Tra le
altre: “Il problematicismo”; “La vita come ricerca” (Rubbettino); “La vita come
amore”, “Cattolicesimo e comunismo”, fino a l’autobiografica “Vita d’un incosciente”.
Volendo indicare un tratto distintivo della sua filosofia, essa consiste nella
curiosità e nel rispetto per qualsiasi posizione. Non esiste una parola definitiva.
La ricerca della verità dove essere portata sempre ulteriormente avanti. In questa maniera vanno interpretate le sue
riflessioni che spaziano dai campi della speculazione filosofica. Tra i vari
livelli di ricerca, spicca la riflessione sulle strutture dello STATO.
Allontanandosi nettamente dal liberalismo filosofico, non vede alcuna contra-posizione
tra la figura dell'individuo o cittadino e quella dello stato. Con un passo
oltre questa interpretazione, che giudica dis-organica e arbitraria, vede LO
STATO come figura entro cui i cittadini vieneno a realizzarsi. Il binomio stato/cittadino
diventa così un'equazione, in cui il secondo termine viene a risolversi e
quindi realizzarsi pienamente nel primo. Caratterizza lo stato non come una
semplice sovra-struttura disciplinatrice, ma come un organismo che esprime UN’UNICA
VOLONTÀ e compone tutti i dissidi dei cittadini. In questa maniera, l'unica via
percorribile nella realizzazione di tale modello è la via corporativa in cui lo
stato -- al meno due cittadini -- diventa stato di al meno due produttori. Lo
stato rappresenta il luogo in cui interesse pubblico o comune ed interesse
privato o soggetivo del cittadino vengono a coincidere. In esso non deve venire
annullata quella sorgente di vita che sono i cittadini. Questa concezione è
stata definita immanenza dei cittadini nello stato, volta alla mobilitazione dei
cittadini nelle e per le strutture create dallo stato. L’economia è politica.
Deve garantire la sub-ordinazione alle scelte sociali. Inquadra il ruolo che
assegna allo stato in termini di intervento pubblico o comone. Ben lungi dal
prospettare una situazione paragonabile al collettivismo, è lontano anche dagli
eccessi dis-organici che imputa al sistema liberale. Il funzionario di stato,
che in prospettiva dove andare a sostituire il capitalista privato, e giudicato
non come un agente del collettivismo o del capitalismo statale -- che sappiamo
cosa produce col sovietismo -- ma un semplice delegato tecnico, che si fa
garante di una diversa realtà: assicurare socialmente il controllo della
produzione e la stessa proprietà dei mezzi produttivi. Altre saggi: “Il diritto
penale italiano”; “Il nuovo diritto penale”; “Critica dell'economia liberale, “L'idealismo
italiano e i suoi critici” – Grice: “A delightfull read, especially for us
Oxonians, since he manages to quote extensively from the Proceedings of the
Aristotelian Society, seeing that Ryle hated idealism!” --; “I fondamenti dell'economia
corporativa”; “Capitalismo e corporativismo” (Rubbettino); Scienza e filosofia”;
Dall'economia liberale al corporativismo, “La vita come arte, Critica della democrazia” (Rubbettino); “Il
comunismo, Dall'attualismo al problematicismo”, Memorie d’un incosciente”
(Rusconi, Milano); “Pareto” (Cadmo, Roma); “Critica della democrazia” (Luni, Milano);
“Il corporativismo: dall'economia liberale al corporativismo; Rodotà,
Passeggiando in bicicletta; Bighellonando dentro il Verano, Corriere della
Sera, Stefano, Filosofo, Giurista, Economista, VOLPE Roma, “Individuo e stato”,
NEGRI, “Dal corporativismo comunista
all'umanesimo scientifico. Itinerario teoretico” (Manduria, Lacaita); Tamassia,
Roma, Russo, Positivismo e idealismo” (Roma); Dessì, “Filosofia e rivoluzione”
(Milano, Luni); Russo, “Dal positivismo all'anti-scienza” (Milano, Guerini); Cavallera,
“La ricerca dell'incontrovertibile, Formello, SEAM); Breschi, Spirito del
Novecento. Il secolo di S. -- dal fascismo alla contestazione” (Rubbettino), Cammarana,
Roma, Pagine, Cammarana, “Teorica della
reazione dialettica: filosofia del postcomunismo” (Roma). Pirro, Ricordo, in Studi
Politici (Bulzoni, Roma). Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia
machiavelliana, Bettineschi, L'esperienza storica e l'intrascendibilità del
conoscere. Sul sapere di non sapere, Rivista
di filosofia neo-scolastica,, Problematicismo Corporativismo Fascismo
Corporazione proprietaria. Treccani, Dizionario di storia, Dizionario
biografico degli italiani, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. È verità comunemente ammessa die
l’econo¬ mia politica o, senz’altro, l’economia sia una scien¬ za
sociale. Questo vuol dire ch’essa non studia 1’/ionio ceconomicus e i
fenomeni economici, quali si possono immaginare in uno stato presociale o
an¬ tisociale, ma considera invece gli aspetti economi¬ ci della vita
sociale nella sua organicità essenziale. Ed è chiaro che in tanto può
studiarli e inten¬ derli sistematicamente in quanto la vita sociale abbia
essa stessa un’unità, un ordine, una di¬ sciplina: sia, in altri termini,
non uno stato di natura bensì un organismo politico, uno Stato. Fondamento,
dunque, di ogni scienza sociale e del- l'eeonomia in particolare è il
concetto di Stato, con il correlativo problema dei rapporti tra Stato e
in¬ dividuo. Per intendere la storia dell’economia po¬ litica e le
vicende degli indirizzi predominanti (economia liberale ed economia
socialista) è ne¬ cessario indagare come le diverse scuole abbiano impostato
e risolto tale problema. Se si guarda all'economia classica e in
gene¬ re all’economia più comunemente intesa come scientifica, si
deve convenire che essa è stata via via costruita e perfezionata dal
secolo XVIII a oggi tra¬ scurando, qualche volta in modo assoluto e
sem¬ pre in modo essenziale, il problema dello Stato. Dal- reconomia
del baratto fino a quella complicatissi¬ ma delle banche e dell’industria
contemporanea, tutti i trattati sono stati concepiti in rapporto a
una vita economica in cui dello Stato non si sente qua¬ si mai il
bisogno di occuparsi, come se fosse real¬ tà estrinseca e irrilevante ai
fini di una vera co¬ struzione scientifica. La spiegazione di questo
fatto, evidentemente in antitesi con la qualifica di scienza sociale con
cui si caratterizza l’economia, va trovata nella partico¬ lare
concezione dello Stato teorizzata dalla scienza politica e giuridica dal
secolo XVIII in poi, e classi¬ ficata ormai globalmente con l’epiteto di
liberale. Essa sorge come reazione ai vecchi sistemi politici, per i
quali lo Stato era una realtà diversa dagli indi¬ vidui che lo componevano
e sì rappresentava quin¬ di ai loro occhi conte un’autorità meramente
arbi¬ traria, con fini propri e opposti a quelli dei sud¬ diti: sorge
come bisogno di distruggere un potere estrinsecoedannoso, e con tale
esigenza non puòfar altro che rivendicare i sacri diritti dell’indi¬ viduo,
nella cui celebrazione si vede l’unico scopo così della vita sociale come
della ricerca scientifi¬ ca. Allo Stato, che storicamente appariva come
un limite e un ostacolo, anziché come essenza e vita deirorganismo
sociale, si opponeva una negazione perentoria destinata a mutare
radicalmente non solo i rapporti politici, ma anche i fondamentidi
ogni scienza sociale. Si può anzi affermare che, solo in seguito a
questa violenta ribellione, il pensiero — 5 — scientifico acquista la
libertà indispensabile per uno studio sistematico dei fenomeni sociali, e
ciò vale a spiegare perché le cosiddette scienze sociali si rin¬ novino
sostanzialmente, si costituiscano e cerchino di organizzarsi tra loro
soltanto dopo la prima metà del Settecento. L’esigenza immediata era
quella del¬ l’assoluta negazione, dalla quale ci si ritrasse uni¬ camente
per le necessità irriducibili di una vita po¬ litica organizzata: il
ritorno alla natura non poteva essere altro che il grido nostalgico di un
ideologo. Ma se la negazione non poteva divenire totale, essa tuttavia
si spinse al massimo limite consentito dai tempi, e, in sede scientifica,
alla realtà dello Stato non si riconobbe se non la funzione del tutto
estrin¬ seca di salvaguardare le sfere di arbitrio dei singoli individui,
Se unica realtà e unico valore sono quelli dell’individuo, se al mondo non
c’è altra finalità oltre quella che l’individuo si pone nel suo
chiuso egoismo, ne consegue che allo Stato deve spettare 1 unico
compito di determinare i confini tra quegli infiniti regni costituiti dai
singoli cittadini e di sorvegliare la loro pacifica convivenza: esso
non entra nella vita dell’individuo, ma ne resta al mar¬ gine come
garante. Ora è chiaro che uno Stato così concepito non deliba trovar
posto nella maggior parte delle scien¬ ze sociali: esso è più una realtà
di diritto che non una realtà di fatto, e la sua considerazione
tende a esaurirsi nelle indagini di carattere giuridico. Va¬ lori e
fini sociali sono quelli dell’individuo, che si affermano e si negano
indipendentemente dallo Sta¬ to, il quale ha il solo scopo di non farne
turbare il libero svolgimento. Di questa funzione di tutore le scienze
sociali possono e debbono, dunque, disinte* — 6 — ressarsi, in quanto
essa non modifica la realtà dei fatti sociali, ed anzi rende possibile la
loro genuina attuazione. A tali presupposti ideologici e politici si
deve ricondurre in particolar modo lo svolgimento della scienza
economica classica. Facendo sua questa so¬ luzione del problema circa i
rapporti tra individuo c Stato, essa dà allo Stato un valore positivo
solo in quanto garante della libera concorrenza, ma lo ritiene
perturbatore e distruttore di ricchezza ogni volta che intervenga
attivamente nella vita econo¬ mica: assume poi ad oggetto della propria
indagine 1 unica realtà dell individuo, considerato nella sua vita
immediata e mosso esclusivamente dai suoi par¬ ticolari interessi. L homo
asconomicus è per defini¬ zione extrastatale. Di qui l’equivoco
fondamentale di tutta la scienza economica quale è pervenuta fino a noi.
Se la scienza, infatti, non deve studiare l’organismo sociale (lo
Stato) perché questo, in quanto organi¬ smo, non ha un significato e un
valore proprio, non avrà, per ciò stesso, nulla da dire all’individuo
sin¬ golo che di quell’organismo fa parte. L’individuo scisso
dall’organismo è per definizione anarchico, e norma della sua vila non
potrà essere che il suo ar¬ bitrio affatto soggettivo: la scienza non può
inse¬ gnargli niente perché non può saperne niente. Per saperne
qualcosa bisogna che un individuo esca dalla sua particolarità, si
esprima, entri in relazione con gli altri individui e venga, dunque, a far
parte di una vita sociale organica : dello Stato. Solo allora ; solo,
cioè, quando Yhomn ceconomicus è diventato cittadino, la sua attività
diventa intelligibile e su¬ scettibile d’investigazione scientifica. Ma
la scienza economica si è voluta ostinare in questo assurdo, di
considerare l’individuo pre¬ scindendo dallo Stato; e non è potuta
giungere die a risultati mediocrissimi : le sue soluzioni sono, in fondo,
tutte negative, e si riassumono sostanzial¬ mente nel dogma della libera
concorrenza. Il quale, se ben si riflette, vuol dire solo cbe la scienza
si ri¬ mette all arbitrio degli individui, e che la soluzione più
perfetta del problema economico è quella che scaturisce dal cozzo
indisciplinato di tutti gli infi¬ niti interessi particolari. Allo Stato
la scienza dice: non fare; all'individuo: fa quel che ti pare.
Questa l'essenza dell’economia classica. 1 tentativi fatti per uscire
dal circolo vizioso del liberalismo tradiscono tutti il bisogno di
supe¬ rare una soluzione affatto negativa del problema della scienza
economica. Se non che l’incapacità di abbandonare il presupposto
individualistico non ha consentito di giungere a una sistemazione
scien¬ tifica che non fosse nella massima parte illusoria. E infatti,
una volta ammesso il fondamento soggetti¬ vistico dell’economia,
null’allro restava da fare al¬ l’economista se non aggirarsi all’infinito
in quella contraddizione in termini in cui si risolve ogni ten¬ tativo
di conoscere le leggi sistematiche dell’arbitrio. Se al puro e semplice «
fa quel che ti pare », lo scienziato ha voluto aggiungere una sola
parola di carattere positivo, lo ha potuto fare soltanto illu¬ dendosi
di entrare nel mondo ermeticamente chili- so del soggetto. Così si spiegailsorgere
della scuola psicologica e matematica, con la quale si è creduto di
attingere il maximum della scientificità e si è condotto all assurdo il
postulato classico dell'indi- vidualismo. Scuola psicologica : e cioè
costrizione dell’anima umana entro schematismi arbitrari, con¬ cepiti
da chi non aveva nessuna dimestichezza con gli studi di psicologia;
riduzione dell’/iomo cero- nomicus all’edonista, o all’egoista, o
all’altruista, e, in ogni caso, a un’etichetta di cui non sì sarebbe potuto
dare nessuna giustificazione: livellamento dei soggetti e cervellotica
costruzione del tipo, che rendesse uniforme e perciò intelligibile la
multi¬ forme vita individuale; negazione, insomma, del vero mondo
della soggettività e sostituzione ingiu¬ stificabile di una formula
meramente fantastica alla realtà che si pretende conoscere. Scuola
matema¬ tica: e cioè quantificazione di quegli stessi elementi soggettivi
illusoriamente determinati: comparazio¬ ne di dati incomparabili perché
essenzialmente di¬ versi; processo astrattivo sorto su illegittime
astra¬ zioni e perciò irriducibile alla concretezza della vita;
formule algebriche, dunque, che non potranno mai vestirsi di numeri
effettivi. L indirizzo psicologico e matematico, sorto a correzione
ed integrazione di quello liberistico, è valso solo a mettere in luce
l’errore fondamentale. Gli individui nella loro particolarità sono
esseri necessariamente eterogenei: i gusti, i bisogni, gli interessi,
le finalilà non sono paragonabili: nessuno potrà mai dire quante volte il
profumo di un fiore vale per una signora aristocratica più che per
una popolana, ed io stesso, che presumo di conoscermi, non potrò mai
dire quante volte il godimento da- tomi da una sensazione corrisponda a
quello procu¬ ratomi da un altra, o dalla stessa in un momento diverso.
Nessun tentativo dì approssimazione può essere concepito seriamente e
perciò tutta la cosid¬ detta economia marginalistica non è suscettibile
di alcuna interpretazione di carattere pratico. Conclu¬ dere, come fa
1 economia liberale, che il massimo dell utilità sociale equivale alla
somma dei massimi delle utilità individuali significa dire una cosa
senza senso, se è vero che di addendi incomparabili — come sappiamo
dalla più elementare conoscenza matematica nonè possibile fare la
6omma. Con il tentativo di passare dal massimo benes¬ sere
individuale a quello sociale, si chiude il ciclo dell economia classica o
liberale, e la vanità del ten¬ tativo ne conferma il definitivo
dissolversi. Di un inondo concepito coinè moltitudine caotica di in¬ dividui,
vivente ognuno sotto il solo impero del pro¬ prio arbitrio, è insensato
voler fare la scienza. Scien¬ za vuol dire disciplina, e l’individuo che
non è an¬ cora cittadino è senza disciplina; vuol dire norma, c 1
individuo non può riconoscerne alcuna oltre il suo gusto del momento; vuol
dire, soprattutto, co¬ noscenza obiettiva e universale, e l’individuo del
li¬ beralismo è soggettività particolare. A tale indi¬ viduo
l'economista si volge solo per constatarne la natura e garantirne la
primitività: lungi dal gui¬ darlo e disciplinarne gli interessi, lo
abbandona al cozzo brutale della domanda e dell’offerta, in cui tutto
il suo ideale si riassume. È la scienza dell’a¬ narchia. — 10 All’economia
liberale si è opposta quella so¬ cialista. Tutti i presupposti della prima
sembrano negati dalla seconda, che all’individuo sostituisce la
classe, la società, lo Stato. Ma lo Stato di cui parla il socialismo ha lo
stesso difetto di origine di quello liberale: esso, cioè, è sempre
considerato come una realtà diversa dall’individuo, come limite dell’attività
individuale e sua condizione estrinseca. La situazione si è invertita, ma
il problema è ri¬ masto impostato nella stessa maniera, poiché
l’anti¬ nomia individuo-Stato in entrambi i casi è risolta sacrificando
uno dei due termini all’altro; e, in quanto il termine sacrificato ha
conservato un mi¬ nimo di validità, esso rappresenta una
limitazione, sia pure necessaria, della realtà del termine iposta¬ tizzato.
Limite deirindividuo è Io Stato nel libera¬ lismo, limite dello Stato è
l’individuo nel socialismo. L’incapacità di risolvere l’antinomia con
l’iden¬ tificazione di individuo e Stato ha condotto il so¬ cialismo
a concepire lo Stato burocraticamente. Se lo Stato infatti non è la realtà
stessa della Nazione, ma viene entificato e opposto alla Nazione,
esso non può concepirsi se non come un organismo a sé e con organi
propri. Quando il socialismo nega la proprietà privata e dichiara che i
mezzi di produ¬ zione appartengono allo Stato,evidentemente attri¬ buisce
a questo una personalità giuridica ed econo¬ mica distinta da quella dei
privati: ed è chiaro che, se lo Stato ha una personalità distinta, deve
avere i — 11 — anche il motlo di vivere ed agire distintamente,
at¬ traverso quei determinali organi che costituiscono appunto la
burocrazia. È così che la teoria socia¬ lista, negando l’individuo nello
Stato, sostituisce al¬ l'economia individuale quella burocratica e fa
dello Stalo, in quanto realtà giuridica diversa dagli indi¬ vidui, il
proprietario, il datore di lavoro, il rispar¬ miatore, il distributore, e
via dicendo. La critica violenta e altezzosa che reconomia classica
ha opposto all’economia socialista è sostan¬ zialmente giusta e
irrefutabile. Se contro il libera¬ lismo ha ragione il socialismo in
quanto richiama l’attenzione dall’individuo allo Stato, contro il
so¬ cialismo ha egualmente ragione il liberalismo clie rivendica la
superiorità dell’economia individuale rispetto a quella statale.
L’economia statale è per definizione un’economia monca e patologica,
poiché essa non solo accentra e quindi limita la vita eco¬ nomica, ma
ne affida la direzione a un organo relati¬ vamente estrinseco quale è la
burocrazia. Quando il liberale afferma che lo Stato è cattivo
ammini¬ stratore, ha perfettamente ragione, perché per Sta¬ to
s’intende appunto una realtà sopraordinata e non costruttiva della cosa
amministrata. In altre pa¬ role si vuol dire che l’industriale, il quale
nasce c vive con la sua industria facendo di essa la stessa ragione
della sua vila, farà prosperare la sua azien¬ da indubbiamente meglio del
burocrate, che nell’in¬ dustria a lui affidala vede solo la contingente
espres¬ sione del suo dovere di funzionario. Ma più che antieconomica
l’economia statale è livellatrice e mortificatrice delle attività
indivi¬ duali. che lulte sì debbono uniformare al meccani¬ smo
burocratico e perdere quella libertà di movi- 12 — menti la quale
costituisce la condizione prima della loro iniziativa. La comune opinione
del carattere tradizionalista e conservatore della burocrazia è la più
evidente conferma della sua incapacità a rinno¬ varsi con quel ritmo
acceleratissimo che è proprio della industria contemporanea : l’economia
statale tende per sua natura a diventare economiastatica. Il dualismo
di individuo e Stato, che ha reso inadeguate le soluzioni dell’economia
classica e di quella socialista, non è stato superato neppure dai tentativi
compiuti, specialmente in questi ultimi de¬ cenni, per la costruzione
della cosiddetta economia nazionale o di Stato (la Volkswirtschaft o
Staats- wirtschafi dei Tedeschi). Anche quando tali tenta¬ tivi non
si sono ridotti a concepire la vita della Na¬ zione come la somma delle
vite dei singoli indivi¬ dui, e si è voluto invece considerare l’organismo
so¬ ciale con caratteristiche e finalità proprie, l’econo¬ mia
pubblica è rimasta sempre accanto all’econo¬ mia privata e la necessità
della loro assoluta iden¬ tificazione non è stata mai dimostrata, né da
socio¬ logi né da nazionalisti. I sociologi, infatti, tutti com¬ presi
dal compito di descrivere le varie forme della vita, si sono preoccupati
soltanto di analizzare le diverse economie, dall’individuo alla famiglia,
alla classe, alla Nazione ecc., di classificarle e di studiar¬ ne
estrinsecamente i rapporti; i nazionalisti, poi, infatuati dall ideologia
della Nazione, non hanno saputo far altro che ipostatizzarla come una
realtà — 13 — superiore all’individuo, affermando in
conseguenza la superiorità deireconomia nazionale e la subordi¬ nazione
a essa di quella individuale. In entrambi i casi lo Stato è rimasto come
una delle forme, sia pure la massima, della vita sociale; e l’economia
ad esso relativa come una delle forme, sia pure la su¬ prema, delle
possibili economie. E in tal guisa il — pensiero scientifico e andato
oscillando dall’ideolo¬ gia anarchica del liberalismo a quella
statolatria del socialismo e del nazionalismo, senza mai cogliere l’essenza
del problema. Respinto a volta a volta dagli assurdi di uno dei due
estremi, si è ritratto acriticamente dalle conseguenze ultime delle
opposte concezioni,ed è al solito scivolato verso i mezzi ter¬ mini
dell’eclettismo: il concetto di Stato è penetrato di straforo nei trattati
deireconomia scientifica, e quello di individuo e di libera iniziativa
nelle co¬ struzioni ideologiche degli statalisti. La soluzione
integrale del problema è delinea¬ ta, se pur non ancora esplicitamente
chiarita, nel- Tordinamento corporativo del regime fascista. Si tratta
per ora di un’intuizione politica più che di vera consapevolezza
scientifica, e anzi la lettera di alctine disposizioni legislative
consacra ancora il dualismo di individuo e Stato. Nella stessa
formula¬ zione della Carta del Lavoro, alcune espressioni di principi,
e soprattutto il famoso articolo 9, legitti¬ merebbero le vecchie
interpretazioni liberali e so¬ cialiste, di cui abbiamo discorso. «
L’intervento del- — 14 — lo Stato nella produzione economica — dice
infatti 1 articolo 9 — ha luogo soltanto quando manchi o sia
insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi
politici dello Stato. Tale inter¬ vento può assumere la forma del
controllo, dell'in¬ coraggiamento o della gestione diretta ». Nulla
di strano che questo articolo abbia pro¬ dotto i più svariati malintesi
nell'interpretazione dell'economia corporativa. I liberali vi hanno
visto a ragione la conferma delle loro dottrine, poiché gli stessi
classici più ortodossi hanno sempre soste¬ nuto che, per motivi
eccezionali o per superiori in¬ teressi politici, lo Stato può e deve
intervenire nella vita economica del paese. 1 filosocialisti,
insistendo sul maggior intervento statale che la Carta del La¬ voro
promuove, 1 hanno legittimamente interpre¬ tata come un passo decisivo
verso Tordinamento socialista. Gli eclettici hanno piaudito
entusiastica¬ mente. illusi di veder consacrata la solita via dei mezzi
termini. Gli economisti della cattedra, infine, hanno dato un'occhiaia
distratta e hanno senten¬ ziato senz’altro che Teconomia corporativa non
esi¬ ste, risolvendosi essa in una mera prassi politica contingente. E
che Leeonoinia corporativa non esista par¬ rebbe, infatti, dimostrato dal
fatto che i tentativi finora compiuti per defi nirla e sistemarla
scientifi¬ camente hanno condotto alla riduzione del nuovo al vecchio
n alle sterili soluzioni di compromesso tra liberalismo e socialismo. Mafortunatamente
l’infe¬ lice esito dei tentativi è dovuto soltanto aU’inoppor- tuno
zelo degli interpreti, i quali, per malinteso ossequio alla lettera, si
sono lasciati sfuggire lo spi¬ rito più profondo della Carta del Lavoro e
del fa- seismo in generale. L’imperfetta dizione dell'art. 9 fii
spiega proprio per la mancanza di una sistema¬ zione scientifica del nuovo
concetto dell’economia e gli interpreti avrebbero dovuto capire che
la Carta del Lavoro, per il suo carattere rivoluziona¬ rio,
costituisce un punto di partenza più che un punto dì arrivo, e che alla
scienza spetta appunto il compito di rendere esplicita e sistematica
quella visione che in essa è intuitiva. L’articolo 9, dunque, non può
essere considerato come la chiave di volta e il criterio infallibile del
sistema, sihbene come una delle proposizioni da interpretarsi e
coordinarsi alla luce delle nuove esigenze. Le quali trovano piuttosto
la loro esatta formulazione nell'articolo 1. per cui « la Nazione
italiana... è una unità morale, politica ed economica, che si realizza
integralmente nello Stato fascisla »: nell’articolo 2, per cui « il
la¬ voro. solto tutte le sue forme intellettuali, tecniche e manuali,
è un dovere sociale e soprattutto nel- 1 arlicolo 7, per cui «
l’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di
interesse na¬ zionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile deH’indirizzn
della produzione di fronte allo Sta¬ to )). È qui il motivo più
profondamente rivoluzio¬ nario del fascismo, per cui si afferma l’identità
so¬ stanziale di interesse pubblico e privato, di benes¬ sere dei
singoli e potenza nazionale. Certo, nella Carta del Lavoro, questa
identità alle volte si spezza e riappaiono i due termini dell’antinomia,
ma al nuovo bisogna guardare e non al vecchio, con gli occhi ben
intenti all’avvenire. Quando l’articolo 7 proclama il privato responsabile
di fronte allo Sta¬ to della sua vita economica, vale a dire di ciò
che per la tradizionale mentalità politica e scientifica 16 — si
ritiene il più geloso attributo della sfera di arbi¬ trio dell’individuo,
rende finalmente Fuorno citta¬ dino, lo trasforma in organo costitutivo
dello Stato, e distrugge alla radice ogni differenza tra ciò che è privato
e ciò che è pubblico. Il cittadino risponde di tutta la sua vita allo
Stato cui appartiene, per¬ ché il fine della sua vita è quello stesso
dello Stato; e, in quanto ne differisca, in quanto vi si opponga, o
anche in quanto si presuma indipendente da esso, è illegittimo. Ma,
perché Firnificazione della sfera pubblica e di quella privata sia
effettiva e non illusoria, è necessario avere dello Stato un concetto heu
più adeguato di quel che non abbiano i socialisti e. tanto meno, i
liberali. Chi ritenesse che lo statalismo che propugna la Carta del Lavorosia
sostanzialmente sullo stesso piano dell ideologia socialista non sa¬ prebbe
poi come spiegare la riaffennazione della proprietà privata. Se questa non
è una contraddi¬ zione vuol dire che Ira socialismo e
corporativismo, e cioè tra queste due forme di statalismo, v’ha una differenza
essenziale che occorre chiarire. E il chia¬ rimento dovrebbe già risultare
da quanto è stato detto sul carattere burocratico dello Stato
sociali¬ sta, concepito tuttavia come entità distinta dagli in¬ dividui.
Il vero Stato è, al contrario, la stessa realtà dell’individuo e sì
esprime quindi, non in partico¬ lari organi e istituti, sibbene nella vita
stessa di ogni cittadino. La proprietà deve rimanere privata, per¬ ché
essa è già assurta a finalità e caratteri pubblici con 1 elevazione del
proprietario a organo costitu¬ tivo dello Stato. Credere che la proprietà
da privata diventi pubblica solo se essa venga amministrata direttamente
dallo Stato, significa identificare lo Stato con la burocrazia, e opporlo
all’individuo; si¬ gnifica insomma arrestarsi all’ideologia liberale
e socialista. Lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha
bisogno di livellare, disindividualizzare, annien¬ tare l’individuo e
vivere della sua ^istruzione: al contrario esso si potenzia col
potenziamento dell’in¬ dividuo, della sua libertà, della sua proprietà,
della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con
gli altri individui. E tutto ciò è pos¬ sibile, in quanto 1 individuo non
è più un mondo particolare e la sua libertà non si chiama più ar¬ bitrio,
ma e individuo sociale che nella prosperità dell’organismo statale vede il
proprio fine. I/indi- vidualisino del liberalismo e lo statalismo del
socia¬ lismo sono superati, perché sono trasvalutati i ter¬ mini di
individuo e Stato che avevano condotto ai due assurdi opposti. Avere
coscienza precisa di tale trasvalutazione non è davvero cosa molto facile,
soprattutto perché occorre vincere continuamente il pregiudizio tra¬ dizionale
che ci porta a entificare lo Stato, a opporlo a noi stessi, a riconoscerlo
soltanto in determinati organi e funzioni. La vecchia concezione
intellettua¬ listica è ormai così radicata in noi e la stessa termi¬ nologia
che siamo costretti a usare è così aderente al concetto dello Stato come
personalità trascen¬ dente i cittadini, chenonci riesce agevole
sfuggire a tutti i paralogismi del senso comune. E in siffatto modo
si spiega l'accusa di metafisicheria che si vuole — 18 — rivolgere,
anche da persone non sciocche, all’iden- tificazione di Slato e individuo.
Ma bisogna resistere all apparente evidenza di queste critiche e
persua¬ dersi che quando un concetto ha davvero fonda¬ mento
speculativo è per ciò stesso il più pratico, e vale a risolvere anche
quelle difficoltà di carattere tecnico, che invano si cercherebbe di
rimuovere con i vaghi concetti del senso comune, se pur questi sembrino
agli occhi degli inesperti i più precisi, i più certi, i più assiomatici
possibili. Negate infatti questa metafisicheria che è l'identità di
individuo e Stato, e vi accorgerete che, volendo precisare sul serio
il concetto apparentemente lapalissiano dello Stato e dei suoi limiti,
ogni definizione riesce ina¬ deguata. e quella che sembrava una salda
realtà di¬ venta un nome senza consistenza. 11 concetto, dunque,
fondamentale e sistema¬ tico dell economia corporativa è la statalità di
tutti i fenomeni economici. Economia individuale ed eco¬ nomia
statale sono termini assolutamente identici. Questa conclusione, così
netta e perentoria, sembrerà paradossale e assurda a ogni economista che
abbia tuttavia nel cervello i! più piccolo pregiu¬ dizio classicista e
individualista: ma, per chiunque voglia riflettervi su, con mente aperta e
con buona volonlà, dovrà pure apparire come la verità più lo¬ gica ed
evidente. Le obiezioni che si possono sollevare sono prin¬ cipalmente
due: Luna di carattere psicologico, la 19 — seconda in particolar
modo tecnico-economica. Se¬ condo la più ovvia osservazione psicologica
sembra che tra il mio interesse di privato e quello pubblico dello
Stato vi sia non solo differenza, ma spesso op¬ posizione. Il cittadino,
ad esempio, che investe in un modo piuttosto che in un altro i suoi
risparmi, fa gli interessi propri, e le sue decisioni in proposito sono
indifferenti allo Stato: il cittadino, poi, che cerca di sfuggire alle
imposte fa gli interessi suoi e si oppone a quelli dello Stato. Ecco
dunque due economie ben distinte e con finalità differenti: l’una
individuale e l’altra statale. Senoncbé basta saggiare appena la
fondatezza di queste opinioni per convincersi della loro superfi¬ cialità:
e infatti è chiaro che il modo d’investire i risparmi dei cittadini non
può essere indifferente allo Stato, perché non può essere indifferente
allo Stato che l’indirizzo economico sia tino piuttosto che un altro,
che certe industrie siano favorite o neglette, che le forze produttive
siano armonica¬ mente finanziate: quanto poi airopposizione dì in¬ teressi
individuali e statali che si verifica nel caso del cittadino che si
sottrae alle imposte, è non me¬ no evidente ch’esso dimostra soltanto il
lato abnor¬ me della vita economica e noii può essere assunta a
criterio distintivo di due economie. Non si nega che il dualismo tra
individuo e Stato esista, ma si vuole affermare ch’esso rappresenta
l’aspetto nega¬ tivo e non quello positivo della vita sociale.
Questa, nella sua essenza, importa l’unità dei due termini e può
scientificamente studiarsi alla luce di tale uni¬ tà: il dualismo sempre
risorgente — e necessaria¬ mente risorgente per la stessa dialettica della
vita umana, che è perfezionamento e non perfezione — indica ii Iato
patologico, l’ostacolo «la rimuovere, e insomma l’arbitrio fuori della
legge e fuori della scienza. Cbi ipostatizza il dualismo e lo
legittima facendone il fondamento di due economie, indivi¬ duale e
statale, confonde il positivo col negativo, la legge con la sua
infrazione, e costruisce infine due simulacri di scienza. L obiezione
di carattere tecnico, che sembra legittimo sollevare contro l’assoluta
identificazione di individuo c Stato, concerne la possibilità
d’inter¬ vento dello Stato nell'economia individuale. Appa¬ re,
infatti, evidente che, se lo Stato alle volte in¬ terviene a controllare,
incoraggiare, gestire, ecc., e alle volte invece si disinteressa
completamente, vuol dire eb’esso rappresenta una realtà diversa da
quella su cui esercita il controllo: la possibilità dell intervento è la
conferma ad oculos del dualismo. Eppure a una analisi più appropriata del
pro¬ blema una simile rappresentazione dei fenomeni economici deve
risultare fondamentalmente errata ed equivoca. Se infatti lo Stato non
vien concepito in forma mitologica, come un organo o un insieme di
organi sui generis, ma come la stessa Nazione nella sua organicità
(giuridicità) essenziale, è chia¬ ro ch’esso non può intervenire perché è
sempre presente, immanente in ogni manifestazione, sia pu¬ re la più
trascurabile, degli individui costitutivi della Nazione. Si può
intervenire negli affari degli altri, ma intervenire in quelli propri è
cosa senza — 21 — senso. Ogni atto economico da me compiuto
s’inne¬ sta nel sistema economico della Nazione cui ap¬ partengo
(vedremo poi come nella Nazione entri anche il mondo internazionale) e
risulta quindi da esso condizionalo, anche se nessuna particolare
nor¬ ma lo regoli esplicitamente. Questa sistematica di¬ sciplina,
per cui il mio atto economico si realizza nell’organismo statale,
costituisce il così detto in¬ tervento dello Stato, il quale è, per ciò
stesso, asso¬ lutamente sostanziale. Pensare che possa esistere un fenomeno
economico che si sottragga a questa di¬ sciplina e che viva in un mondo
extrastatale, è pen¬ sare l’assurdo. Fenomeni antistatali potranno
es¬ servi, e saranno appunto gli atti di arbitrio dell'in¬ dividuo
che si oppone alla disciplina statale, ina fe¬ nomeni extrastatali no,
perché fuori dello Stato v’c il nulla. Da un punto di vista assoluto,
dunque, è illo¬ gico parlare di intervento dello Stato. Ma
dell’asso¬ luto — ci oppongono gli empirici — noi non ci oc¬ cupiamo:
noi intendiamo spiegarci un fenomeno molto concreto e innegabile, e cioè
quello dello Sta¬ to che pone un dazio, un calmiere, sovvenziona una industria
e viadicendo: di uno Stato, in altre paro¬ le, che ha una personalità
distinta da quella degli individui e che, come soggetto economico
diverso, compie degli atti che gli individui non possono com¬ piere.
E credono così, codesti empirici, di aver ta¬ gliato la testa al toro,
senza accorgersi invece che di ogni problema non ci sono due soluzioni,
una filo¬ sofica e lina empirica, una assoluta e una relativa, sibbene
una soluzione sola e propriamente quella giusta. La quale, in questo caso,
consistendo nell as¬ soluta identità di individuo e Stato, dà a quello
Stalo 22 — di cui parlano gli economisti un significato molto meglio
determinato ch’essi non pensino, e cioè il significato di una delle
particolari espressioni della vita dello Stato. Nessuno si sogna di negare
quella realtà di fatto che è lo Stato nell’accezione più co¬ mune del
vocabolo: nessuno quindi pretende nega¬ re che esista un’amministrazione
centrale con un bilancio proprio (il bilancio dello Stato), con
fina¬ lità sui generis, e con fenomeni economici peculiari: si vuol
soltanto affermare che questa realtà non è lo Stato, bensì uno degli
elementi dello Stato, la cui vita effettiva è nell’organismo integrale
della Nazione, ipostatizzare quell’elemento, e vedere sol¬ tanto in
esso lo Stato, significa precludersi la via a un’intelligenza adeguata dei
fenomeni economici. Gli empirici, al solito, potranno esserci indul¬ genti
e concederci di aver ragione circa il modo di intendere il concetto di
Stato: ma — essi continue¬ ranno a opporci — sia pure elemento lo Stato
di cui parliamo, noi intendiamo discutere appunto di esso quando ci
riferiamo al suo intervento nella vita economica. Senonché tale soluzione
del problema sarebbe affatto illusoria, come quella che ridurrebbe a
una questione di parole la più sostanziale delle questioni. Ammettere,
infatti, che lo Stato di cui parlano gli economisti sia un elemento dello
Stato e non esaurisca la realtà di questo, significa ricono¬ scere
ch’esso è appunto elemento di un organismo dal quale non può scindersi,
ovvero ch’esso è coes¬ senziale a ogni altro elemento dell’organismo
me¬ desimo.Per tradurre questo concetto nei termini usua¬ li, è
facile osservare che il bilancio dello Stato vive in un’unità
indissolubile con la vita economica del- — 23 — la Nazione, sì che
nessun fenomeno economico sfug¬ ge a un rapporto diretto o indiretto con
esso. Quan¬ do lo Stato fissa un’imposta, non modifica soltanto l’economia
dei colpiti dall’imposta, ma anche di quelli non colpiti: così quando lo
Stato stabilisce un dazio protettore, non muta soltanto le condizio¬ ni
dell’industria protetta, ma contemporaneamente quelle di tutte le altre.
Ogni intervento dello Stato è globale. Credo che non vi sia ormai
nessun economista che voglia contestare una verità tanto
lapalissiana: ma purtroppo da essa non si è tratta ancora in ma¬ niera
veramente esplicita la conseguenza inevita¬ bile, e cioè che lo Stato, per
il fatto stesso di essere, interviene sempre; e che discutere quindi si
può su questa o su quella forma di intervento, ma non sulla legittimità
ed economicità deirintervento. Tutti gli infiniti tomi che si sono
dedicati alla discussione del problema circa il valore economico
dell’intervento statale, e tutta la secolare opposizione dei liberisti
a ogni forma di intervento, riposano su un colossale equivoco,
dipendente appunto dall’errato concetto di Stato. Discutere se sia lecito
o no l’intervento dello Stato e nello stesso tempo riconoscere la
ne¬ cessità del bilancio dello Stato —- vale a dire, per l’Italia, di
un movimento annuo di decine di mi¬ liardi — è un assurdo che può non
risultare sol¬ tanto alla cecità degli economisti puri. I quali non sanno
quel che si dicano quando affermano che 1 i- deale della vita economica
sarebbe quella della più perfetta libera concorrenza. Se una Nazione è
tale in quanto è Stato, la libera concorrenza, quale è concepita
dagli economisti, non solo non è raggiun¬ gibile, ma è negata nel modo più
perentorio. Per — 24 — conseguire que! presunto ideale bisognerebbe
spez¬ zare 1’organismo. negare lo Stato e tornare al cozzo violento
dell’anarchia di natura. 11 progresso di una Nazione, al contrario, è
segnato dalla sua organi- cita sempre maggiore, e cioè dalla sempre più
con¬ sapevole realtà dello Stato; il quale, in conseguen¬ za, tende a
diventare sempre più immanente alla vita degli individui e sempre più
costitutivo di ogni loro manifestazione. L’intervento dello Stato, in
al¬ tri termini — se ancora d’intervento può parlarsi — è di fatto, e
tende a diventarlo anche nella co¬ scienza comune, la realtà stessa della
vita econo¬ mica. E se la scienza dell’economia auspica il trion¬ fo
dell ideale opposto, è troppo palesemente fuori di strada. Allorché
la Carta del Lavoro, dunque, dice all’articolo 9 che « l’intervento dello
Stato nella pro¬ duzione economica ha luogo soltanto quando man¬ chi
o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco
interessi politici dello Stato»,parla, evidentemente, un linguaggio
d’altri tempi. Se lo Stato interviene sempre, perché è sem¬ pre
presente e i suoi interessi politici investono tutta la vita della Nazione
con cui si identifica, è chiaro che tutta l’economia tradizionale deve
spo¬ stare il suo centro di indagine e trasformarsi fin dalle
fondamenta. Il suo problema era, infatti, quel¬ lo della libera
concorrenza (economia individuale), e della convenienza o meno, in certi
casi, dell’inter¬ vento statale (economia prevalentemente monopo* listica):
oggi diventa quello delle forme statali del- l’intervento e della
organizzazione dell’economìa, nazionale. 11 binomio di libera concorrenza
e mo¬ nopolio non ha più significato, e i due termini si risolvono in
uno solo, quello della unità organiz¬ zata della vita economica, in cui la
stessa concor¬ renza viene disciplinata. Cade così l’argomentazione degli
economisti, cbe affermano essere tutte le for¬ ine della vita economica
riconducibili alle due sole ipotesi della libera concorrenza e del
monopolio. La forma è unica ed è quella lìbera e monopolistica insieme,
in un’unità tale per cui il concetto di li¬ bertà e quello di monopolio
sono radicalmente Ira¬ sformati e resi inintelligibili in quanto distinti.
Gli schemi non servono più perché non rispondono a nessuna
approssimazione alla realtà, e sono anzi nella loro essenza opposti alla
realtà. Liberi sono gli individui, ma nella Nazione, in questo
colossa¬ le monopolio in cui la loro concorrenza si effettua: questa
è la realtà a cui invano si opporrebbe il tradizionale dilemma. Né si
creda di sfuggire a questa conclusione passando dall’economia nazionale a
quella interna¬ zionale, poiché la Nazione non va concepita anti¬ storicisticamente
come un’entità limitata dai suoi confini e, nei suoi rapporti con le altre
Nazioni, alla stessa guisa dell’uomo di natura rispetto agli altri
individui. La Nazione include in sé il mondo internazionale, e lutto ciò
cbe costituisce la vita di questo mondo non ha altra sede appunto che
nel¬ la Nazione, unità suprema di là dalla quale non esiste che
l’unità astratta, perché non dialettica, del¬ l’umano genere. Il compito
che si deve perciò pro¬ porre la scienza è, sì, la costruzione sistematica
del- - 26 — 1 economia nazionale, nia intendendo questa come unità
concreta ne] mondo internazionale, che non e, neppur esso, riconducibile
alPideologia anarchi¬ ca del liberalismo, in quanto rientra nella
discipli¬ na e nel sistema della Nazione. È al sistema che bi¬ sogna
tener sempre fissi gli occhi, specialmente oggi che 1 organizzazione della
vita economica sta in¬ cendo passi giganteschi e che, dinanzi al rapido
pro¬ cesso di unificazione delle industrie, del commer¬ cio, dei
mercati e delle banche, diventa sempre più anacronistico e irrisorio lo
schematismo individua- listico della tradizionale economia pura. Riassumendo,
possiamo ormai determinare i capisaldi della nuova economia, facendoli
tutti de¬ rivare dal concetto fondamentale della statalità dì ogni
fenomeno economico : 1) Subordinazione di ogni fenomeno econo¬ mico
al fine statale (essenziale politicità o storicità dell’economia). 2)
Interdipendenza dei fenomeni economici, considerata in funzione del fine
statale ( sistematicità o organicità della vita economica). 3)
Carattere pubblicistico della proprietà privata e della vita economica
individuale. 4) Obiettività dei fenomeni economici data dall
obbiettività del fine statale, e quindi loro intel¬ ligibilità
scientifica, in contrapposizione alla sogget¬ tività dell individualismo
(ofelimità). ■') Critica dei concetti di libera concorrenza — 27
— e monopolio, e affermazione di un’effettiva epiù profonda libertà
economica (negazione del liberi¬ smo anarchico e del vecchio statalismo
burocratico). 6) Carattere internazionale della Nazione e unità
essenziale del mondo economico. Questa Veconomia corporativa o senz’altro
la economia. Poiché è bene intendersi una volta per sempre, ed
escludere perentoriamente quel mostruo¬ so tentativo di concepire la
scienza economica come una forma astratta, da adeguarsi a una
qualunque delle infinite ipotesi economiche. L’ipotesi è nna sola e,
cioè, quella interpretativa dell’effettiva realtà sto¬ rica: il resto non
è che fantasia di puristi, abituati a scambiare le formule con la vita. La
scienza dell’e¬ conomia non può essere che una, perché una è la vita
ch’essa studia: e non ha bisogno dì aggettivi. Quando contrapponiamo
l’economia corporativa a quella liberale o socialista o nazionalista, non
inten¬ diamo dichiarare una nostra preferenza rispetto a questi
possibili sistemi economici, ma vogliamo pro¬ prio affermare la
scientificità della prima rispetto al carattere ideologico ed arbitrario
delle altre: l’ag¬ gettivo corporativa , che noi aggiungiamo
all’econo¬ mìa, ha il solo scopo di distinguere la vera dalla falsa
economìa, e non un’economia da un’altra. Che poi essa si chiami
corporativa e non altrimenti, vuol dire non ch’essa si identifichi
immediatamente — e perciò in modo contingente — con l’ordinamento corporativo,
ma soltanto che in questo ordinamen- — 28 — lo la consapevolezza
delle sue verità si è resa più esplicita ed evidente. Che lo Stato sia
costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che si instauri
col regime corporativo, né è limitata alla vita politica deiritalia di
oggi : ma mai come nel¬ l’Italia di oggi questa verità è stata
esplicitamente affermata : mai si è concepita la vita economica na¬ zionale
come un’unità così saldamente organica. L’epiteto di corporativa non è
dunque arbitrario, né menoma comunque la dignità della scienza a cui si
applica oggi ai soli fini polemici contro il libera¬ lismo, il socialismo,
il nazionalismo ecc. Poiché, se 1 economia corporativa è senz’altro
l’economia, Io stesso non si può dire, ad esempio, di quella pre¬ sunta
economia pura che è la quintessenza dell’eco¬ nomia liberale. A chi,
seccato della qualifica di libe¬ rale attribuita al suo metodo
scientifico, ha prote¬ stato di volersi porre al di là dei particolari
indirizzi e di voler fare solo della scienza, oggi è possibile da¬ re
una smentila categorica. E la smentita suona così: — fino a quando sulla
prima pagina dei trattati di economia non figurerà, a guisa di postulato
fon¬ damentale, il concetto di Stato, sarà vano parlare di scienza e
sarà stolto negare il preconcetto seco¬ lare del liberalismo
individualistico. La scienza, abbiamo detto, è una: e tutti gli indirizzi
scientifici dal mercantilismo alla scuola fisiocratica e dal liberismo
allo storicismo, al so¬ cialismo, al corporativismo non sono che i
momenti del suo unico processo storicamente determinato. L economia
corporativa vuol rappresentare soltanto lo sladio più avanzato del
processo, in cui tutti i precedenti debbono risolversi trasvalutandosi. A
chi fosse troppo preoccupato del pericolo di subordi- — 29 — ilare
la scienza a fenomeni politici contingenti, pos¬ siamo rispondere che la
politica non profana la scienza quando a essa ci s’avvicini con la fede
dello scienziato e non con l’anima del politicante. TI pa¬ vido si
ritrae per falso pudore, e nega l'obiettività della scienza col volerla
troppo salvaguardare: il ricercatore spregiudicato non teme, invece, di
fissar gli occhi nella realtà di cui viviamo, e di scoprire l’eterno
nel contingente. II L’IDENTIFICAZIONE DI INDIVIDUO E STATO La
difficoltà maggiore, che si è incontrata nel¬ la comprensione della tesi
dell’identità di indivi¬ duo e Stato, è derivata generalmente dal non
aver approfondito i concetti di individuo e di Stato che si ponevano
a fondamento del rapporto di identifi¬ cazione. È chiaro che. prima di
discutere sulla va¬ lidità di tale rapporto, occorre rendersi conto
del significato dei termini che siconfrontano, perché, se si suppone
noto il significato stesso, si insiste evi¬ dentemente in quella
concezione dell’individuo e dello Stato, che ha condotto, nello sviluppo
storico del pensiero, airantinnmia da noi contestata. Stori¬ camente,
vale a dire nel processo della attività spe¬ culativa come di quella
pratica e politica, è certo che lo Stato si è configurato a guisa di un
ente con¬ trapposto e sovrapposto all’individuo: e si è par¬ lato,
quindi, di autorità di fronte a libertà, di sovra¬ nità di fronte a
sudditanza, di arbitrio politico di fronte a interesse economico, e via
dicendo. Lo Sta¬ to, insomma, era una sovrastruttura, sia pur neces¬ saria,
della vita degli individui, e si esauriva nel compimento di particolari
funzioni, dette appunto — 31 — statali. Ne derivava che lo Stato
poteva individuarsi in determinati organi e in determinate persone,
cui erano attribuiti determinati compiti, entro una sfe¬ ra
esplicitamente circoscritta e non coincidente che in minima parte con la
sfera d’azione degli indivi¬ dui. A questo Stato, così concepito, gli
economisti negavano e negano tuttora la possibilità di un inter¬ vento
benefico nella vita economica degli individui. Ed avevano ed hanno
perfettamente ragione; così come hanno torto quegli altri economisti che,
senza persuadersi del mutato concetto di Stato, accedono tuttavia
ecletticamente all’opinione della possibi¬ lità benefica di un certo
intervento statale nell’eco¬ nomia individuale. Se lo Stato trascende, sia
pure ri¬ spetto a una zona soltanto, il campo d’azione del- l’individuo,
esso non può non turbarne Tequilibrio ogni volta che vi porti un
mutamento. Ammettere la possibilità di un intervento benefico, di un
solo, di un transitorio, di un limitatissimo, del più pic¬ colo tra
tutti gli interventi immaginabili, significa ammettere la possibilità che
lo Stato alteri vantag¬ giosamente con quel suo intervento tutto il
sistema generale dell’equilihrio economico della vita degli individui,
e cioè faccia coincidere, non limitatamen¬ te all’oggetto del particolare
intervento, ma nella totalità delle determinazioni, la propria realtà
con quella degli individui. Se si vuol restare nell’ipotesi che Stato
e individuo siano due realtà diverse, an¬ che solo parzialmente diverse,
la conclusione logica non può essere che una, e precisamente quella
del liberismo intransigente: lo Stato non deve interve¬ nire mai e
per nessuna ragione; il suo intervento, implicando sempre un’alterazione
dell’equilibrio na¬ turale, non può essere che nocivo. — 32 - Se
non che la concezione storica dello Stato, che ha dato luogo a tali
conseguenze nel campo del¬ la scienza economica, ha cominciato a
modificarsi profondamente proprio quando, nella seconda metà del
secolo XVIII, i classici dell’economia iniziava¬ no una sistemazione della
loro scienza con la consa¬ pevolezza critica del carattere negativo di uno
Stato trascendente. Sì che tutta la scienza dell economia si è venuta
costruendo sul presupposto dell’antitesi di Stato e individuo, in funzione
di quel concetto di Stato che rispondeva alla realtà storica anteriore
al processo di trasformazione. E a poco a poco — quasi senza nessuna
consapevolezza — si è giunti al paradossale risultato di uno svuotamento
progressi¬ vo della scienza delFeconomia, svuotamento non do¬ vuto ad
errore nella critica dello Stato trascendente, ma solo aU’illusione di
credere ch’esso davvero esi¬ stesse e che esistesse perciò quell’individuo
extra¬ statale, su cui la scienza aveva costruito il castello delle
sue astrazioni. Il fondamento liberistico di tutta l’economia classica e
della migliore economia contemporanea, e l’atteggiamento antistatale
che l’accompagna, costituiscono certamente l’interna lo¬ gica e il
principio sistematico di questa scienza: e possiamo aggiungere che, se lo
Stato fosse quella realtà che gli economisti immaginano e se
l’indivi¬ duo fosse quel soggetto economico che la scuola psi¬ cologica
ha caratterizzato spingendo all’assurdo il concetto già implicito nelle
teorie dei classici, la scienza dell’economia avrebbe raggiunto un
grado notevole di perfezione, forse il più alto grado rag¬ giungibile
sulla base di tali presupposti. Ma il guaio, o meglio la fortuna è che
così quello Stato come qucll’individiio non esistono in realtà, e che
col — 33 mancare dei presupposti si vanifica inesorabilmen¬ te
tutla la costruzione faticosamente elaborata. È quell ìntimo anacronismo
di principi e finalità che caratterizza la crisi della scienza economica
con¬ temporanea, sia pure attraverso gli sforzi che da più parti si
vanno facendo per superare -— in modo peraltro molto empirico —
l'antinomia di cui si comincia ad avere coscienza. Né la colpa può
at¬ tribuirsi completamente agli economisti, -se è vero che ancor
oggi si stenta ad acquistare familiarità con i nuovi concetti fin nel
campo più rigorosamen¬ te speculativo, e solo ìin'infima minoranza di
gius- pubblicisti comincia a porsi con qualche precisio¬ ne problemi
del genere. Tuttavia è tra gli economi¬ sti soprattutto che si nota la
maggiore riluttanza ad occuparsi della questione, o addirittura
l'ignoranza della sua esistenza : tra gli economisti che, per tra¬ dizione
di specialismo scientifico, disdegnano di va¬ licare in qualsiasi senso
gli arbitrari confini della loro scienza e credono di contaminare la
purezza della economìa coordinandola con il processo della speculazione,
della politica e del diritto. Si spiega perciò come essi possano tener
fede dogmaticamen¬ te a concetti tanto controversi, accontentandosi
di dar loro un significato empirico rispondente a pre¬ supposti
teorici di altri tempi: si comprende infine come possa suonar loro strana,
e anzi impertinente, la pretesa di chi chieda loro il significato dei
con¬ cetti di Stato e di individuo. L’economista — essi rispondono —
non pre¬ tende porsi e risolvere scientificamente questi pro¬ blemi;
egli accoglie questi termini nel significato corrente e a tutti noto, e su
essi costruisce i teoremi deH'economia. Che poi il significato corrente
non 3 - Sunna — 34 — sia rigoroso e sia anzi suscettibile di
critiche più o meno radicali, è questione cbe reconoinista non di¬ scute,
perché relativamente indifferente alla sua scienza: a lui hasta
richiamarsi con quei termini a una realtà di fatto riconoscibile
facilmente da chiunque. ') E il ragionamento non farebbe una grinza
se potesse esserci veramente un significato comune precisamente
determinato dei concetti di Stato e di individuo, se, cioè, noi potessimo
sul se¬ rio sostituire mentalmente a quelle parole una qua¬ lunque
realtà di fatto a confini netti. Ma, al contra¬ rio, è facile accorgersi
cbe. quando ciò si volesse fare con sincerità, ogni sicurezza
vacillerebbe, e a poco a poco all’illusione della certezza
subentrereb¬ be la certezza dell’illusione, i termini diverrebbero ambigui
e la presunta realtà di fatto andrebbe allar¬ gandosi o restringendosi
arbitrariamente fino a com¬ prendere tutto o a ridursi a un misero
moncone. Sottigliezze — si obietterà ancora incredulamente, —
questioni di lana caprina, da cui resta turbato soltanto chi è abituato a
spaccare in quattro il ca¬ pello, ma che non possono preoccupare sul
serio ehi guarda alla realtà nelle sue manifestazioni es¬ senziali:
se tutti parliamo di Stato e c’intendiamo perfeLtamente, vuol dire che, in
sostanza, sappiamo *) Questo è, in sostanza, l'appunto che mi fece il
Gotitii nel eno (apporlo al Congresso di Bolzano (settembre 193(1). o Lo
Sialo, si disse, non può intervenire in un dato momento, perché è
presente sempre. Ma non bisogna prendere la parola intervento in senso
di¬ verso da quello che ormai è di uso comune » (Il procedimento
spe¬ rimentale dell’economia corporativa, in « Giornale degli econo¬ misti»,
otlohre 1930, pag, 8741. La risposta alle obiezioni del Gobbi dovrebhe
risultare abbastanza chiara da lutto il contenuto di que¬ sto capitolo,
che vorrei porre come pregiudiziale di ogni ulteriore discussione sulla
validità dei principi della scienza economica. — 35 — tutti che cosa
esso sia. o per lo meno che cosi crediamo che sia. Ebbene, a rischio
di apparire banali, abban¬ doniamo per un momento il terreno più
propria¬ mente scientifico della discussione, trascuriamo cioè le
attuali controversie dottrinarie, e scendiamo an¬ che noi a quel senso
comune cui ci richiamano pe¬ rentoriamente alcuni economisti, quasi
avessimo perso il contatto con la terra per la velleità di cor¬ rere
inutilmente per i cieli. Scendiamo, dico, a ra¬ gionare all ingrosso e a
determinare su per giù que¬ sto comunissimo concetto dello Stato: vediamo,
in¬ somma, se è possibile giungere a una conclusione pralica
qualsiasi, che ci autorizzi poi a rimanere fedeli a ciò che gli economisti
dicono quando parla¬ no di Stato e individuo, di intervento, di
libera concorrenza, di monopolio, ecc. Se vi perverremo, se potremo
comunque pervenirvi, ogni ragione di dissenso sarà tolta, e ognuno potrà
proseguire in pace il suo cammino; ma se, per avventura, ciò non fosse
possibile, bisognerebbe pure che gli econo¬ misti si decidessero ad
affrontare tutte le conseguen¬ ze e a mettere cioè in discussione tutti i
principi della loro scienza. Tra le diverse risposte che potrebbero
darsi alla domanda: «che cosa è lo Stato?», credo che un economista
finirebbe col preferire quella che si ricollegasse al concetto di bilancio
dello Stato: Stato è 1 ente il cui bilancio si chiama appunto bi¬ lancio
dello Stato. E sarebbe ima risposta precisa, — 36 — inequivocabile.,
perfettamente individuata nell’or- ganismo di un sistema scientifico, sì
cbe ogni ulte¬ riore discussione sulla sua legittimità dovrebbe ap¬ parire
inutile. Ma se gli economisti danno allo Sta¬ to questo significalo
ristretto di amministrazione centrale, non è certamente a esso che si
limitano quando parlano di intervento statale nell’economia individuale.
Nessuno infatti crede di dover distin¬ guere l’intervento dello Stato
strido sensu da quel¬ lo, ad esempio, della provincia, o del comune, o
di un ente pubblico in genere: e nessuno pensa a un rapporto
necessario tra intervento politico e bilan¬ cio dello Stato quando si
stabilisce, ad esempio, lina riduzione del numero delle osterie. Ci deve
essere, dunque, un altro criterio per determinare i confini di quella
realtà cbe gli economisti chiamano Stato, e studiano in rapporto ai
fenomeni della libera concorrenza. A tal riguardo, oggi Stato in
Italia sono senza dubbio anche l’organismo corporativo e il partito
nazionale fascista, che di gran lunga tra¬ scendono la particolare vita
del bilancio statale, e da cui nessuno potrebbe senza arbitrio
prescinde¬ re per spiegarsi l’attuale vita economica della na¬ zione.
E dunque lo Stato si allarga necessariamen¬ te, anche se ci limitiamo a
questa prima considera¬ zione empirica del problema,
daH’ammiiiistrazione centrale a quella periferica, da pochi organi
deter¬ minati a una molteplicità indefinita di poteri rego¬ latori.
Sì che l’economista deve tornare a porsi il problema da capo e andare alla
ricerca di un crite¬ rio comprensivo di questa più vasta realtà cui
deve riconoscere la qualifica di Stato. Non più tecnicamente
rilevabile attraverso un particolare fenomeno economico come quello
del - 37 — bilancio statale, la distinzione di Stato e
individuo deve a questo punto trascinare l’economista di là dai
confini della sua scienza, e indurlo a ricercare nel campo del diritto e
della politica quel concetto di Stato che gli è necessario per costruire
scientifi¬ camente una teoria degli effetti economici dell’in¬ tervento
statale. Lo sconfinamento è, al solito, in gran parte inconsapevole e la
soluzione del proble¬ ma resta, nella letteratura della odierna scienza
eco¬ nomica, affatto indeterminata ed equivoca. All’in- grosso si può
dire che l’economista contrappone Stato e individuo intendendo
contrapporre governo e governati. E anche questa distinzione
potrebbe reputarsi precisa e perentoria, se fosse possibile in realtà
individuare non arbitrariamente il concetto di governante; se fosse
possibile, in altri termini, distinguere di fatto i governanti dai
governati, os¬ sia la volontà e 1 azione economica dei governanti dalla
volontà e dall’azione economica dei governa¬ ti. Se lo Stato, in effetti,
è sinomino di governo, l’in¬ tervento statale non potrà concepirsi se non
come quello esercitato da un’autorità governativa, ma, anche qui,
nessun economista può essere tanto in¬ genuo da identificare tale autorità
con la persona del sovrano e con il gabinetto. Anche qui è neces¬ sario
scendere dal governo strido sensu al potere governativo esteso a tutte le
autorità centrali e pe¬ riferiche, da quelle dei ministri a quelle degli
enti locali, delle federazioni, dei sindacati, del partito, ecc. E il
problema di nuovo si allarga in modo in¬ definito, senza che alEeeonomia
sia possibile em¬ piricamente raggiungere i limiti dell’attività
gover¬ nativa e degli uomini che la impersonano. Di gerar¬ ca in
gerarca si scende tutta la scala dell’ organismo 38 — sodale, senza
die sia mai possibile arrestarsi e tro¬ vare sul serio l’individuo che sia
governato senza governare. Quando anche si sia scesi fino al fondo della
scala e si sia raggiunta la massa degli indivi¬ dui che sembra non abbia
altro compito sociale se non quello di lavorare e di obbedire, si deve
pur riconoscere, e lo Stato moderno lo riconosce di fat¬ to, che la
massa stessa si articola, si eleva, si spiri¬ tualizza e fa cioè sentire
la sua volontà. In quanto essa è qualche cosa nel mondo sociale, è azione,
e cioè governo, così come lo stesso ordinamento giu¬ ridico riconosce
allorché a essa affida il compito di votare, vale a dire di porsi a tu per
tu con la supre¬ ma autorità governativa, e riconoscerla o discono¬ scerla,
darle o toglierle il governo, e quindi condi¬ zionare e disciplinare tutta
l’azione governativa. Governo e governati vengono perciò a fondersi
nel circolo della vita polìtica, e gli ultimi toccano i pri¬ mi, in
un organismo unico armonicamente costitui¬ to. Quest’organismo, che tutti
li comprende e che si esprime in una volontà unica, è appunto e sol¬ tanto
lo Stato, con il quale l'individuo, in quanto animale sociale, non può non
coincidere assolu¬ tamente. A questo nuovo concetto e a questa nuova
real¬ tà dello Stato, per cui l’antinomia di Stato e indi¬ viduo si è
venuta via via risolvendo, si è pervenu¬ ti a traverso un processo storico
che qui non è il caso di illustrare in modo particolare. Basti dire ch’esso
è il processo dello spirito umano, del pen¬ siero del secolo XÌX e dei
primi decenni del XX, 39 — della critica della vecchia trascendenza e
dell’ul- tima sua forma concretatasi neìl’individualisino il¬ luministico
: è il passaggio del liberalismo dalla sua forma irrazionale e anarchica a
quella organica e disciplinata, è il trasformarsi dell’opposizione
più o meno radicale all’autorità e alla realtà dello Sta¬ to nel
riconoscimento del suo universale valore im¬ manentistico. Naturalmente le
fasi dello sviluppo non si possono individuare con facilità e anzi
di esse non è dato aver coscienza, se non quando si sia pervenuti
alla piena comprensione dei risultati rag¬ giunti: sono fasi riconoscibili
solo dall’occhio esper¬ to del cultore di studi storici e filosofici, che
sa ri¬ salire alle fonti del nuovo orientamento speculati¬ vo e
determinarne la necessità logica, ragione del- rineluttabile shocco nella
vita pratica. E allo sto¬ rico solo è, quindi, consentito di volgersi con
piena consapevolezza alla presente realtà politica per adoperare in
senso non occasionale termini ed espressioni relativi a un’esperienza
anch’essa non occasionale. Quando si parla, non ciarlatanesca¬ mente,
di economia corporativa, non s’intende par¬ lare né di una speciale forma
di economia relativa a una contingente esperienza politica, né di
una esperienza politica arbitraria da ordinare scientifi¬ camente.
S’intende, invece, riconoscere storicamente e scientificamente un
ulteriore sviluppo della scien¬ za economica, ossia l’erroneità di certi
suoi presup¬ posti e la necessità di sostituirli con altri: e
s’inten¬ de, insieme, riconoscere la razionalità di uno svi¬ luppo
politico, dovuto agli stessi motivi spirituali dello sviluppo scientifico
e tutt’uno con esso. Stato corporativo ed economia corporativa sono, in
altri termini, frutti imprescindibili dello spirito moder- — 40
— no ed espressioni del massimo livello da esso rag¬ giunto :
qualunque sia la forma clic verrà assumen¬ do 1 idea eorporativa, è eerlo
che essa, per il su¬ periore concetto di Stato che rappresenta,
informe¬ rà tutta la scienza e la politica deH’avvenire. Ma perché la
previsione non riesca fallace è necessario saper discernere bene ciò che
vi ha di essenziale nel movimento corporativo, e non con¬ fondere la
sua realtà positiva con le particolari for¬ me, con i molteplici tentativi
e anche con le inevi¬ tabili deviazioni della complicata prassi politica.
Il che vuol dire che non bisogna considerare i fatti nella Ioto
immediatezza indistinta, bensì valutarli alla stregua di un criterio
storico che ne spieghi la necessità logica. Se essi sono frutto della
storia non possono intendersi se non attraverso la storia, os¬ sia
attraverso lo sviluppo del pensiero che nella storia si esprime, e debbono
essere avviati verso quegli ulteriori ideali che sorgono dalla
consapevo¬ lezza storica e scientifica. Allora l’idea corporativa può
venire sul serio individuata e resa intelligi¬ bile, cioè elevata alla
considerazione scientifica, non a titolo di nuovo oggetto di studio, ma
come ra¬ gione interna dello stesso processo scientifico. Allo¬ ra
l’idea corporativa esce dalla vaga formulazione propria di un’esperienza
politica in rapidissimo movimento e si riconosce in una verità storica
che è frutto di una secolare elaborazione dottrinaria e pratica :
l’identità di Stato e individuo. Ora, se guardiamo all’ordinamento
corporati¬ vo da questo superiore punto di vista, dobbiamo convenire
che il suo effettivo significato storico sta appunto nel tentativo di
rendere sempre più con¬ creta l’organicità statale della vita della
nazione, e 41 — cioè di rendere lo Stato sempre più immanente
alla vita dell’individuo. Nel regime corporativo lo Stato è destinato
a perdere la caratteristica di un ente tra¬ scendente, a non contrapporsi,
cioè, agli individui che sono soggetti alla sua autorità, ma ad
estendere via via i propri confini scendendo dal vertice alla base e
ricomprendendo senza residui tutta la realtà sociale. L’autorità dello
Stato non è più una disci¬ plina che si impone ai cittadini dall’esterno,
ma è la stessa disciplina con cui lo Stato si organizza nel suo
interno: poiché nella corporazione si incontrano di fatto Stato e
individuo, e reciprocamente si tra¬ sformano in un rapporto dialettico che
dà significato a entramhi i termini. Cosi nel diritto come nell’eco¬ nomia
rincontro, naturalmente, si esprime con la identificazione progressiva del
pubblico e del pri¬ vato, e basta guardarsi intorno per convincersi
del¬ la radicale e rapidissima trasformazione die questi concetti
vanno subendo in tutti i rapporti della vita sociale. Parlare oggi, ad
esempio, di proprietà pri¬ vata, senza riconoscere anche ad essa un
sostanziale carattere pubblicistico, è un assurdo che risulta evi¬ dente
a ogni giurista non fossilizzato. E, se dal con¬ cetto base della
proprietà scendiamo agli altri infi¬ niti che a esso si ricollegano, tanto
dal punto di vi¬ sta giuridico quanto da quello economico, è facile
ac¬ corgersi che tutti acquistano un significato statale al quale
nella realtà non possono sottrarsi. Costi, prez¬ zi, salari, iniziative,
imprese, banche, negozi, com¬ merci, ecc., tutto è ormai, non solo
implicitamente come sempre, ma anche con progressiva consapevo¬ lezza
ed esplicita volontà, subordinato a una disci¬ plina statale di cui
sarebbe assurdo voler segnare i confini. Ed è proprio questa impossibilità
che or- mai rende chiaro, anche sul terreno della realtà politica, il
progressivo svuotamento delle locuzioni tanto abituali nella letteratura
della vecchia eco¬ nomia. Che cosa può mai significare oggi
intervento statale nell economia individuale, quando si è reso esplicito
anche ai più ciechi che non esiste alcun atto economico che non sia
condizionato dall’or- ganisnio statale? Finché lo Stato si personificava
in un ente e si esauriva nell opera di una burocrazia, esso poteva
intervenire in una realtà che era fuori dell ente e della burocrazia: ma
oggi che Io Stato non è, neppure in apparenza, un ente, né si limita a
una huroerazia, perché si estende attraverso la vita sindacale a tutti gli
individui, oggi finalmente è scomparso il soggetto stesso dell’intervento
facendo scomparire con sé tutte le proprie particolari ma¬ nifestazioni. Per
chi continuasse a sorridere scetticamente sarà opportuno portare un
esempio molto noto: quello del calmiere. Non so se molti hanno
riflet¬ tuto sulle vicende che ha subito il calmiere in Ita¬ lia in
questi ultimi anni: a chi non lo avesse fatto e si domandasse 6e oggi in
Italia esistono tuttavia dei calmieri, dovrebbe apparire chiara una sola
ri¬ sposta e cioè che oggi in Italia la parola calmiere non ha più
significato, è diventata anacronistica e ha seguito la sorte di quella
concezione politica ed economica che il fascismo viene liquidando.
An¬ cora fino a qualche anno fa si parlava di bardature economiche e
della necessità di sopprimerle, an¬ cora si contrapponeva l’intervento
alla libertà e si discuteva quindi sulla legittimità o meno dei cal¬ mieri.
Oggi la questione è superata, non risolta né nell’uno né nell’altro senso,
ma vuotata di conte- — 43 — mito attraverso la consapevolezza
acquisita dell’as¬ soluta unità della vita economica italiana. Che
si¬ gnificato dar piu alla parola calmiere quando in po¬ chi giorni
prezzi e costi sono mutati in tutto il paese in virtù di una sola parola
d’ordine? Quando con¬ tratti collettivi, stipendi, salari, prezzi di
vendita all’ingrosso e al minuto, ecc., sono tutti legati da una ferrea
disciplina nazionale? Che non è, si compren¬ de bene, una disciplina
arbitraria e quindi antigiu¬ ridica e antieconomica, ma, almeno nella sua
realtà migliore, il disciplinarsi stesso, e dairinterno, della vita
economica d^l paese vista in funzione di un unico fine statale^ È lo Stato
che coincide con l’indi¬ viduo e lo risolve nella propria organicità : è
l’indi¬ viduo che vede nello Stato la sua ragion d’essere e lo
risolve nella propria volontà. La tesi dell'identità di Stato e individuo,
che teoricamente e storicamente si è venuta delineando, può ancora
andare incontro — come si è già accen¬ nato — a una obiezione di carattere
empirico, fon¬ data sulla constatazione di un reale contrasto tra l’attività
e le finalità economiche dell’individuo e quelle dello Stato. È vero — ci
si può opporre e ci si oppone in effetti da più parti — che in teoria,
ossia, idealmente. Stato e individuo coincidono, ma nella concreta
vita sociale è pur vero che l’opposizione o almeno la differenza c’è, e
con il suo solo esserci non può non smentire la teoria. O voi dunque —
si continua — vi contentate di restare in un’atmosfera — 44 — di
pura idealità io cui la teoria si esaurisce com¬ piutamente in se stessa,
e allora potrete avere an¬ che ragione: o voi invece volete che la teoria
si ade¬ gui alla realtà e serva ai suoi fini, e allora dovete riconoscere
che la vita è radicalmente diversa da quella che voi andate teorizzando.
Nel primo caso fate una metafisica, nel secondo lina cattiva economia. Prima
di rispondere esplicitamente a questa obiezione, sarà opportuno ricercare
le ragioni effet¬ tive del contrasto indubbiamente esistente e
sempre risorgerne nella vita sociale tra fine pubblico e fine privato.
Tale contrasto — diciamo anche noi — c’è e sarebbe stolto negarlo o porlo
comunque in dub¬ bio, tanto evidente esso è nella vita di ogni giorno
e nella coscienza intima di ognuno di noi. Se diminui¬ scono gli
stipendi e io sono uno stipendiato, posso logicamente convincermi della
necessità e quindi dell’utilità economica nazionale della riduzione,
ma, se mi fosse lecito sottrarmi alla legge comune, e ot¬ tenere che
il mio stipendio sfuggisse al provvedi¬ mento generale, con molta
probabilità sarei lieto dell’eccezione e agirei perché essa si
verificasse. Il che vuol dire che in realtà tra il mio fine indivi¬ duale
e quello stalale c’è un contrasto esplicito e che l’agire economico mio
non è identificabile con quello dello Stato. Ma se così è, non bisogna
tuttavia arre¬ starsi al riconoscimento e occorre spiegarsi la con¬ traddizione
Ira ciò che sarebbe logico e ciò che è reale. E basta appena porre il
problema in questi termini per accorgersi che la ragione
dell’indiscu- libile fatto è appunto contraria alla logica, è essen¬ zialmente.
profondamente illogica. Il contrasto, in altri termini, c’è, ma è dovuto a
una deficienza, a — 45 — una negatività; esso rappresenta il lato
patologico dell’effettiva realtà sociale, ossia l’elemento disgre¬ gatore
e non quello unificatore della società. Se poi volessimo renderci conto
della radice del male e ricercare in'quale dei due termini del rapporto
Stato-individuo si verifica la ragione del contrasto, dovremmo riconoscere
che non a uno solo di essi può limitarsi la colpa, poiché a fon¬ damento
di entrambi è sempre una attività umana suscettibile di degenerare
nelFegnismo antisociale, l’identità si spezza o almeno si attenua ogni
volta che l’individuo si fa diverso dallo Stato: ogni volta insomma
che lo Stato diventa sopraffattore o che l’individuo diventa ribelle.
Alcune brevi osserva¬ zioni potranno chiarire il duplice modo del
sorgere dell'antitesi. E cominciamo dallo Stato, contro il quale
ge¬ neralmente si appuntano le critiche degli economisti, insofferenti
del contrasto soltanto quando l’azione statale ne sia la fonte. Chi può
negare un qualsiasi fondamento alle critiche dei liberisti contro gli
in¬ terventi dello Stato nel campo dell'economia indi¬ viduale? E se
non è possibile una negazione pe¬ rentoria, come si spiega il verificarsi
di interventi dannosi e antieconomici? Per rispondere in modo scientificamente
esatto bisogna convenire che l’azio¬ ne economica statale è nociva
soltanto quando lo Stato non è veramente tale, e cioè quando rinnega la
sua realtà universali zzatrice e si parti eoi arizza in determinati
individui o in una determinata classe. Il modo, poi, in cui il
particolarizzarsi dello Stalo può effettuarsi è duplice, a seconda che lo
Stato si differenzia dalla nazione per ignoranza o per inte¬ resse.
Nel primo caso lo Stato — o, per non equi- — 46 vocare, il governo in
senso stretto, o, meglio ancora, gli individui che lo impersonano —
interpreta ar¬ bitrariamente la volontà della nazione e agisce in senso
antieconomico perché rompe l’organismo so¬ ciale, imponendo una volontà
affatto individuale, disgregatrice di quella universale. È il
governante che vuole agire per lo Stato, ina che in effetti opera contro
lo Stato per l’incapacità di dare valore uni¬ versale alla propria
volontà. Nel secondo caso, in cui il governante agisce per interesse
proprio, non solo manca la capacità di universalizzarsi e di assurgere
veramente a Sta¬ to, ma c è addirittura la volontà di
particolarizzatsi anteponendo dolosamente la propria individualità allo
Stalo. È il caso del tiranno o della classe diri¬ gente che abbassa la
nazione a strumento dei propri fini particolari. Ora, è chiaro che
tanto nel primo quanto nel secondo caso la tesi dell’identità d’individuo
e Stato, lungi dall essere scossa e compromessa, è lumino¬ samente
confermata nella sua assolutezza. Il duali¬ smo infatti è possibile in
entramhi i casi non per la contemporanea esistenza di due realtà distinte
che sarebbero l’individuo e lo Stato, nia per la inesi¬ stenza di una
vera volonlà statale. Sono individui (Stato) che si contrappongono a
individui (sudditi) in un contrasto anarchico di fini particolari:
l’unità di individuo e Stato non può effettuarsi, perché inanca
quella realtà universale in cui i due terniini debbono incontrarsi e
sintetizzarsi; manca — rigo¬ rosamente parlando — lo Stato. E l’individuo
si oppone allo Stato non perché veda in esso uno vo¬ lonlà e un fine
universali contrastanti con la propria volontà particolare, ma solo perché
vi scorge una — 47 volontà anch essa particolare che non ha
alcuna ragione intrinseca di prevalere. Queste stesse osservazioni,
fatte per dimostrare 1 origine patologica del dualismo di Stato e
indivi¬ duo, valgono, presso a poco negli stessi termini, per il caso
che la colpa di esso debba attribuirsi all’in¬ dividuo. È vero che 1
individuo spesso concepisce il proprio fine e il proprio interesse come
contrastanti con quelli dello Stato, ma la ragione va trovata an¬ che
qui o nell'ignoranza del valore del fine statale o nella volontà di
sopraffare lo Stato abbassandolo a strumento del proprio interesse
particolare e vio¬ lentando la volontà degli altri individui. In
entram¬ bi i casi la sua condotta non si spiega con l’esistenza di
due realtà distinte: individuo e Stato, ma solo con la negazione di uno
dei due termini. È rindividuo che non riconosce lo Stato. Se per poco lo
riconosces¬ se, se ne ritenesse giustificata l’esistenza e lo
sentisse come valore da difendere, diverrebbe sua preoccupa¬ zione
quella di conformare la propria volontà alla volontà dello Stato, di
coordinare cioè il proprio mondo con quello dello Stato in un'unità
superiore in cui i due termini si risolvessero. E insomma an¬ cora
una volta si deve concludere che se di Stato può propriamente parlarsi, se
lo Stato non è un nome ma una realtà effettiva, esso non può che
coincidere con l’individuo. L’antinomia sussiste e sempre
sussisterà, ma come il male nel processo dello spirito, vale a dire
come la volontà di negare ciò che ha valore uni¬ versale, di sopprimere o
di menomare lo Stato. Forse neppure dopo l’analisi del contrasto tra Stato
e individuo possono ritenersi definitivamente combattute le obiezioni che
si fanno alla tesi della identità dei due termini. Ebbene — ci si
potrebbe ancora dire — sia pur giusto quanto voi sostenete e sia pur
vero che il contrasto denota soltanto la man¬ canza o la menomazione della
realtà dello Stato, ma intanto, comunque, il contrasto c’è ed è
fonda- mentale, sì che da esso non è lecito prescindere, sen¬ za
abbandonare la realtà concreta e smarrirsi dietro un utopistico ideale.
Noi dobbiamo fare la scienza della vita quale essa storicamente ci si
presenta, e non quella di un mondo astratto, fosse anche il più celestiale
dei mondi possibili. A evitare ogni timore di tal sorta potremmo richiamarci
al carattere radicalmente storicistico del nostro assunto: nessuno più di
noi può aver l’in¬ tenzione di aderire alla realtà e di trovare in essa
e soltanto in essa la norma scientifica. E perciò sarà opportuno
dichiarare senz’altro perentoriamente che nessuno più di noi è convinto
deH’esistenza del contrasto; che nessuno più di noi è disposto a
rico¬ noscere l’impossibilità dell’eliminazione totale, sia pur
fantasticata nel più lontano futuro, del contrasto stesso. L’antinomia c’è
e sempre risorgerà, perché essa è nella dialettica della vita, sì che
sopprimerla davvero per sempre significherebbe sopprimere con essa la
vita. La quale non è perfezione ma processo I ; di
perfezionamento, e perciò non identità statica dì individuale e
universale, vale a dire non conquista definitiva del valore, ma sforzo
continuo di adegua¬ mento dell’individuale all'universale, ossia
conqui¬ sta di valori sempre più alti. Per adeguarsi allo Sta¬ to
l'individuo deve vincere se stesso, superare la propria particolarità,
dominare gli impulsi, rinun¬ ciare all’arbitrio, disciplinarsi insomma
attraverso una serie di sforzi, in cui il dualismo riaffiora continuamente
e non può mai dirsi risolto per intero. Ma se questa è legge di vita,
anzi la vita stes¬ sa nel suo svolgimento, occorre poi saper distin¬ guere
entro il processo i due termini dialettici e non confondere il negativo
con il positivo. L’individuo è veramente tale, è cioè una realtà positiva
o un valore spirituale solo per quel tanto che riesce a universalizzarsi
nello Stato: per quel tanto invece per cui resta al di qua dello Stato
egli è non valore, irrazionalità, mero arbitrio disgregatore della
real¬ ta sociale; è particolarità chiusa in se stessa e inca¬ pace di
divenire comunque termine di rapporto, lira, è chiaro che un soggetto il
quale sfugga alla possibilità di un rapporto con gli altri soggetti
— se non sfuggisse, la sua particolarità sarebbe con ciò «lesso
superata, e quindi l’ipotesi negata — è asso¬ lutamente negativo, ossia
assolutamente inintel¬ ligibile. Volerlo considerare oggettivamente,
fa¬ cendolo assurgere a contenuto di scienza, è im¬ presa tanto
disperata e assurda, quanto quel¬ la di voler fare scienza dell irreale: e
purtroppo in questa assurda fatica si è cimentata finora la scienza
dell’economia per quel tanto per cui ha vo¬ luto tener fede ai suoi
presupposti e assumere veste ^ • SniJTtì 50 — sistematica. 11
così detto homo aeconomicus è ap¬ punto l’ipotesi astratta dell’individuo
visto, non in un particolare aspetto della sua attività di uomo —
come erroneamente è stato ritenuto dagli econo¬ misti —, bensì nella mera
negatività del soggetto considerato come particolare. Esso, dunque,
non è un’ipotesi scientifica — per astratta cbe la si vo¬ glia
pensare — ma proprio l’ipotesi negativa della scienza: se esistessero di
fatto gli homines aecono¬ mici, il loro agire, per definizione, non
sarebbe su¬ scettibile di sistemazione scientifica. Per quel tanto,
invece, per cui l’uomo entra in rapporto con gli altri e supera la propria
parti¬ colarità nell’opera di collaborazione, per quel tanto appunto
esso diventa intelligibile e logicamente considerabile. La sua azione
trascende, infatti, l’ar¬ bitrio e si razionalizza, il suo procedere si
discipli¬ na secondo norme determinate e la sua soggettività si
risolve neH’organismo della vita sociale, nello Stato. Per quel tanto,
insomma, per cui individuo e Stato si identificano, il soggetto economico
— In Stato cbe è individuo o l’individuo che è Stato — diventa una
realtà positiva, e l’azione economica diventa suscettibile di
considerazione scientifica. O si fa scienza e si riconosce l’identità
sostanziale dei due termini, o si ipostatizza l’individuo
consideran¬ dolo positivo nella sua particolarità e si rinuncia alla
scienza. Ogni via di mezzo è fatalmente desti¬ nata all’equivoco e
all’errore. A illustrare l’argomentazione potrà forse valere un
esempio tratto da altre discipline: la gramma¬ tica o la sintassi. Sono
discipline cbe ci indicano le leggi del parlare e dello scrivere; leggi
non fis¬ sate arbitrariamente, ma ritrovate nella realtà di coloro
die parlano e scrivono. Se non che, così co¬ me nel rapporto tra individuo
e Stato nella vita economica, anche qui l’individuo non si adegua sempre
all universale della legge e comunemente sgrammatica. Anche qui il parlar
secondo gramma¬ tica è un ideale che di fatto non è mai raggiunto, né
sarà mai raggiunto; eppure a nessuno viene in mente di fare la grammatica
dell’individuo e di porre a fondamento di essa l’arbitrio di parlare
co¬ me si desidera. Se si vuol fare scienza occorre pur considerare
l'elemento positivo e non quello nega¬ tivo: occorre cioè determinare
l’universale in cui gl'individui convengono e non il particolare che
non riescono a superare. Ora, la scienza deH’economia ha mirato
proprio a fare la grammatica dell’indivi¬ duo, e, quando non è stata
arrestata lungo la china dalla forza imperiosa della realtà, è precipitata
ad¬ dirittura nell unica conseguenza possibile, quella dell ideale
della libera concorrenza, che, mante? nendo ancora il paragone, vai quanto
l’ideale del lihero parlare, ossia del parlare senza gram¬ matica. Mapotrebbe
forse osservare a questo punto I economista a fondo positivisteggiante —
noi non vogliamo indicare norme di vita. Noi vogliamo, cioè, indicare
nella libera concorrenza non un ideale economico, ma un ipotesi economica
: se si raggiun¬ gesse I ideale della lihera concorrenza quali feno¬ meni
si verificherebbero? — ecco il problema. Eb¬ bene, rispondiamo ancora una
volta, l’ipotesi non ha senso come non avrebbe senso lo sforzo del
gram¬ matico che volesse studiare la grammatica di un ipotetico paese
in cui ognuno parlasse un linguag¬ gio proprio. 0 la libera concorrenza ha
una qual- siasi disciplina e si compone nella vita statale, e al¬ lora
si può analizzare entro l’ambito di tale disci¬ plina; o la libera
concorrenza è davvero l’incontro irrazionale di soggettività particolari,
e allora non può essere cbe abbandonata a se stessa. Nelle
osservazioni che precedono si è cercato di dare un concetto preciso della
tesi dell’identità di individuo e Stato, e di mostrarne il carattere
sto¬ ricistico, che la pone non a fondamento di una qual¬ siasi
opinione scientifica, bensì come principio in¬ formatore necessario della
nuova scienza economica, in quanto la si renda adeguata al livello
speculativo e politico della vita contemporanea. A quali conse¬ guenze
il nuovo principio conduca nella costruzione sistematica dell’economia non
è possìbile illustrare se non costruendo appunto la nuova scienza;
tutta¬ via deve già a questo punto risultar chiaro che le conseguenze
non possono essere di carattere acces¬ sorio o particolare, ma tali da
trasformare radical¬ mente la fisionomia della dottrina economica.
Spo¬ stare il soggetto economico daWhomn cecoiwmicus, ossia
dall’individuo particolare, all’individuo visto nella sua identità con lo
Stato, significa mutare nb imis i concetti di valore, di utilità, di
benessere, di bene economico, di ricchezza, di libera concorrenza, di
monopolio, di intervento statale, ecc. : di tutti i concetti fondamentali,
cioè, dell’economia quale si è venuta costruendo da secoli. Sarà una
trasfor¬ mazione lunga e faticosa, e tanto più ardua quanto— 53 — piu
ci si andrà avvicinando alla trattazione dei prò- blem, particolari, in
cui è facile smarrire la coscien- za c ei presupposti e degenerare in un
falso tecnici¬ smo. Ma sarà una trasformazione assolutamente ne- cessarla,
alla quale converrebbe che aprissero fin da ora gli occhi quegl,
economisti che si cullano tutta- via nella illusione di possedere leggi e
teoremi di inoppugnabile certezza. BENESSERE INDIVIDUALE E BENESSERE
SOCIALE Uno dei problemi fondamentali dell’economia, in cui la tesi
dell’identità di individuo e Stato può Irovare la conferma del suo valore
critico e rico¬ struttivo, è certamente quello del benessere. Preoc¬ cupazione
costante della scienza è stata la ricerca delle condizioni necessarie per
il raggiungimento del massimo benessere individuale e del massimo benessere
sociale, e a questo supremo fine si può dire siano subordinate tutte le
particolari teorie e indagini degli economisti, anche quando essi
ri¬ pudiano come antiscientifico il concetto di disci¬ plina
normativa. Se essi confrontano, infatti, le di¬ verse ipotesi economiche e
ne studiano, sia pure astrattamente, le peculiari conseguenze,
debbono avere, per il fine stesso che si propongono, un cri¬ terio di
confronto, e debbono poter esprimere un giudizio comparativo di valore
(economico). Vero è che Feconomista, a cui oggi si domandi se sia
mi¬ gliore il regime di libera concorrenza o quello di monopolio,
risponde di non potersi pronunziare in merito dovendosi limitare
scientificamente a espor- — 55 — re 1 andamento dei fenomeni
economici nei due casi indicati, ma è pur vero che tali fenomeni — presi
almeno a uno a uno, — non possono chiarirsi e determinarsi se non in
funzione di un concetto quantitativo (più o meno utile, maggiore o
minore reddito, aumento o diminuzione della produzione, ecc.) che è
implicitamente valutativo o normativo. Si potrà non concludere in favore
dell’uno o del- 1 ahro regime, ma ciò dipenderà esclusivamente dal¬ l’impossibilità
di sommare con esattezza tutti i prò e tutti i contro delle diverse
ipotesi, non dal¬ la rinuncia a determinare i singoli prò e i sìngoli
contro. Così, quando l’eoononiista afferma che la moneta cattiva scaccia
la buona, condan¬ na, limitatamente al fenomeno preso in esame, la emissione
di moneta cattiva, anche se poi, tenendo presenti altri fenomeni,
riconosce che in determi¬ nati casi l’emissione di moneta cattiva possa
essere necessaria. E deve allora risultare chiaro che la rinunzia
dell economista a far diventare normativa la sua scienza va attribuita
unicamente all’incapa¬ cità di una visione sistematica dei fenomeni
eco¬ nomici e all impossibilità di decidersi fra regimi economici non
bene determinati in tutte le conse¬ guenze. Un’economia veramente
sistematica, seb¬ bene fondata su un principio affatto negativo, era 1
economia rigorosamente liberistica, che assumeva a fondamento logico della
scienza la libera concor¬ renza e vedeva in essa l'ideale normativo della
pras¬ si politica. Ma quando la negatività del principio si è andata
a poco a poco rivelando anche ai più orto¬ dossi, il rigore sistematico si
è affievolito e la scien¬ za è scivolata inavvertitamente nel
frammentari¬ smo di indagini contradditorie. La ricerca è diven- — 56
— tata più complessa e meno dogmatica, e in tal senso sì è accostata
maggiormente alla vita e alle esi¬ genze dello storicismo, ma, per
l'incapacità di domi¬ nare il mondo in la] guisa allargato, è caduta in
un relativismo scettico scientificamente disorganico e praticamente
inutile e dannoso. Si che, se oggi ci 6Ì volgesse intorno e si domandasse
agli economisti quale sia la strada da percorrere per giungere al massimo
benessere individuale e a quello sociale, non si potrebbero ascoltare che
risposte monche, indeterminate e, peggio ancora, evasive. Gli uni ci direbbero
che il problema riguarda la distribu¬ zione e non la produzione, e
tenderebbero perciò a convertire il problema economico in un proble¬ ma
di politica economica, per lavarsene le mani e rimettersi al prudente
arbitrio delluomo polìtico; allri ci risponderebbero che la soluzione
teorica è sempre quella della lihera concorrenza, la quale in aslratto
garantisce il massimo di ofelimità indivi¬ duale e SQciale: ma poi
aggiungerebberoche tale soluzione teorica ha bisogno, per una quantità
di ragioni determinabili o indeterminabili, di correttivi più o meno
radicali; altri ancora distinguerebbero tra benessere individuale più
propriamente econo¬ mico e benessere sociale, determinato, invece,
da motivi in gran parte di natura extraeconomica : al¬ tri, infine,
si smarrirebbero nella casistica del con¬ tingente e accumulerebbero
risposte su risposte, senza venire a capo di nulla. Ma tutti poi eviterebbero
di affrontare o sommariamente ri¬ solverebbero il problema fondamentale di
determi¬ nare sul serio il concetto di benessere individuale e
sociale, e quindi tutti si porrebbero nell’impos¬ sibilità di dare una
risposta scientificamente rigo- — 57 — rosa. Poiché, al solito,
l’incapacità degli odierni eco¬ nomisti di dar veste sistematica alla loro
scienza sta proprio nel sorvolare sui presupposti della costru¬ zione
e nell impelagarsi in una congerie disastrosa di questioni oziose o
addirittura inesistenti, smar¬ rendo la nozione stessa del problema che
pur si vuole affrontare. E perciò ancora una volta occorre fermarsi
al limitare, e domandarsi con precisione che cosa vuol dire benessere
individuale, che cosa benessere sociale, e che cosa infine il rapporto tra
le due specie di benessere. Vediamo anzitutto quale significato hanno
pre¬ teso di dare e quale significato hanno effettivamen¬ te dato al
concetto di benessere gli economisti indi¬ vidualisti o liberali, nel
tentativo più sistematico da essi compiuto per la soluzione di questo
pro¬ blema. Vogliamo riferirei in particolar modo alla interpretazione
soggettivistica del concetto di uti¬ lità, e quindi alla cosiddetta
ofelimità massima indi¬ viduale e statale. Credo che, anche limitando a
que¬ sta teoria la nostra indagine critica, nessun econo¬ mista vorrà
accusarci di unilateralità, perchè nessu¬ no potrebbe sul serio affermare
resistenza nella scienza economica contemporanea di una conce¬ zione
più comprensiva del problema in esame. Con il concetto di ofelimità la
teoria classica dell economia individuale ha raggiunto il massimo rigore
che le era consentito. Se il soggetto econo¬ mico è 1 individuo singolo
con finalità proprie estra- nee a quelle degli altri individui, la nozione
oggetti¬ va di utile va necessariamente cangiata in quella soggettiva
di ofelimo: nessuno potrà affermare in astratto Futilità di un bene,
perché beni per se stessi utili non esistono, essendo la loro utilità in
funzione dei gusti e dei relativi bisogni degli individui, L u- tilità
di un bene varia perciò da indivìduo a indivi¬ duo da momento a momento
della sua vita: quello stesso bene cbe oggi è al sommo delle mie
aspira¬ zioni e cbe m’induee a sacrifici notevolissimi, può diventare
domani affatto irrilevante e tale da co¬ stringermi addirittura a nuovi
sacrifici per disfar¬ mene. Vano era dunque il tentativo dei vecchi
eco¬ nomisti di determinare il valore dei heni e di spie¬ gare
obiettivamente le ragioni della loro utilità: utile è soltanto Fofelimo,
vale a dire ciò cbe ri¬ sponde al gusto contingente e arbitrario di dii
com¬ pie la scelta economica. Tutta la cosiddetta economia marginalia
ha preso le mosse da questo presupposto fondamen¬tale e si è trascinata
fin qui nell'illusione — non sempre cieca e totale — che nel puro
soggettivi¬ smo fosse tuttavia possibile alla scienza di porre un certo
ordine, frazionando idealmente in unità ele¬ mentari i vari beni di un
individuo e confrontando le unità ultime di ciascun bene tra loro. Se
sog¬ gettivo è il concetto di utile, entriamo pure nell’ani¬ ma del
soggetto e facciamo la sintesi delFeeonomia e della psicologia: così hanno
pensato i più coerenti tra gli individualisti, giungendo infine alla
conclu¬ sione alquanto lapalissiana che di veramente certo nella
logica di ogni indivìduo non v’è che il biso¬ gno di procurarsi beni
economici in quantità tali da rendere eguali le soddisfazioni procurate
dalle uni- 0 — 59 — tà ultime dei diversi beni. Il ragionamento,
a prima vista impeccabile, si è svolto in questi termini: se io vado
al mercato a comprare pane e vino è chiaro che comprerò tanto pane e tanto
vino da far coin¬ cidere il piacere che potrà procurarmi l’ultima
parte del mio pane con quello che potrà venirmi dall’ulti¬ ma parte
del mio vino. Se l’ultimo boccone del mio pane avesse per me maggiore o
minor valore dell’ul- timo sorso del mio vino, la mia opera sarebbe
illo¬ gica, perché rinuncerei senza ragione al massimo di utilità
possibile, facendo acquisto di troppo vino o di troppo pane. Estendendo il
ragionamento a tut¬ ti i miei beni e misurando la quantità di ognuno posso
giungere a determinare il valore relativo di essi: posso cioè avere una
nozione sperimentale del mio equilibrio economico. E se infine dalla
mia persona passo a quella degli altri individui che for¬ mano la
collettività, posso sempre sperimentalmente e oggettivamente giungere alla
nozione di un equili¬ brio generale, che è tuttavia la risultante di
molte¬ plici mondi assolutamente soggettivi. Si compie in tal guisa
il miracolo della trasformazione di un’eco¬ nomia psicologica in
un’economia matematica, e ciò che sembrava l’espressione di un arbitrio
inaf¬ ferrabile e indeterminabile diventa elemento rigoro¬ samente
determinato in una formula algebrica. Ma la matematica è in questo caso
una cattiva consigliera e conviene aver la forza di resistere al suo
fascino, per non essere trascinati in un mondo tanio più fantastico quanto
più tecnicamente per¬ fetto. E dalle sue equazioni vogliamo per un
istante ritrarre lo sguardo per ritornare all’mdividuo eco¬ nomico e
vedere se tanta scienza possa comunque illuminarlo nel suo cammino e se,
soprattutto, pos- ea comunque illuminargli la strada che gli altri individui
percorrono con lui. Ora è chiaro che l’economia marginalista non può
dare all’individuo nessun criterio orientativo nel mondo economico, poiché
l’azione economica, qualunque essa sia, è sempre, per definizione,
la migliore possihile. Se vado al mercato, compro quel hene, in
quella quantità, e a quel prezzo che rispon¬ dono nel modo più infallibile
all’unico criterio logi¬ co eh io possa in queiristante seguire: al
criterio cioè del mio gusto e del mio bisogno. Fare libera¬ mente una
cosa che non piaccia è evidentemente una contraddizione in termini, e se
dunque fonda¬ mento dell’economia è l’ofelimità, ogni atto eco- mico,
in quanto compiuto senza costrizioni, e ne¬ cessariamente perfetto. E se
perfetto è ogni atto, perfetto sarà pure il sistema degli atti ossia tutta
la vita economica, si che ogni individuo, che agisca lìberamente, non
può non vivere lina vita rispon¬ dente al più allo ideale economico e non
esser sem¬ pre nello stato del massimo benessere possibile. Se non
che una perfezione così a buon mer¬ cato ha già dato qualche sospetto a
taluno degli economisti più intelligenti e c’è stato chi, sia pure di
sfuggita, dando uno sguardo più profondo alla vita del soggetto, si è
accorto nientemeno che le ofe¬ limità marginali non sono confrontabili tra
di loro, neppure nello stesso individuo e neppure nello stes¬ so
istante. E poi si è notato che il marginalismo im¬ plica la possibilità
per lo meno ideale di frazionare in unità elementari ogni bene economico e
che in¬ vece tanti beni economici sfuggono necessariamen¬ te a tale
procedimento. Obiezioni queste che, ag¬ giunte a molte altre, hanno
cominciato a scuotere la — 61 — fede che dai pm si aveva nel rigore
del principio escomi» \f a non tanto si sarebbe avvertita lL- surdita
della posizione, se non si f osse tornali al p . aggio, dapprima
inconsapevolmente ritenuto le- fanello* dall’equilibrio individuale a
quello collettivo e cioè dal benessere del singolo a quello della società.
Posto, infatti, l’individuo a centro del sistema, il massimo di ofelimità
gene¬ rale non ai e potuto trovare che nella somma deimassimi delle
ofelimità individuali, e allora logica¬ mente il p rmin problema è
sparito, in quanto rias- ?.°. r lt0 Senza ^e ® 1 l du, nel secondo: ogni
individuo ubero raggiunge il suo massimo e con ciò stesso rag- giunge
la somma massima la società di cui egli fa parte. Al a scienza non resta
da far altro che pren- der atto del migliore dei mondi possibili. Se
la scienza volesse comunque uscire da que¬ sto suo atteggiamento dì
completa passività di fron¬ te al problema del massimo benessere
individuale e sociale, il primo scoglio contro cui i suoi sforzi do¬ vrebbero
necessariamente infrangersi sarebbe quello del confronto tra il benessere
di due individui di- yersi. Abbiamo già accennato allbbiezione di
chi ha dichiarato inconfrontahili le ofelimità margina- h di due beni
per uno stesso individuo, ma in quel caso si era tuttavia nell’ambito del
soggetto econo¬ mico e la possibilità del paragone restava in qual¬ che
modo suscettibile di discussione. Ma quando si tratta di confrontare il
benessere di due individui e lo stesso presupposto psicologico
soggettivista che nega a P” 01 ; 1 °8 ni senso alla ricerca ed esclude
la possibilità di un qualsiasi risultato. E basta appena accennare a
questa conseguenza della teoria per ac¬ corgersi che la presunta soluzione
del problema è affatto verbalistica e vuota. Se dire massimo di be¬ nessere
sociale vuol dire somma di massimi indivi¬ duali, questa somma deve pur
concepirsi possibile e gli addendi debbono pur potersi confrontare.
Ma confrontare vuol dire conoscere il rapporto quanti¬ tativo della
soddisfazione che un medesimo bene procura a due persone diverse e tale
rapporto è pur¬ troppo impossibile per definizione. Dunque? Dun¬ que
il circolo vizioso èsenza uscita di sorta e occor¬ re impostare
diversamente il problema. Né, d’altra parte. l’economista potrebbe
rinun¬ ziare al confronto, attenendosi per astrazione a un tipo medio
di uomo, che rendesse omogenei gli ad¬ dendi da sommare. In tal caso,
infatti, l’unica so¬ luzione del problema sarebbe di eguagliare tutti
i redditi individuali e di presumere in tal guisa rag¬ giunto il
massimo benessere sociale. Il che, oltre tutto, sarebbe in netta antitesi
con il criterio di li¬ bera concorrenza, che è a fondamento, assoluto
o relativo, dell’economia marginalista. Ma il guaio peggiore di
questa ingarbuglia- tissima situazione viene a porsi in evidenza
allorché l’economista è costretto a passare dall’economia in¬ dividuale
a quella della collettività (Stato, enti pub¬ blici, sindacati, società,
ecc.) L’agnosticismo dello scienziato trova qui un limite assoluto ed egli
non può più evitare di rispondere con precisione ai pro¬ blemi che
scaturiscono dalla coesistenza delle due economie. Se lo Stato deve
stabilire un’imposta, qua¬ li industrie e quali redditi colpirà e con
quale cri¬ terio? È chiaro che il criterio economicamente non può
essere che uno e cioè quello del massimo be¬ nessere sociale: ma intanto
tale massimo può con¬ cepirsi solo in regime di libera concorrenza e
Firn- posta è estranea per definizione a tale regime, e slugge
necessariamente alla logica del suo sistema. imposta Sara scelta
esclusivamente con criteri ex¬ tra-economici e l’economista, al solito,
non solo non potrà dire la sua parola, ma non riuscirà poi in al¬ cuna
maniera a misurare gli effetti di un imposta dal punto di vista del
benessere sodale: egli non potrà, cioè, giudicare né a priori né a
posteriori del¬ la bontà di un’imposta. Lo stesso ragionamento può
ripetersi a propo¬ sito di qualsiasi intervento statale nella vita
econo¬ mica del paese: anzi lo stesso problema dell’inter¬ vento
acquista una nuova fisionomia e rende vanaogni attività dello scienziato in
questo campo. Quan¬ do gli economisti si sono poco o molto
allontanati dalla tesi rigorosamente liberista e hanno ammes¬ so la
possibilità, in determinate condizioni, di un in¬ tervento statale
economicamente vantaggioso, han¬ no dato, senza avvedersene, un colpo
mortale alla teoria dell’ofelimità, rendendo oggettivo ciò che avevano
perentoriamente affermato come soggetti¬ vo, e confrontando, sia pure in
astratto e in linea di mera ipotesi, il benessere procurato da due
si¬ tuazioni economiche diverse. 0 si tien fede al ca¬ rattere
soggettivo della ofelimità e allora bisogna lasciare 1 individuo arbitro
incondizionato della sua vita economica e giudice incontrollato del suo
be¬ nessere; o si ammette, anche per un attimo e con ogni sorta di
limitazioni, la confrontabilità delle soddisfazioni, e allora si deve
rinunziare a costrui¬ re la seienza sul fondamento della scuola
psicologi¬ ca. Ma intanto convien pure riconoscere, con i sog¬ gettivisti,
che il benessere procurato da una sterlina a un povero è maggiore di
quello procurato a un ricco e che, in tesi generale, uno stesso bene
procu¬ ra soddisfazioni diverse a diversi individui; come pure
bisogna riconoscere, contro i soggettivisti, che qualunque indagine
relativa ai problemi economici implica inesorabilmente la determinazione
obietti¬ va di un rapporto tra diversi stati di benessere: e ingomma
è necessario concludere che tra soggetti¬ vismo e oggettivismo economico
esiste un'antinomia radicale, sulla quale non si è fatta la debita luce,
e che perciò rende infecondi tutti gli studi e i tenta¬ tivi compiuti
dagli economisti per giungere a una costruzione veramente
sistematica. Il problema che vien fuori dalle considerazio¬ ni
precedenti è, dunque, quello di trovare un crite¬ rio con il quale
superare Tantinomia di ofelimo e utile, ossia di soggettivo e oggettivo, e
dare in con¬ seguenza un significato intelligibile e non contrad¬ ditorio
ai concetti di massimo benessere individuale e massimo benessere sociale.
La via da seguire deve essere naturalmente quella prescelta dagli
stessi economisti che hanno posto la nozione di ofelimità a
fondamento della scienza, vale a dire l’analisi psicologica del soggetto
economico. E non sarà cer¬ tamente colpa nostra se i confini della
particolare scienza economica saranno valicati, come non è sta¬ta colpa
dei puristi che sono scesi su questo terreno, anche se oggi fanno la voce
grossa a chi osa parlare di rapporti tra scienza e filosofia. La
distinzione tra ofelimo e utile domina ormai tutta la scienza eco-— 65
— nomica e ne spiega 1 attuale struttura: se non si vuol dunque
accoglierla come le colonne d’Èrcole dello scienziato, bisogna pur che i
tecnici si abbas¬ sino a discuterla, lasciando per un poco di ammi- rare
e perfezionare i maestosi castelli matematici che vi hanno fondato sopra.
3 ) La teoria soggettivista considera l'individuo economico, che fa
una scelta, come dominato im¬ mediatamente da un gusto o da un bisogno che
è quello che è: essa non si rende conto né si vuol render conto del
perché di quel gusto, né del rap¬ porto tra un gusto e un altro dello
stesso individuo. Vero è che di tale rapporto si parla quando si
con¬ frontano tra loro le utilità marginali dei diversi be¬ ni
acquistati da un individuo e si afferma ch’esse sono eguali, ma il
rapporto si limita a una scelta economica puntualizzata in un dato momento
della vita di un individuo e non vale in alcuna maniera a chiarire il
passaggio da un equilibrio di gusti a un altro equilibrio di gusti, o, più
semplicemente, da un gusto all altro. Inoltre, anche quando il
rappor¬ to lo si supponga puntualizzato in una data scelta, esso non
può tradursi in un’eguaglianza quantita¬ tiva se non attraverso Tarhitrio
dello scienziato, per- che di fatto l’ofelìmità dei diversi beni non è
con¬ frontabile dal soggetto, se per definizione questo si intenda
dominato da una mera molteplicità di gu¬ sti. Per dosare un gusto e il
bene atto a soddisfarlo è necessario rendersi conto di rapporti logici
deter- v-u L V n S Ca de “ dlst,nzi .°. ne è stala da noi fatta nel
saggio Tr ' r ?oi°n P * j 610 ’ m L, ‘ crltlca dell’economia liberale,
Milano, re\es, Ì9ó0. Ad essa quindi rimandiamo il lettore che volesse
ap¬ pio on ire. la questione: qui ci limitiamo a presupporla e
inten¬ tino insistere invece sui criteri ricostruitivi cui essa dà luogo.*
- — 66 — minabili con criteri che non possono ridursi al gu¬ sto
stesso: in guanto semplici gusti, il gusto di un profumo e quello di un
colore non sono confron¬ tabili. E fin qui è arrivato lo stesso
Pareto. Se oggi vado al mercato e acquisto una deter¬ minata quantità
di beni, in tanto posso far questo consapevolmente in quanto pongo un
ordine nei miei gusti, e li determino e li graduo in una visione complessiva
della mia vita. Così non mi abbando¬ nerò al primo capriccio cbe ini verrà
in mente e non esaurirò il imo avere nella soddisfazione del primo
bisogno apparentemente imperioso, ma va¬ glierò 1 oggi e il domani, i
bisogni che mi è lecito soddisfare e quelli al cui appagamento debbo
ri¬ nunziare, i capricci e i doveri, e insomm 3 mi spie¬ gherò la
ragione dei miei gusti e agirò con la coe¬ renza logica che avrò saputo
raggiungere. Sarà buo¬ na o cattiva la mia logica, ma pensare che i
miei gusti possano guidarmi a caso, senza alcuna logica che li leghi,
è pensare l’assurdo. Ma dire logica, significa già dire soggettività
non immediata né irrelata: significa dire vita unificata e
universale, significa vedere i miei gusti in rela¬ zione con quelli degli
altri cbe con me vivono. Lungi daH’essere inconfrontabile, ogni mio
gusto si spiega soltanto in funzione degli altri miei gusti e dei
gusti degli altri, e nelPintimo della mia co¬scienza è un continuo confronto
attraverso cui i miei gusti sorgono e si modificano. E vado allora
al mercato e compero dei beni economici che servonoper me e per i miei,
perché è anche un mio gusto e un mio bisogno che i miei soddisfino i loro
gusti e i loro bisogni: e la mia scelta economica, allora, sarà
certamente mia e in rapporto aH’ofelimità che — 67 — i diversi Leni
per me rappresentano, ma io non sono più il soggetto che immaginano gli
economisti, chiuso in una sfera assolutamente impenetrabile, bensì un
individuo in rapporto ad altri individui e perciò attore di lina vita
economica che si svolge in virtù di tale rapporto. Se poi cerchiamo di
determi¬ nare meglio la natura del rapporto e di precisarne i limiti,
ci accorgiamo ch’esso non solo lega la mia persona alla mia famiglia, ma
anche agli amici, ai compagni di lavoro, alla classe, al paese e
infine allo Stato in cui la mia vita si disciplina e sì potenzia. Nel
mio agire economico, come in tutto il mio agire, mi propongo, dunque, un
fine che è mio e che risponde ai miei gusti, ma questo fine non è
ar¬ bitrario e si spiega solamente inquadrandolo nella vita dello
Stato; sì che, se altro fosse lo Stato, altre sarebbero le condizioni di
vita in esso esistenti, al¬ tri i gusti dei cittadini e altro, insomma, il
fine che ciascuno di essi potrebbe porsi e in effetto si por¬ rebbe.
Se io non sono un ladro o un farabutto, se cioè il mio agire economico non
ha un valore ne¬ gativo, il fine che io ho in vista deve essere in
ar¬ monia con quello dello Stato, e non perché lo Stato me lo comanda
dall’esterno, ma perché la mia stessa vita individuale non ha significato
senza lo Stato, e tanto più significato ha quanto più con lo Stato
si identifica. Appena l’uomo supera la mera animalità e diffe¬ renzia
i suoi gusti da quelli della fiera, sorgono bi¬ sogni che hanno un’origine
affatto sociale: nessuno dei tanti beni economici che si son venuti
creando nella storia dell’uomo sarebbe stato mai prodotto senza il
fondamento della collaborazione. E collabo- rare vuol dire appunto tendere
a un medesimo fine — 68 — e cioè avere un medesimo gusto e un
medesimo bi- sogno. Se 1 utile economico fosse veramente l’ofeli- mo,
nessun bisogno potrebbe soddisfarsi, che, se mi viene il gusto di avere
un’automobile, h soddisfa¬ zione di esso mi è possibile solo in quanto lo
stesso insogno e stato inteso dalla società in cui vivo e in cm
esistenza delle automobili, perciò, si è resa pos¬ sibile. h S e, al
contrario, l’utilità delle automobili rappresentasse soltanto una mia
particolare ofeli- mita, nessuna forza al mondo potrebbe valere ad
ap- pagare il mio gusto, perché nessuno coìlaborerebbe con me al
raggiungimento del fine propostomi. An¬ che quando da me solo, estraneo a
tutti, mi costruissi un oggetto atto a soddisfare un mio
specialissimo gusto non potrei rinnegare la natura sociale di esso e
porlo m rapporto al giudizio di approvazione o disapprovazione degli altri
individui, che sono sem¬ pre presenti nella mia coscienza di uomo,
nonostante il mio proposito di prescinderne assolutamente. So¬ no
quel che sono in forza del processo storico che m me s individua, e la mia
azione deve avere sem¬ pre il carattere di universalità che è proprio
della stona. Utile e ofelimo coincidono nel modo più ri¬ goroso e 1
illusione della loro differenza può sor¬ gere soltanto considerando
l’aspetto negativo del- I uomo che si oppone alla logica della vita, e
quindi allo Stato che di quella logica è l’espressione con¬ creta. Ma
in quanto si oppone alla logica, l’ofelimo, al solito, non può essere
oggetto di scienza e resta a indicare il limite della scienza come il
limite della vita. L antinomia tra soggettivismo e oggettivismo economico
si risolve negando ogni positività al sog¬ gettivismo che non coincida con
l’oggettivismo, e cioè al procedimento puramente arbitrario e irre- —
69 — lativo dell’individuo. I gusti e i bisogni di cui l’eco¬ nomista
può e deve occuparsi sono quelli cbe si rendono intelligibili nell
organismo della vita sociale e cbe rispondono quindi a finalità
essenzialmente sociali: gli altri non sono veramente gusti né biso¬ gni,
bensì piuttosto manifestazioni patologiche di un attività antisociale e
vanno perciò considerati unicamente da questo punto di vista. Parlare in
un Iratlato di economia dell ofelimo in quanto diverso dall'utile vai
quanto occuparsi del furto o del ri¬ catto come mezzi razionali di
produzione. Risolta l’antinomia tra individuo e Stato, ossia Ira
ofelimo e utile, è possìbile tornare al problema del massimo benessere
senza incontrarsi nelle diffi¬ colta che rendevano assurda ogni soluzione.
Il con¬ cetto stesso di benessere si sposta dalla soddisfazio¬ ne del
gusto immediato a quella di un gusto consa¬ pevole e logicamente
determinato: il benessere non è più in relazione a uno stato naturale cbe
va appa¬ gato per il fatto stesso di essere, ma in relazione a un
fine da raggiungere e da far valere nell’organi- smn della vita statale. È
quindi dallo Stato, e non dall’individuo in quanto concepito senza lo
Stato, cbe occorre prender le mosse per intendere quale significato
possa avere la ricerca del massimo be¬ nessere individuale e sociale. Non
dallo Stato, tut¬ tavia, concepito come somma di individui, bensì dallo
Stato cbe è volontà unica e unica finalità, ogni giorno storicamente
determinata e in continuo pro¬ cesso di superamento. Ma domandarsi
che cosa sia e come si raggiunga il massimo benessere dello Stato vai
dunque quanto chiedersi che cosa sia e come si raggiunga il massi¬ mo
ideale dello Stato stesso: ed è chiaro che a un tale quesito non nuò
seguire che una sola risposta, e cioè che l’ideale di una Nazione è esso
stesso pro¬ cessuale e diventa più grande e più alto via via che 10
si raggiunge, così come il massimo benessere che una Nazione può proporsi
non ha limiti di sorta e s ingigantisce via via che il benessere aumenta.
Se non che non ci si potrebbe arrestare a questa con¬ statazione, che
pur è Tunica logica e incontroverti¬ bile, senza eliminare addirittura il
problema da ri¬ solvere e senza eludere quel tanto di legittimo che pur
si cela nella affannosa ricerca delle vie per rag¬ giungere il massimo
benessere. Occorre, dunque, che quesla stessa constatazione si traduca in
termini di scienza economica, dando una risposta non effimera a un
problema sia pur malamente impostato. Se muoviamo dal concetto dell’unità
dell’orga- nisnio statale, possiamo agevolmente convincerci che 11
valore dei beni economici varia, aumenta, dimi¬ nuisce, o addirittura si
annulla, col variare del fine dello Stato. Se una legge stabilisce l’uso
di una mer¬ ce considerata pressoché inutile fino alla formula¬ zione
della legge stessa, quella merce acquista im¬ provvisamente un valore
economico che nessuno prima si sarebbe mai sognato di attribuirle. È
lo Stato, che con un atto di volontà ha creato un va¬ lore economico,
e conseguentemente ima ricchezza già prima esistente, ma non come
ricchezza. Le quali considerazioni, si badi bene, non hanno una por- 71 tata
ristretta al caso di una legge vera e propria, ché anzi con il termine
legge si vuol significare ogni espressione della vita sociale, sia
cli’essa giunga alla determinatezza di una norma giuridica, sia
ch’essa si limiti alle vaghe linee di una opinione, di un uso, di una
moda, di una convenzione, ecc. Basta assistere a una vendita all’asta per
accorgersi delle vicende, a volte stranissime, dei beni economici: ciò
che un tempo rappresentava un grande valore, è caduto in disuso e buttato
via come cosa inutile, o di nuovo è tornato in gran pregio rispondendo
a diversi bisogni spirituali. Ma è chiaro che questa vicenda non è
l’espressione di un arbitrio indivi¬ duale, sibbene di un processo storico
che ha una logica. Anche la moda più strana e più insulsa non si
afferma se non risponde direttamente o indiret¬ tamente a un’esigenza
dell’epoca e delle particolari condizioni in cui fa la sua apparizione.
Quest’esi¬ genza è appunto la legge che dà vita ai valori eco¬ nomici,
come a tutti i valori della vita, e fa nascere gusti e bisogni che non
sono individuali senza per ciò stesso essere collettivi. Ne deriva che
tutti i beni pennoniici, e quindi la ricchezza di una nazione, sono
concepibili e sono determinabili unicamente in funzione della volontà e
del fine statale. Nulla esiste che sia un bene economico in sé, bene è
solo in quanto tale lo fa essere la volontà dello Stato; e la
ricchezza di una nazione, quindi, può variare e varia in effetti
continuamente, anche senza che muti la quantità dei beni esistenti. Il
che, espresso in al¬ tri termini, vai quanto dire che non esiste una
na¬ zione povera o una nazione ricca in senso assoluto, ma povera o
ricca ogni nazione diventa a seconda del valore attribuito ai Leni ch’essa
possiede o che — 12 — essa è in grado di produrre. In questo senso
ogni nazione può essere ricca, perché la ricchezza di¬ pende
esclusivamente dalla sua volontà. Ora, se si conviene in queste
considerazioni, e in parte almeno di esse convengono, sia pure in¬ direttamente,
molti economisti, il quesito circa la via per raggiungere il massimo
benessere sociale può ricevere una risposta precisa anche dal punto di
vista più particolarmente economico. E la via da seguire è appunto quella
che vien rivelata dalla de¬ terminazione storica dell ideale economico
della nazione: determinazione cui si perviene studiando il problema
economico in rapporto al problema po¬ litico e che si esprime perciò in un
programma non aprioristicamente fissato una volta per sempre, ma in
continuo sviluppo e perfezionamento. Il pro¬ gramma naturalmente si
concreterà in un indirizzo d insieme e in direttive particolari ben
precisate, e tutti i suoi aspetti si integreranno a vicenda in modo sistematico,
sì che le diverse manifestazioni dell’at- tività economica non abbiano a
contrastare tra di loro. E l’indirizzo potrà essere, ad esempio,
preva¬ lentemente agricolo o prevalentemente industriale, tendente
all incremento o alla limitazione demo¬ grafica. favorevole o contrario
all’emigrazione, e via dicendo; tutto in relazione all’avvenire del
paese, alla sua individualità e alle sue condizioni: le quali consentiranno
poi di determinare in qualche manie¬ ra le direttive generali che dovranno
essere seguite nell'attuazione delle tante iniziative della vita
eco¬ nomica e come in ognuna di esse debba aversi sem¬ pre di mira il
fine comune. Si comprenderà, in tal guisa, come e perché siano da
favorirsi certe indu¬ strie e da vincolarsi certe altre, siano da
potenziarsi 73 — al massimo le industrie più specificamente
nazio¬ nali e siano da trascurarsi quelle più rispondenti ai fini e
alle risorse di altri paesi; siano, infine, da crearsi gusti, bisogni
diretti ai beni economici che più conviene produrre. Poiché bisogna ben
convin¬ cersi che il problema del massimo benessere socia¬ le non si
risolve solo creando il modo di soddisfare al massimo i gusti e i bisogni
esistenti, ma soprat¬ tutto modificando, correggendo, creando gusti e
bi¬ sogni in relazione all’ideale economico — ed eco¬ nomico in
quanto politico — della nazione. E si comprende che quest’opera non deve
svolgersi uni¬ camente entro i confini dello Stato, ma divenire il programma
della stessa politica economica interna¬ zionale, che soprattutto
airestero conviene far na¬ scere il gusto di ciò che è prodotto
dell’industria na¬ zionale: possibilità questa di cui purtroppo gli
Ita¬ liani hanno parecchi esempi in casa loro, dove tan¬ ti usi
stranieri si son lasciati attecchire e con essi l'importazione di tante
merci che fanno passare in seconda linea le nostre. Né questo solo
aspetto, più propriamente pro¬ duttivo. va considerato del problema, che
anzi ad esso è strettamente collegato quello distributivo, in quanto
in un’economia dinamica — e può esistere un’economia non dinamica? —
ripartizione dei red¬ diti e determinazione della produzione sono
pre¬ cisamente la stessa cosa. È chiaro che in un’econo¬ mia
nazionale ben consapevole la ripartizione dei redditi avverrà favorendo
gli uomini e le industrie la cui attività produttiva sarà più in armonia
con l’ideale economico del paese. Questo ideale deter¬ mina il valore
dei beni e questo stesso ideale deve determinare la scala dei valori
umani, clie sono in — 74 — rapporto con quei beni. Beni e uomini che
ven¬ gono perciò ad acquistare un significato economico solo nel]
organismo statale di cui sono espressioni, e che perciò possono essere
valorizzati davvero solo se nell organismo statale sia chiara la
consapevolez¬ za della loro particolare funzione e la volontà che essa
si adempia nel miglior modo. Se poi, dal problema de] massimo
benessere sociale, passiamo a quello del massimo individuale, la
soluzione ci dovrà apparire logicamente impli¬ cita nel già detto. Sì è
visto che ogni individuo vive la sua vita individuale come vita statale, e
che an¬ che ciò che sembra più proprio della sua persona¬ lità ha un
significato e un valore in quanto è in rap¬ porto con l’organismo sociale.
Ne deriva, dunque, che il fine di ogni individuo — così politico
come economico — non può essere che quello di poten¬ ziare al massimo
la propria personalità in funzione del fine politico ed economico della
nazione. Se sono un buon cittadino, vale a dire se la mia attività non
è antisociale e negativa, il mio massimo ideale è quello di esser degno
della mia nazione e di fare lutto il possibile per esserne degno. La
ricchezza cui tenderò non sarà in antitesi con questo ideale, ma la
consacrazione delFessermi reso degno, più dei non ricchi, della mia
nazione. Se cosi non fosse, tenderei alla ricchezza senza preoccuparmi del
mez¬ zo, vi tenderei soprattutto col furto. Ma se così è, le condizioni
per raggiungere il mio massimo benes¬ sere individuale non possono essere
che due, e cioè in primo luogo la mia decisa volontà di adeguarmi al
fine statale e di contribuire nel modo migliore alla realizzazione di
esso: in secondo luogo, poi, il rico¬ noscimento sociale della mia
attività e il relativo — 75 — compenso proporzionato. Sì che volendo
giungere a una definizione : imissimo benessere dell’individuo è
quello che gli proviene dall adeguazione perfetta del compenso della sua
opera al valore della sua personalità vista in funzione del fine supremo
dello Stato. Se poi volesse conoscersi come e quando il mas¬ simo
benessere individuale possa effettivamente conseguirsi, sarebbe da
osservarsi che, di fatto, esso è sempre raggiunto perché ogni individuo ha
quel che si merita, dato l’ideale consapevole cui è per¬ venuto il
suo Stato, ina che poi non è mai raggiun¬ to una volta per sempre, in
quanto il livello spiri¬ tuale dello Slato è in continuo sviluppo e con
esso la capacità di riconoscere più adeguatamente In¬ pera
dell’individuo. Se, ad esempio, ci proponessi¬ mo il problema di conoscere
se gli attuali stipendi dei professori rispondono al massimo benessere
in¬ dividuale di questi, dovremmo convenire eh essi rispondono
perfettamente alla consapevolezza che lo Stato ha del valore di questa
funzione in rappor¬ to alle altre della vita sociale, ma dovremmo
altresì augurarci, e contribuire con la nostra opera a rag¬ giungere,
la realizzazione di uno Stato, in cui la funzione culturale fosse
maggiormente valorizzata e perciò meglio compensati fossero i professori
a confronto di altre categorie di lavoratori. C’e sem- pre uno St a
to reale e uno S ta to ideale nella 3iaiet - tica della storia, e il p
roblem a del massimo bencs- sere, c osì social e come individuale, d eve
av ere una soluzione che viva in questa dialettica. — 76 — Basta
impostare in tal guisa il problema del massimo benessere per accorgersi
del significato che nella sua soluzione può avere lo Stato
corporativo; il quale si differenzia dallo Stato liberale così co¬ me
dall’economia liberale si differenzia la nuova economia. La soluzione
scientifica non può diffe¬ rire da quella politica perché scienza e
politica non possono essere che le manifestazioni di una stessa vita
spirituale. Allo Stato liberale non poteva ac¬ compagnarsi che l'ideale
scientifico dell’uomo ceco- nomicus, del massimo benessere sociale come
som¬ ma dei massimi individuali, dell’ofelimità che si differenzia
dall’utilità; allo Stato corporativo deve dar significato il principio
dell’identità di individuo e Stato, del massimo benessere sociale come
mas¬ simo benessere nazionale e individuale, deH’utilità che si
identifica con l’ofeìimità. LA LIBERTÀ ECONOMICA 11 problema della
libertà non può avere che un unica soluzione, sia che lo si consideri dal
punto di vista filosofico, politico e giuridico, sia che lo si
traduca in termini di scienza economica. Coloro che parlano della libera
concorrenza come di una ipotesi scientifiea apolitica da porsi accanto
alla opposta ipotesi del regime monopolistico, anch’essa -
apoliticamente considerata, dimostrano soltanto di aver smarrito
completamente la nozione storica dei concetti che adoperano, e soprattutto
dei concetti di individuo, di Stato, di benessere individuale e so¬ ciale,
sui quali la scienza economica deve poggia¬ re come sui suoi fondamenti
primi. Avendo già di essi largamente discusso, basterà farli riaffiorare
nel¬ la determinazione del concetto di libertà, quale può venir dato
dall esame il più immediatamente ade¬ rente alla vita effettiva della
socielà economica. Il modo comune di intendere la libertà è quel¬ lo
individualistico di arbitrio, per cui ogni uomo si considera veramente
libero quando ha la possibi¬ lità di fare lulto ciò che desidera, senza
subordinare o comunque legare la sua volontà a quella di qual- — 78
— siasi altro. Perché ciò sia logicamente possibile è necessario che
1 individuo, per dirla in termini rous- seauiani, sia unità intera e non
unità frazionaria : occorre cioè che egli non faccia parte di un
orga¬ nismo sociale, ma viva allo stato selvaggio, soddi¬ sfacendo da
solo a tutti i suoi bisogni. Ne deriva, dunque, che l’usuale nozione di
libertà si adegua soltanto all idea presociale dell’uomo-fiera. Facciamo
invece il caso di due uomini o di piu uomini che, insoddisfatti dì una
vita puramente animale, decidano — e anche qui restiamo nei ter¬ mini
di Rousseau — di legarsi in società, divider¬ si il lavoro, e migliorare
con l’unione delle forze il tenore della vita. Allora la situazione cambia
ra¬ dicalmente e i collnhnralori debbono anzitutto porsi il fine
comune da raggiungere, a esso subordinando le singole attività. Se prima,
ad esempio, l’uomo svegliandosi al mattino poteva andare a caccia o restare
ili riposo rinunciando per un giorno al cibo, ora, invece, a caccia deve
andarvi in ogni caso, per¬ ché il sistema piu perfezionato di ricerca e
cattu¬ ratone degli animali esige ch’egli sia al suo posto pronto ad
aiutare gli altri individui con i quali si è unito in società. S’egli
restasse a riposare, gli altri dovrebbero rinunziare alla sua
collaborazione, e la società si spezzerebbe, perché il fine comune per
cui si è costituita non potrebbe essere raggiunto. Il pas- saggio
dalla fiera all’uomo implica dunque: 1) la costituzione di un organismo
sociale; 2) la determi¬ nazione di un fine comune; 3) Fideiitità di
questo fine comune con ì fini dei singoli; 4) l’elevazione del fine
comune a legge della società e la subordina¬ zione a essa dei singoli
membri; 5) la conseguente necessità dell’attuazione della legge e la
trasforma- — 79 — zione dell’organismo sociale in Stato; 6)
l’identità del benessere individuale e di quello statale; 7) la rinunzia
definitiva alla libertà intesa come arbìtrio. Si apre a questo punto un
dilemma, al quale non vedo come si possa seriamente sfuggire: o la vita
civile non è conciliabile con la libertà o della libertà occorre formarsi
un concetto che non sia quello di arbitrio individuale. Prima di
risolvere il dilemma, occorre elimi¬ nare ogni dubbio circa la possibilità
di un terzo ter¬ mine. e precisamente di quel terzo termine escogi¬ tato
dalla stessa teoria contrattualistica, secondo cui il necessario vincolo
imposto dalla vita sociale do¬ vrebbe essere il minimo possibile e tale da
lasciare la più ampia sfera all’arbitrio dell’individuo. È que¬ sta
la teoria ebe è a fondamento dello Stato liberale e, secondo essa, l'unico
arbitrio vietato al singolo sarebbe quello dell invadenza nella sfera di
arbi¬ trio degli altri individui: il contenuto sociale o sta¬ tale
sarebbe appunto la garanzia dei particolari ar¬ bitri. Ma e chiaro che
questa teoria, equivocando sui termini di società e Stato, sposta il
problema, ponendolo in termini affatto fantastici: io Stalo vien
concepito come un ente distinto dalla società e la legge è ridotta al
significato formale e negati¬ vo di limite. Se riportiamo, invece, la
questione nei termini concreti dell’agire economico, è facile con¬ vincersi
che la legge non è un limite formale, bensì una esplicita norma di
produzione e di distribuzio¬ ne. che non si esaurisce in un divieto di
sconfina¬ mento. ma impone un determinatissimo lavoro. Se voglio far
parte della società, debbo in modo asso¬ luto occupare il posto che mi
spetta e fare tutto quello che il mio posto esige. Quando sono
entrato — 80 — in società con il mio simile, non Tho fatto per
di¬ videre la mia sfera dalla sua e segnare i confini della mia
proprietà (legge limite, Stato carabiniere, ecc.) ma l'ho fatto per
condurre con esso una vita mi¬ gliore, per produrre più e meglio, per
raggiungere risultati impossibili alle mie sole forze (legge di azione,
Stato etico). Sì che il confine posto tra la pro¬ prietà mia e quello
degli altri non ha neppure esso un valore
négàlivojjfi^pura“difesa''tjrrisTTpi^e^de'- ter ni ina li va-del-campo _in
cui esercitare la mia ope¬ ra di collaborazione: non indica la sfera del
mio arbitrio, ma il mio posto di lavoro. Né quello che io faccio,
vincolato dalla società, può stare comunque accanto ad altro ch’io
fac¬ cia all’infuori di questo vincolo, perché all’infuori del
vincolo io non ho altra realtà oltre quella dell’a¬ nimale, e tutto quanto
daH’aniinale mi distingue ho conquistato nella società, collaborando,
ossia sotto¬ mettendomi alla legge del fine comune. Se oggi v’è apparentemente
la possibilità di separare un’atti¬ vità libera da un’altra obbligatoria,
ciò avviene solo per un equivoco di valutazione, che consiste nel considerare
alcuni elementi sociali scissi dalla vita da cui sono stati originati. Ma,
a guardar bene, biso¬ gna pur convincersi che nulla della nostra
condotta sfugge alla legge della convivenza sociale e che an¬ che
nelle questioni propriamente personali, noi agiamo secondo una volontà
comune, individuale e sociale insieme, in piena identità di termini. Se
mi vesto, posso apparentemente abbigliarmi come mi detta la fantasia,
ma in realtà debbo pur seguire le leggi, gli usi, le tradizioni, il gusto,
ecc., della so¬ cietà in cui vivo; e se, ad esempio, posso mettermi una
cravatta rossa ovvero una grigia, anche questo — 81 — arbitrio non è
un arbitrio, ma un operare entro quel¬ la legge che nell’attuale momento
storico impone varietà di colori nelle cravatte. Questa è la realtà
della vita sociale, e, quanto più progredita e complicata essa diviene,
tanto più ferrea è la disciplina cbe la governa e die deve ren¬ dere
possìbile l’armonia di tanti elementi disparati. Le leggi, i regolamenti,
le mode, gli usi, le conven¬ zioni, gli orari ecc. ecc., investono sempre
più me¬ todicamente tutta la nostra vita quotidiana, da un minimo cbe
è lasciato alle forme rudimentali di vi¬ ta (vita dei campi) a un massimo
elle caratterizza l’azione dei maggiori esponenti della politica,
della cultura, dell’industria e del commercio. Sì che as¬ senza di
arbitrio e massimo di civiltà divengono via via termini equipollenti, e la
vita del più civile uomo di domani non può immaginarsi se non attra¬ verso
un’adeguazione sempre più perfetta della vita e della volonlà del singolo
a quella dello Stato. Ma, dunque, si potrà obiettare dai nostalgici del
liberalismo vecchio stile, la vita deve diventare una schiavitù, un
procedimento meccanico e ineso¬ rabile, al quale non sia possibile
sottrarsi a nessun costo, per rivendicare la spensierata felicità di
chi si leva al mattino arbitro incondizionato della pro¬ pria
giornata? È dunque questa la vera civiltà o non conviene buttar tutto
all’aria e tornare all’imme¬ diatezza della natura? Questione vecchia
cotesta, almeno quanto l’o¬ pera di quel Rousseau cbe ci ha dato In spunto
per discuterla : e, appunto perché vecchia, orinai risolta e
superata, se pur la soluzione non abbia ancora avuto modo di pervenire
agli orecchi degli econo¬ misti. Essi amano indulgere tuttavia al miraggio
di d ■ Spinila — fe¬ lina libertà individualisticamente intesa,
e non si sono neppure domandati se ormai occorra, o se sia comunque
possibile, che la scienza economica dia anch'essa un altro significato al
termine tradiziona¬ le. Poiché di un altro significato deve ben
potersi parlare, dato che al dilemma sopra proposto non si può
rispondere, evidentemente, eoi negare addi¬ rittura la libertà. Notiamo
anzitutto che la libertà dei liberali è. per loro stessa eonfessione, una
libertà a mezzo, la quale lia sempre qualcosa da invidiare alla com¬ pleta
libertà dello stato di natura. A quell’assoluto arbitrio si è dovuto
rinunziare per necessità di vita e per sicurezza reciproca, ma intanto di
una rinun¬ zia pur sempre si tratta, che fa assaporare con vo¬ luttà
quel giorno felice in cui, per il superiore livel¬ lo della comune
moralità, sarà possibile abolire lo Stato e la sua funzione di inutile
gendarme. La li¬ bertà del liberale, dunque, nessuna maggiore pro¬ fondità
e spiritualità acquista con lo svolgersi della storia, che anzi essa ha
lasciato alle sue spalle il pro¬ prio modello perfetto e immodificabile.
Basterebbe questa considerazione per farci diffidare della giu¬ stezza
della comune soluzione del problema: se li¬ bertà è sinonimo di valore, la
sua realtà non può essere che nel suo approfondirsi e
spiritualizzarsi continuo, sì che il suo modello possa brillare
della luce dell’ideale da instaurarsi e non perdersi nel buio della
preistoria. — 83 — La giusta soluzione, dunque, dovrà
ricercarsi nel concetto di una libertà che non si è persa, ma cbe si
deve conquistare; di una libertà non sei- vaggia, ma identificabile
addirittura con la vita ci¬ vile. E la via ci è indicata dalla stessa
ipotesi con¬ trattualistica, da cui volutamente abbiamo preso le mosse
per restare nell’ambito dei problemi cari agli ideologi del liberalismo.
Quando due o più uomini deliberano di unirsi in società per migliorare le
loro condizioni, liberamente si sottopongono alla legge del comune
lavoro, e questa legge diventa, per ciò stesso, il contenuto del loro atto
di libertà. Libertà e legge, lungi dairescludersi, si identificano
senza residui. Ma la loro identificazione, si badi bene, non è
accidentale, bensì essenziale, perché, se contenuto dell atto di libertà
non fosse la legge, la libertà stes¬ sa tornerebbe ad essere arbitrio.
Quel che distingue infatti la liberta dall arbìtrio è appunto
l’univer¬ salità della prima di fronte alla particolarità del se¬ condo:
il selvaggio può agire in un qualsiasi modo; 1 uomo civile, invece, deve
agire secondo una volontà che, pur essendo sua, abbia insieme un valore
uni¬ versale {la legge). Costitutivo, insomma, del nuovo concetto di
li¬ bertà deve essere la sua identificazione con la legge, ossia la
identificazione della volontà particolare con quella universale,
dell’individuo con In Stato. Né si creda che il libero processo secondo
cui gli individui si costituiscono in società si esauri¬ sca
nell’atto della costituzione — il quale anzi non esiste ebe nella fantasia
dei contrattualisti — poiché esso si perpetua in tutta la vita sociale e
ne ca¬ ratterizza ogni momento. La legge cbe lega gli indi¬ vidui nel
comune lavoro non si determina una volta 84 — per sempre
meccanicizzando l’attività da essa rego¬ lata, ma si rinnova continuamente
in virtù della stessa forza d’iniziativa che l’ha fatta sorgere.
Ogni individuo, infatti, è indotto a perfezionare l’organi¬ smo
sociale ed escogita nuovi procedimenti e ricerca nuove vie, sempre
insoddisfatto dei risultati conse¬ guiti e sempre pronto a conseguirne di
nuovi. Ma si comprende che in questo processo ogni iniziativa del
singolo deve inserirsi nel processo unitario della vita sociale: la sua
volontà deve diventare la vo¬ lontà di tutti e la sua libertà di attuarla
deve coin¬ cidere con la legge che ne impone l’attuazione. Che se
l’iniziativa restasse particolare e si giustapponesse a infinite altre
iniziative ancli’esse particolari, tutte si intralcerehbero a vicenda
spezzando l’organismo della socielà e portandolo fatalmente alla
disgrega¬ zione aiomistica. Questa identificazione iniziale e
processuale della volontà e libertà del singolo con l’universa¬ lità
della legge risulta molto evidente dalla consi¬ derazione del
funzionamento di una qualsiasi as¬ sociazione. Anche se prendiamo ad
esempio il caso limite dell’associazione a delinquere, dobbia¬ mo
convenire ch’essa si costituisce con un atto di libertà dei singoli
membri, volonterosi di sottoporsi alla sua disciplina; che i singoli
tendono al benes¬ sere dell’associazione vedendo in esso il proprio; che
ogni particolare iniziativa di un membro è su¬ bordinata all’approvazione
degli altri; e che insom¬ ma l’associazione tanto meglio vive, ed è capace
di conseguire il fine che i singoli si sono proposti nel formarla,
quanto più unitaria è la sua volontà e quanto più rigorosa la sua
disciplina. Ma se dall’e¬ sempio di una singola associazione, passiamo a
quel- 85 — 10 della grande società che è lo Stato, l’evidenza
della identità si attenua, i termini del problema diven¬ gono
indecisi e la questione arbitrariamente si spo¬ sta dando luogo agli
equivoci propri dell’individua¬ lismo liberale. Ogni cittadino nello
Stato, come ogni delinquente nell’associazione di cui abbiamo di¬ scorso,
6arà tanto più degno di appartenere alla so¬ cietà quanto più saprà far
coincidere la sua libera volontà con quella sociale. Che se nel caso del
citta¬ dino par ci sia differenza tra il benessere proprio c quello
dello Stato, la ragione va trovata solo nel fatto che, per la maggiore
estensione e complessità dello Stato rispetto all’associazione a
delinquere, più facilmente il cittadino smarrisce la coscienza
dell’or¬ ganismo e più facilmente è indotto a frodare gli al- Iri
membri della società cui appartiene. Ma per ciò appunto il contrasto tra
le due volontà rappresenta 11 lato negativo e non quello positivo della
vita dello Sfato e tutte le forze debbono essere impegnate a
eliminarlo. Anche nell’associazione a delinquere uno dei membri può
sottrarsi alla disciplina sociale e averne i vantaggi senza gli oneri, ma
egli sarà ap¬ punto il prepotente, l’elemento disgregatore della società
e finirà col fare il danno di essa e quello proprio. In tal guisa
considerata la libertà, si compren¬ de come si sia decisamente sorpassata
l’ambigua so¬ luzione del problema data dal liberalismo. Il citta¬ dino
non si sdoppia più in due attività opposte, nell una delle quali si
conserva la libertà originaria dell' uomo di natura e nell’altra invece si
riconosce Tobbligatorietà della legge: il cittadino è libero in ogni
sua manifestazione a patto che tale libertà sap¬ pia conquistare
dimostrando il valore dei suoi atti e facendo 1 ! perciò riconoscere dalla
società di cui fa parte. La libertà per esser vera deve costare, e
il suo costo è dato appunto dallo sforzo necessario a trasformarla da
volontà particolare in volontà uni¬ versale. Abbiamo ora gli elementi
cbe ci sono indispen¬ sabili per discutere il tormentatissimo problema
del¬ la libera concorrenza e del monopolio. Secondoi termini
tradizionali la libera con¬ correnza si esercita Ira individui cbe cercano
il massimo benessere individuale, senza alcuna preoc¬ cupazione del
fine sociale. L'ideale della perfetta concorrenza è appunto quello dì un
giuoco di for¬ ze individuali autonome, la cui autonomia o irre¬ latività
sia assoluta, 6Ì cbe il fenomeno economico scaturisca dall’incontro
indisciplinato di interessi diversi e opposti. Ogni limite sociale,
ispirato dalla visione di un fine che trascenda quello dell’arbitrio dei
singoli, è considerato come una menomazione della concorrenza e come una
forza antieconomica. Si consacra in tal modo nel campo delFeconomia l’assolutezza
del principio della libertà come arbi¬ trio, cbe aveva dovuto trovare un
limite nel ricono¬ scimento della necessità giuridica dello Stato. Quando
tuttavia da questa concezione ideolo¬ gica ritorniamo all’analisi
dell’effettivo processo del¬ la vita sociale, dobbiamo riconoscere cbe un
tal mo¬ do di intendere l’ideale economico è intimamente incongruente.
Se la società, infatti, è costituita al fine di collaborare, essa implica,
come abbiamo vi- sto, una disciplina comune, una legge che neghi gli arbitri
dei singoli, e cioè i loro interessi individuali in quanto altri da quelli
sociali. Ne viene di conse¬ guenza che o bisogna ripudiare la libera
concorren¬ za come un fenomeno essenzialmente antisociale o bisogna
intenderla e promuoverla in un senso ra¬ dicalmente diverso da quello
comune. Per rendere più evidente la questione sarà opportuno
ritornare un momento all’esempio del- l’associazione a delinquere, e
vedere in questa for¬ ma rudimentale di società il sorgere della
concor¬ renza e il suo adeguarsi al fine unico della colletti¬ vità.
Determinate le mansioni dei sìngoli membri, a qualcuno di essi può
sembrare dì avere attitudini speciali per un compito assegnato a un altro.
In tal caso egli fa la proposta di mettere a confronto le due
capacità e di decidere chi dei due debba essere adibito a quel compito o
anche se debbano esservi dedicati entrambi. Si inizia così nell’ambito
della società un fenomeno di concorrenza, ma esso ha il peculiare
carattere di essere voluto dalla società stessa e per un fine sociale:
volontà e finalità che ne costituiscono l’intima legge e l’unica ragion
d’es¬ sere. Lungi dall’affermarsi come un contrasto di in¬ teressi
particolari, esso si realizza e sì giustifica in virtù del criterio
fondamentale della società, per il quale ogni atto dei singoli membri è
integralmente libero e insieme integralmente necessitato. Né diverso
deve apparire l’opposto caso del monopolio, che, secondo l’interpretazione
corrente, rappresenterebbe l’antitesi netta della libera con¬ correnza,
perché toglierebbe ai singoli la libertà di far valere i propri interessi
particolari. Ritornando anche qui all’esempio dell’associazione a
delinquere, è facile dimostrare che, quando uno dei suoi com¬ ponenti
abbia rivelato qualità speciali per Tadempi- mento di una funzione,
l’attribuirgliene il mono¬ polio è atto libero di tutti, e, né più né meno
della libera concorrenza, fondato sulla comune volon¬ tà. Libera
concorrenza e monopolio, dunque, visti nella loro effettiva origine e
giustificazione, si ri¬ velano dotati della stessa libertà e della stessa
neces¬ sità, e nessun elemento essenziale può comunque ca¬ ratterizzarne
una differenza logica. La molteplicità dei concorrenti nell’un caso e
l’unità del monopoli¬ sta nell’altro sono affatto apparenti, poiché la
vo¬ lontà che agisce in entrambi i casi è quella di tutti, e identici
ne sono gli effetti. Questa tesi, teoricamente ineccepibile, può ap¬ parire
smentita dalla realtà della vita economica, in cui concorrenza e monopolio
troppo evidente¬ mente si differenziano nei caratteri costitutivi e
nel¬ le conseguenze immediate. È esperienza molto ele¬ mentare quella
che ci insegna il diverso determinar¬ si dei prezzi nei due casi, né alcun
ragionamento potrà mai riuscire a convincerci che si tratti di un unico
processo. Bisogna trovar, dunque, la ragione della differenza e vedere in
che modo essa possa conciliarsi con i risultali cui siamo pervenuti. Caratteristica
della libera concorrenza è l’ar¬ bitrio dei singoli non vincolati da
alcuna necessità, caratteristica del monopolio la necessità
eliminatri- ce di ogni libero procedimento : due fenomeni op¬ posti,
entrambi in antitesi con il carattere fondamen¬ tale della società, quale
è stato fin qui chiarito. Il che può subito farci avvertiti che i due
fenomeni, in quanto si differenziano, non rispondono al regolare effettuarsi
della vita sociale, ma ne rappresentano — 89 — la radicale
alterazione e trasformazione. Libera concorrenza e monopolio sono i casi
limiti, patolo¬ gici e assurdi, della normale vita economica
caratte¬ rizzata dairidentificazione della libertà e della legge. La
prova più evidente della contraddittorietà e anormalità dei due fenomeni
opposti può esserci data dalla constatazione della impossibilità di
una loro effettuazione integrale. Anche il liberista più convinto è
oggi d accordo nel ritenere che una vera libera concorrenza non è mai
esistita né potrà mai esistere e, anche guardando ad essa come al
perfetto ideale, egli si arresta alla solita soluzione a mezzo del
liberalismo politico, che in tal guisa riaffiora in economia attraverso
questo riconoscimento di fatto : è tutto il mondo della necessità che
grava suH’arbi- trio dei singoli e finisce col distruggerlo o con
Tele- vario alla vera libertà. Né altrimenti avviene per il monopolio,
costretto sempre a far i conti con una concorrenza potenziale, sempre
limitato dalla for¬ za della legge o dalla pressione delTopinione
pubbli¬ ca, spesso evitato per vie traverse o collaterali. È la realtà
effettiva che reagisce sulle sue deformazioni e lentamente o violentemente
finisce con Taverne ragione. I$|W La libertà economica, dunque, non
può conce¬ pirsi se non come la perentoria negazione degli op¬ posti
arbitri rappresentati dalla libera concorrenza e dal monopolio, ovvero
dalTanarcbia e dalla tiran¬ nia economica. E basta porre in questi termini
rigo¬ rosi il problema per comprendere tutta la vanità de¬ gli sforzi
compiuti dagli economisti per riportare i loro teoremi a quelle due
ipotesi scientifiche. Lungi dall’essere scientifiche, quelle ipotesi
esprimono la più radicale istanza antiscientifica e conducono ne- —
90 — cessariamente a una generale, continua miscompren- sione
dell’essenza della vita economica. Né vale op¬ porre che tali ipotesi sono
soltanto schemi irreali ed astratti, ai quali lo scienziato perviene per
intende¬ re fenomeni economici in prima approssimazione: ciò che a
quegli schemi si rimprovera non è l’astrat¬ tezza, bensì la netta
opposizione alla realtà effettiva dei fenomeni economici sociali, i quali
si svolgono normalmente fuori di quelle ipotesi e vi tendono solo in
quanto degenerane*. Perché la scienza econo¬ mica possa darci il tipo
astratto del fenomeno eco¬ nomico occorre che abbandoni decisamente la
via finora percorsa e, al di sopra dei concetti negativi dj libera
concorrenza e monopalio, ponga quello evi¬ dentissimo e concretissimo di
collaborazione , Resta ora da esaminare come l’ideale della vera libertà
economica debba intendersi nelle sue deter¬ minazioni pratiche e quale via
debba seguirsi per la sua più profonda attuazione. Se il nuovo
concet¬ to è fondato stili identità di liberta e di legge, è chia¬ ro
che instaurare una maggiore libertà economica vuol dire rendere sempre più
rigorosa tale identità e cioè considerare 1 individuo sempre più
identico allo Stato, così nei fini della vita come nei mezzi per raggiungerli.
L ideale della vita economica e di quel¬ la sociale in genere dovrà
condurre a una lotta più consapevole contro tutte le forme dualistiche
ten¬ denti a separare il mondo dell’individuo dalla real¬ tà dello
Stato, e dovrà insemina imporre il capo- — 91 — volgimento delle
ideologie individualistiche del li¬ beralismo politico e del liberismo
economico. Il che nel campo più strettamente economico si traduce nell'istanza
scientifica e pratica di combattere con ogni mezzo 1 individualismo che
ispira il dogma del¬ la libera concorrenza e insieme lo statalismo che
per 10 più è a fondamento delle forme, monopolistiche. Consentire
ancora che gli individui si esauriscano in una lotta destinata al
soddisfacimento di parti¬ colari interessi, e non ricondurre la lotta
stessa ai fini dello Stato, significa indulgere tuttavia alla più immorale
e antieconomica forma di vita politica, riaffermando inconsapevolmente il
trionfo del più egoistico arbitrio. Se lotta deve esserci e rimanere a
fondamento del progresso, occorre ch’essa si im¬ pegni per la conquista di
un più alto fine statale, e sempre con la coscienza di tendere a un
benessere individuale che sia il benessere sociale: non lotta dunque
di individui contro individui per il trionfo degli uni sugli altri, bensì
lotta tra gli individui per 11 trionfo di un unico fine che rappresenti il
massi¬ mo bene di tutti. Non si tratta di eliminare la con¬ correnza,
ma di intenderla nel solo significato giu¬ sto, che è quello
dell’affermazione dell’iniziativa in¬ dividuale nella ricerca del bene
comune. Essa deve svolgersi nello Stato e per lo Stato, con ì limiti,
la disciplina e la volontà dello Stato: la statalità deve costituirne
l’essenza e il fine. Ma se convien combattere l’individualismo tra¬ dizionale
della lihera concorrenza occorre poi eli¬ minare con non minore energia
tutte le forme sta¬ tali che tendono a differenziarsi dagli
individui. Come 1’individiio degenera nell’egoismo, così lo Sta¬ to
degenera nel particolarismo della classe o degli — 92 — uomini
dominanti: allora esso diventa lina forza contro altre forze, un’entità
contro altre entità, e il dualismo di benessere individuale e benessere
sta¬ tale si riafferma come differenza di arbitri e di egoismi. Così
si spiega e si giustifica incontroverti¬ bilmente la critica del
liberalismo alle forme sta¬ tali monopolistiche o comunque di intervento.
Quan¬ do il monopolio, o l’azione economica delloStato, è ispirato da
una volontà trascendente quella dei cittadini, quando lo Stato si
differenzia dalla Na¬ zione e diventa burocrazia o governo o oligarchia
o comunque un ente particolare con volontà autono¬ ma, allora 1
intervento statale è antieconomico e il monopolio distruzione di
ricchezza. All’arbitrio de¬ gli individui abbandonati nella lotta
egoistica si so¬ stituisce l’arbitrio di un governo che impone un
pro¬ prio fine altrettanto egoistico : e in entramhi i casi la
libertà economica è radicalmente legata. Il perfe¬ zionamento della vita
economica non potrà essere che in forme sempre più unitarie di
collaborazione, con il progressivo allargarsi degli organismi
produt¬ tivi e il disciplinarsi delle varie forze nell’unico si¬ stema
statale. Questa è l’intuizione fondamentale dello Stato corporativo,
destinato a realizzare con progressiva consapevolezza la compenetrazione
e identificazione assoluta di individuo e Stato, ossia della volontà
e dell’iniziativa dell’individuo con il fine supremo dello Stato. ECONOMIA
NAZIONALE ED ECONOMIA INTERNAZIONALE La critica dell’econoinia
liberale e la tesi del¬ l’identità di individuo e Stato, che di quella
critica è la inevitabile conclusione, hanno condotto a una impostazione
radicalmente diversa dei problemi tra¬ dizionali. E la differenza
fondamentale va trovata nella sostituzione del concetto di molteplicità di
sog¬ getti economici — gli individui o gli homines (Econo¬ mici,
arbitri del proprio mondo particolare, limita¬ to solo dalle sfere di
arbitrio degli altri individui — con quello di organismo economico unico,
con unica volontà e unico fine, quello statale. Nell’economia liberale
la molteplicità degli individui è sostanziale e costituisce il valore base
della costruzione: l’uni¬ tà del mondo economico risulta solo dalla
giustap¬ posizione e conciliazione estrinseca delle diverse vo¬ lontà
e dei diversi fini. Nell’economia nuova, invece, l’unità dell’organismo
politico è il presupposto im¬ prescindibile, e la molteplicità degli
individui è ri¬ solta in essa senza dualismi di alcuna sorta. Si
nega, cioè, che oltre al fine statale abbia ragion d’essere un
qualsiasi fine economico individuale. Naturai- — 94 — mente questa
differenza teorica tra le due economie ha una conseguenza pratica anchessa
fondamenta¬ le, che può, all ingrosso, determinarsi contrappo¬ nendo
al concetto di concorrenza e di lotta, che do¬ mina la vecchia economia
individualistica, quello di collaborazione e di organizzazione che è
caratteri¬ stico della nuova. La concorrenza e la lotta sono an- ch
essi concetti trasvalutati : non cozzo violento di interessi diversi e
contrastanti, ma sforzo e compe¬ tizione per il miglior raggiungimento
deirinteresse unico. La stessa nozione di equilibrio viene ad
essere intimamente corretta, in quanto non si pensa più ad una
risultante meccanica, ma a un processo in¬ telligentemente voluto e
guidato. Dove i soggetti sono molti, Limita è secondaria e fatale: dove
il soggetto è uno, l’unità è originaria e intelligente. Ma ima grave
obiezione può sollevarsi a que¬ sto punto, ed è stata difatti sollevata a
difesa del¬ l’economia individualistica. Ammesso pure, si dice, che
la concezione unitaria del soggetto economico si dimostri giusta e
irrefutabile, quando si consideri a fondo la realtà di un'economia
nazionale, non per questo il ragionamento può estendersi
all’economia internazionale. Se Stato e individuo si identificano, facendo
con ciò diventare unico il soggetto economi¬ co, resta tuttavia sempre una
molteplicità di stati, che non possono non concepirsi come
molteplicità di soggetti economici. Ne consegue — si conclude perentoriamente
— che, se l’economia individua¬ listica non ha più valore per
lintelligenza dei feno¬ meni economici nell’ambito di una Nazione, essa
è. ciò non ostante, l'unica che ci consenta di compren¬ dere i
fenomeni dell’economia interstatale. Gli sta- I — 95 ti,
infatti, diventano essi individui economici e la toro azione va
considerata alla stessa stregua di quella degli individui dell’economia
liberale, Crite¬ ri fondamentali per l’intelligenza della loro vita
eco- nemica saranno quelli di concorrenza e di lotta : secondaria e
necessaria sarà l'unità della vita econo¬ mica: meccanico e fatale
l’equilibrio delle diverse forze contrastanti. E il ragionamento, a
prima vista, sembra im¬ peccabile, sì da rendere vana o almeno solo
parzial¬ mente valida la tesi dell’idemità di individuo e Sta- to: la
struttura dell'economia liberale e individua¬ listica resta quella che è,
almeno per ciò che riguar¬ da la vita internazionale. Ma fortunatamente il
ra¬ gionamento non resiste a un’indagine più accurata e profonda, e
la stessa critica rivolta all’individuo cittadino finisce per valere per
l’individuo Stato- I economia individualistica non può reggere in
nes¬ sun caso, perché non può reggere il principio natu¬ ralistico su
cui essa è fondata. Per chiarire adeguatamente la questione è ne¬ cessario
approfondire il concetto di Stato e di rap- porto interstatale quale si è
venuto delineando at¬ traverso la speculazione e il diritto pubblico
con¬ temporaneo, Occorre precisare alcuni presupposti teorici c e
servano a illuminare la concreta prassi nella vita economica. Di
organismo economico inteso come unità es¬ senziale, se pur in modo affatto
meccanicistico, si è — % - già parlato dai sociologi, i quali,
muovendo dall’in- dividuo isolato, son passati alle diverse forme
dei gruppi sociali (famiglia, tribù, società, comuni, re¬ gioni.
nazioni, umanità) tutti ponendoli su di un unico piano ed eliminando ogni
differenza qualita¬ tiva tra i gruppi stessi. E si parlato, quindi, di
eco¬ nomia individuale, familiare, nazionale, sociale, mondiale,
ecc., riconoscendo la possibilità di tante economie quante sono le forme
sociali o di un unica economia che tutte le comprenda. Pur ammessa, perciò,
la necessità di considerate i fenomeni eco¬ nomici nell’organismo della
vita sociale, sembrereb¬ be. dal punto di vista della sociologia, affatto
in¬ giustificata Videntificazione di individuo e Stato, e la
riduzione dell’economia a economia statale. Per¬ ché mai arrestarsi o
sollevarsi allo Stato per ricono¬ scervi il fondamento della scienza
economica, se è possibile concepire una vita economica sia di grup¬ pi
inferiori allo Stato sia dell’umanità che gli Stati tutti comprende? L’obiezione,
anche qui, sembra inconfutabile e decisiva ; e finisce per congiungersi
all’altra dell'e- conomia individualistica, in quanto riconosce,
essa pure, la molteplicità degli individui sociali, o come persone
fisiche o come gruppi di persone. Al solito, l’esigenza sociologica
antindividualistica, e perciò antiliberale, è condotta dai suoi
presupposti natu¬ ralistici agli stessi risultati della tesi che vuol
su¬ perare. Ma l’obiezione, anche qui, è destinata a ca¬ dere
definitivamente quando si abbia la forza di sollevarsi a un punto di vista
più alto, dal quale e le persone e gli enti possano essere considerati
nella loro vera essenza unitaria. Unità che non può esser data né
dall’individuo particolare, in quanto uno — 97 — Ira ì tanti, né
dall’umanità, in quanto sommaNi^^ wU tanti, bensì dallo Stato in cui
l’individuo e Fuma- nità acquistano la loro effettiva concretezza. Il
superiore punto di vista nel quale occorre metterci per giungere a questo
risultato è dato dal¬ la concezione storicistica o dialettica della vita
so¬ ciale, per cui allo Stato e soltanto allo Stato è con¬ sentita
quella vera individualità ebe coincide con la vera universalità. E la
ragione è questa: che tut¬ ti gli individui (persone o enti) che sono
nello Sta¬ to, vivono, appunto, nello Stato, e sono perciò in esso
risolti come momenti della sua vita; laddove al di sopra degli stati non
può concepirsi un’umanità che sia organismo unitario (Stato o superstato)
sen¬ za annullare, per ciò stesso, il concetto di Stato. Lo Stato,
infatti, ha questo di caratteristico rispetto a tutte le altre unità
sociali storicamente esistenti: di essere la suprema unità dialettica
della storia, in quanto è unità differenziata rispetto alla
moltepli¬ cità degli stati e non ha al di sopra nessuna unità differenziata.
Lo stato-umanità è una contraddizio¬ ne in termini in quanto unità senza
molteplicità, e perciò unità statica, indifferenziata e
indifferenzia¬ bile, sottratta a ogni dialettica spirituale. Lo
Stato non può essere che unità-molteplicità, ossia vera¬ mente
sovrano, per il fatto di avere una sovranità riconosciuta dagli altri
stati: se non ci fossero gli stati a riconoscere lo Stato, Io Stato non
sarebbe perché non avrebbe coscienza della sua sovranità, non avendo
ragione di essere sovrano. In tanto lo Stato può dettar legge ai
cittadini, in quanto deve fonderli in un unità che viva e si affermi nella
mol- leplicità: che, se questa molteplicità non esistesse, lo Stato
non avrebbe un fine suo, ma vivrebbe per i " ■ Svinilo — 98
— fini degli elementi che lo compongono: non sarebbe perciò sovrano
ma strumento, e la vera sovranità competerebbe agli organismi (persone o
enti) cbe vi¬ vono nello Stato; sollevati al grado di vero indivi¬ duo,
unità-molteplicità, o unità dialettica. Questo primo risultato della
nostra indagine ci consente di rifiutare ristanza sociologica di più
eco¬ nomie sociali, a seconda delia qualità dei gruppi considerati, o
di un’unica economia sociale, coinci¬ dente con l’economia dell’umanità.
La vera unità storicamente concreta è quella dello Stato, e perciò l’economia
scientifica non può essere cbe statale. Ma, se ! istanza sociologica è
superata, non altrettanto sembra quella individualistica, cbe si fonda
appunto sulla molteplicità degli stati. Che, anzi, questa se¬ conda
obiezione pare rafforzata dal riconoscimento esplicito die abbiamo fatto
della molteplicità degli stati, e addirittura del carattere essenziale e
impre¬ scindibile di tale molteplicità. Se non cbe, guardan¬ do più a
fondo, si deve convenire cbe il nostro rico¬ noscimento non può avere lo
stesso significato di quello su cui si fonda l’obiezione
individualistica, per il fatto cbe nel caso nostro si tratta di nna
mol¬ teplicità essenziale soltanto ai fini deirunità. E la unità è lo
Stato, ossia l’individuo concreto, in cui gli stati, in quanto
molteplicità, si risolvono senza residuo. Per intendere con
precisione questo carattere di interiorità degli stati rispetto allo
Stato, occorre m — 99 — ritornare al concetto di sovranità, cui
abbiamo pri¬ ma accennato. Perché lo Stato sia sovrano è neces¬ sario
che tale sovranità sia riconosciuta dai cittadi¬ ni, ma è necessario
insieme che venga riconosciuta dalla molteplicità degli stati. Il che vuol
dire che la sovranità ha due aspetti egualmente impresce- scindibili:
uno interno e 1 altro esterno, rispetto ai cittadini e rispetto agli
stati. E se di fronte ai primi la sovranità si esprime con
ridentificazione dei fini individuali col fine statale, è necessario
che anche di fronte ai secondi la sovranità abbia la stes¬ sa ragion
d’essere. In altri termini, nella vita inter¬ nazionale lo Stato deve
vedere negli stati altrettanti elementi del proprio organismo unitario,
vale a dire altrettanti strumenti del proprio fine. Il che, si badi bene,
non va inteso nel senso assurdo di un nazio¬ nalismo cieco, bensì in un
senso affatto spirituale e perciò il più internazionalistico possibile.
Come i cittadini, invero, sono strumenti dello Stato, non sacrificando
i propri fini particolari a quello dello Stato, bensì riconoscendo che i
primi si identificano col secondo e lottando per un sempre maggior
ri¬ conoscimento di tale identità, così gli stati debhono trovare nel
fine dello Stato gli stessi loro fini par¬ ticolari e dare incremento a
una vita che, se è po¬ tenziamento dello Stato, è, per ciò stesso,
potenzia¬ mento della collaborazione internazionale. Se così non
fosse, se cioè lo Stato non fosse so¬ vrano così verso i cittadini come
verso gli stati, non si avrebbe sovranità di sorta, perché la stessa
sovra¬ nità, esercitata sui cittadini non sarebbe sovra¬ nità, in
quanto necessariamente condizionata dalla realtà degli altri stati. Il che
sanno bene quei giu¬ risti i quali non ammettono che il diritto
interna- — 100 — zionale sia un diritto superstatale, di natura
diversa dal diritto interno. Due modi, insoninia, ni sono di intendere
la vita internazionale: uno, che può dirsi liberale o individualistico,
per cui esistono gli stati nella loro molteplicità atomistica, legati da
un rap¬ porto estrinseco concepito come risultante della coesistenza
degli stati stessi; un altro, invece, che potremmo denominare idealistico
o storicistico, per cui esiste Io Stato nella sua unità assoluta, che
ri¬ solve in sé dialetticamente la molteplicità degli stati, legati
da un rapporto sostanziale e intrinseco che è il fine stesso dello Stato.
Da una parte una vita in¬ ternazionale che è quella che è, bruto incontro
di forze eterogenee e di fini particolari contrastanti; dall’altra un
organismo internazionale che ha un fine consapevole e un unico centro : lo
Stato. Ora, se applichiamo questo concetto dello Stato e della vita
internazionale alla scienza dell’econo- mia, possiamo ripetere in questa
sede la critica già svolta a proposito deireconomia liberale o
indivi¬ dualistica. 0 si accetta la concezione atomistica della vita
internazionale, e allora bisogna riconoscere che una scienza deireconomia
non può esistere, in quan¬ to i fenomeni economici internazionali hanno
la stessa illogicità (itnprevedibililà) dei fenomeni eco¬ nomici
dell’individuo soggettivisticamente inteso e non possono sottrarsi alla
sfera del puro arbitrio ; o, invece, si crede che una scienza
deireconomia possa esistere, e allora bisogna riconoscerne il fon¬ damento
in un organismo intelligibile, che è, così nella vita economica nazionale
come in quella in¬ ternazionale, lo Stato nella sua concretezza
storica e nella sua consapevole attualità. E lo Stato in nes¬ sun
caso può venir superato o sostituito, come prin- 101 — cipio primo
della scienza, senza annullare la scien¬ za stessa nella sua possibilità
teorica e nella sua validità pratica. Ancora una volta l’identità di
in¬ dividuo e Stato segna il punto di arrivo delle scien¬ ze sociali
in genere e deireconomia politica in par¬ ticolare. Risolto il
problema dei rapporti tra economia nazionale ed economia internazionale,
riconducen¬ dolo al più vasto problema del concetto dello Stato, occorre
ora mostrarne le conseguenze più partico¬ larmente economiche e vedere in
quale senso le con¬ clusioni cui finora è pervenuta la scienza
vadano rivedute e corrette. È opportuno anzitutto precisare il
significato che per la scienza tradizionale ha il concetto di eco¬ nomia
interstatale. Purtroppo tale precisazione non può avere che un carattere
tulio negativo, in quanto a rigore per reeonomia classica un problema
eco¬ nomico interslatale non può neppure sussistere. Da¬ to, infatti,
il concetto di homo ce conomicus come presupposto fondamentale della
scienza, tutta l’in¬ dagine si esaurisce in un’economia
individualistica nella quale non v’è posto alcuno per lo Stato.
Quan¬ do lo Stato ha fatto sentire la sua esigenza impre¬ scindibile,
airesigenza stessa si è tentato soddisfare individuando lo Stato in un
ente particolare, con un fine e una vita economica propri, diversi
da quelli degli individui. Ne è derivata, nella migliore delle
ipotesi, una sottoscienza sui generis cui si è dato il nome di scienza
delle finanze. Ma lo Stato vero, quello che si identifica con l’individuo,
e ne costituisce la vita logica, quello non è entrato mai in
questione e i fenomeni economici sono stati stu¬ diali in quanto fenomeni
interindividuali. La vita economica naturale esclude lo Stato e si
esprime tutta nella libera concorrenza delle forze partico¬ lari, sì
che rintervento statale può essere studiato lutt’aì più come causa di
deviazione dal corso na¬ turale, ossia come uno degli ostacoli alla
libera estrinsecazione delle forze in contrasto. E questa conclusione
non varia col passare dall’economia na¬ zionale all’economia
internazionale, per il fatto stes¬ so che lina nazione o uno Stato come
unità econo¬ mica è negato a priori nel modo più categorico. Come
neirambito dello Stato i fenomeni econo¬ mici si svolgono
indipendentemente dallo Stato, così si svolgono pure quelli che si
verificano nel più vasto mercato mondiale. Non sono, infatti, gli
stati che contrattano fra loro, sibbene gli individui o i gruppi di
individui che ne fanno parte, e che agi¬ scono economicamente così quando
si trovano ad appartenere a una stessa nazione, come quando so¬ no
cittadini dì stati diversi. I fenomeni economici che ne risultano sono
precisamente gli stessi, e la scienza non ha ragione di porre un qualsiasi
pro¬ blema al riguardo. Problemi diversi nascono invece quando
tra slato e stato si elevano delle.barriere che distìnguo¬ no il
mercato interno da quello esterno. Sono le barriere doganali, espressioni
tipicamente statali, che alterano tutti gli scambi facendo sorgere,
anche nell’economia classica, la specifica teoria del com¬ mercio
internazionale. Tuttavia bisogna star bene attenti alla natura del
problema, e non credere che 103 la scienza tradizionale abbia con ciò
abbandonato o comunque menomato il presupposto individuali¬ stico. Lo
Stato di cui, anche qui, discorre la teoria, è sempre quello che è oggetto
della scienza delle finanze e cioè un ente a sé con particolari fini e
fun¬ zioni. E la scienza in tanto lo prende in considera¬ zione in
quanto esso fa deviare l'economia naturale dal suo libero corso. Se,
infatti, si analizzano le co¬ muni teorie del commercio internazionale, è
facile avvedersi come tutto il loro contenuto si risolva, per un
verso, in un’istanza negativa, implicita o espli¬ cita, contro
l'intervento degli siati (soppressione delle barriere doganali), e, per un
altro verso, nel¬ l’indagine delle conseguenze che il sussistere
delle barriere doganali ha nell economia degli individui appartenenti
ai diversi stati. In ogni caso si resta ligi al presupposto d eWhomo
ceconomicus , unico centro e ragione della vita economica, e si resta
con¬ seguentemente ligi al vecchio concetto di Stato, in¬ teso come
una superfetazione, sia pur necessaria, e un limite più o meno grave della
libera vita dell’in¬ dividuo. Una vera economia internazionale può
nascere solo col sorgere del concetto di Stato, come organi¬ smo
economico di carattere universale ; lo Stato, cioè, come soggetto
economico in cui si fonde tutta la vita economica dei cittadini. In che
cosa consista la differenza essenziale dei due concetti di Stato nella
concreta prassi economica potrà risultare molto agevolmente da un esempio
notissimo. In Italia si produce meno grano di quel che non si
consumi: non solo, ma io posso trovar convenienza a rinun¬ ziare alla
coltivazione del grano e a importarlo dal- 1 estero. Secondo la dottrina
liberale, della conve- — 104 — nienza economica di produrre grano o
di importar¬ lo, sono giudice assoluto io solo: lo Stato è tenuto a
disinteressarsene completamente. Nel caso di un suo intervento, questo è
dovuto o a ragioni politiche concepite come extraeconomiche o al bisogno
di provvedere, mercé i proventi di un dazio doganale, alle spese
inerenti alle sue peculiari funzioni. 0 un problema politico, dunque, o un
problema di scien¬ za delle finanze: e l’economia scientifica, in
ogni caso, non ne è toccata, racchiusa come essa è nel- Tindagine
dello scambio tra me, produttore e consu¬ matore, e il produttore
straniero. Ma quando lo Stato cessa di essere un ente particolare per
dive¬ nire la stessa nazione nella sua unità, il problema del grano
diventa problema economico solo in quan¬ to problema nazionale. E come
quello del grano 6Ì impostano tanti e tanti problemi — a rigore tutti
i problemi economici — che non hanno significato al¬ cuno per
l’economia fondata sul presupposto del- Vhomo ceconomicus. Che
significato, infatti, posso¬ no avere per una concezione individualistica
pro¬ blemi come quelli della ruralizzazione o industria¬ lizzazione,
dell’incremento demografico, deH’emigra- 5 ) Quando considero la scienza
delle finanze lucri dell'economia politica non intendo parlare di
un'estraneità assoluta, bensì rela¬ tiva al particolare concetto di Stalo
sul quale la scienza delle fi¬ nanze finora è stata costruita. Dato uno
Stalo —- essa dice — else ba particolari funzioni (pubblica sicurezza,
giustizia, esercita, ecc.l, esso deve pur avere un proprio bilancio; e le
sue entrale e le sue spese, come pure la loro influenza sulla vita
economica dei citta¬ dini, devono esser studiate dalla scienza economica:
tuttavia la vita economica dello Stato è altra cosa dalla vita economica
dei citta¬ dini, sì che scienza delle finanze ed economia politica non
coinci¬ dono. Cbi invece crede allo identità di indivìduo e Stato deve
ne¬ cessari ante me intendere tale identità come fondamento di
quella di scienza delle finanze ed economia. Ma sul problema della
riforma della scienza delle finanze avremo modo di tornare in altra
sede. — 105 — zione, ecc.? A ognuno, secondo i suoi gusti e le
sue capacità, risponde Peconomia pura, perché per essa tali problemi
sono tanti quanti gli individui. Ognuno al suo posto secondo il fine unico
dello Stato, ri¬ sponde la nuova economia, perché per essa tali pro¬ blemi
si risolvono in uno solo. E i gusti si educano e le capacità ci creano: sì
che al posto di tanti cen¬ tri economici se ne mette soltanto uno, e
all’incon¬ tro di tanti mondi si sostituisce un organismo con¬ sapevole. Organizzazione:
ecco la grande realtà della vita civile in genere e della economia in
particolare; ma organizzazione vuol dire organismo e l’organismo non
può essere che unico: lo Stato. V’è poi l’organizzazione internazionale e
sem¬ bra vi sia anche un organismo internazionale. E di¬ fatti esso
esiste, ma in un senso diverso da quel che comunemente si crede. Se lo
Stato ha un fine da raggiungere, risolve a suo modo tutti quei pro¬ blemi
economici cui abbiamo prima accennato, ri¬ solvendo la vita economica dei
cittadini in quella della propria unità. Ma è chiaro che il fine non
sa¬ rebbe raggiunto se lo Stato non operasse egualmente con gli
stati, che tutti, direttamente o indirettamen¬ te, entrano in rapporto con
esso. Scendendo anche qui a un esempio concreto, possiamo notare
come l’Italia per industrializzarsi deve importare alcune materie
prime e trovare i mercati di esportazione per i manufatti. 11 che è
possibile solo in quanto altri stati siano disposti a darci quelle e a
comprare questi; vale a dire a divenire strumento di raggiun¬ gimento
del fine che ci proponiamo. Ora, le condi¬ zioni necessarie perché gli
altri diventino mezzi per il nostro fine sono essenzialmente due.
Prima: che il fine che ci proponiamo sia davvero propo¬ sto, e cioè
sia un fine consapevole; seconda: che si abbia la capacità di far divenire
tale fine il fine economico degli altri stati. Perché la prima con¬ dizione
si verifichi è necessario che lo Stato si iden¬ tifichi con l’individuo,
ossia con la nazione, e sia organismo unico, soggetto economico unico.
Perché si verifichi la seconda è necessario che lo Stato si identifichi
con Tumanità, ossia con la vita interna¬ zionale, risolvendo nel proprio
organismo l’organi¬ smo internazionale. La forza dunque che ci può consentire
di raggiungere il nostro fine è forza or¬ ganizzativa di noi e degli
altri, ossia la forza di col¬ laborazione, in cui la lotta e la
concorrenza vengano risolte come momenti dialettici. Vi sono,
infatti, due modi di concepire la lotta e la concorrenza economica — come,
in genere, ogni sorta di lotta —: l’uno per il quale il fine della lotta
è la distruzione dell’avversario, l’altro, invece, per cui il fine è
l’unificazione delle volontà. TI pri¬ mo è puramente negativo e infecondo,
il secondo, momento necessario di ogni sviluppo e progresso. Ora, nel
campo economico internazionale una lotta intesa nel primo senso non
potrebbe avere alcuno scopo intelligibile all’ìnfuori di quello del
distrug¬ gere per il distruggere. E ciò non può lasciar dub¬ bio di
sorta se si pensa che lo stesso effetto della distruzione sarebbe
raggiungihile senza il minimo sforzo chiudendo i confini e facendo
divenire l’eco- nomia nazionale un’economia chiusa. Se i confini restano
aperti, è segno che gli altri stati non sono ostacoli da abbattere, ma
forze da utilizzare, e uti¬ lizzare vuol dire coordinare le proprie forze
per procedere in un’unica direzione. Allora la concor- 107 rema
diventa — così come nel campo nazionale — voluta, disciplinata e
subordinata al fine nazionale da raggiungere: il suo scopo non è più
quello di eliminare delle forze avverse, ma di convertirle a una
funzione che risulti più rispondente ai bisogni dell’organismo. 11 che si
ottiene non lasciando che i concorrenti si urtino a vicenda seguendo i
propri fini particolari, ma regolando la competizione verso la più
opportuna divisione di lavoro. Che le conclusioni, cui siamo pervenuti,
noti siano arbitrarie e utopistiche, lo dimostra, a chiun¬ que abbia
gli occhi per vedere, la trasformazione sempre più rapida del mondo
economico nella di¬ rezione indicata. All’interno il processo di
unifica¬ zione della vita economica ha fatto passi gigante¬ schi e
tutto fa pensare che il cammino sarà an¬ cora più notevole nel prossimo
avvenire. Il concetto di organismo economico va sostituendosi, nella
real¬ tà ancor prima che nella scienza, a quello di indi¬ viduo o di
homo o economicus, tra svalutando soprat¬ tutto i concetti di monopolio e
di libera concorren¬ za. Sul terreno internazionale poi le intese e gli
ac¬ cordi economici sono sempre più frequenti e l’esa¬ sperazione
della lotta doganale va richiamando sem¬ pre più l’attenzione generale
sulla necessità di una organizzazione più salda e profonda delle forze
eco¬ nomiche dei diversi stati. E anche qui la concorren¬ za va di
fatto mutando i caratteri arbitrari di una volta, per rientrare nel
circolo di un sistema dalla — lofi - cui logica unità viene
incanalata e corretta. È una disciplina certamente più ardua e instabile,
data la immensità del mercato e la molteplicità degli ele¬ mentida
controllare, ma solo i ciechi potrebbero negare 1 abisso che corre tra
l’atomismo economico di alcuni decenni fa e l’ingranamento odierno
d’in¬ finiti centri economici in giganteschi organismi a ca¬ rattere
internazionale. Né l’urto e l’esasperazione di tanti nazionalismi sorti o
rafforzati nel dopoguerra riescono ad arrestare questo processo di
collabora¬ zione internazionale, che è, d’altronde, l’unico stru¬ mento
di un nazionalismo non illusorio. L’economia individualistica o liberale
ha fatto il suo tempo e la realtà ce lo insegna additandoci le necessità
della vita economica dentro e fuori i confini. Al dogma del liberismo
e alla fede nella lotta incondizionata degli arbitri dei singoli va
sostituendosi la convin¬ zione critica dell’apriorità dell’organismo
economi¬ co coincidente con la realtà dello Stato. E con la realtà
deve ormai procedere la scienza, che, non avendo più a suo oggetto una
molteplicità caotica e inintelligibile come quella presupposta dal
liberi¬ smo. può cominciare a veder chiaro nella logica del- 1
organismo economico e trovare quei fondamenti sistematici che ha invano
perseguito per due secoli. LIBERISMO E PROTEZIONISMO Dopo aver
precisato il concetto di libertà eco¬ nomica e i rapporti tra economia
nazionale ed eco¬ nomia internazionale è possibile procedere
all’ana¬ lisi della secolare antinomia tra liberismo e prote¬ zionismo.
Nessun problema della scienza economica e stato tanto dibattuto come
questo e l immensa let¬ teratura sull argomento continua di giorno in
gior¬ no ad arricchirsi di nuovi saggi, che sostanzialmente si
esauriscono nella ripetizione dei motivi fonda- mentali addotti dai
fisiocrati in poi in favore del- 1 una o dell altra tesi. Ma, nonostante
tutta questa mole di studi, sta di fatto che l'antinomia è rimasta teoricamente
e praticamente insoluta, sì che liberi¬ sti e protezionisti continuano
tuttavia ad accusarsi a vicenda di sproposilare nel campo scientifico e
di rovinare, in pratica, l’economia della nazione. La soluzione
classica del problema — confor¬ me al motivo fondamentale della scienza
dell’econo¬ mia quale si è venuta configurando dal secolo XVI1T a — è
quella rigorosamente liheristica. Muo¬ vendo dal presupposto del carattere
naturale della vita economica, si è giunti a fil di logica alla
eonclu- sione che. così negli scambi interindividuali come in quelli
internazionali, le varie forze vadano la¬ sciate affatto libere nel loro
giuoco e che il risultato dell’anarchico incontrarsi e scontrarsi sia
quello della loro più perfetta composizione. A tale teoria naturalistica
degli scambi internazionali ha dato poi — come si è detto — nuova forza la
scuola psicolo- gico-matematica, che, giungendo, col Pareto, al con¬ cetto
di ofelimità e frantumando, in tal guisa, il giudizio della economicità
delle azioni nella molte¬ plicità dei soggetti economici postulati, ha
sottratto alla sfera di competenza dello scienziato e a quel¬ la
dell’uomo politico la stessa possibilità di un giu¬ dizio obiettivo di
valore. Intervenire negli scambi non si può perché si ignorano in modo
assoluto le utilità soggettive di coloro che scambiano. L'opposta
tesi protezionistica, invece, non ha mai trovato un fondamento ideologico
così deciso e preciso e, sebbene confortata dal costante esem¬ pio
storico di una politica più o meno antiliberisti- ca, è rimasta nel campo
scientifico in condizioni di evidente inferiorità. Il che spiega come essa
nella maggior parte dei casi non abbia assunto le carat¬ teristiche
di una vera e propria teoria, ma si sia li¬ mitata a contemperare il
rigore della concezione li- beristica, mettendo capo a varie forme
interme¬ die. E il compromesso ha finito, in sostanza, col trionfare
nella letteratura scientifica più recente, sia per l’impossibilità di
eliminare in modo assolu¬ to i motivi della tesi protezionistica, sia per
la sem¬ pre maggiore coscienza storicistica dei cultori del¬ l’economia,
costretti, volenti o nolenti, ad avvici¬ narsi alle nuove concezioni
speculative. I tentativi di conciliazione si possono raggrup- — Ili
— pare intorno a due tipi principali. Gli ortodossi bau- no mantenuto
fede al postulato Veristico limitali- dosi a confinarlo nel campo della
così detta econo¬ mia pura. Da un punto di vista astrattamente eco¬ nomico,
essi dicono, resta incontrovertibile che ogni dazio protettore distrugge
ricchezza: ciò non vuol dire, tuttavia, che in pratica sia da eliminare
sem¬ pre e dovunque ogni sorta di barriere doganali; possono esservi,
infatti, altre ragioni di carattere politico che consiglino l’intervento
protettivo non ostante il danno economico da esso prodotto. Ma accanto
agli ortodossi vi sono ormai parecchi esem¬ pi di economisti che, nello
stesso ambito dell’eco¬ nomia pura, ammettono la possibilità di un
dazio proficuo. Secondo essi, l'economia pura non può stabilire a
priori se un dazio sia economicamente vantaggioso o dannoso: in certi casi
la protezione, lungi dal distruggere ricchezza, è condizione neces¬ saria
per il suo accrescimento. A chi, direttamente o indirettamente, segua
le tracce della vecchia economia sembra verità di ca¬ rattere
addirittura lapalissiano che con le soluzioni del problema ora prospettate
si siano esaurite tutte le alternative possibili. 0 liberismo, o
protezioni¬ smo o forme intermedie di compromesso: e la ve¬ nta va
cercata eliminando due di queste soluzioni. Ma chi ormai ci ha seguito
nella critica della scien¬ za economica e nella riduzione dei diversi
indi¬ rizzi a quello classico liberale, può agevolmente 112 rendesi
conto dell’impossibilità di giungere a un risultato davvero conclusivo
accettando i termini della questione e limitando l’indagine a una
sem¬ plice scelta. Se il problema ha messo capo a queste tre
alternative e fra di esse si è dibattuto per due secoli, è segno cb'esso è
rimasto aderente a una de¬ terminala concezione scientifica e cbe è vano
ten¬ tare ancora di risolvere l’antinomia, senza superare quella
concezione e porre la questione in termini affatto diversi. Ma perché il
superamento non sia illusorio e perché l’antinomia appaia nella sua
as¬ soluta irriducibilità, è necessario anzitutto chiarire la
sostanziale identità dei due termini opposti. Oc¬ corre, in altre parole,
dimostrare che liberismo e protezionismo non sono due soluzioni cbe si
ripor¬ tano a due diverse concezioni della vita economica, sì che
l’errore dell'uno possa significare o per lo meno possa non escludere la
verità dell'altro, ben¬ sì che l’uno e l’altro scaturiscono da uno stesso
prin¬ cipio informatore e rappresentano Tantinomia in¬ terna di esso.
L’errore dell’uno è lo stesso errore dell'altro, ed entrambi si spiegano
con l’errore del principio di cui sono espressioni. Il principio,
s’intende, è quello solito dell’in¬ dividualismo economico. Si parte dal
presupposto che le forze reali siano gli indivìdui nella loro au¬ tonomia
e si pretende ch’essi soddisfino i loro bi¬ sogni nel libero giuoco della
concorrenza, Nel caos in cui si scontrano le infinite forze individuali
ognu¬ na salvaguarda come può i propri interessi e cerca di trarre il
massimo profitto possibile. Così come per la naturalistica legge della
selezione, i migliori si affermano e trionfano, i peggiori sono
travolti e soccombono: né mai altro equilibrio o compo- - 113 — sizione
delle forze si instaura che non sia quello de¬ rivante dall urto
disorganico e disordinato. Ora, in questa concezione liberistiea o
individualistica del- 1 economia, la teoria protezionistica, se appare
co¬ me una contraddizione alle leggi di natura e però sostanzialmente
illogica dal punto di vista scienti¬ fico ortodosso, è tuttavia escogitata
per servire allo stesso sistema della concorrenza di cui apparente¬ mente
è la negazione. Quando un’industria chiede un dazio protettore lo faesclusivamente
per vince¬ re la concorrenza, e il dazio si risolve in un aiuto a una
delle forze concorrenti e non in una forza eli- minatrice della
concorrenza. Anche nel caso di un dazia proibitivo il fine ultimo è quello
dì spostare e non di eliminare la concorrenza: i dazi, insonuna, non
sono che altrettante forze gettate sul mercato per meglio resistere allumo
e vincere nella lotta. Ma, con o senza dazi, la vita economica resta
sem¬ pre quella primitiva o naturale di una bruta molte¬ plicità di
elementi contrastanti. Nel mercato inter¬ nazionale come nel mercato
interno si incontrano soggetti economici diversi, reciprocamente
estranei fino al momento deH’incontro e che dal solo atto deirincontro
debbono trarre norma per l’ulteriore difesa di propri fini particolari.
Ragione della con¬ correnza è quindi il persistere di una
molteplici¬ tà atomistica incapace di unificarsi, e il mercato, che è
appunto la classica espressione delFeeonomia liberista, rappresenta il
campo di lotta di individui (persone o nazioni) fino allora chiusi in
mondi non comunicanti. 8 ■ Ambita — 114 Il carattere
primitivo della vita economica fon¬ data sul principio della concorrenza
(compreso in questo termine l’intervento protezionistico) è do¬ vuto,
dunque, alla sua disorganicità o irrazionalità. Come il liberalismo
politico di cui è la necessaria conseguenza, essa è il punto di partenza
per il cam¬ mino della civiltà e non l’ideale della civiltà stessa. Il
trionfo assoluto della concorrenza, lungi dal rap¬ presentare, come
pensano i liberisti, un ideale da raggiungere allorché sarà superata ogni
sorta di pregiudizi antiscientifici, è soltanto una realtà che si
perde nella notte del primitivo stato di natura, in quello stato
precontrattuale che vagheggiava la mente del ginevrino. Il carattere
irrazionale della vita economica fondata sulla concorrenza e sul
protezionismo è da¬ to appunto dalla irrelatività primitiva degli
uomini e dei paesi, i quali rimangono gli uni fuori degli altri e non
possono o non vogliono fondersi in un organismo unico. Credere che ogni
forza economica possa rimanere autonoma e tuttavia ottenere il mas¬ simo
di utilità possibile nello spontaneo equilibrio di tutte le altre forze,
significa cadere nella più grossolana delle contraddizioni, in quanto si
pre¬ tende far derivare la razionalità da un processo non razionale.
Se razionalità vuol dire universalità, os¬ sia unità di volere e di fine,
è chiaro che il modo migliore di raggiungere il fine non potrà esser
quel¬ lo di ignorarsi reciprocamente e di procedere per vie diverse.
La scienza deH’economia che finora ha — 115 — teorizzato la libera
concorrenza o la protezione è caduta in un errore che ha tutto
compromesso.’in quanto ha cercato di dare le leggi di ciò che è ex ege..
e ha lasciato fuori proprio la vita economica razionale. Libera
concorrenza e protezione sono al di qua di ogni norma per il fatto stesso
che sono al di qua di ogni organismo: esse rappresentano rat¬ inino,
la natura, il male, il frammentarismo, la ne¬ gatività, msomma, della
vita; e fare scienza di esse vai quanto fare scienza del caso. La vera
vita eco¬ nomica e quindi la vera scienza può sorgere soltan¬ to
allorché si comincia a uscire comunque dalla ir- relatività e a unificare
i mezzi e i fini da raggiun¬ gere. Se, in apparenza, la vita degli
individui e quella delle nazioni è stata finora denominata dalla concorrenza
e dal protezionismo e tuttavia ha pro¬ ceduto nel cammino della civiltà,
ciò è dovuto in realtà al fatto che, di là da ogni liherismo e
prote¬ zionismo, si è andata sempre più affermando una intesa e una
collaborazione di forze completamente sfuggita alla miopia degli
scienziati. Accordo, collaborazione, organismo: ecco ì termini del
problema, una volta superato il pre¬ supposto irrazionale
deH’individualisnio. E tanto più è necessario porsi per questa via quanto
mag¬ giore è lo sviluppo della vita economica e dei suoi elementi
essenziali. Se, infatti, si resta nei limiti di iorze individuali o quasi,
la cieca competizione dà luogo a danni meno appariscenti e profondi:
ma quando, come nella vita contemporanea, gli orga¬ nismi economici
sono diventati tanto complessi e grandiosi, andare avanti ignorando quel
che fa¬ ranno gli altri significa esporsi a crolli improvvisi e
spaventevoli. Superate in gran parte nella vita — 116 — economica
interna le forme dell’individualismo e divenute normali le forme delle
società anonime, delle banche, dei trust , ecc., continuare a tener
fe¬ de all’individualismo nei rapporti internazionali di¬ venta
sempre più assurdo e pericoloso. La crisi eco¬ nomica mondiale è
l’espressione più evidente e con¬ vincente di tale assurdo. Dunque:
né liberismo, né protezionismo; nes¬ suna, insomma, di quelle soluzioni
che presuppon¬gono l’autonomia radicale delle forze economiche. Anche qui
l’obiezione più facile sarà quella che deriva da una grossolana ipostasi
della lotta e della dialettica della vita. Ma, anche qui, è facile
rispondere che c’è lot¬ ta e lotta, e che il camminodella civiltà sta
appunto nel rendere sempre più elevata e spirituale la com¬ petizione
e sempre più abnorme ed eccezionale la guerra. E della guerra e non della
competizione han¬ no proprio i caratteri la concorrenza economica e la
protezione, in quanto tendono a sopraffare e non a collahorare con
l’avversario. La competizione che si deve instaurare è quella che ha per
fine l’incie- mento dell’organismo e si svolge quindi nell’ambito deU’organismo,
non quella che ha, invece, per fine l'incremento dell’individuo (persona o
nazione) visto nella sua particolarità irrelata. Dalia tesi teorica è
molto facile scendere alla pratica applicazione nella vita politica. La
realtà urge da tutte le parti e sta già facendo giustizia dei vecchi
dogmatismi scientifici. Dobbiamo renderce- - 117 — ne 9empre più
consapevoli e affrettarne il procedi¬ mento. Le forme concrete di
realizzazione sono na¬ turalmente quelle die tendono all’unificazione
del- 1 organismo economico mondiale. In primo luogo, lo studio
internazionale delle forze economiche dei diversi paesi e delle vie più
adatte alla loro colla¬ borazione e fusione. E, in conseguenza, la
politica degli accordi industriali e commerciali atti a rea¬ lizzare
quella fusione. La traduzione in pratica della tesi non avver¬ rà
tanto facilmente, né mai in forma assoluta. Ma, se questa è la mèta cui
tendere, bisogna die il pe¬ riodo di transizione sia informato alla
coscienza del punto d arrivo. Voglio dire che nell’organizzare l’e¬ conomia
della nazione occorre dalle fin d’ora quella fisionomia che più risponde
alla sua funzione spe¬ cifica nel sistema dell’economia mondiale.
Elimi¬ nando, per quanto è possibile, ogni sterile concor¬ renza,
deve cercarsi un’affermazione dell’industria che assuma un’importanza
essenziale nella vita del nostro e degli altri popoli. 11 nostro orizzonte
deve allargarsi e non si può più pretendere di giovare alla nostra
economia senza con ciò stesso giovare al- 1 economia degli altri. Questa è
la legge di ogni or¬ ganismo e a questa legge deve essere informata
an¬ che la politica economica di un paese che voglia guardare sul
serio all’avvenire. V è, abbiamo detto, una concorrenza superiore a
quella comunemente intesa; ed essa si vince oggi ponendosi all avanguardia
nel processo dell’unifica¬ zione. La grandezza economica di una nazione
si instaura col darle un posto di primo ordine nell’or¬ ganismo
internazionale: chi ha la consapevolezza — Ufi — della via da seguire
può concorrere più decisamen¬ te degli altri alla creazione di un
organismo in cui far valere al massimo le proprie energie. Ma a que¬ st'azione
politica internazionale va accompagnata, s intende, una trasformazione
adeguata della vita interna in modo da porla all’altezza di quella
vita mondiale del cui rinnovamento ci si fa promotori. Per uscire dai
termini generali e scendere al- 1 esempio pratico del nostro Paese, che
dei fonda¬ menti della nuova economia ha tentato prima e più degli
altri una concreta attuazione, è facile preci¬ sare alcune conseguenze
imprescindibili da cui trar¬ re norma per l’avvenire. L’Italia è la prima
na¬ zione — si può aggiungere la Russia, ma per essa dovrebbe farsi
altro discorso — cbe ba proceduto alla formazione di un sistema economico
nazionale, attraverso l’ordinamento corporativo: ma i suoi sforzi,
per quanto innovatori e fecondi, non posso¬ no raggiungere un risultato
decisivo finché il suo sistema rimarrà un centro organizzato in mezzo
a una vita mondiale disorganizzata. La vera vittoria del fascismo o
del corporativismo si avvererà il gior¬ no in cui avremo fascistizzato o
eorporativizzato tutto il mondo. Fino a quel giorno avremo la pos¬ sibilità
di resistere un po’ meglio degli altri ai ma¬ rosi dell’oceano, ma
rimarremo in gran parte in ba¬ lìa di essi. Primo compito, dunque, quello
di per¬ suadere il mondo della verità dell’economia corpo¬ rativa e
di farsi iniziatori di un sistema corporati¬ vo internazionale. Ma questo
fine, a sua volta, im¬ plica la necessità di considerare fin d’ora il
sistema corporativo italiano, non come un sistema a sé, chiuso e
sufficiente nella sua autonomia, bensì co¬ me il sistema in cui si risolve
tutta la vita econo- — 119 — mica mondiale. E alla realtà di questo
più ampio sistema bisogna volgere gli occhi per la soluzione degli
infiniti problemi propri della nostra nazione. Se, per esempio, nella
soluzione del problema del grano consideriamo il sistema economico
na¬ zionale come un sistema chiuso, è chiaro che spin¬ geremo al
massimo la produzione fino al punto da non importare più un quintale
dall’estero; ma se, al contrario, badiamo al sistema corporativo
mon¬ diale, i nostri sforzi tenderanno a raggiungere una produzione
massima per ettaro coltivato, ma insie¬ me a ridurre progressivamente la
superficie colti¬ vata. È evidente che una produzione che per reg¬ gersi
ha bisogno di un dazio di 75 lire a quintale oltre a varie altre
provvidenze legislative, e che non può sperare di modificare sensibilmente
que¬ ste condizioni nell avvenire, deve rappresentare uno stadio
provvisorio nel processo dell’organismo mon¬ diale. Ben diverso è il
problema dell’industria si¬ derurgica e delle industrie meccaniche nella
cui soluzione non si può affatto convenire con i teorici del
liberismo. (Tanto è vero che l'economia corpo-, rativa è di là da ogni
liberismo o protezionismo). Le industrie siderurgiche e meccaniche sono al
fon¬ damento di tutta la più alta industria moderna, e una nazione
che vi rinunci, si suicida. Ma anche qui occorre non perdere d’occhio il
sistema mon¬ diale e quindi indirizzare tali industrie verso quelle forme
superiori in cui il tecnicismo (preparazio¬ ne e ingegno dei dirigenti e
bontà della mano d'o¬ perai diventi fattore di produzione
predominante fino a rendere trascurabile il maggior costo delle materie
prime. — 120 - Alla visione dell’avvenire, verso cui certamen- te
si cammina a gran passi, contrasta la politica dell’oggi con altissime
barriere doganali e con la sfrenata concorrenza. Ma se la logica è
dell’avveni¬ re -— ci dicono ancora gli scettici — intanto come si va
innanzi? Dobbiamo togliere le barriere e dar ra¬ gione ai liberisti,
ovvero dobbiamo elevarne anco¬ ra e difenderci a tutti i costi? La
vita economica sociale, si è detto, è cono¬ scibile scientificamente solo
in quanto razionale e organica. Se il problema resta posto nei
termini consueti della concezione individualistica, nessuna risposta
può darsi ebe abbia valore di norma. Li¬ berismo e protezionismo sono le
soluzioni di uno stato di guerra, di un urto violento e
indisciplinato; e in guerra, si sa, ci si difende come si può. Se un individuo
viene affrontato, deve uccidere o deve corazzarsi? Tutte e due le
soluzioni sono buone, ma certo sarebbe meglio che i due casi fossero
eli¬ minati e ebe gli avversari si dessero la mano, ri¬ solvendo in
modo logico la ragione del contrasto. E così oggi nella vita economica
internazionale: cerchiamo di affrettare il processo di razionalizza¬ zione,
e intanto andiamo avanti con o senza bar¬ riere doganali, secondo
l’urgenza del momento e le particolari condizioni economiche e
politiche. L'ORDINAMENTO CORPORATIVO DELLA NAZIONE E L’INSEGNAMENTO
DELL’ ECONOMIA POLITICA (Lettera operici di Rodolfo Berlini al prof. Ugo
Spirilo) Chiarissimo Professore, Intorno ai problemi dell’Economia
corporativa ai è formala in breve tempo una vasta letteratura, ma di
ca¬ rattere — oom Ella afferma — piuttosto giornalistico, mentre i
tentativi di rigorosa sistemazione scientifica della nuova materia
sarebbero scarsi o poco notevoli. Di tale condizione di cose Ella chiama
responsabili gli eco¬ nomisti della cattedra, i quali evitano di parlare
di quei problemi, considerandoli pertinenti ad un indirizzo an¬ tieconomico
e, per ciò stesso, estraneo alla scienza. Richiesto cortesemente del mio
avviso, non voglio chiudermi in un silenzio che potrebbe essere
interpretato come un adesione al modo di fare e di pensare, da Lei attribuito
ai miei autorevoli eollegbi. Veramente, il mio tacere avrebbe avuto
piuttosto lo scopo di prender tem- po, innanzi di esporre un’opinione
molto radicale, la cui elaborazione non è forse arrivata a termine nel mio
pro¬ prio pensiero. Ma, se non è arrivata a perfetto termine, essa ha
già fatto tal cammino, che il discorrerne non parrà intempestivo o
inopportuno. Le persone di spirito non la troveranno neppure
irritante. Io consento in quasi tulle le riflessioni da Lei svolte —
124 — nell’articolo: «Verso l’Economia corporativa» 11 — ma vado più
diritto alla sede del male. Dico dunque, senza ambagi, che alcuni
economisti fanno dell'Economia teo¬ rica una mezza scienza. Non « mezza »
nel significato po¬ co riguardoso di scienza superficiale, dalle
conclusioni mal cucite alle premesse; ché anzi (io lo riconosco vo¬ lentieri)
da certe cattedre fluiscono ragionamenti, i quali partecipano del rigore
delle matematiche. Dico mezza scienza nel significato dimensivo dei
termini, ossia dot¬ trina che nelle sue premesse fondamentali non ha
gettato il seme diquestioni che pur le appartengono; questioni di
vita della stirpe o di potenza della Nazione; questioni di interventi o
non interventi dei poteri pubblici nei rap¬ porti d’interesse privato;
questioni anche di scuole o di parLiti economico-politici. Certo, ogni
buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni
dedi¬ cate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc.;
ma altro è che ne discorra fuori sistema, per la col¬ tura generale de’
suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse;
ed altro è che ne di¬ scorra, perché così esige lo sviluppo logico degli
enun¬ ciati, previdentemente inseriti in uno schema introdut¬ tivo
della disciplina. Ora, il problema dell’ordinamento corporativo, al pari
di altri consimili, non è discusso affatto (a quanto sembra) o è discusso
« fuori sistema » a titolo semplice¬ mente informativo. Esso appartiene
alla... seconda metà della scienza — quella che non s’insegna come
scienza, ma piuttosto come storia — e invano ne cercheremmo nella
prima metà i cardini d’attacco o i motivi prenio- nilorii. Ciò
dipende anzitutto, a mio avviso, dalla ripugnan¬ za che provano non porhi
economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto
dello Stato, quale fattore della produzione. Tale disposizione d'animo
non si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la
risultante di due fasci di forze componenti : l’attività individuale,
singola o associata, e l’attività dell’organiz- ’) Cfr. La critica
dell'economia liberale. Milano, Treves, 3930, pag. 730. — 125 — zazione
politica, di cui lo Stato è l’espressione suprema. I punti d'applicazione
di queste forze (diciamoli cosi per completare la similitudine coi fatti
della meccanica) son da ricercare nella stessa ricchezza esistente al
momento iniziale del processo — ricchezza in gran parte d’origine ereditaria,
cioè prodotta da anteriori generazioni. Fa della scienza a metà colui che
si ferma alla prima com¬ ponente e tace della seconda o l’assume come «
costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato,
che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla
viabilità, all'istruzione, ecc., e trasfor¬ ma così buona parte della
ricchezza privata in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un
produttore con¬ tinuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere
di stretta complementarità coi beni, servizi e ordinamenti dell’iniziativa
privata. E come questi secondi si svilup¬ pano in quantità e varietà, col
progredire dell incivili¬ mento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi
o dif¬ ferenziati tra gli individui o i gruppi, così i primi, cioè i
loro complementari forniti dallo Stato, non hanno co¬ lonne d’Èrcole che
li fermino ad un punto obbligato. Lo Stato è coevo all’uomo, ché la prima
famiglia umana fu in embrione un impero. I caratteri di necessità e
immanenza, che gli son proprii, non ammettono che si prescinda da esso per
astrazione, come se fosse una circostanza secondaria, accidentale o di
semplice pertur¬ bazione. Basterebbe un momento d’incertezza nella
vita dello Stato per rompere tanti fili nel tessuto della so¬ cietà,
da gettare il disordine in ogni specie di operazioni. Voler vedere in esso
anzitutto un elemento perturbatore dell’attività spontanea dei privati e
dei loro calcoli edo¬ nistici, è generalizzare solo a suo carico difetti
di funzio¬ namento che non sono né più rari, né meno gravi presso i
singoli individui. Si può invece assumere lo Stato come una « costante ))
fin che l’assunto giovi alla soluzione di problemi in prima
approssimazione; ma per conclusioni più aderenti alla realtà è mestieri
rivedere da vicino il valore della costante. E allora si scorge che
costante non è. Lo Stalo è un organismo in evoluzione, ad immagine degli
uomini che lo compongono e soprattutto ad imma¬ gine degli uomini più
rappresentativi di interessi, dì 126 ideali, di temperamenti, che
esercitano una influenza sulla legislazione e si avvicendano al
potere. Qui cessa d’esser valida la similitudine presa dai fatti
della meccanica. Nelle scienze l’uso dei trafilati, che sono spedienti
proprii delle belle lettere, vuoisi fare con cautela e sobrietà. Coloro
invece che vi insistono a fondo, trattando le forze evolutive dell’uomo,
come se fossero le forze rigide della fisica, non scrivono Teconomia
del- 1 homo sapiens, ma dell’uomo-macchina, tutto ruote den¬ tate e
molle di precisione. Può l’eeonomista addurre a sua scusa che Io
studio della componente « Stato » appartiene ad altre discipli¬ ne?
T.’eccezione d’incompetenza sarebbe irricevibile. Ad altre discipline
spetterà di considerare lo Stato ir rela¬ zione ad altri scopi della vita,
che non siano la costitu¬ zione della ricchezza; ma per questo particolare
scopo, che implica la conoscenza di due variabili essenziali e interdipendenti,
l’egoismo individuale e lo spirito di so¬ lidarietà nella sua più
imperativa espressione che è lo Stato, sarebbe strano che il più
interessato ad averla, non la volesse avere che per una delle variabili e
chiamasse « pura « anziché « incompleta » la teorica innalzata su base
siffatta. Ho insistito varie volte su questo punto: non esserci Ira 1
homo oer.onomicus e il cittadino ( civis ) soluzione di continuità. La
moda di oggigiorno è quella di separare una figura dall altra. Ma se c’è
qualità che non si possa isolare dal soggetto dell’Economia politica se
non per un capriccio dialettico, è proprio quella del cittadino. Essa
lo segue come l’ombra il corpo. L’individuo può essere dotto o indotto,
credente o miscredente, originale o imitatore, padre o non padre di
famiglia; ma cittadino lo è sempre. E come tale spiega un'influenza più o
meno grande sulla formazione del costume e su quella del Di¬ ritto.
L’àomo ceconomicus, dunque, inseparato dal cit¬ tadino, è creatore del
Diritto. Ecco scoprirsi alla nostra veduta l’aspetto genuino della
questione. Tutti veniamo al mondo con un patrimonio eredita- — 127
— to, che può variare da zero a qualche miliardo di no¬ stra moneta;
ci presentiamo alla carriera della vita, come ad una gara di corsa,
movendo da posizioni iniziali van¬ taggiose o svantaggiose. La
distribuzione dei corridori in posti di partenza diversamente avanzati
rispetto al tra¬ guardo, non è per anco entrata nelle regole «sportive»
ma certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il pri¬ missimo
capitolo da scrivere in Economia — dopo la de¬ finizione e un po’ di
nomenclatura — dovrebb’essere pro¬ prio quello delle posizioni iniziali
più o meno avanzate (leggasi: distribuzione più o meno equa della
proprietà) che la sorte e la legge ci assegnano al nostro nascete,
per¬ ché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambien¬ te, modi
di sentire riguardo al valore dei beni e dei ser¬ vigi, professioni
preferite, capacità di resistenza nei con¬ tratti, possibilità (grazie al
diritto successorio e al feno¬ meno dell’interesse del capitale) di far
vivere una discen¬ denza « infinita » su una quantità « finita » di
ricchezza. E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo gran parte degli
economisti e l’autore stesso della felice similitudine « posizioni
iniziali » relegare la premessa in capitoli terminali dell’insegnamento o
in separata sede; insom¬ ma, fare dell’Economia teorica una costruzione
senza la chiave di volta, che le è necessaria per reggersi in piedi in
tutta la sua interezza. I fatti dimostrano che l’uomo (chiamisi pure
l’uomo economico) venuto al mondo senza i favori della sorte, cioè in
posizione iniziale svantaggiosa, si industria come cittadino, a
modificarla in meglio per sé o per la sua clas¬ se, influendo, come può,
sulla legislazione; e se ci venne in posizione favorita s’industria, come
cittadino, a con¬ servarla. Le armi a ciò non sono tutte dell’arsenale
eco¬ nomico, perché una delle parti in campo, già per ipo¬ tesi non
ne possiede; se le possedesse in pieno, vorrebbe dire che disuguaglianza
di posizioni non c’è, e non c’è la ragion del contrasto. Le armi, allora,
sono quelle del cit¬ tadino: la scheda elettorale, la lega di resistenza,
lo scio¬ pero, ecc. ; e le chiamo del cittadino, in quanto presup¬ pongono
il riconoscimento di libertà e diritti che a poco a poco fanno mutare ilviso
e l’animo al legislatore. Or si domanda: questo giuoco di azioni e
reazioni potendo — 128 — riuscire pericoloso alla collettività, ossia
agli stessi com¬ battenti e ai semplici spettatori, a chi toccherà di
rego¬ larlo nell interesse della pacìfica collaborazione delle classi?
A chi, se non allo Stato, a cui fanno capo tutti i problemi attinenti alla
coesione sociale? Ed ecco come dalla considerazione del cittadino — qualità
inseparabile dal soggetto dell’Economia politica — arriviamo al
regolamento dei contrasti di classi, come ufficio di competenza dello
Stato. Che il regolamento sia bene o male idealo, che il servizio valga o
non valga quello che costa, sarà questione subordinata da risolvere in
Economia applicata, se l’altra Economia teme di per¬ dere della sua
purezza. Il fatto che il regolamento im¬ plichi un costo, non costituisce
motivo perché si debba riguardarlo come un affare antieconomico ed
estraneo alla scienza. Chi afferma questo, dimentica che i beni, i servizi,
gli ordinamenti che lo Stato crea, non li crea ex nihilo ; il rapporto in
cui stanno coi beni, servizi, ordi¬ namenti prodotti dall’iniziativa
privala è di stretta com¬ plementarità, complementarità ebe deve
intendersi nel duplice rispetto, delle utilità e dei costi. Gli
economisti, che vedono nell'aumento di spese ge¬ nerali delle aziende una
ripercussione, a tutta perdita, dell’assetto corporativo della Nazione, si
mettono da un punto di vista unilaterale, quello degli imprenditori;
ed anche in questo riducono la loro scienza ad una mezza scienza.
L’assetto corporativo fu pensato nell’interesse di ambo le parti:
imprenditori e lavoratori; meglio ancora, fu pensato nell'interesse
generale del paese. La disciplina restituita al lavoro, lo spirito di
concordia che va infor¬ mando ogni giorno più i contratti collettivi e il
valore morale della magistratura che veglia sulla loro osservan¬ za e
sui mutamenti delle condizioni del mercato, sono vantaggi, che non si
misurano in moneta, come non si misurano in moneta quelli di una efficace
organizzazione della giustizia, della sicurezza, dell’istruzione o
della difesa nazionale. Si ripensa forse con nostalgia ad un’economia
pret¬ tamente individualista? Senza dubbio essa, limitando al- 1
estremo le funzioni dello Stato, riduceva al minimum le spese dell’azienda
pubblica e di riflesso alleggeriva il 129 — carico alle private
imprese; ma lasciava esposti ad un maximum di rischio i buoni rapporti
delle classi, Che le poche funzioni attribuite allo Stato erano giusto
quelle desiderate dai cittadini delle posizioni favorite, ai quali faceva
comodo che la macchina collettiva da produrre il diritto e la forza
esecutiva del diritto, lavorasse a con¬ servarle. Ma era inevitabile che
gli altri cittadini rumi¬ nassero a farla lavorare altrimenti, prendendone
in ma¬ no le leve, di forza o di sorpresa. Quindi lotta aperta o insincera
collaborazione di classi. Molti molto si aspettano da un sistema
collettivista. \ogliono, dunque, un maximum di funzioni dello Stato, il
sistema implicando la trasformazione, graduale o di impeto, dei servizi
oggi resi dalla privata proprietà e dalla libera concorrenza in servizi
pubblici. Ma quel ma¬ ximumsiaccompagnerebbe ad un minimum di rendi¬ mento
del lavoro e delle libere iniziative. Tale la previ¬ sione più
ragionevole. D'altronde lo sfruttamento del- 1 uomo per l’uomo, cacciato
dalla porla rientrerebbe dalla finestra, perché esso è un fenomeno
generale, non del- 1 officina soltanto, ma dell’ambiente stesso della
famiglia, di quello delle amicizie, dei partiti politici, ecc.; ha
ra¬ dici nella natura umana. 11 sistema socialistico ne svi¬ lupperebbe
in un senso la fioritura, come il sistema in¬ dividualistico la sviluppava
in un altro senso. L’assetto corporativo nazionale si tiene
egualmente lontano dai due estremi: mira ad attuare un maximum di
rendimento del lavoro con un minimum di attriti fra le classi sociali e di
ritardi per il progresso civile della Na¬ zione. Se non è il sistema
perfetto, è perfettibile. Avrei altro da dire, ma la lettera aperta vuol
essere chiusa. Le sono quasi grato, caro professore, d’avermi indotto
a scriverla. Che, alla mia età, si può anche pro¬ mettere un trattato di
Nuovi principiì, ecc.; ma difficile e mantenere la promessa! Devotissimo
Rodolfo Benini 5 - S m bit* La lettera che precede fu pubblicata in
Nuovi Studi di diritto, economia e politica (1930, fase. 1, pp.
45-50) ed era seguita da un articolo di Massimo Fnvel su L’individuo e lo
Stato nella scienza econo¬ mica (pp. 51-6 7) in cui si discutevano alcune
mie af¬ fermazioni. Al Bellini e al Fovel rispondevo con le pagine
seguenti: LA RIFORMA DELLA SCIENZA ECONOMICA E IL CONCETTO DI
STATO 11 tentativo compiuto da questa rivista per un primo
orientamento nello studio dell’economia corporativa comincia a dare i suoi
frutti, e già si veggono chiarite alcune posizioni fondamentali, che
consentono una certa disciplina nell’ulteriore ricerca. I due scritti
pubblicati in questofascicolo — la lettera aperta del Benini e l’articolo
del Fovel — sono due sintomatici documenti di quella svolta decisiva
nella storia della scienza economica che de¬ ve ormai risultare evidente a
chiunque abbia una mentalità non irretita da pregiudizi dogmatici.
Ma il risultato raggiunto è soprattutto notevole perché il
significato della svolta è stato reso esplicito e ìne- quivocahiìe, ed è
stato posto il criterio fondamen¬ tale per le nuove costruzioni
scientifiche. Si è usciti — ìai insomma dallo stato dì disagio
proprio di chi, pur insofferente del vecchio, non conosce ancora la
nuo¬ va via da intraprendere ; e si è posto un quesito che non può
più restare senza una risposta categorica. Rodolfo Benini, con squisita
ironia e con una critica che va anche al di là delle sue
affermazioni esplicite, ha accusato senz’altro l’economìa teorica di
essere una mezza scienza, e mezza « nel signifi¬ cato dimensivo dei
termini, ossia dottrina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato
il seme di questioni che pur le appartengono; questioni di vita della
stirpe o di potenza della Nazione; que¬ stioni di interventi o non
interventi dei poteri pub¬ blici nei rapporti d’interesse privato;
questioni an¬ che di scuole o di partiti economico-politiei. Certo, ogni
buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni
dedicate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc. ; ma
altro è che ne discorra filari sistema, per la coltura generale de’ suoi
allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed
altro è che ne discorra, perché così esige lo sviluppo logico degli
enunciati, previdentemente inseriti in uno schema introdutti¬ vo
della disciplina ». « Ciò dipende », continua il Benini, « anzitutto dalla
ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro
preli¬ minari scientifici il concetto dello Stato, quale fat¬ tore
della produzione. Tale disposizione d’animo non si giustifica menomamente
». E non si giustifica perché « lo Stato è coevo all’uomo », perché
tra 1 homo (Economicità e il civis non ci può essere so¬ luzione di
continuità, perché infine solo « per un capriccio dialettico » è possibile
isolare la qualità del cittadino dal soggetto dell’economia
politica. — 132 — Né meno categorico è l'atteggiamento del Fo- vel,
il quale prende atto « che la scienza — ripe¬ tiamo ancora: la scienza nel
suo stato più puro — è negativa di fronte alle scelte statali, le
esclude da sé, non le mette neanche, a rigore, nel novero delle
scelte, è, insomma, negativa di fronte allo Stato. Ciò può essere venuto
per le origini antista¬ tali della scienza economica stessa; oppure per
un incolpevole e vergine oblio teorico: oppure insom¬ ma (sia detto
con la massima prudenza) per un er¬ rore, che la ha viziata fin qui.
Lasciamo andare: il nascere del fatto poco ei importa. E ci importa,
in¬ vece, il fatto stesso, che è questo: per la scienza l’ipotesi
statale, o, meglio, lo Stato-ipotesi è (op¬ postamente
aH’individuo-ipotesi) la non economia; e lo è solo, e solo perché la
scelta statale implica per definizione, la non libera scelta individuale
». 11 quesito, dunque, che si pone oggi alla scien¬ za può formularsi
brevemente così : — È lecita ed è scientificamente giustificabile una
costruzione si¬ stematica dell’economia pura che prescinda dal con¬ cetto
dì Stato e dal rapporto tra Stato e individuo? E in caso negativo, in
quale senso tale concetto va introdotto nella scienza e a quali
conseguenze teo¬ riche deve condurre? Questo, il punto di partenza
per un’intelli¬ genza critica dell’economia corporativa, e ci sem¬ bra
ormai che nessuno onestamente possa eludere il problema con una fin de non
recevoir. Finché il corporativismo s’intende come una mera espe¬ rienza
pratica, i puristi possono disinteressarsene, chiusi come sono nel loro
preconcetto dualistico dei rapporti tra scienza e politica, ina quando
esso si traduce in una perentoria istanza teorica, bisogna — 133
— pur decidersi ad accogliere o a respingere critica- mente. E noi ci
auguriamo di avere dall’esperien¬ za dei maestri un valido aiuto
all’attuazionedel no¬ stro programma. Una volta posto il problema in
siffatti termi¬ ni, il primo punto da chiarire e da precisare con¬ cerne,
naturalmente, il significato stesso da attri¬ buirsi al termine Stato e,
correlativamente, al ter¬ mine individuo. E su tale punto conviene
insistere con molta perseveranza, soprattutto perché il con¬ cetto di
Stato sembra a prima vista il più semplice ed evidente che ci sia, sì da
poter su di esso co¬ struire senza preoccupazioni di sorta; ma la
sicu¬ rezza, poi, con cui si procede su tale terreno viene subito a
mancare appena si cessi dal presupporre noto il conceLto e si tenti di
determinarlo effettiva¬ mente. 11 che ci sembra di poter dimostrare alla
lu¬ ce degli stessi scritti sopra accennati. 11 Benini parla dello
Stato, come di chi « prov¬ vede alla difesa nazionale, alla sicurezza,
alla giu¬ stizia, alla viabilità, all’istruzione, ecc. », e altrove osserva
che « il processo della ricchezza è la risul¬ tante di due fasci dì forze
componenti: l’attività individuale, singola o associata, e l’attività
della organizzazione politica, di cui lo Stato è l’espres¬ sione
suprema ». Ora, questo linguaggio implica un dualismo irriducibile di
Stato e individuo, e per quanto il vigile senso di concretezza che
ispi¬ ra il Benini lo conduca a concepire i rapporti di complementarietà
delle due forze nel modo più in- 134 timo e indissolubile, sussiste
tuttavia una radicale contrapposizione di funzioni e di finalità che
com¬ promette il sistema, Tanto è vero che il Benini av¬ verte infine
il bisogno di mettere in guardia contro la tendenza di attribuire « un
maximum di fun¬ zioni [allo] Stato », perché « quel maximum si accompagnerebbe
ad un minimum di rendimento del lavoro e delle libere iniziative ».
L’assetto cor¬ porativo sarebbe ottimo sol perché « si tiene egual¬ mente
lontano dai due estremi ». Inutile dire che la critica contro il
colletti¬ vismo, ripetuta dal Benini e mossa da tutta l’eco¬ nomia
lihcrale a quella socialista, è esatta nella dia¬ gnosi e nella
conclusione, ma occorre tener presente che il socialismo è superato sol
perché è superato il concetto di Stato ch’esso implica, e che è
quello stesso del liberalismo, dal quale non riesce a stac¬ carsi
neppure il Benini. Lo Stato, cioè, è circoscrit¬ to a un ente immaginario,
in limiti imprecisabili, e con personalità essenzialmente distinta da
quella degli individui che lo compongono. Si cambia cioè 10 Stato con
un organo centrale, relativamente estra¬ neo alla vita della nazione e
perciò sopraffattore delle energie individuali. Di quest’organo — che
è poi la burocrazia — a ragione si diffida e giusta¬ mente si
protesta contro l’attribuzione che a esso si voglia fare di un maximum di
funzioni. Ma questo è lo Stato ancien regime, al quale 11 fascismo
deve opporsi con tutte le sue forze, perché essenzialmente contrario al
suo spirito; lo Stato non deve essere, non è, un organo fuori del- Torganismo,
una sovranità opposta ai sudditi, una realtà sui generis diversa dal
cittadino: lo Stato, insomma, non è più quello contro cui insorgeva
il — 135 — secolo elei lumi e che si è trascinato come misero residuo
nella storia del liberalismo. Lo Stato s’iden¬ tifica con l’individuo, in
una sintesi idealmente as¬ soluta, e, di fatto, sempre più realizzabile e
realiz¬ zata. Se noi cercassimo infatti di precisare i confini dello
Stato ci accorgeremmo subito di questo pro¬ gressivo suo immedesimarsi
nella vita della nazione. Dallo Stato alle provincie, ai comuni, agli enti
pa¬ rastatali, agli enti morali è tutto un lento compe¬ netrarsi
della vita pubblica in quella privata, sino all’esperienza rivoluzionaria
del fascismo che, pri¬ ma sul terreno più strettamente politico dell
orga¬ nizzazione del partito , poi, e ben più radicalmente, su quello
dell’organizzazione sindacale, ha posto decisamente l’esigenza di un
combaciamento assolu¬ to della sfera dell’attività statale e di quella
indi¬ viduale. Lo Stato contro il quale nacque il liberali¬ smo è
veramente morto eoi morire dello Stato pro¬ pugnato dallo stesso
liberalismo. E continuare oggi a discutere dello Stato, illudendosi di
poterlo in¬ dividuare entro quei limiti in cui lo si individua¬ va
nel Settecento, significa perpetuare un equivoco di gravissimo pregiudizio
per tutte le scienze so¬ ciali. Il potere dello Stato non ba limiti e
chiunque tentasse di determinarne le funzioni resterebbe fa¬ talmente
a mani vuote: ogni determinazione della sua sfera rispetto agli individui
sarebbe fondamen¬ talmente erronea. Ritornando ora alle
esemplificazioni del Belli¬ ni è facile spostare i termini del problema:
uno Stato comequello concepito dal fascismo, non prov¬ vede soltanto
« alla difesa nazionale, alla sicurez¬ za, alla giustizia, alla viabilità,
all istruzione, ecc. )), ma provvede a tutto perché è immanente a tutto.
Ed — 136 esso perciò non può rappresentarsi come un fascio dii
forze da aggiungersi all’altro delle attività indi¬ viduali, bensì come le
stesse forze individuali nella loro vita solidale. Di quest unica vita
sono manife¬ stazioni tutti i poteri pubblici e privati, centrali e periferici:
e, nel campo economico, il bilancio dello Stato, quello degli enti
pubblici, degli enti para¬ statali e morali, delle organizzazioni di
partito e sindacali, e infine di tutti i cittadini, che tutti nello e
per lo Stato vìvono. Ogni barriera che si volesse porre a un punto della
serie sarebbe affatto arbitra¬ ria e irragionevole. E si comprende,
dunque, come 1 ideale del corporativismo non debba esser quello dì
rimanere egualmente lontano dai due estremi (sopravvento dell’iniziativa
privata o della pubbli¬ ca), bensì di rendere insussistente il problema
eli¬ minando ogni differenza tra l’essenza delle due ini¬ ziative. Certo,
se per Stato s’intende la burocrazia, affi¬ dare ad essa l’economia
nazionale non può non es¬ sere una mostruosa utopia: ma lo sforzo del
fa¬ scismo deve essere appunto quello di sburocratiz¬ zare lo Stato,
elevando ogni cittadino al grado di funzionario pubblico. Il processo di
trasformazione non è dei più facili e dei più rapidi: v’è anzi il
pe¬ ricolo di periodi di transizione in cui il fenomeno burocratico
si aggravi, e dia luogo a nuovi inconve¬ nienti. Si pensi che
l’organizzazione sindacale e cor¬ porativa, prima di aderire in modo
soddisfacente alla realtà, è destinata in gran parte a pesarvi su come
una soprastruttura — vale a dire come una burocrazia. Ma gli ostacoli non
debbono arrestare ilcammino, anzi debbono porre la necessità di ac¬ celerarlo,
sì da superare con energia sufficiente gli inevitabili punti morti. E per
accelerare il ritmo, a me sembra che uno dei mezzi {ondamentali deb¬ ba
essere fornito dalla scienza, la quale deve sgom¬ brare il terreno dai
pregiudizi teorici che arrestano, con la forza della tradizione, la stessa
mano del¬ l’uomo d’azione. L immedesimazione assoluta della vita
dello Stato con quella dell’individuo dà il criterio pre¬ ciso della
riforma della scienza economica, la quale, dunque, non è « mezza scienza
nel significato di- mensivo dei termini )), vale a dire nel senso di
es¬ sersi occupata dell’individuo (una delle componen¬ ti) e non
dello Stato (l’altra componente), ma mez¬ za proprio nel significato
deteriore di scienza fon¬ data su premesse erronee, e propriamente
sull’ipo¬ stasi di un individuo e di uno Stato inconcepibili, o
concepibili soltanto come manifestazioni patolo¬ giche (individuo
anarchico e Stato tiranno). ÀI quale ulteriore concetto sembra
accennare il Fovel nella chiusa del suo articolo quando dice che per
colmare l’iato tra le scelte dette libere del¬ l’individuo e le scelte
dette non libere dello Stato (( si può tentare di mostrare che anche le
sedicenti scelte libere dell’individiio non sono libere, ma eco¬ nomicamente
imperative, quanto quelle statali; e ciò perché sono esattamente
prescritte dalle scelte pure libere degli altri individui, ossia dalla
società economica. Oppure si può tentare di mostrare che anche le
cosidette scelte non libere dello Stato sono libere, né più né meno che le
scelte individuali; - 138 — e questo perché anche le scelte dello
Stato non sono altro, anch’esse, che scelte di individui nella società
economica ». Senonché per il Fovel, Stato e individuo hanno ancora una
loro particolare per¬ sonalità, e lo Stato conserva una fisionomia
cor¬ pulenta, che rende estremamente difficile il processo di
risoluzione della sua autorità nella libertà degli individui e viceversa.
Quando l'iato sarà effettiva¬ mente colmato, il vero concetto di libertà
economica apparirà in tutta la sua luce e le forme stereotipate della
libera concorrenza e del monopolio, che re¬ stano a fondamento della
costruzione del Fovel, si risolveranno in uno schema economico ben
altri¬ mentiadeguatoalla realtà.II SE ESISTA, STORICAMENTE, LA
PRETESA REPU- GNANZA DEGLI ECONOMISTI VERSO IL CON¬ CETTO DELLO STATO
PRODUTTORE Alla lettera sopra riportala del Benini rispose anche L.
Einaudi con il seguente articolo pubbli¬ cato in Nuovi Studi (1930, jasc.
V, pp. 302-314). Caro Renini, 1. Mi è accaduto solo adesao di
leggete, una tua sug¬ gestiva lettera aperta pubblicata nel lasci colo di
gen¬ naio-febbraio di quest’anno dei Nuovi Studi-, suggestiva, perché
costringe a pensare e a dubitare. Le questioni « di interventi o non
interventi dei poteri pubblici nei rapporti d’interesse privato; questioni
anche di scuole o di partiti economico-poi itici », sarebbero di
quelle questioni che dagli economisti sono discusse «fuori si¬ stema
» ; apparterrebbero a quella « seconda metà della scienza, quella che non
s’insegua come scienza, ma piut¬ tosto come storia ed invano ne
cercheremmo nella pri¬ ma metà i cardini d’attacco o i motivi premonitorii
». Quale la spiegazione del fatto? fecondo te, eaao « dipen¬ de
anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere
nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore
della produzione ». E benissimo aggiungi: «Tale disposizione d'animo
non — 140 — si giustifica menomamente. Il processo della
ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti : l’atti¬ vità
individuale, singola o associata, e l’attività dell’or¬ ganizzazione
politica, di cui Io Stato è l’espressione su¬ prema... Fa della scienza a
metà colui che si ferma alla prima componente c tace della seconda o
l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della
sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla
sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all’istruzinne, ccc., e
trasformacosì Intona parte della ricchezza pri¬ vala in potenza collettiva
(che rigenera ricchezza), è un produttore continuo di beni, servizi e
ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni,
ser¬ vizi e ordinamenti dell’iniziativa privata ». 2. Chiudo qui la
citazione, perché, altrimenti, do¬ vrei riprodurre tutta la tua bella
lettera. Né la chiudo, per ridiscutere il problema della parte avuta dallo
Stato nella produzione della ricchezza; ma esclusivamente per porre
un problema di storia: chi sona quei cotali economisti (non pochi, dici
tu, e dal contesto del di¬ scorso sarebbero i più, sicché occorre
affermare con¬ tro di essi, quasi come teoria nuova, la tesi dello
Stato come fattore necessario e inscindibile della produzio¬ ne), M i
quali repugnerebbero ad accogliere nei loro pre- J ) Appunto perché non
intendo menomamente intervenire nella sostanza della discussione aperta
Ira te ed il prol. Spirito : ma soltanto porre un dubbio storico su ehi e
quanti siano coloro ■ quali reputarono alla tesi da te posta, così non
discuto la critica che a queeta tesi muove lo Spirito: implicare dessa,
sebbene mate¬ riata di realtà, un « dualismo irriducibile di Stato ed
individuo » oramai superato dalle nuove concezioni dello Stato, le quali
iden¬ tificano lo Stalo con l’individuo «in una sintesi idealmente
ssso- Ima, e, di latto, sempre più realizzabile e realizzata ». Vero è
che, incidentalmente, lo Spirito afferma ebe il suo dualismo è
implicito nel « linguaggio a da le adoperalo. Il che porterebbe a
chiedersi se, per avventura, non si traiti di un contrasto — Ira la tua
(e quindi fra quella degli economisti ebe io tento di dimostrare
essere identica alla tua) e la tesi dello Spirito — più di linguaggio —
di terminologia, che di parole. Se io possedessi la meravigliosa
facoltà «he in sommo grado aveva il compianto amico Vadali di
tradurre una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello
algebrico, da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla
termino- — 141 — limiaari scientifici il concetto Hello Stato come
fattore della produzione? La domanda non è impertinente. È rosi
suprema¬ mente difficile sapere chi, in economia, ha detto o non detto
qualcosa, ei è dichiarato fautore od avversario di un certo indirizzo, o
teoria, soxT-attutto è cosìstraordi¬ nariamente difficile riprodurre,
anche usando il massi¬ mo scrupolo, esattamente il pensiero altrui che
forse, penso, sarehhe opportuno non citare mai nessuno e non attribuire
ad altri, neppur ricordati genericamente, un qualunque pensiero. 3.
La mia impressione è che di codesti negatori o dimentichi dello Stato, non
ce ne siano oggi e non ce ne siano stati mai tra gli economisti. Non
bisogna scam¬ biare per negazione o repugnanza atteggiamenti men¬ tali
profondamente diversi. Se l’economista intendeva compiere una ricerca del
tipo che diceBi « astratto » — ed i classici conseguirono i loro maggiori
successi per tal via — era ovvio ragionassero sulla base di premesse semplici,
ridotte talvolta ad una sola, e giungessero a conseguenze vere nell’ambito
delle premesse fatte. Se tra le premesse non aveva luogo lo Stato, sarehhe
illo¬ gico tuttavia affermare che essi lo negassero o vi repu¬ gnassero.
Anzi, il loro stesso procedimento logico di- logia economico pura
normativa in quella applicala precettistica, potrei tentare di ritradurre
la pagina dello Spirilo nella formuli- allea tua, orna economialica
classica. Sarebbe un esercizio feconda, simile a quelli di cui racconta
Loria, da lui intrapresi in gioventù; di RBporre 6uccessivamenie una data
dimostrazione economica prima in linguaggio di Adamo Smith, e poi di
Ritardo e quindi di Mar», di Stuart Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi
che vanno, come fa¬ ceva Loria, dopo fatti, ripoBti nel cassetto. Giovano
ad ingegnate la umilio ad ognuno di noi, quando per un momento ci
illudiamo dì aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questo novità
poteva essere stala delta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero
dei vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel
pensiero. Ma non posaono né devono impedire cheogni generazione usi
quel linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e
d’inlen- dere il mondo. Si riscrive la Binria ; perché non si dovrebbe
riscri¬ vere la scienza economica, prima in termini di costo di
produzione, e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di
equilibrio dinamico? — 142 — mostrava che essi affermavano la
esistenza dei fattori esclusi e riservavano ad allra indagine il tenerne
conto. Si può criticare il metodo, si può cercare di dimostrare che
con quel metodo non si può giungere alla scoperta della verità; non si può
tuttavia dire, senza offesa alia verità storica, che a causa della
adozione di quel me¬ todo essi negassero la esistenza dei fattori da eui
in prima approssimazione astraevano. Tanto poco negava¬ no o
repugnavano che, per lo più, quando esei dall’in¬ dagine astratta si
voltavano alla concreta, dalla costru¬ zione di schemi ipotetici passavano
allo studio dei pro¬ blemi reali, ossia complessi e vivi, essi per lo piò
face¬ vano nelle loro discussioni gran parte allo Stato. 4, Si può
ammettere, sebbene storicamente si deb¬ ba andare assai guardinghi nel
fare affermazioni ge¬ nerali in proposito, che gli economisti, a partire
dai membri della « setta » fisiocratica, attraverso allo Smith sino
allo Stuart Mill non compreso (e cioè gros¬ so modo, dal 1750 al 1850),
siano stati contrari all’inter¬ vento dello Stato e favorevoli al laissez
faire, laisser passar. Ma fu già dimostrato (c(t., per le fonti, una
mia recensione del libretto The end oj laissez-faire del Kev- nee, in
La Riforma Sociale, 1926, p, 750 e eegg.) che sif¬ fatta contrarietà non
era teorica, ma puramente contin¬ gente. l 'avversione all’intervento
dello Stato non ave¬ va cioè alcuna connessione logica necessaria coi
postu¬ lati fondamentali della dottrina economica, non faceva corpo,
come dici tu, con i cardini d’attacco della scien¬ za; ma discendeva da
ragioni contingenti. L’osservazio¬ ne degli effetti dannosi delle vecchie
corporazioni d’arti e mestieri, e del vincolismo economico e doganale
spie¬ gano abbastanza il liberalismo di Adamo Smith e dei classici.
Dopo le ricerche di Nicholson in A Project oj empire (di cui il concetto
dominante è che per lo Smith la considerazione delTacquisto della
ricchezza deve ce¬ dere dinnanzi aquella della difesa ossia della
grandezza dello Stato: de.je.nce is oj much more impor lance than opulence)-,
dopo Laureo libretto dello Schùller, Les éco- nomistes classiqu.es et
leurs adversaires fin cui viene di¬ mostrato, testi alla mano, che la
accusa rivolta agli eco- — 143 — Doratati di avere creato un
fantoccio (il eosidetto homo rp.conomicus] avulso dai luoghi, dai tempi,
dalla storia, c di aver dato ad un puro strumento di indagine figura di
realtà concreta o storica, è una invenzione gratuita dei loro avversari
socialisti, socialisti della cattedra, eco¬ nomisti storicisti, ecc.
eec.], non è più lecito attenersi ad una tesi dimostrata. all’iiifuori di
ogni dubbio, contraria alla verità storica. Quegli stessi economisti, i
quali affer¬ mavano i danni di certe determinate maniere di inter¬ vento
dello Stato reputate feconde di male, altrettanto recisamente affermavano
la necessità rii quell’azione (« azione » e non « intervento », ae la
parola intervento implica il concetto che lo Stato si immischi sempre
in cose non sue] nelle maniere che reputavano più con¬ facenti
all’indole dello Stato e più vantaggiose alla col¬ lettività. 5.
S'intende che sempre, prima e dopo il 1850, fu d’uopo non occuparsi degli
imitatori, dei pedissequi, dei sicofanti i quali colgono a volo le idee
che corrano nel¬ l’aria ed impasticciando scienza e pratica, un po’ di
sen¬ so comune e molti pregiudizi correnti, si gittano dalla parte
che è alla moda e dimentichi oggi di quel che avevano asseverato ieri,
oggi sono liberisti e domani, in¬ differentemente, interventisti. Costoro
non sono scien¬ tificamente nulla, sebbene siano i maggiori
fabbricanti di scuole, di conventicole protezioniste, interveniste,
li- beriste, cattedratiche e delle vane ingiurie che i rispet¬ tivi
adepti ai scagliano l’un l'altro. 6. Dopo il 1850, la caratteristica
fondamentale del pensiero degli economisti in questo particolare
campo (naturalmente essi si occuparono sovratutto di problemi più
difficili, che dai laici sono detti, per dispregio, tecni¬ ci e che sono e
probabilmente sempre saranno i proble¬ mi economici specifici) è stato un
approfondimento vie maggiore del problema dei rapporti fra Stato,
indivi¬ duo, società, gruppi sociali. Da Stuart Mill a Marshall, da
Marshall a Pigoli è tutta una indagine minuta e deli¬ cata, la quale
talvolta diventa un ricamo tenuissimo, ri¬ volta a precisare, a limitare,
a scrutare i metodi di mas- — 144 — situi 77 azione della ricchezza,
del benessere, della felici¬ tà, della potenza degli uomini organizzati in
società. Come è accaduto in tutte le scienze progressive, ogni passo
innanzi si innesta su perfezionamenti precedenti ed è preludio a
perfezionamenti successivi. Nella nostra chiesa non è di moda la parola
superamento, che veg¬ go assai usata tra ì filosofi; ma ben potrebbe tale
parola eesere usata ad indicare gli stadi successivi del pensie¬ ro
economico, di cui ognuno non nega ma contiene e trasforma gli stadi
precedenti c sarà contenuto e tra¬ sformato negli stadi fuluri. 7.
Perché, caro Benini, non ricordare il contributo che taluni italiani
colleghi tuoi e miei maestri hanno dato a queata meravigliosa ascesa della
scienza econo¬ mica? Per ragioni scientifiche di divisione del lavoro,
è toccato a quella sottospecie degli economisti, la quale studia ed
insegna la cosiddetta scienza delle finanze, di occuparsi dello Stato e
dell’indole teorica del suo ope¬ rare. Piace anche a me il pensiero che
supera Stato ed individuo ed insieme li fonde; ma piace non meno e
per la difficoltà dell’impresa soddisfa intellettualmente di più lo
sforzo di coloro che hanno tentato di ficcare lo sguardo in fondo
all’azione dello Stato ed hanno tenta¬ to definire in che cosa consistesse
la sua azione. Scarta¬ ta la concezione errata dì uno Stato il quale
interviene a cose fatte, a ricchezza prodotta e preleva l’imposta per
consacrarla, ossìa distruggerla, sia pure per altis¬ simi fini pubblici
(ed un ultimo vaghissimo ricordo di questa concezione lo vedo nelle tue
stesse parole, lad¬ dove parli di uno Stato, il quale (( trasforma buona
par¬ te della ricchezza privata in potenza collettiva », dove l’errore
involontario sta nel supporre che esista una ric¬ chezza « privata » da
trasformare, dopoché essa è stata prodotta, in qualcosa di collettivo,
mentre la realtà è che la ricchezza che lo Stato trasforma in potenza
col¬ lettiva, non fu mai privata, ma fin dall’inizio era prodot¬ ta
dallo Stato, se per prodotta intendiamo cosa che non sarebbe nata se lo
Stato non fosse esistito e non avesse operato secondo l’indole sua), i
teorici italiani intorno al 1890 assai discussero intorno all’indole
dell’apporto — 145 — od azione dello Stato. Tu bene bai scritto,
continuando, che nella atessa maniera come i beni, i servizi e gli
or¬ dinamenti delTiniziativa privata « ai sviluppano in quantità e
varietà, col progredire dell’incivilimento, e fanno luogo a rapporti
viepiù complessi e differenziati Ira gli individui o i gruppi, così i
[beni, servizi ed ordi¬ namenti] loro complementari forniti dallo Stato
non Iranno colonne d’Eicole che li fermino ad un punto ob¬ bligata ».
Quarantanni fa Ugo Mazzola aveva già scrit¬ to: c (pp. 78-79). Che
il Croce non comprenda l'accusa di anti¬ storicismo da me rivolta alla
scienza economica, non deve certo meravigliare chiunque legga i
perio¬ di ora riportati. L’economia come l’arilxnetiea non cangia
quale che sia il corso della storia : l’economia è matematica anch’essa, e
quattro e quattro hanno fatto e faranno sempre otto. Con quale
entusiasmo accoglieranno queste parole ì nostri economisti ma¬ tematici,
che giurano sulla purezza della loro scien¬ za 1 Ma che queste parole
avessero dovuto suo¬ nare con tale durezza anche sulla bocca di un
filo¬ sofo e di uno storico, non ci saremmo davvero aspettato. Oh,
dunque, anche per il Croce la distin¬ zione tra economia pura ed economia
politica è ovvia? Che ovvia sia sembrata e sembri a tanti eco¬ nomisti
— non a tutti — è cosa fuori dubbio, ma non crede il Croce che io, aprendo
quei tali trattati cui egli allude, abbia già dimostrato come, in
real¬ tà, la distinzione non stia né in cielo né in terra, e sfugga
immediatamente dalle mani, appena si cer¬ chi comunque di precisarla?
Ecco, io non vorrei ritorcere l’accusa di scarsa conoscenza delle
opere degli economisti, ma non so proprio come spiegar¬ mi questa
fiducia illimitata che il Croce ha sull’e¬ sistenza effettiva di
un’economia pura e, peggio an¬ cora, di una economia matematica che non
abbia fondamenti illusori. Non si lasci intimidire dall ap¬ parente
rigore delle ben collegate serie di formule, penetri un poco in questo
mondo di superiore tecnicismo e veda se gli sia possibile trovare un
ten¬ tativo sistematico di economìa matematica — nella possibilità e
opportunità del metodo matematico — 196 — nella determinazione dei
rapporti di alcunifeno¬ meni economici non ci può esser dubbio — che
non poggi su basi di creta e non si riattacchi a presup¬ posti
affatto arbitrari e verbalistici. L articolo del Croce si chiude con un
esempio, che dovrebbe provare ad oculos la riduzione allW surdo
dell’economia attualizzata. Ma l’esempio — oltre la poco simpatica e poco
generosa ironia ver¬ so un uomo che merita tanto rispetto — riesce a provare
soliamo una cosa, vale a dire la poca co- scienziosilà di un critico che
pretende di far giusti¬ zia di un tentativo scientifico, artificiosamente
ridu- cendolo a una sua particolare espressione. Poeti giorni prima
che uscisse il fascicolo de La Critica era apparsa sul Giornale critico
della filosofia ita - liana la mia recensione del libro di Emilio La
Boc¬ ca [Abbozzo di una interpretazione idealistica del¬ la economia
politica , Perugìa-Vcnezia. «La Nuo- va Italia », 1930, pp. vm-295): che
io non intenda a quel modo l'identità di scienza e filosofia, al
Cro- ce avrebbe dovuto risultar chiaro, e che nel libro dei La Rocca
io veda Io stesso pericolo che vi vede il Croce, anche questo avrehhe
dovuto essere evi¬ dente a chi si fosse accinto alla discussione con animo
sereno. Ma di serenità oramai il Croce non è piu capace e prima di ogni
altra cosa egli cerca di convincersi che le nostre « manipolazioni
pseudo- dottrinali siano più o meno direttamente a servigio di
equivoci ideali », che lo autorizzino a diicuter- uè in maniera astiosa e
ingiusta. Terreno, questo dell ingiuria, nel quale sarebbe vano seguirlo,
sia che si cercasse di pagar della stessa moneta eia che si tentasse
di persuadere dell’errore. In chi lavo¬ ra con fede, trascurando frutti
che pur sarebbe fa¬ cile (e quanto facile!) raccogliere, la ripetuta
insi¬ nuazione del Croce può gettare solo un’ombra di tristezza:
forse un giorno, ritornando con altro ani¬ mo su queste discussioni e
avendo altri elementi per giudicare gli uomini di oggi, egli sentirà il
rimorso dell’ingiustizia commessa. Ed ecco la recensione del libro
del La Rocca : È un audace tentativo di dominate nelle sue grandi linee
tutta la scienza economica da un punto di vista rigorosamente idealistico
: un tentativo che va conside¬ rato con molta attenzione da quanti sono
persuasi della necessità di porre in primo piano il problema del
rap¬ porto tra scienza e filosofìa. 11 La Rocca, dopo aver ac¬ cennato
al principio fondamentale dell’attualismo, cer¬ co appunto di chiarire nel
secondo capitolo il concetto di scienza in generale e di scienza empirica
in partico¬ lare, e conclude « che se non può proprio parlarsi di identificazione
perfetta tra quella che è l’attività del filosofo e quella che è
l’attività dello scienziato, non deve potersi escludere tra esse una
parentela molto stretta che, mutate talune circostanze, potrebbe
diven¬ tare quasi tra esee una vera e propria identificazione » (pp.
19-20). In verità, questa soluzione, così schemati¬ camente riassunta, non
può non apparire alquanto in¬ decisa e problematica, né tutte le
argomentazioni che la precedono e la seguono valgono a farci superare
ef- fettivamente lo stato di dubbia da casa ingenerato. L’Au¬ tore ai
oppone con malta efficacia a una concezione ne¬ cessariamente
naturalistica della scienza, ma quando si tratta di giungere alla estrema
conseguenza di tale critica arretra un po’ perplesso e ripristina il
dualismo che voleva eliminare: la distinzione di scienza e filo¬ sofia,
dialetticamente negala con acutezza non comune, ai riafferma infine in
modo categorico e nel senso forse più pericoloso. « Ma », osserva infatti
il La Rocca, « se una distinzione rigorosa Ira le due non si può
avere perché non può nel fatto aver luogo, non è mica detto che una
distinzione dedotta dal diverso oggetto o fine che entrambe
perseguirebbero non si possa avere. Si può avere di fatti, consistendo la
prima nella risolu¬ zione nello spirito della realtà universale, e l'altra
nella risoluzione in esso di un aspetto particolare della realtà universale
» (pp. 33-34). Dove è. chiaro che la realtà universale viene abbassata a
oggetto e che la filosofìa si concepisce ancora al vecchio modo
intellettualistico. La soluzione non molto rigorosa del problema ha avuto
le sue necessarie conseguenze nella scelta dei cri¬ teri seguiti per
determinare i principi fondamentali del- 1 economia. La filosofia come
scienza della realtà uni¬ versale è rimasta un presupposto di fronte
all’economia che è scienza di un particolare aspetto di quella
realtà, sì che la ricostruzione filosofica dell'economia è stala intesa
nel senso di ricondurre ì principi scientifici alle categorie filosofiche.
E il La Rocca ha potuto perciò avvicinarsi all’economia dall'esterno c
tradurre i prin¬ cipi scientifici in termini altualisticì, senza
preoccupar¬ si troppo della fecondità di un tale procedimento,
desti¬ nata a esaurirsi in una zona di confine tra la scienza c la
filosofìa, intese al vecchio modo. Concepito in tal guisa il problema, la
prima preoc¬ cupazione del La Rocca è stata quella di individuare il
principio primo della scienza economica, e l’indivi¬ duazione naturalmente
e stata da lui cercata non sul ter¬ reno storico dell’origine c dello
sviluppo della econo¬ mia, bensì sul terreno filosofico della dialettica
dello spirito. L a priori è stalo inteso non nell’attualità dell’e¬ sperienza
scientifica, ma come la determinazione pre- scientifica del principio
della scienza. E il principio è diventato allora un momento assoluto della
dialettica dello spirito, astoricamente concepito. «Ma», dice in¬ fatti
il La Rocca, parlando del rapporto tra economia ed etica, « se per quel
che riguarda la sua legittimità filosofica esso si identifica
perfettamente col principio dell’eticità, non si deve concludere insieme,
che non possa avere un suo oggetto speciale c inconfondìbile pur
sulla base della sua realtà etica. Es90 può ben af¬ fermare un suo
originale compito: quello della spiritua¬ lizzazione-materializzazione,
deH’acquisizione-alienazio- ne, della valorizzazione-degradazione, il
quale non è certo il compito della eticità che, se lien l’occhio al primo
termine, non lo tiene, nello stesso tempo, ad entrambi » (pag. 131). Tale
procedimento dialettico non si limila alla de¬ terminazione del principio
primo, ma si estende a tutti i concetti tradizionali della scienza
economica, e il La Rocca tenta di dedurre apeculativamente anche i
ter¬ mini di produzione, circolazione, distribuzione e con¬ sumo; e
finisce infine con l’idealizzare la figura dell im¬ prenditore
identificandolo addirittura con il soggetto economico. Ma per quanta fede
e calore l’Autore pon¬ ga in siffatta ricostruzione, l’astrattezza del
procedi¬ mento non può non colpire l’attento lettore, che vede, pur
attraverso l’esigenza giustissima di cui il La Rocca è tra i primi
sostenitori, il grave pericolo di un ritorno all’hegelismo o al
filosofismo antiscientifico. Ho voluto insistere più sul lato negativo che
su quello positivo del libro del T,a Rocca — che pur è ricco di belle
pagine e di acutissime critiche — perché ritengo necessario e urgente
sgombrare nettamente il campo di tutti quei preconcetti filosofici e
scientifici ohe non consentono ancora di giungere all’assoluta con¬ vinzione
di un’unica forma del sapere e alla conseguen¬ te ricostruzione
storicistica della scienza. L idealismo attuale ha dato il colpo di grazia
al concetto intellet¬ tualistico di categoria, che è vano voler fare
risorgere comunque in una malintesa determinazione di prin¬ cipi
assoluti. I principi di tutte le scienze non possono che ricercarsi sul
terreno concreto dell esperienza sto- sebbene egli siTuìa^ R ° CCa ’ w
problemi filosofie-; ■■ narnn •of.ro « MMh> (atelier,„ (1 ]i M "r
iivemlno^ne 0110 ■ mente sinonimi. — lv enlano necessaria- d 1'~
» '•*.Srrjiar * »- IL METODO MATEMATICO IN SOCIOLOGIA E IN
ECONOMIA In un articolo, Verso Veconomia corporativa , pubblicato nei
Nuovi studi (1929, pp. 233-252: ora riprodotto nel volume La critica
dell’economia li¬ berale, Milano, Treves, 1930) ebbi occasione di
oc¬ cuparmi del professor de Pietri Tonelli e di ac¬ cennare agli
errori metodologici delle sue teorie di politica economica. Esemplificando
in una nota, scrivevo : « Rinviando la critica della concezione ebe
il de Pietri Tonelli ha della scienza della po¬ litica economica a quando
sarà pubblicato il tratta¬ to che I A. annunzia, ci limitiamo qui, in via
d’e¬ sempio, a riferire una delle presunte leggi della nuova
disciplina. Nella prolusione citata {Di una scienza della politica, in
Rivista di politica econo¬ mica, 1929, fase. 1) si afferma perentoriamente
che « gli impulsi non si possono creare, né distrugge¬ re «, che, «
se gli impulsi esistono, si trovano in proporzioni diverse in tutti gli
uomini, dello stesso tempo e di tempi diversi )), ecc. Non ci
meraviglie¬ remmo se tutto ciò, prima o poi, fosse tradotto in termini
matematici e additato come una delle eipiesaioni della scienza più pura ;
ma la facilità che cobi bì dimostra di trasportare sul terreno
scien¬ tifico i termini più empirici e indeterminati non può non
rendere diffidenti contro le leggi dell'eco¬ nomia razionale. La mentalità
è sempre la stessa, e cioè — piaccia o non piaccia l'aggettivo
essen¬ zialmente dogmatica, come potrebhe riconoscere anche il de’
Pietri Tonelli, qualora provasse a do¬ mandare a uno studioso di
psicologia e se Raffermare che gli impulsi non si creano né si distruggono
pos¬ sa avere un qualsiasi significato men che banale » (pagg.
235-236). Come risposta a questa critica il de' Pietri Tonelli non ha
trovato di meglio che recensire con troppo evidente acrimonia il volume in
cui Parti- colo è stato riprodotto (Rivista di politica economi¬ ca,
31 dicembre 1930, pp. 1014-1015). Ma a una recensione che si limita a una
filza di improperi non è il caso di ribattere : la polemica diventerebbe
per¬ sonalistica e quindi estranea ai fini di una discus¬ sione
scientifica. Sarà piuttosto opportuno prende¬ re in esame quel trattato
che allora il de Pietri Tonelli ci annunciava e di cui recentemente è
ap¬ parso il primo volume (Corso di politica economi¬ co, voi. I,
Introduzione, Padova, Cedam, 1931, p. 216). Purtroppo le previsioni
contenute nella mia nota sono state confermate dalla realtà, e sarà sufficiente
qualche assaggio perché chiunque vo¬ glia giudicare con animo sereno se ne
possa con¬ vincere. Dopo aver discusso in generale dell'oggetto della
politica economica, 1\A. determina gli elemen¬ ti fondamentali dello
studio. « Per limitare », egli scrive, « o meglio, per delimitare, il
campo della ricerca politica che ci interessa e metterlo alla por¬ tata
della mente dello studioso, si può cominciare con lo sceverare e
considerare, in sé, e nelle loro reciproche relazioni, tre elementi
fondamentali della realtà sociale, cioè della vita delle cerehie so¬ ciali.
Insieme coi fatti di natura, questi clementi formano la vita deU’universo.
Tali elementi sono precisamente: 1) gli impulsi, che indicheremo con I,
cioè i moventi, o le determinanti, o gli stimoli, ecc., quali i bisogni, i
sentimenti, gli interessi, le passioni, il raziocinio, ecc., assai vari e
che si con¬ viene debbano effettivamente esistere e operare, per
indurre gli uomini ad agire e ad esprimersi ; 2) gli atti, che indicheremo
con A, cioè le azioni, di diversa specie, a cui si ritengono indotti gli
uomini, soprattutto dagli I; 3) le espressioni, che indiche¬ remo con
E, cioè le manifestazioni di linguaggi, ge¬ stiti, verbali e scritti,
riguardanti appunto gli I e gli A » (pag. 7). Tutta la costruzione
del sistema è impostata su questa tripartizione della realtà sociale, sì
che convien fermarsi al limitare e domandarsi quale sia il carattere
e la validità scientifica di tali pre¬ supposti. È chiaro che una
distinzione fra impulsi, atti ed espressioni non può avere valore
sistematico se non si giustifica alla luce di tm criterio scientifi¬ co,
ed è chiaro che un tale criterio non può trovar¬ si se non nella
disciplina che si occupa ex professa di tali fenomeni. La distinzione, in
altri termini, ha bisogno di una giustificazione logica che le ven¬ ga
dalla psicologia: ogni allra giustificazione sareb¬ be di carattere
empirico e però irrilevante ai fini di un sistema scientifico. Ma,
intanto, dal punto di vi¬ sta psicologico, nessuno potrebbe dare un
qualsiasi valore a quella distinzione, affatto arbitraria aia per la
scelta degli elementi, sia per la loro defini- zione, sia per
l’interferenza dei rispettivi campi, bolo chi non ha alcuna dimestichezza
con questi studi può illudersi di dare un significato critico a termini
così radicalmente antiscientifici. . Si P° lr ehbe, a questo punto, porre
una pregiu- disiale perentoria a tutto il sistema escogitato dal de
Pietri Tonelli e chieder conto di tali presuppo¬ sti, esihiti senza alcuna
garanzia della loro legitti¬ mità. Ma noi vogliamo far credito all’À. e
ammet¬ tere che si possa accettare, su un terreno meramen¬ te
astratto, una classificazione ottenuta con un gros¬ solano senso comune.
Se non che, riconosciuto nel senso connine o nell’opinione il fondamento
della distinzione, è possibile pervenire da essa a risulta¬ ti che
trascendano la sfera del senso comune e dell’opinione? In altri termini,
se la distinzione ha carattere empirico, può da essa ricavarsi una
qual¬ siasi conclusione non empirica? La risposta non do¬ vrebbe
esser dubbia, e il lettore dovrebbe aspettar¬ si che nel resto del volume
si continuasse a discu¬ tere mantenendosi sullo stesso terreno sul
quale poggiano gli elementi fondamentali. Ma le cose, purtroppo,
procedono ben diversamente, perché, appena esposta la distinzione delle
tre classi, le classi stesse vengono ipostatizzate e si comincia a giuncare
con esse come con quantità esattamente definite. Le tre classi a loro
volta si suddistinguono m classi minori, in cui l’arbitrio della
definizione e sempre più palese, ma nelle quali la rigidità del metodo
appare via via più dogmatica. La molteplì- cita delle classi acquista
corpulenza numerica, e tra lettere e numeri si trova subito il materiale
per una trasformazione in termini matematici. Dopo poche pagine le
grossolane definizioni si sono cangiate in entità aritmetiche c dalla
penna tecnicamente formidabile del de Pietri Tonelli cominciano a scaturire
le formule algebriche. Per chi volesse de¬ libare la bontà del metodo
riportiamo il seguente periodo: « Così ad es., in 5a la ed Iy possono,
ne¬ gli individui e quindi nelle C. accentuarsi, palesan¬ do
individui e C materialistici; in 82 , Ix ed le pos¬ sono, negli individui
e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui c C spiritualistici; in
II 2 , Ih ed le possono, negli individui c quindi nelle C, ac¬ centuarsi,
palesando individui e C aperti alle no¬ vità nel campo spirituale; in 122
, Ih ed Iy possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi,
pale¬ sando individui e C aperti alle novità nel campo pratico; in 22
, la ed Ih possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi
palesando individui e C inclini a rinnovarsi nel loro interesse, poiché
co¬ loro i quali hanno lai ,2 ed Ib son coloro che voglio¬ no salire
nel campo economico e in quello politico e son disposti alle mutazioni
necessarie » (pp. 39 - 40.) Son cose che farebbero sorridere
ironicamen¬ te, se poi non atterrissero con la conseguenza di duecento
pagine irte delle più complicate formule matematiche, sotto le cui lettere
e i cui numeri si celano le elucubrazioni psicologiche e
sociologiche del professore de’ Pietri Tonelli, ad ineffabile gau¬ dio
dei suoi studenti. Non è il caso, naturalmente, di dimostrare ciò che
ha solo bisogno di esemplificazione: casi simili di aberrazione
scientifica si spiegano solo con mo¬ tivi di carattere patologico che
fanno smarrire ogni contatto con la realtà e con quello stesso buon
sen- so con cui la imitazione vorrebbe iniziarsi. E tanto più grave
diventa la sensazione del patologico, quanto più l’A. insiste sul
carattere obiettivo delle sue ricerche, facendo amene riserve sulla loro
at¬ tendibilità. Come non rimanere addirittura scon¬ certati
leggendo, dopo non poche costruzioni mate¬ matiche relative agli impulsi,
che « ancora non sap¬ piamo se gli I siano una nostra astrazione, per
co¬ prire la nostra ignoranza, non esistendo di fatto che gli A;
ovvero se gli 1 siano effettivamente una realtà finora poco o nulla
conosciuta »? (pag, 44). Le constatazioni ora fatte a proposito del
li¬ bro del de 1 Pietri Tonelli non vogliono limitarsi a un caso
particolare, ma dal caso particolare, in cui l’assurdità giunge alla
massima evidenza, debbo¬ no estendersi un po’ a tutti i tentativi di
mateinatiz- zare i fenomeni sociali e alla stessa economia mate¬ matica
quale è comunemente intesa. L’unione della psicologia e della sociologìa
con il metodo matema¬ tico è una delle espressioni più gravi della
menta¬ lità antiscientifica che domina nel campo delle scienze
sociali: e non è ormai lecito ritenere comun¬ que valido uno solo dei
tentativi compiuti in tal senso. Il che, si badi bene, non è dovuto a una
im¬ possibilità costitutiva di applicare la matematica a siffatti
fenomeni, bensì all’incapacità di ridurre a unità matematiche ì fenomeni
stessi. E l’incapaci¬ tà si spiega eoi fatto che, se gli studiosi i quali
si cimentano nell’impresa hanno una preparazione matematica
sufficiente, non hanno poi alcuna pre¬ parazione scientifica alla
intelligenza dei fenome¬ ni psicologici e non si sono resi conto delle
critiche mosse alla sociologia dalla speculazione moderna. Sì che,
assumendo a fondamento delle proprie ri¬ cerche concetti scelti e definiti
arbitrariamente, scambiano l’oggettivo col soggettivo, il determina¬ to
con 1 indeterminato, e matematizzano indifferen¬ temente tutto, senza
preoccuparsi di raggiungere l’effettiva quantificazione degli elementi
posti nel¬ le loro formule. L’errore del procedimento appare con
maggio¬ re evidenza nel campo delle ricerche sociologiche, dove 1
incongruenza stessa delle conclusioni basta a far giustizia dell inutile
fatica degli studiosi che tuttora vi insistono. Ma purtroppo nel campo
della cosiddetta economia matematica l’illusione è più saldamente
radicata e le conseguenze dell’errore, meno manifeste, sono e diventano
sempre più pe¬ ricolose. Siccome a nessuno può venire in niente di
negare l’opportunità e la necessità di servirsi della matematica nella
analisi dei fenomeni econo¬ mici, il senso del limite si smarrisce
agevolmente e messici per quella china si sdrucciola a poco a poco dalla
matematica utile all’economia all’economia ma¬ tematica, che è la
negazione dell’economia. Per comprendere la differenza che passa tra l’uso
lecito della matematica nel campo delle scien¬ ze economiche e la
cosiddetta economia matemati¬ ca, è necessario distinguere la matematica
come mezzo di ricerca dalla matematica come sistema in cui le
ricerche vanno composte e fissate una volta per sempre. Ora, la validità
del primo criterio non dimostra affatto la legittimità del secondo, che è
fa- talmente destinato a fallire. La matematica come sistema,
infatti, implica la necessità di quantificare non solo i fatti economici,
ma anche la ragione di tali fatti; e il processo di oggettivazione,
perciò, investe illecitamente il mondo della soggettività. Basta
riflettere un poco sui risultati dell’econo- mia matematica del Pareto per
accorgersi delle mo¬ struose conseguenze cui dà luogo rillegittimo
bi¬ sogno di presupporre quantificato o comunque quantificabile ciò
che condiziona lo stesso processo di quantificazione. Perché gli
economisti possano una buona volta uscire dal vicolo cieco in cui si sono
andati a ficcare, occorre che si decidano ad abbandonare la loro
psicologia da dilettanti e a di¬ stinguere nettamente il fatto dall’atto,
vale a dire ciò che è necessario considerare in veste di numero e ciò
che del numero è condizione. Allora final¬ mente si accorgeranno che
l’economia matematica non è possibile, per il semplice fatto che il
numero è nella vita, ma la vita non può essere numero. Per chi
lavora, desideroso soltanto di allarga¬ re gli orizzonti e di aver la
certezza di andare in¬ nanzi nel cammino della scienza, vi sono dei
dis¬ sensi che hanno perfino maggior valore dei con¬ sensi. E sono i
dissensi dei cattedratici, che, allar¬ mati e disorientati dai colpi
inferti agli schemi tradizionali della loro scienza, scendono in
campo uno dopo l’altro a difendere il loro regno perico¬ lante, non
senza gratificare di burbanzose parole chi osa ficcarvi lo sguardo un po’
a fondo. Ne ven- gon fuori delle confutazioni, le quali, o raggiun¬ gono
1 effetto contrario per la inadeguatezza dei vecchi criteri di giudizio
relativamente alle nuove teorie da combattere, o addirittura sbagliano il
ber¬ saglio per la mancanza di quel tanto di buona vo¬ lontà che
occorrerebbe per scorgerlo davvero, e per la fretta di liberarsi di
qualcosa che inconsciamen¬ te s intuisce come un grave pericolo. Effetto
con¬ trario, dico, in quanto tali critiche finiscono col fa¬ re
insuperbire chi ne è oggetto e col far trascurare, in conseguenza, anche
ciò che di valido può essere al fondo di siffatte negazioni globali e
violente. 0 come non insuperbire, infatti, considerando lo sforzo
compiuto dal prof. Aldo Contento ’) at¬ traverso ima quarantina di pagine
dedicate a di¬ fendere P homo (Bconomicus dalle, mie critiche.' 1 Come
non insuperbire di fronte a tanta ingenuità di argomenti e a tanta
incomprensione della mia tesi? Ma è un malinconico insuperbire, come
quel¬ lo di cbi pur vorrebbe convincere e far sì che la propria
certezza, sempre più consapevole e salda, diventasse la certezza degli
altri. Il che purtroppo non è neppur da sperare di fronte a chi troppo
evi¬ dentemente è su una strada affatto diversa e parla un linguaggio
che non consente la discussione. La risposta non può avere valore che per
i terzi, vale a dire per quelli che, affacciandosi più spregiudi¬ catamente
alla questione, sono in grado di vedere obbiettivamente e di fare quello
sforzo di buona volontà che è indispensabile per comprendere ciò che
si vuol giudicare. Prendendo lo spunto da quanto affermarono Alfredo
Rocco e Filippo Carli nel congresso della Associazione Nazionalista del
1914, che non vè « forse un’azione economica che l’uomo compia sotto
la spinta del puro interesse economico, cioè sotto l’impero del principio
edonistico », il Con¬ tento giustamente fa osservare che Vhomo
cecarw- micini è una astrazione scientifica per nulla com¬ promessa
dall’affermazione dei nazionalisti, con la quale non si può non
concordale. Dal punto di vi¬ sta scientifico una sola cosa importa ed è la
preci- J ) Albo Contento, Dilesa dell'ut homo cBconomicus ». L'ahomo (Bconomicus
» nello Staio corporativo, in « Ginnialo degli economi¬ sti ■», luglio
1931, pp. 485-522. sazione del concetto di homo cecanomicus : preci¬ sazione
alla quale 1 A. vuole addivenire dopo aver convenuto con me che « molta
dell'incertezza che domina nello svolgimento e nelle conclusioni
della scienza economica, derivi da una mancata defini¬ zione di quel
postulato, cui si assegnano valore e li¬ miti più o meno diversi » (pag.
487). Senonché rac¬ cordo si arresta a questa constatazione, dopo la
quale le vie divengono sempre più divergenti, per non incontrarsi mai
più. E, per cominciare, il Contento attribuisce anche a me la mancata
precisazione del concetto, quasi che fosse possibile precisare ciò
che si nega in quanto imprecisabile. Io ho affermato che l’uomo
osconnmicus non può valere come ipo¬ tesi scientifica, perché è un termine
scientificamen¬ te tutt altro che rigoroso e determinato: chi pensa il
contrario ha il dovere di mostrare la possibilità di ima definizione
valida, ma non può pretenderla da me. Alla definizione, per conto
suo, si è accinto il Contento, eliminando in via preliminare i
comuni concetti di egoismo, edonismo e utilitarismo. Que¬ sti
concetti non sono adatti a caratterizzare Y'homo (Bconomicus ed è stato un
errore degli economisti aver fatto implicitamente o esplicitamente una
ta¬ le confusione. La dimostrazione che ne dà l’A. non appare, in
verità, gran che persuasiva, fondata cont essa è sulle definizioni dei
vocabolari dello Zingarelli e del Tramatter: comunque possiamo dare
per buona la conclusione e passare all'analisi del concetto che si vuol
sostituire a quelli ritenuti errati. « Richiamandoci al pensiero », scrive
il Con¬ tento, « di quelli che fecero dell’fi. ne. il postulato fondamentale,
o la base di tutto l’edificio scienti- fico, può dirsi deva intendersi,
con tale designa¬ zione. 1 individuo immaginato nella sua pura con¬ dotta
economico, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata,
generalmente, ad un tipo uni¬ forme corrispondente alla ricerca della
massima soddisfazione col minimo di sforzo cioè all'appli- « azione
integrale del principio del minimo mezzo » (pag. 488). Si comprende
bene come dopo questa defini¬ zione l’A. non sappia giustificare la
critica che si fa dell 5 *. ck., né sappia vedere alcuna
incompatibi¬ lità tra Vh. 03. e la concezione corporativa dell’eco¬ nomia.
Un individuo che cerchi di seguire il prin¬ cipio del minimo mezzo non
solo è perfettamente a posto qualunque sia l’ambiente politico in
cui vive, ma è anche Punico individuo concepibile nel¬ la sfera della
normalità. Il che riconosce esplicita¬ mente lo stesso Contento quando
afferma: « Ogni uomo vivente tende a comportarsi da h. ce., cioè misurando
la convenienza dei mezzi al fine, non pure nel rampo stoltamente economico
, ma in ogni campo della sua esistenza, e affermiamo che, se co¬ sì
non fosse, se ognuno non cercasse di condursi, sempre, seguendo il
principio della economicità, danneggerebbe, alla fine, non pure se stesso,
ma la società tutta intera. Chi così non facesse, sistemati¬ camente,
darcbhe prova non tanto di non essere un egoista , quanto di essere... un
incosciente! » (pa¬ gina 494). E allora? Relegate nella sfera
delFinco- scienza le azioni non subordinate alla legge del minimo
mezzo, l’uomo è sempre Vh. ce. non pure nel campo stoltamente economico,
ma in ogni cam¬ po della sua esistenza [il corsivo è mio], né resta dunque
modo di distinguere mediante tale princi- pio le azioni economiche dalle
non economiche. Il presupposto fondamentale della scienza economica si
dissolve in una vuota generalità e la fictio del- 1 h. ce. si rivela
ancora una volta assolutamente ina¬ datta a servire da ipotesi
scientifica. Ex ore tuo iu- dico te: e non v’è bisogno di aggiungere altro
alla confutazione che il Contento ha fatto involontaria¬ mente della
sua definizione. Inutile dire che con ciò stesso viene a mancare ogni
ragion d’essere alla critica mossa al Rocco e al Carli — con la
quale pur avevamo convenuto — tendente a mostrare il carattere
astratto dcll’ft. re.: se Yh. re. è colui che segue il principio del
minimo mezzo, h. re. è l’indi¬ viduo concreto nella pienezza della sua
realtà, in ogni momento. Dato un concetto così anodino di li. re., si
com¬ prende come il Contento non sappia spiegarsi il suo necessario
collegamento col liberalismo politi¬ co. Qualunque sia la concezione
politica dell’eco¬ nomista, l’astrazione dell’/i. re. resta nella sua
as¬ soluta integrità, perché rispondente a un rapporto di mezzo a
fine che non muta per il mutare del fine. V’è Yh. re. nel regime liberale,
come in quello auto¬ cratico come nel democratico, e Yh. re.
adatterà la sua condotta all’ambiente in cui vive seguendo tuttavia
in ogni caso il principio della economicità. Di qui scaturisce la seconda
accusa che il Con¬ tento muove alle mie affermazioni circa
l’intervento dello Stalo e il rapporto Ira individuo e Stalo. Per l’A.
esistono due modi d’intendere lo Stato e, in particolare, lo Stato
corporativo. « Secondo alcuni, die partono dal vecchio e normale concetto
dello Stato, quale ente rappresentativo degli interessi ge¬ nerali
dei cittadini, creato come organo ad essi su¬ periore, la figura dello
Stato corporativo è una con¬ cezione che evitando i mali dello stretto
individua¬ lismo, o liberalismo, come quelli del completo sta¬ talismo,
riunisce di tali principi i vantaggi, crean¬ do nuove forme
d'organizzazione politico-economi¬ ca, nelle quali le varie categorie ed i
vari ed oppo¬ sti interessi sociali si riuniscono e con temperano, consentendo
al progresso della vita civile un più armonico e intenso sviluppo. Secondo
alcun altTo. come, e specialmente, lo Spirito, la differenza con¬ sisterebbe
in ciò, che la nuova forma, non pure av¬ vicina e unisce, ma chiaramente
accomuna e imme¬ desima Stato e cittadino, in modo da renderli un unico
ente » (pag. 506). Alle due diverse teorie il Contento fa seguire i
seguenti perentori giudizi: «La seconda delle ri¬ cordate concezioni è, a
nostro avviso, inconsistente per lo Stato corporativo, come per ogni altro
Sta¬ to. Se pur corrispondesse alla realtà, e sarebbe, evi¬ dentemente,
per qualunque Stato, ciò avrebbe im¬ portanza dall aspetto filosofico, più
che economico. La prima invece, fondamentalmente vera, parte da un
presupposto errato, quale quello della sempli¬ ce condotta negativa dello
Stato nella organizza¬ zione liberale)) (pp. 506-507). E il Contento
conti¬ nua mostrando come anche lo Stato liberale sia sem¬ pre
intervenuto, in misura maggiore o minore, nell’e- conomia della Nazione e
abbia quindi influito sulle economie individuali. Con l’economia
corporativa non si è mutato il problema, e l’intervento dello Stato è
rimasto sostanzialmente della stessa natura. L’unica questione viva è
quella dei limiti di tale intervento, e i limiti sono stati certamente
spostati, richiedendo nìf individuo una limitazione più am¬ pio alla
sua condona economica. Ld ecco come 1"A. può concliiudere ripetendo
ancora una volta la concezione dello Stato contrattualista-liberale per
cui questo, « pur frenando l’arbitrio individuale », concede all’uomo
({il massimo di libertà compati¬ bile in lina civile convivenza » (pag.
522).Ma, intanto, scartata come meramente filosofi¬ ca (che cosa mai il
Contento intenderà per filo¬ sofia?) la teoria dell’identità di individuo
e Stato, mito il ragionamento ha preso altra direzione e la mia tesi,
che pur si voleva confutare, non è stata neppure sfiorata. Io volevo
contrapporre Stato libe¬ rale e Stato corporativo in quanto il primo è
con¬ cepito come Stato limite delle libertà individuali e il secondo
invece come Stato potenziatore delle libertà stesse: volevo contrapporre
al dualismo di individuo e Stato, e alla conseguente distinzione di economia
individuale ed economia statale, l'unità dei due termini e la negazione
dell economia indi¬ vidualisticamente concepita: volevo insomma ne¬ gare,
insieme alla vecchia concezione economico- politica dello Stato, quel
concetto di homo cecono- micus che il Contento si affanna a difendere.
Ma la risposta dell'A. lascia assolutamente impregiu- dicala la
questione, perché gira, senza affrontarlo, proprio il principio
fondamentale della mia cri¬ tica, vale a dire quello che dà significato e
valore a tutte le particolari conseguenze. Quell’ indivi¬ duo che
vive nello Stato senza essere lo Stato e che perciò può venir limitato
nella sua liher- tà dallo Stato stesso; quell'individuo che ha finì propri,
realtà propria e diversa, sia pure in parte, dall’organismo di cui è
espressione; quel- 1 individuo è appunto l’esponente del liberali¬ smo
politico e del liberalismo economico, in net¬ ta antitesi col
corporativismo come è stato da me teorizzato. Quell’individuo si è
scientificamente dimostrato irreale, e con lui è venuto a mancare ogni
fondamento alla ficiio dell’homo oeconomicus di cui è il presupposto
necessario. Non avendo in¬ teso né avendo comunque analizzato questa
nega¬ zione perentoria, il Contento è rimasto anche lui sulle orme
del vecchio liberalismo, precludendosi la via a ogni comprensione del
significato rivolu¬ zionario della concezione politica del fascismo
e del corporativismo. Al quale proposito il Contento crede di
scoprirmi in grossolana contraddizione, quando io, pur avendo riconosciuto
proprio di ogni Stato il carattere dì immanenza all’individuo, af¬ fermo
esplicitamente che solo l’economia corpora¬ tiva pttò dirsi sul serio
scientifica. « Confermato così, anche su questo punto », dice infatti
l’A., « il carattere di congiunzione, o di derivazione, dello Stato
corporativo da quello liberale, non possiamo spiegarci come lo Spirito,
che asserisce non potersi separare, nel campo economico, la concezione
della vita dello Stato da quella delle economie indivi¬ duali, dato
che lo Sialo interviene sempre in que¬ ste, sostenga poi che soltanto
l’economia corpora¬ tiva sia degna del titolo di scientifica,
scrivendo; « che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale
non è verità che s’instauri col regime corporativo, né è limitata alla
vita politica dell’Ita¬ lia di oggi: ma mai come nell’Italia di oggi
que- sta verità è slata esplicitamente affermata, inai si è concepita
la vita economica nazionale come una unità così saldamente organica ». —
11 semplicismo di questa conclusione è troppo evidente per dover¬ vi
insistere. — Sarebbe come dire che soltantoquello del 1928 fu degno del nome di
inverno, per¬ ché mai come allora ci si accorse del freddo ! » pa¬ gine
514-515). Ma semplicistica, a ver dire, è la osservazione del Contento ed
egli stesso dovrà con¬ venirne se rifletterà sul senso preciso delle
mie parole. Che la concezione copernicana del mondo sia la sola
scientifica non vuol dire che prima di Copernico il mondo fosse governato
da altre leg¬ gi; allo stesso modo con l’economia corporativa, o, per
essere più esatti, con l’economia che riconosce l'identità di individuo e
Stato (il corporativismo essendo solo l’espressione teoricamente
realizzante- si di questa identità), si giunge alla consapevolezza della
vera realtà dello Stato e ci si pone in grado di eliminare quegli errori
teorici e pratici che osta¬ colavano la libera affermazione deH’individuo.
Tra la libertà del liberalismo e quella del corporativi¬ smo bene
inteso, v’è appunto la stessa differenza che passa tra Vhomo mconomicus e
l’individuo vi¬ sto nella sua identità con lo Stato. RIFORMISMO 0
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA? In «n recente articolo (1/economia corpora¬ tiva,
l’individuo, lo Stato e una polemica, in Po¬ litica Sociale, maggio-giugno
1931, pp. 479-494) Massimo FoveI cerca di chiarire in qual senso
egli consente e in qual senso dissente dalle tesi da me sostenute. E
conclude con questa pagina che è op¬ portuno trascrivere per intero: «
Identificazione ideale, dunque, fra individuo e Stato. D’accordo. Ma
per quale via? Qui si affaccia la terza cosa, che si deve dire allo
Spirito. Essa è che, se la sua po¬ sizione del problema è perfetta, la
soluzione che egli ne dà è, dal punto di vista della scienza econo¬ mica,
imperfetta. Dal punto di vista della scienza economica, noti bene Io
Spirito, e non già da un altro diverso, per esempio, quello
genericamente storico. Ma però, noti ancor meglio lo Spirito, dal punto
di vista della scienza economica toni court. e non già di quella detta
liberale. E dove sta Firn- perfezione? Non si può certo qui. nello scorcio
di quest’articolo, già troppo lungo, neanche deliba¬ re la questione.
Indichiamo soltanto la grande di- rettivi! di marcia. Eccola. Spirito
tenta la idenli- ficuzione ideale dell'individuo e dello Stato,
risol¬ vendoli entrambi in una terza nozione, che è la Nazione. Ora
ci chiediamo noi. forse, qui, se questo tentativo può, scientificamente,
riuscire? Ossia se la nozione di Nazione sia esprimibile in termini quantitativi?
No. Si può anche aggiungere che non siamo troppo diffidenti in proposito.
0, almeno, non vi crediamo molto meno di quello che crediamo al- l'esprimibilità
quantitativa dell’individuo. Ci limi¬ tiamo invece a dire clie, tentando
questa via. Spi¬ rito tenta ab imis una nuova scienza economica. E che
noi invece pensiamo che la identificazione pos¬ sa avvenire, estendendo
allo Stato lutti i dati for¬ mali dell’individuo (e viceversa), cosi come
oggi la scienza economica lo concepisce. E che, così facen¬ do, la
identificazione voluta si realizza attraverso una espansione energica, ma
non eversiva, della scienza economica, quale oggi si presenta. È un
me¬ todo. È un metodo anche questo — esso consiste nell'innestare
nuove teorìe sui vecchi principi ria¬ nalizzati e rifecondati, e che
chiameremo riformi¬ sta — che ha i suoi vantaggi. E che,
tralasciando quelli teorici che ci trascinerebbero nel cuore della questione,
ha i vanlaggi pratici seguenti. Metten¬ dosi per questa via si potrebbe
marciare, almeno per un bel tratto, fianco a fianco con altri molti
stu¬ diosi; quelli che anche in altri paesi pensiamo soprattutto alla
nuova scienza economica dinamica americana — lavorano a rinnovare e a
ricostruire, senza ripudiarla, la scienza economica accettata. Si utilizzerebbero,
agli effetti della penetrazione delle nuove teorie nello spirito pubblico
e sopratutto nel¬ le élites, quei sedimenti, che la tradizione
sdentili- ea forma sempre, ravvivandoli senza distruggerli » (pp.
493494). Massimo FoveI, dunque, d’accordo con me con la tesi
fondamentale di ricostruire la scienza eco¬ nomica alla luce del principio
della identificazio¬ ne di individuo e Stato, non erede che ciò
debba farsi operando una vera rivoluzione scientifica e propone un
metodo riformista ebe concilii il nuo¬ vo col vecchio e utilizzi i
sedimenti della tra¬ dizione. Ora, lasciando da parte i vantaggi
pra¬ tici che sono e debbono essere fuori questione, bi¬ sogna
riconoscere che una scienza, qualunque essa sia, non può progredire che su
se stessa, svolgendo e perfezionando i principi che ne costituiscono
il fondamento. È questa una verità ormai lapalissia¬ na, specialmente
per chi riconosce nello storicismo il carattere precipuo della nuova
scienza. Chi si proponesse a un bel tratto di arrestare il corso
del¬ le cose, e ricominciare daccapo, dimostrerebbe per lo meno una
grande ingenuità e sarebbe costretto suo malgrado a smentire con i fatti
la sua pretesa verbalistica. Anzi, v’ha di più: a guardare bene a fondo,
ogni scienza coincide con la sua storia, e in¬ tenderla e perfezionarla
non si può senza intende¬ re e continuare il suo processo di formazione. E
se questo avviene in generale per ogni scienza, tanto più deve
verificarsi per le scienze sociali e per le- conomia politica in
particolare: scienze in cui l’a¬ derenza alla vita storica è più immediata
e palese e in cui le vicende politiche sono più manifesta¬ mente
condizioni del sorgere e dello svilupparsi di certi problemi teorici. Né
ad altro, in fondo, ha miralo lutto il lavoro eia me compiuto, con cui
ho cercato di porre in chiaro il delincarsi delle nuove esigenze
scientifiche alla luce de] processo storico che in esse è sboccato
trasvalutondosi. Ora, è chiaro che. se questo è il nostro pro¬ gramma
e il carattere fondamentale della nostra critica, porre il dilemma se
convenga meglio una revisione riformistica o un’opera rivoluzionaria non
può avere il significato che a] dilemma stesso si da accennando all
utilizzazione dei residui tra¬ dizionali. Nessun dubhio infatti che tutto
il pas¬ sato vada utilizzato e inverato, e non superficial¬ mente o
rapsodicamente, bensì nella sua realtà in¬ tegrale e imprescindibile.
Nessun dubbio, dunque, che si debba trattare di riforma e non di
negazione pura e semplice di quanto è stato fatto nel campo di questi
studi: di riforma, e cioè di ulteriore pro¬ cesso che viva dell’esperienza
già fatta e la conduca a nuovi e più profondi risultati. Se non che
c’è riforma e riforma: quella che si svolge nel ritmo normale della vita
di ogni gior¬ no e cambia il mondo quasi inavvertitamente po¬ nendo
pietra su pietra; e quella, invece che segna un punto di arresto e di
ripresa, perché nel lento processo di trasformazione ci si accorge a un
trat¬ to che la via presa non è proprio la più adatta e che, se non
si vuol precipitare, eonvien volgersi in altra e più giusta direzione.
V’è, insomma, la tra¬ sformazione ordinaria e quella straordinaria,
sen¬ za che tra l’una e l’altra ci sia iato o contraddizio¬ ne, che
anzi il lento modificarsi delle condizioni crea a poco a poco mia nuova
situazione, la quale all’improvviso si svela ed esige un nuovo
orienta¬ mento. Abbiamo allora la rivoluzione, che non è, si
comprende, neppur essa negazione, bensì pro¬ cesso accelerato e rapido
dissolvimento di tutto il negativo che via via era andato affiorando. Una
ri¬ voluzione degna di questo nome non è eversiva, non distrugge
nulla che non sia già distrutto, ma toglie via le macerie perché il lavoro
proceda senza im¬ pedimento. e il nuovo si affermi in tutta la sua
pie¬ nezza di vita. A chi ci domandasse, a questo punto, se
nella revisione della scienza economica occorra oggi una opera
riformistica o rivoluzionaria, potremmo si¬ curamente rispondere, senza
timore di essere frain¬ tesi. che la crisi di questa disciplina è giunta
ormai a un punto culminante e che vano sarebbe aver fiducia in
soluzioni non assolutamente radicali. Ma si deve, poi, aggiungere, che la
rivoluzione da noi auspicata acquista un carattere storico sui
generis e quasi in apparente contraddizione con quanto è stato fin
qui detto. È una rivoluzione, infatti, che nega, in un certo senso, la
scienza economica quale si è venuta svolgendo da due secoli a questa
parte e che tende a far riprendere il cammino ex nova, per vie finora
non tracciate. Contraddizione apparente, dico, perché anche qui la
negazione non è sterile negazione, e cioè an¬ nullamento di qualcosa che
abbia una realtà posi¬ tiva, bensì riconoscimento esplicito
dell’inesistenza di ciò che si nega. E quel che si nega è
addirittura la dignità di scienza airecnnomia costruita da Smith in
poi: si nega, in altri termini, che sia esistito un economista capace di
superare l’empiricità delle ri¬ cerche particolari per assurgere a un
sistema infor¬ mato a un principio unico e organico; si nega che la
sistematicità dei più famosi trattati di economia sia più che estrinseca e
formale; si nega, infine, che ci sia un solo concetto fondamentale
dell’economia (valore, utile, bene economico, gusto, homo ceco- nomicus,
libera concorrenza, ece.) cui si attribuisca un significato non
intimamente contradditorio. Si comprende bene come un’affermazione
così perentoria, così grave e paradossale, debba provo¬ care il
dissenso e anzi lo sdegno di ehi, educato a questi studi, ha imparato a
venerare come sommi maestri Smitli e Ricardo, Stuart Mill e Pareto;
ma bisogna pure una buona volta spezzare l’angusto cerchio in cui
l’economista si chiude, geloso del suo tecnicismo, e reinterpretare i
classici alla luce del loro tempo, dei loro presupposti speculativi e
delle esigenze loro fondamentali. Occorre, insomma, far scendere gli
dèi dall’olimpo in cui sono stati posti con scarsa consapevolezza storica
e procurare di giudicarli con criteri più larghi e comprensivi, sen¬ za
farsi deviare dall’esagerato rispetto di fame con¬ solidate troppo
esotericamente. Ma perché questa opera dia i suoi frutti, è necessario
pure che coloro i quali sono urtati nelle loro convinzioni o nelle loro
opinioni abbiano la forza di considerare senza intolleranza i risultati
che loro si offrono, e soprat¬ tutto si dispongano a sceverare ciò che
nelle loro convinzioni è frutto di ricerca personale da ciò che vi si
confonde come presupposto acquisito e indi¬ scutibile sol perché non
discusso. Certo, agli occhi loro deve apparir strano ed assurdo che si
possa du¬ bitare del valore scientifico di una siffatta discipli¬ na
e che scrittori ritenuti classici nel senso più alto della parola siano di
punto in bianco riportati a una non aurea mediocrità; ma essi debbono
pur convenire che tutto è relativo e che con un occhio solo si è re
nel inondo dei ciechi, sì che chiudendo¬ si nel mondo dell'economia non
v’è da meravigliar¬ si se diventino luminosissimi soli le semplici
lan¬ terne del più vasto mondo della cultura. 0 che for¬ se avrebbero
nozione della loro piccolezza i lillipu¬ ziani se non conoscessero altro
che il paese di Lilli¬ put? Né, d’altra parte, è lecito pretendere che
i giganti di Lilliput siano presi sul serio fuori del lo¬ ro regno. E
1’economia non è un regno che possa vivere in una beata solitudine. Uno
degli esempi tipici del consolidarsi di una fama esageratamente superiore
alla realtà dei me¬ riti effettvi è quello di Adamo Smith, il
cosiddetto fondatore dell’economia scientifica. ) Mezzo empi¬ rista e
mezzo huonsensista, incline per educazione alle vaghe ideologie, con
troppa abbondanza colti¬ vate nelle sfumature di una etica inconsistente,
lo Smith era certo la persona meno adatta a dar for¬ ma scientifica a
una disciplina come l’economia. >) Vero è rbe ormai i migliori Ira gli
storici dellVonomia met¬ tono per lo meno in dubbio tale qualifica, ma
ciononostante Smith reeta sempre in altissimo loro e in lulti i modi si
certa di gon- tiare ciò che a Smith non appartiene o ciò che, a lui
appartenendo, non è certamente esempio di particolare prolondilà. Tra
labroAdamo Smith è diventalo il classico ohbligalorio per chi si presento agli
esami di concorso per l’insegnamento dell’economia politica nelle scuole
medie. A quale titolo? Sta di fatto che i candidali non lo Studiano e gli
esaminatori girano al largo. Evidentemente ne gli uni nò gli altri
riescono a entusiasmarli per una sì grande □para. Non sarebbe tempo di
finirle? Ma, intanto, se il suo nome, per quel che rigirarti 1 etica,
è stato completamente offuscato dai colossi della speculazione, a
cominciare dal suo maestro ed amico David Humc, Leu altra è stata la
sorte della sua opera sulla ricchezza delle nazioni, assur¬ ta, non
certo per meriti superiori a quelli della sua etica, a pietra miliare o
addirittura iniziale della storia della scienza economica. E il più strano
è che tra le lodi più comunemente rivolte allo Smith v’è appunto
quella di aver sistemato in un organismo unitario ciò che prima di lui era
frammentario e disperso. Ora, se v’è cosa che salta subito agli oc¬ chi
a chi legga 1 opera dello Smith, è proprio la sua radicale incapacità a
porre unità nelle sue consi¬ derazioni e a dare una qualsiasi veste
sistematica alle sue aprioristiche affermazioni da esscryist. Se poi
dall unità passiamo alle singole teorie, la stessa indeterminatezza di
limiti e di formulazione si ri¬ vela, anche là dove l’espressione verbale
sembre¬ rebbe più categorica e decisiva; e da indetermina¬ to a
indeterminato, si scende giù giù fino alla fine dell opera senza aver mai
agio di poggiar su un ter¬ reno di una qualche solidità. Comunque —
valore sistematico a parte — quale la parola nuova dettaci da Smith?
Vano sarebbe cercare una risposta nella sua opera, ma anche vano
cercarla negli storici e negli apologeti che ne hanno consacrato la fama.
La letteratura in¬ torno a Smith è immensa, ma tutta fondamental¬ mente
viziata dal pregiudizio di trovare ciò che non c’è: nulla di strano dunque
che ancor oggi si di¬ scuta se Smi ili abbia seguito il metodo
deduttivo ovvero quello induttivo, se la sua economia sia con¬ ciliabile
con la sua etica, se l’interesse personale 15 - Spunto — 226 — faccia
a pugni con la simpatia, e via dicendo: re¬ stando sempre, come Fautore di
cui si discute, nel campo di un’economia a base di opinioni. Che se poi
si tenta di fare di Smith il teorico del libera¬ lismo economico, lo si
solleva, sì, nel campo della storia, dandogli finalmente una fisionomia
ben de¬ terminata, ma si commette una grande ingiustizia verso i
fisiocrati che in modo ancor più perentorio e genuino erano giunti prima
di lui alle stesse con¬ clusioni. Figura scialba e inconsistente,
mentalità antiscientifica c mnralisteggiante, Adamo Smith è tuttavia
oggi onorato come il padre o uno dei pa¬ dri dell’economia: non è certo
questa una grande garanzia per la serietà di una scienza. Ma
l’esempio di Smith non è un'eccezione nel¬ la storia dell’economìa, che
anzi il fatto che egli stia ancora a godere una fama pressoché
incontra¬ stata è la dimostrazione più evidente del livello spe¬ culativo
al quale sono rimasti gli economisti poste¬ riori. Sviluppatasi sempre
fuori o ai margini del movimento idealistico, l’economia politica ha
rice¬ vuto a volta a volta l’impronta di filosofie di secon¬ do
ordine, rese ancora più superficiali dal contat¬ to con i fenomeni
empirici presi a trattare. Empi¬ risti, storicisti, scettici, positivisti,
sociologi, ideolo¬ gi dell’umanitarismo, e simili, si son conteso il campo,
costringendo la realtà viva dei fatti econo¬ mici entro gli schematismi
aprioristici di vieti dog¬ matismi. E la realtà è stata svisata e resa
irricono¬ scibile, ora in nome della scienza, ora in nome di una
astratta idealità sociale, senza mai uscire dal¬ l'astratto che si
postulava e senza mai accostarsi alla vita per intenderla davvero e
dominarla con una scienza che non fosse una pseudoscienza. Non è qui
il caso di continuare in una esemplificazione che saia data in forma
organica in altra sede: tan¬ to più che a questa conclusione non è
opportuno arrestarsi considerando solo gli economisti che han¬ no
fatto la scienza, ché anzi dagli economisti con- vien passare alla scienza
per vedere se il lavoro di molti non ahhia potuto compensare la
mediocrità dei migliori. Al di là della consapevolezza dei sin¬ goli.
la scienza può venirsi costruendo in modo pressoché anonimo, col lento
fondersi e integrarsi dei contributi degli studiosi, e quella
concezione che non è stata mai chiara nella mente di ciascuno scienziato,
tutt’assorto nel suo lavoro particolare, potrchhe rivelarsi all’occhio
dello storico abituato a guardare dall’alto e a comprendere il
molteplice nell’unità. Ma purtroppo v’ha nella storia dell’eco- nomia
un vizio di origine che ha tolto finora a que¬ sta scienza la possibilità
di giungere a un organi¬ smo logico e non contradditorio. È un vizio sui
ge¬ neris, in quanto più che infirmare la perfezione della scienza,
ne ha addirittura vietato la nascita: è un presupposto assolutamente
negativo che ha sbarrato il cammino prima che si avesse modo di incamminarsi. Si
è detto che si cercherebbe invano nella sto- iia dell economia un sistema
informato a un prin¬ cipio unico e sistematico. Ma se questo è vero
in senso positivo non è altrettanto vero in senso ne¬ gativo; e a
tutti è noto, infatti, come la storia del¬ l’economia coincida in modo
quasi assoluto conla — 228 — storia del liberalismo economico, anche
se questo, velato da un apparente obiettivismo scientifico, sia rimasto
celato agli occhi di molti economisti. Un principio informatore c’è stato,
dunque, e sistema¬ tica perciò deve essere stata la scienza che ad
esso si è attenuta. Il che è tanto evidente da non poter temere
smentita, soprattutto da parte di chi quel principio ha cercato e cerca di
mettere nella mag¬ gior luce possibile, ad esso riportando anche
quelle conseguenze teoriche che ai più non sembrano ne¬ cessariamente
connessevi. Ma il fatto è che quel principio lungi daH’essere un principio
costruttivo è meramente negativo e distruttivo, sì che proprio ad
esso si deve Timpossibilità in cui l’economia si è trovata di assurgere a
vera scienza. Per intendere la negatività del principio è op¬ portuno
confrontare la storia dell’economia con quella del diritto, dal secolo
XVIII in poi. E il con¬ fronto si rende necessario per il chiarimento
di quel concetto di individuo, che è alla base di tutte le scienze
sociali quali si sono svolte in questi ul¬ timi due secoli. Presupposto,
infatti, di queste scien¬ ze, che, alimentate dalle ideologie
illuministiche, hanno poi avuto il loro massimo sviluppo col positi¬ vismo
sociologico, è l’esistenza di un individuo con¬ cepito come un microcosmo,
un individuo, cioè, fine a se stesso, con volontà autonoma, con libertà
di arbitrio, e insomma come un mondo chiuso in sé, col sacrosanto
diritto di rimaner chiuso e di re¬ gnare indisturbato entro la sua sfera
d’azione. È il presupposto liberale, ormai superato da una cri¬ tica
perentoria e inconfutabile, in nome di una libertà ben altrimenti profonda
e coerente. Ma in¬ tanto a quel presupposto bisogna risalire per
spie- garsi il valore e i limiti delle scienze sociali nella loro
attuale struttura. Ora, da una libertà intesa in senso atomistico è
chiaro che non può, a rigore, derivare alcuna scienza, se è vero che una
scienza è tale in quanto studia dei rapporti obiettivi. Una scienza
sociale può esistere solo a patto che la società costituisca un
organismo e cioè un’unità intelligibile. Ma quando si sostiene a priori
che la vera unità è l’in¬ dividuo e che i rapporti sociali sono
disciplinati al solo fine del benessere individuale, l’oggetto della scienza
si frantuma nella molteplicità di individui, per definizione irrelati e
inconfrontabili. L’unica scienza che si salva è il diritto: e il perché
è evidente. Se la società si costituisce e vive non per un fine sociale
bensì per la salvaguardia dei fini individuali, l’unico contenuto della
società sarà la difesa dei diritti reciproci e Tunico conte¬ nuto
della scienza sociale sarà Io studio dei limiti delle sfere individuali:
il diritto. Sarà anche que¬ sta una concezione formale ed estrinseca del
dirit¬ to, inadeguata alle superiori esigenze oggi manife¬ statesi,
ma intanto è certo che un contenuto speci¬ fico e positivo la scienza del
diritto lo ha pur re¬ stando nell’ambito di una teoria prettamente
in¬ dividualistica. E un contenuto positivo ha il dirit¬ to perché ha
lo Stato cui propriamente quella fun¬ zione compete, e che in tanto lia
una realtà in quan¬ to ha lo scopo di garentire le sfere degli arbitri
in¬ dividuali. Si spiega, dunque, molto bene come la scienza
giuridica ahhia potuto tanto svilupparsi in questi ultimi due secoli; e si
spiega anche prescin¬ dendo dal fatto che al mondo giuridico si sono
af¬ facciati scienziati e filosofi di ben altra forza specu- lativa
che non quella dei più illustri economisti. Si può dire anzi che nel
diritto si conchiude ed esau¬ risce teoricamente tutto il mondo sociale
illumini¬ sticamente inteso, senza alcun margine per altra scienza
che non sia affatto descrittiva. Trasportato questo stesso principio nel
cam¬ po deH’economia, esso si è necessariamente mu¬ tato in principio
distruttore della scienza. E, infat¬ ti, logicamente lasciata in disparte
la realtà dello Stato — realtà affatto giuridica con l’esclusiva
fun¬ zione di determinare i confini interindividuali — o relegata in
una particolare scienza detta scienza delle finanze, l’economia ha
ipostatizzato l’indivi¬ duo, rendendolo assolutamente irrelato
attraverso l’astrazione dell’/tomo veconomicus. Ma una volta fatta
oggetto di scienza una molteplicità irrelata, nessuna via era aperta per
la determinazione di un qualsiasi rapporto entro la stessa molteplicità.
0 Yhomo (Economicus è veramente arbitro e allora la relazione tra gli
homines si potrà soltanto consta¬ tare a posteriori, o la relazione è in
qualche modo scientificamente determinabile e allora l’arbitrio dell’individuo
è negato. E la scienza economica per gran parte è stata fedele al
principio individuali¬ stico giungendo a conclusioni meramente
negati¬ ve (libera concorrenza), e quando se ne è scostata è caduta
in una serie di contraddizioni che hanno rotto l’unità del sistema, o ne
sono rimaste al margine. Peggio è avvenuto quando l’economia,
raffina¬ ta metodologicamente e spinta da esigenze di mag¬ giore
sistematicità, ha voluto togliere al proprio liberalismo la veste di mera
ideologia politica, tra- ducendn il presupposto individualistico in
termini di pura scienza. Ne è venuta fuori la scuola psico¬ logica e
matematica, sboccata in quel fuoco d’arti- tìzio cbe è la teoria
dell’equilibrio economico ge¬ nerale. Non è il caso di ripetere qui
quanto si è detto altrove e ripetutamente di questa scuola: basterà porre
in rilievo l’antinomia irriducibile tra l’esi¬ genza di scientificità che
l’ispira e l’impossibilità di soddisfarla per la natura stessa del
presupposto da cui muove. Tutta la storia dell’economia è giun¬ ta al
suo logico plinto di sbocco e ha segnato il fal¬ limento di una scienza
costruita su una base illu¬ soria. Alla debolezza speculativa degli uomini
si è aggiunta la contradditorietà del principio informa¬ tore e
l’economia ha invano tentato per due secoli di sollevarsi a un grado
veramente scientifico. La scienza dell economia è ancora una speranza
del- l’avvenire. Ma cbe cosa è oggi, dunque, la scienza della economia?
Credo che migliore risposta non pos¬ sa esservi di quella data da Luigi
Einaudi parlando della storia delle dottrine economiche, nelle pa¬ gine
riportate in questo volume. Per lui tale storia « dovrebbe occuparsi solo
di quelle che sono dot¬ trine economiche proprie, ossia postulati,
assiomi, teoremi, corollari enunciati dagli economisti come tali e
non come filosofi, o politici, o religiosi, o in¬ dustriali. Quei teoremi
o corollari non sono moltis¬ simi e si chiamano prezzi di monopolio o di
con¬ correnza, o dei beni congiunti, costi comparati, di- stribuzione
dei metalli preziosi fra i diversi paesi del mondo, rendita del
produttore, del risparmia¬ tore, del consumatore, equilibrio economico,
equa¬ zione degli scambi, rapporto fra moneta propria¬ mente detta e
surrogati della moneta, elasticità del¬ le curve di domanda e di offerta,
traslazione e capi¬ talizzazione dell’imposta, doppia tassazione
nella tassazione del risparmio, e simili astruserie, fortu¬ natamente
noiose per la comune degli uomini e poco appetitose per gli uomini
storici, politici, pra¬ tici esercenti banca o commercio o industria,
seb¬ bene atte a formare l’unica e suprema delizia degli economisti
di professione. Da qualche secolo gli economisti faticano per costruire,
in questo campo chiuso, un beH’edificio astratto di teorie logiche e coerenti.
Sono lontanissimi dalla meta e questa non sarà mai raggiunta, perché ad
ogni passo compiuto, nuove mete, nuovi teoremi attraggono la loro
at¬ tenzione. Per tanto tempo si erano industriati a creare schemi
astratti statici, rappresentazioni atte a raffigurare un meccanismo in
equilibrio in un dato momento. Disperavano, per la imperfezione degli
strumenti di ricerca da essi posseduti, di riu¬ scire mai a creare schemi
atti a raffigurare il « mo¬ vimento » da un equilibrio a quello successivo
; os¬ sia a trasformare i loro schemi astratti relativi ad un momento
del tempo in schemi pure astratti, ma relativi al susseguirsi dei momenti
del tempo. Da qualche anno si sono gettati su questo terreno ver¬ gine
e, nonostante la difficoltà dell’impresa, non dobbiamo disperare che un
giorno un uomo di ge¬ nio, capitato a prediligere la dinamica
economica, abbia da dire qualcosa ai filosofi cd ai politici che quei
campi del movimento, ossia del reale e del vi- vo, hanno sempre, a modo
loro e giustamente a modo loro, coltivato. Per ora, non sarebbe bene che
noi confessassimo di non essere riusciti in tan¬ te generazioni adorne di
qualche uomo di genio e di molti ingegni di prim’ordine, i quali
avreb¬ bero onorato, se ci si fossero dedicati, i più illu¬ stri
campi della matematica pura, della fisica, della chimica e delle altre
scienze, ad uscire dal regno del ■Se, dell ipotetico , dell irreale? Non
per mancanza di buona volontà; ma per sordità della materia, la quale
appena ora si piega, in mano a sottilissimi statistici armati di tutti i
più penetranti strumenti del calcolo, a fornire qualche pallidissima luce,
per ora diffusa attraverso schemi astratti, intorno al reale, che è
vita e movimento )). Confessione di fallimento, dunque, e riduzione della
scienza alla molteplicità di alcuni postulati, teoremi e corollari. E
questa è la parola di uno di quegli economisti che, rifiutando la
qualifica di liberali, credono ancora alla saldezza scientifica di
teoremi alla concezione liberale pur intrinseca¬ mente connessi. Vano
sarebbe per lui fare una sto¬ ria dell economia, che fosse la storia di un
principio della molteplicità delle sue derivazioni. Soltanto alla
molteplicità deve badare lo storico e ricercare 1 atto di nascita dei vari
teoremi che mette conto d’illustrare. Al di là dei teoremi non c’è il
sistema e tanto meno la storia del sistema. E la scienza dunque non
c’è se non come giustapposizione di ri¬ cerche particolari. La
diagnosi è precisa, ma non altrettanto pre¬ cisa ne è l’interpretazione.
La scienza non c’è per¬ ché è fallito quel principio liberistico che la
negava nell atto stesso rEinformarla : oggi non sono rimasti che gli
scarsi frammenti (postulati, teoremi, corol¬ lari) che vanno finalmente
intesi e rifusi alla luce di un principio ricostruttivo positivo. E, se è
vero che il nuovo principio deve rappresentare il supera¬ mento del
vecchio, contrapponendo alla pura nega¬ tività di un individuo irrelato la
positività e la con¬ cretezza deiridentificazione di individuo e
Stato, non può trattarsi evidentemente di un procedere sulla via già
percorsa se non nel senso di ripren¬ dere il cammino con la consapevolezza
del fallimen¬ to avvenuto. Nulla di quanto si è fatto deve essere negato:
e nessuno potrebbe in buona fede cancel¬ lare i tanti risultati raggiunti
nella soluzione di par¬ ticolari problemi (molti, se non tutti, tra quelli
ci¬ tati daH Einaiidi, e altri ancora non meno impor¬ tanti); ma soli
risultati limitati a fenomeni ridotti a termini matematici, o illustrati
da una sapiente sta¬ tistica, o descrittivi di momenti storici
determinati: non sono la scienza, l’organismo, il sistema, in cui la luce
e sempre unica perché unico il principio c il fine. Quel che si nega è
appunto la scienza che non c’è, e non ci potrà essere fino a quando non
sarà compiuta quella rivoluzione scientifica di cui fin qui si è
discorso. CRITICHE DI FILOSOFI Tra le tante critiche rivolte alla
tesi della iden¬ tità di filosofia e scienza nell’applicazione
fattane nei problemi della scienza economica, meritano di essere
considerate a parte quelle che ci provengono dai cultori della filosofia.
Curiosa posizione, invero, la nostra, di fronte a scienziati, che loro
malgrado sono indotti a occuparsi, sia pure di sbieco, di filo¬ sofia,
per rispondere alle critiche di principio che loro moviamo; e di fronte a
filosofi, costretti a scivo¬ lare, con evidente senso di disagio, nel
campo scien¬ tifico, per salvare la filosofia da una presunta con¬ taminazione.
Curiosa, perché ci troviamo a dover discutere con illustri scienziati, i
quali, per evi- dente inesperienza di studi filosofici, vengon fuori con
ingenuità sconcertanti e gettano un’ombra non lieve sulla stessa scienza
che professano; e con non meno illustri filosofi, i quali immaginano
una scienza che non esiste e con essa fanno i conti senza voler
uscire dal guscio di quella pseudo uni¬ versalità di cui si ritengono
depositari. E gli uni e gli altri, naturalmente, ci combattono in
relazione a quella filosofìa o a quella scienza che non cono¬ scono e
concordano a priori nella conclusione di ritenerci pseudofilosofi o
pseudoscienziati. Ma non è colpa nostra se, stando nel mezzo, ci punge il
de- siderio di sollevarci sulla reciproca incomprensione di cui gli
uni e gli altri danno prova, e di dimo¬ strare come quell’universalità cbe
i filosofi difen¬ dono sia verbale e apparente e come il rigore si¬ stematico
di cui gli scienziati sono orgogliosi abbia la stessa consistenza delle
affermazioni filosofiche che si lasciano sfuggire. A noi non resta cbe
invi¬ tare ancora una volta a porsi da questo più com¬ prensivo punto
di vista, dal quale è possibile una visione precisa di quel cbe siano la
falsa filosofia e la falsa scienza. Armando Carlinicomincia con
l’avvertire, in linea di massima, cbe « bisogna vincere il pre¬ concetto,
ancora molto diffuso, cbe ci siano dei principi da riformare nelle scienze
con criteri filo¬ sofici, per poi procedere alla riforma di esse. I principi
sono immanenti al lavorio scientifico, il quale procede riformandosi da
sé: l’enunciazione dei principi avviene dopo, non prima ». Se non che
tale modo d’impostare il problema presuppone già un dualismo dogmatico di
scienza e filosofia che preclude inevitabilmente la strada alla com¬ prensione
del nostro tentativo. Se principi scienti¬ fici e criteri filosofici son
cose diverse, se 1 enun¬ ciazione dei principi vien dopo, se il lavorio
scien¬ tifico procede riformandosi da sé, vuol dire cbe la lesi
dell’identità di scienza e filosofia resta fuori discussione e che
rammonimento va a coloro i quali 5 ) CIr. la sua recensione del mio libro
su Lo critica dell'econa- mia liberale, in Leonardo, agosto 1931, pp.
354-455. mescolano una scienza e una filosofia intese Alla vecchia
maniera. Per conto nostro non possiamo aver la pretesa di riformare i
prìncipi delle scien¬ ze con criteri filosofici perché non conosciamo
cri¬ teri filosofici che non siano i principi stessi delle scienze:
ammettiamo che il lavorio scientifico pro¬ ceda riformandosi da sé per la
semplice ragione che non conosciamo alcun altro lavorio oltre lo
scien¬ tifico: e infine non possiamo ammettere che l enun- ciazione
dei principi avvenga dopo per la stessa ragione per cui non possiamo
ammettere che av¬ venga piìma essendo i principi, come ben osserva il
Carlini stesso, immanenti al lavorio scientifico. Ma il Carlini non si
arresta a queste osserva¬ zioni e riafferma il dualismo in modo ben più
pe¬ rentorio. « La vita », egli scrive, « nella filosofiagentiliana è pura
spiritualità e personalità del sog¬ getto: per lo scienziato, è nel
divenire storico della realtà eh egli studia, e a questa cerca di
adeguare i suoi concetti. La scienza, se non procede così, con questa
mentalità, non è più scienza. Introdurre nella scienza una questione
morale (la consape¬ volezza che quel mondo della scienza ha dei
limiti, e che in noi è una ragione di vita che lo supera) è
distruggere il prohlema proprio dello scienzia¬ to ». Dove è da osservare
che la vita del soggetto è appunto il divenire storico della realtà
ch’egli stu¬ dia; che il mondo della scienza non ha limiti, bensì li
ha ogni scienza vista nella sua particolarità ; e infine che lo
scienziato, il quale non avesse la con¬ sapevolezza dei limiti della sua
particolare scienza, non sarebbe scienziato. Del resto, il dualismo
cui si arresta il Carlini è più un residuo di vecchie teorie che non una
pre- cisa convinzione. Tanto è vero ch’egli ammette la « bontà » dei
miei saggi e la spiega « non con gli schemi dellTntroduzione ma con quanto
l’autore vi porta di conoscenza concreta dei problemi di¬ battuti, e
soprattutto con quel vivo senso della sto¬ ricità di questi problemi ch’è,
nel campo della cul¬ tura in generale, specialmente per noi italiani,
una delle conquiste fondamentali dell’idealismo con¬ temporaneo ».
Ora, è chiaro che il senso della sto¬ ricità dei problemi discussi è
appunto la consa¬ pevolezza dei limiti delle affermazioni
scientifiche e sta a dimostrare, in atto, l’identità di scienza e filosofia.
Che poi l’Tntroduzione si riduca a schemi irrilevanti ai fini delle
affermazioni scientifiche contenute negli altri saggi, è cosa per lo meno
di¬ scutibile: comunque ciò non denoterebbe la natu¬ ra filosofica
dellTntroduzione in contrasto con la natura scientifica dei saggi, bensì
lo scarso valore filosofico e perciò lo scarso valore scientifico
della Introduzione stessa. In altri termini, in essa per¬ marrebbe
alcunché di quell’astrattismo filosofico che noi ci proponiamo di
combattere non meno del correlativo astrattismo scientifico. Il
dualismo di scienza e filosofia è presuppo¬ sto in modo ancor più
perentorio da Giulio Cola¬ marino, *) che ripetutamente ha voluto
dimostrare 3 ) G. Col AM arino, Scienze e filosofìa, in Nuovi problemi,
di¬ cembre 1930, pp. 97-116; recensione di U. Spirito, La eritrea
della economia liberale, ibid,, gennaio-febbraio 1931, pp. 93-98;
Scienze sociali, filosofia e scienze economica, ibid., luglio-settembre
1931, pp. 481494. 1 autonomia della scienza dando come unica
legitti¬ ma una scienza non filosofica e perciò a lui. stu¬ dioso di
filosofia, affatto ignota. « Ma peggio sa¬ rebbe certamente », egli
osserva, « se l’idealismo assoluto volesse entrare nel dominio della
scienza per migliorarla e renderla più rispondente alla vi¬ ta — come
appunto sostiene il libro di cui parlia¬ mo. Non potendo la filosofia
dettar legge alla scien¬ za. né costruirla come una finzione
intellettuale che le rimarrebbe sempre estranea, potrebbe acca¬ dere
che, col concorso di circostanze che non oc¬ corre specificare, l’invocato
connubio tra scienza e filosofia, segnasse in Italia l’inizio di un
periodo di grande confusione, se non nel mondo della cultu¬ ra, per
lo meno in quello della scuola » (recensione cit., pag. 95). E qui, al
solito, si parla di una filo¬ sofia che dovrebbe entrare nel mondo della
scienza, e di un connubio di scienza e filosofia, laddove la tesi che
con ciò si vuol combattere è quella di una scienza che è filosofia e che
filosoficamente progre¬ disce correggendo i suoi principi. Non si tratta
di unire due mondi, bensì di riconoscerne l’identità. Al che il
Colamarino, finché rimarrà sulla via in¬ trapresa, non potrà certamente
giungere per l’ine¬ sperienza da lui dimostrata degli studi scientifici
in genere e deireconomia in ispecie. Chi dubitasse di questa mia
affermazione non avrebbe che a leggere le osservazioni che il Colamarino
fa sulla mia cri¬ tica del Pareto, e riflettere in particolare sul
se¬ guente passo, in cui si cerca di svalutare il mio giu¬ dizio
giudicandolo meramente filosofico. « Bisogna concludere perciò », egli
scrive, « che di uno scien¬ ziato è troppo vano e tardivo fare la critica
filo¬ sofica, dopo che tale critica si è già esercitata sulla forma
del sapere scientifico, e che quella critica è poi anche fuor di luogo se
deve valere per gli scien¬ ziati. Se Pareto non avesse scritto il Manuale,
tutti i suoi libri pseudostorici e sociologici non sareb¬ bero valsi
a ricordarlo agli scienziati, e quindi lo Spirito non avrebbe sentito il
bisogno di occuparsi di lui. Ora, parlare di Pareto, come egli ha
fatto, svalutando il Manuale, e concentrando tutto Tinte- resse sullo
scetticismo sorto nell’animo paretiano nel vano tentativo di combinare
insieme la sociolo¬ gia con l'economia, significa rimanere ai
margini dell’argomento, rinunciare a parlare di scienza per eccessivo
attaccamento alla filosofia » (ibid., p. 97). Se il Colamarino avesse
letto davvero il Pareto e si fosse reso conto delle mie critiche, non
avrebbe certamente scritto queste righe che sono la confer¬ ma
decisiva dell’impossibilità in cui egli si trova di discutere il problema
dei rapporti tra filosofia ed economia. Il Manuale ch’egli contrappone ai
li¬ bri pseudostorici e sociologici è proprio il libro del Pareto in
cui le ideologie sociologiche e pseu¬ dofilosofiche prendono il
sopravvento sulla scien¬ za economica più aderente alla tradizione
rappre¬ sentata dal Cours, e mettono capo a leggi e teoremi privi di
qualsiasi rigore logico. Lungi dal rinun¬ ciare a parlare di scienza per
eccessivo attaccamen¬ to alla filosofia, io ho voluto dimostrare
Tinconsi- stenza scientifica della costruzione del Pareto do- vuta al
suo impelagarsi nella filosofia (che è, s’in¬ tende bene, una cattiva
filosofia). Se il Colamarino ritiene che scientificamente il Manuale
rappresenti qualcosa di altro e di meglio di ciò che è stato da me
filosoficamente criticato, lo dimostri, e si finisca ima buona volta dì
contrapporre al mio Pa- reto un Pareto scienziato che nessuno dà prova
di conoscere e di saper difendere contro un giudizio che ne investe i
principi fondamentali. E qui mi occorre di dare un consiglio ai con¬ traddittori,
filosofi o economisti, che siano, ma so¬ prattutto se economisti: non
continuino a oppormi inutilmente vaghi filosofemi e opinioni
approssi¬ mative sulla possibilità o impossibilità del mio as¬ sunto,
ma cerchino di saggiare in concreto la vali¬dità deile critiche particolari e
dei criteri ricostrut¬ tivi. Allora soltanto la discussione potrà
riuscire feconda ed esser liberata da quel filosofismo di cui sono
purtroppo infetti i miei accusatori. Delle tan¬ te pagine che il
Colamarinn mi ha dedicate non in¬ teressano certo quelle che pongono una
pregiudi¬ ziale filosofica: non interessano e perciò non le di¬ scuto.
Interessano invece, e vorrei quindi discute¬ re, le osservazioni circa i
problemi concreti della scienza economica, ma purtroppo di queste vi
ha molta scarsezza negli articoli citati. L’unico punto un po’
determinato è quello che concerne l’ipotesi dell homo cp.canomic.ua, dal
Colamarino riproposta a fondamento della scienza economica. Contro
il Contento, ch’era della stessa opinione, e che ave¬ va definito
Yhoìno mconomicus « l’inividuo imma¬ ginato nella sua pura condotta
economica, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata,
gene¬ ralmente, ad un tipo uniforme corrispondente alla ricerca della
massima soddisfazione col minimo sforzo, cioè all’applicazione integrale
del principio lfi - Suino — 242 — del minimo sforzo », avevo
opposto che, se tale è l’ homo cp.conomicus. l’uomo è sempre
economico, in ogni campo della sua esistenza, perché sempre tende
alla massima soddisfazione col minimo sfor¬ zo, e che dunque « la fictio
dell’/i. ce. si rivela an¬ cora una volta assolutamente inadatta a servire
da ipotesi scientifica )). Ora, su questo ragionamento, «
impressionante nella sua semplicità », come dice lo stesso Colamarino, si
trova modo di sofisticare distinguendone la validità scientifica da quella
filo¬ sofica e concludendo che il principio si estende, sì, a tutti i
campi deH'attività umana, ma acquista un particolare significato allorché
si parla di econo¬ mia politica. « E qual’è », continua il
Colamarino, C( l’economicità sulla quale si erge l’edificio della scienza
economica? È indubbiamente l’attività che sì esercita nella produzione,
nello scambio, nel con¬ sumo dei beni materiali, misurabili, trasferibili,
o riducibili comunque a nozione quantitativa. E Yho- mn oeconnmicus
non è altro che l’individuo che esercita tale attività: individuo che non
è certo l’Io della filo sofia e neppure tutto l’individuo sociale (che
allora la economia sarebbe tutta intera la scienza sociale), ma che è
appunto quell’astrazione, quella fictio necessaria alla scienza
dell’economia » (Scienze sociali ecc., pp. 490-491). Ma con ciò il Colamarino
conferma appunto che la definizione del Contento, e di tanti altri prima,
è errata, per¬ ché generica, e che il vero homo ceconomicus è in¬ vece
Vindividuo che esercita la sua attività nella produzione, nello scambio,
nel consumo dei benimateriali, misurabili, trasferibili, o riducibili co¬ munque
a nozione quantitativa. Filosofica o scien¬ tifica che fosse, la mia
obiezione era dunque vali- da e la definizione è stata cambiata. Che poi
la nuova formula non abbia, neppur essa, alcun va¬ lore scientifico,
è cosa che dovrebbe risultare ab¬ bastanza evidente dopo tante discussioni
in pro¬ posito, ma non sono alieno dal tornarvi su, se al Colamarino,
o a qualche altro in sua vece, venisse il desiderio di maggiori
delucidazioni. Ciò che im¬ porta è di discutere su questa piano, senza
conti¬ nuare a domandarsi se si tratti di scienza ovvero di
filosofia, e cercando, semplicemente, di ragio¬ nar bene. LA NUOVA
SCIENZA DELL’ECONOMIA SECONDO WERNER SOMRART À coronamento della sua
grande opera di sto¬ ria economica. Werner Sonibart ha voluto com¬ piere
un tentativo di sistemazione scientifica dei principi fondamentali
dell’economia, e ha scritto un’opera (Die drei Nationalókonomien,
Miinchen und Leipzig, Duncher und Humhlot, 1930, pagi¬ ne xii-352)
intenzionalmente rivoluzionaria, che non potrà non destare scandalo presso
tutti gli eco¬ nomisti convinti dell'assolutezza e infallibilità
del¬ le loro leggi. Ai cattedratici ortodossi che si com¬ piacciono
della solidità di quel corpo di dottrine economiche messo insieme dai
classici e via via per¬ fezionato dagli scienziati puri pervenuti al
rigore delle discipline matematiche, il Somhart getta riso¬ lutamente
in faccia l’accusa di radicale incongruen¬ za e di cieco dogmatismo. Lungi
dal rappresentare una scienza esatta, l’economia si trova oggi in
una « situazione disperata » (verzweifelle J.u&tand un- serer
Wissenschaft) che il Somhart non teme di rappresentarsi con le fosche
tinte di uno spaven¬ toso caos. Naturalmente il giudizio è
confortato dallanalisi dei motivi e dalla dimostrazione inop¬ pugnabile
della indeterminatezza dei principi su cui la scienza delFeeonomia è stata
fondata. Si tratta di un imprecisione che ha involto lo stesso concetto
di economia e poi lutti i metodi di ricerca e tutta la terminologia
scientifica. Criteri estrinseci di classificazione, interferenza di motivi
disparati, delimitazioni arbitrarie, presupposti infondati e concetti
equivoci hanno portato la confusione nel campo degli studi economici,
facendo smarrire ogni senso dei suoi confini e delle sue
caratteristiche peculiari. « L’economia si è accontentata fin qui di concetti
che a guisa di vagabondi si sono aggirati tra 1 confini dei vari paesi,
senza Leu sapere dove avessero diritto di cittadinanza. Con tal genia
er- rante e vagabonda l’economia ba voluto riempire i quadri del suo
esercito di concetti: valore, biso¬ gno, bene, piacere, pena, utilità,
eco., e ha persino concesso a questi vagabondi la dignità di
concetti fondamentali. (Grundbegriffe) » (pag. 247). Non si tratta
dunque di eliminare errori o di colmare lacune, bensì di trasformare ab
imis tutta la scienza economica mediante l’assunzione di prin¬ cipi
affatto diversi e a confini ben determinati. Non v’è uno solo dei concetti
di cui ] a scienza eco¬ nomia oggi fa uso che non sia di carattere
empi- ri co e perciò suscettibile delle infinite interpreta¬ zioni
giustificate dalle contingenze del suo uso. Aver la pretesa di far della
scienza rimanendo su un terreno così poco stabile è un assurdo che
il Somharf riesce a mettere efficacemente in luce, mostrando
l’urgenza dei rimedi. Ed egli senz’altro’ afferma, con simpatico orgoglio,
di aver appunto intenzione di recare « un po’ d’ordine in questo caos
)) ( p. 19) e di dar finalmente rigore scientifi¬ co a una disciplina che
con troppa evidenza ha di¬ mostralo di non averne affatto. Con questo
libro una nuova epoca dovrebbe, dunque, iniziarsi nella storia della
scienza economica. Per chiarire la sua posizione di fronte a tutti gli
altri indirizzi scientifici, il Sombart compie fin dalle prime pagine una
generale ripartizione dei sistemi di economia in tre grandi tipi,
caratteriz¬ zati dal metodo di ricerca: il metafisico o normati¬ vo
(Tirhtende Nationalokonomie), il naturalistico o classificatorio o
descrittivo (ordnende A lational- Òknnomie) e infine lo spiritualistico o
critico (vpt- slehende Nationalokonomie). Del primo sarebbe rappresentante
tipico Sau Tommaso, del secondo il Pareto, del terzo il Sombart (das «
meinige »). E tutto il libro quindi vien ripartito in tre parti, due delle
quali volte alla critica dei sistemi giudicati inadeguati (metafisico e
naturalistico) e l’ultima invece destinata a porre i fondamenti della
nuova costruzione spiritualistica. L’economia normativa non ba lo
scopo di stu¬ diare il mondo nella sua effettiva realtà, ma di in¬ dicare
ciò ch’esso deve divenire: non si riferisce all’essere ma al dover essere,
e in quanto tale pone le direttive della condotta umana per
l’instaurazio¬ ne dell’economia giusta. I concetti su cui essa si fonda
sono perciò concetti sociologici come classe o mestiere; concetti di
giustizia come giusto prez- zo, giusto salario o giusta distribuzione;
concetti di valore come sfruttamento, ecc. I suoi fini sono quelli di
determinare i valori assoluti, di riconnet- tcre ad essi le proposizioni
scientifiche, di tradurli nella pratica della vita e di segnalare le
deviazioni della realtà dall’ideale. Dopo aver esposto i vari tipi di
questa econo¬ mia normativa, l’Autore si domanda se essa sia scientificamente
ammissibile e se possa quindi rap¬ presentare il vero canone metodologico
dello stu¬ dioso. Nella risposta si rivelali d’un tratto tutti i limiti
dell’orizzonte speculativo del Sombart e si iniravvedono le difficoltà che
egli dovrà superare per liberarsi, almeno in parte, dai pregiudizi
della ideologia da cui prende le mosse. Ancora fedele al concetto
positivistico di scienza e alla conseguente critica antifilosofica, egli
distingue in modo cate¬ gorico il mondo dell’esperienza dal mondo dei
va¬ lori, la scienza dalla filosofia, e alla prima ricono¬ sce la
possibilità di una verità obbiettiva laddovealla seconda consente un
significalo esclusivamente soggettivo. L’economia, in quanto scienza, non
può indicarci l’ideale di una maggiore produzione, per¬ ché tale
ideale implica la soluzione di un problema non semplicemente economico, ma
totale o meta¬ fisico, quale è quello del fine sociale: implica,
cioè, una particolare visione del mondo una Weltan- schauung, che
trascende assolutamente i meri dati scientifici. Né è possibile, secondo
il Sombart, che tale concezione integrale informi comunque di sé una
scienza particolare, perché la differenza fra la parte e il tutto, ossia
tra la scienza e la filosofia, non è soltanto quantitativa, bensì anche
qualita¬ tiva. La filosofia è da lui intesa come intuizione re- ligiosa,
come conoscenza personale e soggettiva: se essa si insegna, i] suo
insegnamento non può con¬ siderarsi come 1 introduzione a una verità, ma
co¬ me una suggestione personale del maestro sull’a- lunno, come un
invito alla lede del maestro. La conoscenza filosofica, perciò, è
essenzial¬ mente relativistica e può rivelarci un solo aspetto della
realtà, mutando legittimamente da persona a persona, con pari validità per
ognuno. Alla fede scientifica, originariamente positivistica, il
Sombart può giustapporre, senza timore di ledere la sicu¬ rezza
obiettiva dell’esperienza, una filosofia rela¬ tivistica e scettica,
fornitagli a troppo buon mer¬ cato dall’indulgente Simrnel. E allora dalla
scien- za si dà il bando a tutti i giudizi di valore, che. in quanto
personali, non possono costrìngere logica¬ mente, ma debbono rimanere
fuori dell’esperienza e dell’evidenza. 11 loro fondamento è Femore:
per i valori 1 uomo vive e muore, ma i valori non co¬ nosce: essi
appartengono alla sfera filosofica o reli¬ giosa, nella quale dunque può
solo rientrare tutta l’economia normativa. In tal guisa vien
liquidato dal Sombart uno dei tipi fondamentali della scienza economica,
e il lettore non può non rimanere sorpreso dalla facilità e diciamo
pure — superficialità, con cui si ripetono monotonamente la istanza
scientifi¬ ca del positivismo, l’affermazione dogmatica della validità
di un’esperienza e di un’evidenza logica non meglio definite, l’accusa di
relativismo alla fi¬ losofia, e 1 impossibilità scientifica di un
qualsiasi giudizio di valore. Se dovessimo arrestarci a que¬ sta
prima parte del libro, non avremmo che a con¬ cludere in modo affatto
negativo, perché se il Som- bari avesse sul serio mantenuto fede a tale
pozio¬ ne iniziale, nessun motivo nuovo e nessuna nugoli esigenza
sarebbero scaturiti dalla sua ricostruzione. 1] dualismo di conoscenza e
fede, di fatto e valore, di oggettivo e soggettivo, ci appare finora così
radi¬ cale e grossolano, da far ritenere completamente fallito il
tentativo e da far per lo meno dubitare della serietà di un effettivo
riordinamento della scienza economica. Più che la rozzezza dei
motivi critici^ meraviglia vedere in un uomo di tanta cul¬ tura
l’assoluta incapacità di prender atto dello svi¬ luppo del pensiero
contemporaneo e delle infinite istanze critiche sollevate d’ogni parte al
massiccio credo positivistico, cui il Sombart sostanzialmente serba
ancora fede. Lo stesso Pareto, del quale egli ricalca fin qui le orme,
aveva detto queste cose in ben altra e più nuova maniera: né si capisce
come vi si possa ancora tanto insistere, senza porre in campo
argomenti nuovi o senza impostare diversa- mente la logora questione. Si
tratta, oltre tutto, an¬ che di sensibilità e di gusto. Ma
fortunatamente il Sombart. pur portando attraverso tutto il libro il peso
di tali presuppo¬ sti, sa presto sollevarsi a un altro livello e
affac- ciare esigenze in netta antitesi con le prime affer¬ mazioni.
Da una parte si affina in lui il concetto di esperienza, dall altra si
attenua fin quasi a scom¬ parire il crudo dualismo di scienza e filosofia.
E già nell analisi del secondo tipo di sistemi econo- mici, quello
classificatorio o descrittivo, si comin¬ cia a delineare una forte istanza
critica rispetto al¬ la comune concezione naturalistica della
scienza. Caratteristiche della scienza della natura so¬ no la
validità universale e l’assoluta obiettività dei principi e delle leggi:
ma questo risultato, che è il risultato più grande raggiungibile dalla
scienza, è possibile solo a patto di rimanere in una zona me¬ ramente
formale. Se analizziamo, infatti, le propo¬ sizioni delle scienze
naturali, ci accorgiamo ch’es¬ se si riferiscono a fenomeni morii, già
realizzati fìssati e resi calcolabili attraverso un processo di elementarizzazione.
Il tutto, l’essenza della natura sfugge completamente e va relegato nei
campi della metafìsica: ciò che resta oggetto di scienza sono i particolari
aspetti, i fatti semplici, i fenomeni mi¬ surabili, i quali vengono
raccolti e ordinati secon¬ do principi formali estrinseci (concetti
generali, schemi, leggi, uniformità). « La conoscenza, come viene
intesa nelle moderne scienze naturali, è una comprensione esteriore delle
cose; è una conoscen¬ za dal di fuori, o, come fu anche detta,
particolare, vale a dire ch’essa si limita a un solo carattere: la quantità
(Gròsse). Fornendoci solo la misura o il numero delle proprietà dei
fenomeni, le scienze naturali hanno sostituito un rapporto formale e unilaterale
all’unità complessa )) (p. 112). Ora, v’è un modo di costruire la scienza
del- reconomia, che si ispira appunto a tali criteri na¬ turalistici,
poco preoccupandosi del valore conosci¬ tivo dei risultati. E il Sombart
giustamente ravvisa nei seguaci di questa ordnende Nationalókonomie non
solo i teorici delFoggettivismo, ma gli stessi sog¬ gettivisti, gli
psicologi, i marginalisti e i seguaci delle — 251 — teorie
dell’equilibrio. Egli non si lascia ingannare da un presunto soggettivismo
e. dopo aver osservato (pagg- 110-111) cbe esiste un modonaturalisticodi fare
la scienza dell’anima e dello spirito, giunge fino a rilevare il carattere
equivoco del principio di ofe¬ limità del Pareto (p. 128). Una
critica condotta in termini sì efficaci e ri¬ gorosi della concezione
naturalistica della scienza basta a farci comprendere come la posizione
piat¬ tamente positivistica dell’altra critica alla richtende Nationalókonomic
non fosse sufficiente per indivi¬ duare il livello speculativo cui il
Sombart è perve¬ nuto. Qui si rivela una coscienza abbastanza esatta e
approfondita di tutto quel movimento di reazione idealistico alla scienza
che ha caratterizzato gran parte del pensiero filosofico e scientifico
degli ultimi decenni, e si dimostra a chiare note una radicale in¬ soddisfazione
per rinfallibile obiettività e assolu¬ tezza di cui presumevano avere il
monopolio i po¬ sitivisti. Se, quindi, si volesse nuovamente
definire, limitandoci a questa seconda tappa, la concezione speculativa
del Sombart. occorrerebbe cercarne i li¬ miti in quella stessa critica
alla scienza cbe caratte¬ rizza le filosofie contemporanee
antintellettualisti- che. E i lìmiti allora si ritroverebbero nel
dualismo di natura e spirito, cbe pesa purtroppo sulla scien¬ za e
sulla filosofìa come dualismo delle stesse disci¬ pline, e che fa ritenere
tuttavia a molti insupera¬ bile la concezione naturalistica delle scienze
natu¬ rali. L’accusa che il Sombart muove alla scienza della economia
non riguarda, per sua esplicita con¬ fessione, la scienza della natura, la
quale è e deve essere naturalistica, e necessariamente degenera nel¬ la
metafisica quando voglia supeiare il proprio ca- — 252 — ratiere
meramente formale (p. 119): il che vuol dire che scienza naturale e
scienza sociale sono as¬ solutamente eterogenee, e che alla prima
competono metodi di ricerca affatto diversi da quelli seguiti dalla
seconda. La conseguenza ultima sarà che la scienza sociale per quel tanto
che interferirà con la scienza naturale diverrà per definizione
impossibile e assurda, come appunto confermerà nell’ultimo svolgimento
del suo pensiero lo stesso Sombart. Egli, al solito, non sospetta che la
critica alla scienza ha il solo valore di una critica alla concezione
natu¬ ralistica della scienza e non pensa neppure che la scienza
della natura possa farsi con altri criteri che non siano quelli estrinseci
del positivismo : dalla sua critica perciò egli non perviene a una nuova
visio¬ ne della scienza, in generale, bensi soltanto a un distacco
arbitrario delle scienze sociali, che vorreb¬ be sottrarre alla
metodologia propria delle scienze naturali. È questo certamente un passo
innanzi ri¬ spetto alla comune critica alla scienza, ma è un passo
fatto a costo di un dualismo che compromet¬ terà inevitabilmente la nuova
costruzione. Dall’analisi compiuta della richtende Nationa- lókonomie
e della ordnende Nationalókonomie so¬ no scaturiti per contrasto i
caratteri che do¬ vrà avere la vera scienza dell’economia, la ver- stehende
Nationalokonomie. E il problema viene a porsi in termini almeno
apparentemente rigo¬ rosi, quando il Sombart affaccia l’esigenza di un
cri- terio conoscitivo che sfugga per la sua obiettività al relativismo
di una metafisica soggettività e non si esaurisca d altra parte in una
sistemazione affatto estrinseca e classificatoria dei fenomeni
sottoposti a indagine. La nuova scienza dovrà giungere alla essenza
della realtà economica, pur non abbando¬ nando mai il terreno
concretissimo dell’esperien¬ za. Per giungere a questo risultato il
Sombart com¬ pie il maggiore sforzo speculativo che gli è possibile assumendo
entusiasticamente a guida indiscussa il pensiero del nostro Vico, dal
quale appunto trae argomento per ipostatizzare il dualismo, cui
abbia¬ mo accennato, di scienza della natura e scienza so¬ ciale. ((
lo sono disposto )), afferma risolutamente il Sombart, « a riconoscere in
Giambattista Vico il pa¬ dre delle moderne scienze dello spirito e di un
rela¬ tivo particolare metodo di conoscenza. Egli è. a mio modo di
vedere, il primo che nei tempi moderni ab¬ bia contrapposto con coscienza
le scienze storiche alle scienze naturali e abbia dimostratolanecessità perle
prime di un metodo d indagine diverso dal¬ l’usuale)) {p. 156). E che
il Vico sia proprio il padre della « verste- bende » sociologia il Sombart
vuol dimostrare tra¬ scrivendo addirittura nel testo italiano il noto
passo della Scienza nuova: «Questo mondo civile certa¬ mente egli è
stato fatto dagli uomini: onde se ne possono, perché se ne debbono,
ritrovare i Principi dentro le modificazioni della nostra medesima
men¬ te umana. So che a chiunque vi rifletta sopra, deve recare una
somma maraviglia, come tutti i Filosofi seriosamente si studiarono di
poter conseguire la Scienza di questo Mondo naturale, del quale,
per¬ ché Dio egli il fece, esso solo ne ha la Scienza ; e tra- — 254
— scurarono di meditare su questo Mondo delle Nazio¬ ni, o sia Mondo
civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano
conseguire la Scienza gli uomini ». Ora, la scienza dell’economia,
come tutte le scienze sociali e la sociologia in genere — il Som- bart
preferisce ancora questo termine a quello di storia — riguarda appunto il
mondo fatto dagli uo¬ mini, vale a dire non il mondo della natura,
bensì quello dello spirito o della Kultur : quel mondo che noi
possiamo conoscere veramente perché costruito da noi. « Noi e noi soltanto
siamo i creatori della cultura e ci muoviamo in questo piccolo mondo
co¬ me Dio in quello grande. In questo nostro mondo noi siamo in
effetti il Dio onnisciente e onnipoten¬ te » (p. 199). Intesa in tal
modo la cultura come tutta l’opera umana in contrapposizione alla natura,
si compren¬ de bene come il Sombart possa concepire una scien¬ za
dell’economia spiritualistica e al tempo stesso sperimentale e obiettiva.
Metafisica era la richtende Natianalòkonomie perché presumeva di
conoscere un mondo trascendente il nostro pensiero: forma¬ listica
era la ardnende Nationalòkonomie perché vo¬ leva arrestarsi nel campo
delle scienze sociali agli stessi criteri validi per le scienze naturali :
ma non più metafisica né formalistica sarà la verstehende JSationalókonomie,
che potrà giungere all’essenza delle cose, senza tuttavia sconfinare in un
mondo trascendente. Essa potrà divenire veramente una Erfahrungxwi.'isp.nschaff,
quando sarà concepita come una Geistwissenschaft nel senso di
Kulturtcissen- schaft. - 255— Con l’affermazione della
verstehende Nationnl- ofconomie come sociologia il Sombart raggiunge
il più alto livello che gli è consentito dai suoi presup¬ posti
filosofici: e alla luce di essa ci è ota possibile ritornare alle critiche
delle due prime forme scien¬ tifiche dell’economia e intravederne quel più
pro¬ fondo significatico intuitivo che mal ci è apparso attraverso la
rigorosa riduzione in termini logici che ne abbiamo fatto. Perché adesso
ci è dato ca¬ pire come la critica grossolanamente positivistica rivolta
alla richtende Natiflìialakonomie non stava a dimostrare una meschina
adorazione del fatto, vi¬ sto fuori della vita dello spirito e della
storia, bensì piuttosto l’insofferenza per ogni forma di scienza moralistica,
volta a determinare aprioristicamente i fini dell’attività umana in genere
e di quella eco¬ nomica in ispecie. Se in quella critica predominava senza
dubbio il vecchio pregiudizio positivistico di un’esperienza intesa in
modo affatto oggettivo, è pur vero che a esso si accompagnava una
coscienza sto¬ ricistica di ben altro valore, tendente non
all’elimina¬ zione dei valori spirituali, bensì al loro spostamento dall’astratto
campo della metafisica moralistica alla salda e concreta realtà della
storia. Che è poi la 6tessa esigenza che induce il Sombart a
svalutare le scienze naturali e insieme il modo naturalistico dì
costruire la scienza economica. Non che egli non creda utile una
sistemazione formale dei dati dell’econoniia, che anzi ne conferma in
questo stes- so libro l’opportunità e addirittura la necessità, ma non
ritiene che in essa possa esaurirsi il compito di una scienza destinata
allo studio di una realtà viva e progrediente quale è l’attività umana
creatrice della storia. Gli economisti tanno finora oscillato tra un
arbitrario moralismo e un formalismo tautolo¬ gico enon hanno mai saputo
assurgere a una effet¬ tiva comprensione dei fenomeni che volevano
spie¬ garsi: il Sombart ne ha visto efficacemente le ragio¬ ni ed è
salito a lina forma superiore di storicismo. Lo storicismo del Sombart,
infatti, è molto di¬ verso da quello tradizionale della scuola storica
e si comprende come egli non ami troppo la parola, che pur è la più
adatta a caratterizzare la sua po¬ sizione. Al vecchio storicismo il
Sombart è giusta¬ mente contrario e la diagnosi che ne compie coglie proprio
il segno. Se la scuola storica aveva avuto rintuizione delle complessità e
varietà dei fenomeni economici, non aveva poi saputo elevarsi fino
al loro dominio ed era finita neH’irrazionalismo : lo storicismo,
come descrizione empirica dei fenomeni visti nella loro caotica
molteplicità, non è la scienza ma la negazione della scienza. Lo
storicismo del Sombart, invece, penetra al fondo della mutevole realtà e
vuol coglierne la lo¬ gica del movimento: e questo può fare, perché,
gra¬ zie a Vico, ha compreso che quella logica è la logica stessa del
nostro pensiero. Ma se così è, necessaria¬ mente ne deriva che in tanto è
possibile intendere un qualsiasi fenomeno della realtà — e nel caso particolare,
un fenomeno economico — in quanto lo si riconduce al sistema integrale di
quel pensiero che gli ha dato origine dando origine a tutto il mondo
della cultura. Vano e assurdo è ogni ten- — 2S7 — tativo di
determinare un qualsiasi principio scien¬ tifico nel campo dell'economia,
se non si tiene ben presente che il fatto economico è intelligibile
sol¬ tanto in funzione di tutti gli altri aspetti della realtà in cui
esso sorge e si svolge. E il significato stesso dei termini cbe si
adoperano dagli economisti non è definibile se non in rapporto alle
diverse condi¬ zioni storiche, continuamentevariando con il va¬ riare
di queste; sì che soltanto con un atto di ar¬ bitrio ingiustificato è
possibile agli economisti fis¬ sare una legge sciertifiea di presunto
valore asso¬ luto, trascendente il tempo e lo spazio. L’errore più grave
della scienza economica quale si è svolta fin qui è stato appunto quello
di ipostatizzare alcuni termini e alcuni principi, obliando il nesso
loro imprescindibile con la concreta vita storica dalla quale termini
e principi avevan tratto alimento. Anche le parole di significato più
generale e appa¬ rentemente affatto libere da legami con una parti¬ colare
epoca storica — ad es. scambio — in effetti non significano nulla, e per
diventare davvero in¬ telligibili hanno bisogno di una determinata
qua¬ lificazione storica — lo scambio presso i primitivi, nell’epoca
capitalistica, ecc. Il che implica che la scienza dell’economia va
ricostruita ex novo, come scienza storica che utilizzi concetti storici e
si pon¬ ga perciò in grado di superare l’attuale stato caotico dovuto
al giustapporsi di principi originati da di¬ verse situazioni storiche e
tuttavia messi su di uno stesso piano, con la pretesa di farli
corrispondere a qualsiasi situazione storica. Si continuano oggi a ritenere
scientifiche tante leggi dell’economia clas¬ sica, e non ci si accorge che
quelle leggi non hanno più valore perché i termini in cui sono
espresse 17 - Srum — 258 — hanno cambiato di significato, senza
che Leconomi- sta ahhia riflettuto sulla portata di tale mutamento. E
a poco a poco l'economia è diventata un lavoro di mosaico, in cui ogni
pietruzza sta per conto suo, senza che neppure in tale indipendenza possa
avere una fisionomia sua, suscettibile com’è di infinite co¬ lorazioni,
alle diverse luci che la illuminano. 11 Somhart ha visto come pochi questa
essenziale inor¬ ganicità e incongnienza della scienza economica e ha
saputo scoprirne la piu profonda ragione. Senonché il Somhart non può
raccogliere tutti i frutti della sua concezione per i limiti stessi
entro cui rigorosamente la circoscrive arrestandosi alla dottrina dì
Vico. Se l'aver riallacciato il nuovo sto¬ ricismo al pensiero del grande
filosofo italiano co¬ stituisce il più gran merito del Somhart, l’aver
poi creduto che si possa ancor oggi, dopo due secoli di intensissimo
travaglio speculativo,impostareil pro¬ blema proprio negli 6tessi termini,
è purtroppo tale un errore da compromettere in modo irrimediabile il
risultato di ogni ricerca. L’errore — come si è già accennato —
consiste nel dualismo vichiano di mondo umano e mondo naturale,
considerati l’uno come fattura dell’uomo e l’altro di Dio. Poiché si può
essere dualisti quanto si vuole, ma bisogna pur rendersi conto che, se
esi¬ stono due realtà, esiste per ciò stesso il problema del loro
rapporto. Ora, tale rapporto è sfuggito in gran parte alla mente del Vico,
ed è appena analiz¬ zato dal Somhart che lo concepisce in modo molto estrinseco
e a posteriori. Egli non si preoccupa, in¬ fatti, di ricercare 1 unità
originaria dei due mondi, sì ch’essi possano rendersi intelligibili alla
luce di un unico fine, ma si limita a constatarne i rapporti — 259
— di coesistenza e il reciproco influsso: le due realta restano
presupposte e la soluzione del problema si trasforma in un mesebino modus
vivendi. Se l’uomo fosse davvero costretto a creare — secondo le
parole del Somhart — il piccolo mondo della cultura lasciando nel mistero
della sua essenza il grande mondo della natura creata da Dio,
eviden¬ temente il grande non potrebbe non soffocare il pic¬ colo e
renderlo affatto illusorio. Se viviamo nella natura, se natura siamo noi
stessi venendo alla luce, se la nostra vita fisica e spirituale è
costretta a svol¬ gersi nelle determinate condizioni fissate dalla
na¬ tura, com’è poi possìbile comprendere l’essenza di quel che
facciamo ignorando l’essenza di quel che troviamo? Se esistono due mondi,
l’uno nostro e l’altro di Dio, è pur necessario che il primo sia su¬ bordinato
al secondo e adegui il proprio fine a quel¬ lo dell'altro; ma se è così, o
l’uomo conosce il fine di Dio, vale a dire l’essenza della natura, e
allora può agire seguendone le tracce, o non lo conosce, e allora
procede alla cieca senza aver coscienza della direzione del proprio
cammino. E la scienza, del cui rinnovamento il Sombart giustamente si
preoc¬ cupa, deve ormai decidersi ad affrontare il proble¬ ma nella
sua integrità, diventando storicistica nel senso più rigoroso della parola
e cioè intendendo per storia dell’uomo la storia stessa del mondo, e riconoscendo
in tal guisa l’identità assoluta di sto¬ ria e di filosofia.Scienza
storicistica e scienza filo¬ sofica non possono essere altro che
sinonimi. Da questa conclusione rigorosa e perentoria il Sombart si è
ritratto per un residuo di positivistico odio contro la filosofia e per il
conseguente agno- ticismo metafisico ; ma s’egli si informasse più
ade- — 260 — ^natamente dei risultati del movimento idealistico italiano
finirebbe forse eoi convenire cbe, se ancora di metafisica resta traccia
nella filosofia contempo¬ ranea, è proprio in cotesto agnosticismo
positivisti- co, il quale, proprio perché nega la possibilità di conoscere
l’essenza della natura, ammette niente¬ meno l’esistenza di un mondo
trascendente e si pre¬ clude la via a una conoscenza effettiva della
realtà. Perché si possa parlare di scienza è necessario cbe il nostro
conoscere non abbia limiti insuperabili e cbe il mondo di Dio sia lo
stesso mondo nostro: fino a quando nel concetto tedesco di cultura
non sarà risolta anche la natura, esso non potrà carat¬ terizzare
l’umana realtà nella sua più profonda consapevolezza. Che tale sia
veramente il limite della concezio¬ ne del Sombart basterebbe a
dimostrarlo la parte ricostruttiva della sua teoria, nella quale
dovreb¬ bero essere tracciate le linee maestre della nuova scienza
economica. Putroppo questa è la parte più scadente e irrilevante del
libro, dove l’insostenibi- lità del dualismo viebiano finisce col
rivelarsi a ogni passo in continua ed evidente contraddizione, e do¬ ve
l’urgenza dei motivi più disparati non consente una visione organica del
problema. Tutto ciò ch’era stato negato e relegato nel mondo della
filosofia o della metafìsica, viene ora bruscamente fuori a riaf¬ fermare
esigenze imprescindibili, e il Sombart lutto accetta rifacendo un
posticino alla filosofia deH’eco- nomia, alla richtende ISationalòkonomie,
alla dot¬ trina dei valori, ece., senza che nella molteplicità degli
elementi giustapposti sia più possibile discer¬ nere un criterio direttivo
rigorosamente determina¬ to. È la scienza che deve servire alla vita e cbe
deve perciò riconciliarsi in qualche modo, attraverso una serie di
compromessi, con il mondo naturale e il di¬ vino incautamente trascurato.
Ma intanto Punita della visione si spezza a causa della molteplicità
dei punti di vista e la scienza diventa la somma ano¬ dina di
infinite constatazioni. L’esigenza storicistica è tradotta in termini
po9tivistici e si muta nel bi¬ sogno di tutto includere
oggeltivisticamente nel gran pozzo della scienza, dove tutto il bene e
tutto il male va buttato a pari titolo per il fatto stesso di
esistere. E la così detta W'ertefreiheit torna a essere ancora una
volta — sia pure attraverso qualche timida smentita — il più alto ideale
scientifico. Se vogliamo ora trarre le somme di quanto 6Ì è detto e
indicare brevemente il risultato del tenta¬ tivo compiuto dal Somhart di
giudicare tutta la scienza economica classica e contemporanea, e di gettare
le fondamenta della nuova costruzione, dob¬ biamo concludere che l’istanza
critica dell’opera supera di gran lunga il breve abbozzo sistematico
e che il lato veramente positivo si riduce in effetti a una mera
esigenza. Quel che v’è di saldo e peren¬ torio nel volume è la diagnosi,
spietata ma giustis¬ sima, delle attuali condizioni della scienza. La
erisi è presentata nelle sue effettive proporzioni e soprat¬ tutto nc
sono indicate con grande precisione le ra¬ gioni più notevoli: dogmatismo,
antistoricismo, in¬ determinatezza di principi e di terminologia,
asiste¬ ma licita, metodo naturalistico, moralismo. Sono ac¬ cuse di
cui gli economisti non riescono a persuader- — 262 — si, ma che pure
ormai dovrebbero richiamare una più profonda attenzione ed essere
esaminate con mentalità più sgombra da preconcetti. A noi in par¬ ticolare,
che da quattro anni andiamo precisando questa diagnosi nei Nuovi studi di
diritto, econo¬ mia e politica, non può non esser gradita l’analogia dei
risultati cui è pervenuto il Sombart; e tanto più interessante e fecondo
sarebbe raccordo se potesse estenderei al lato più propriamente
ricostruttivo del sistema. Poiché se la diagnosi della economia attuale
basta a dimostrare la necessità di una visio¬ ne storicistica della
scienza, non è sufficiente di ner sé sola a chiarire la peculiare forma
che deve avere il nuovo storicismo. F a noi pare che il Sombart, per
gli stessi presupposti speculativi da cui prende le mosse, è fatalmente
destinato ad arrestarsi ad una forma di positivismo vichianeggiante in cui
la vita vera della storia 9Ì frange e si acqueta tuttavia nell’eclettica
stasi contemplativa della sociologia. Ugo Spirito. Spirito.Keywords:
stato/cittadini, pathos romantico, romanticism e nuovo ordine, sindicalismo,
fascismo da sinestra, filobolcevicco, corporativismo, attualismo, stato
fascista, equilibrio liberta/autorita, gentile e spirito, i filosofi fascisti,
filosofia e revoluzione, romanticismo, proprieta, filosofia come pedagogia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Spirito” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Spisani: la contestazione – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Ferrara), Filosofo. Si laurea a Padova con una tesi di sull'attualismo
italiano, Natura e spirito nell’idealismo attuale” (Milano, Fabbri). In seguito
collabora a Urbino. A Bologna fonda “Rassegna di Logica” e il centro di logica. In una lettera Carnap
critica una sua decisione di non pubblicare un'opera. Morì suicida. Altri
saggi: “Neutralizzazione dello spazio per sintesi produttiva” (Bologna,
Cappelli); “Implicazione, endo-metria e universo del discorso” (Bologna) e “Introduzione
alla teoria generale dei numeri relativi, con ingresso dei numeri
moltiplicatori e divisori, legati alla logica e alla matematica trascendentale”
(Bologna, Centro di logica e scienze comparate, analisi matematica). C'è una
relazione divisoria che ipotizza il valore “M,” numero logico trans-infinito all'origine
della neutralizzazione dello spazio trans-finito. “ℵ” va verso successivi
aumenti. Ma è la relatività dei numeri, espressa nel calcolo per valori di
posizione, che ne individua la direzione inversa. Spiega le sue scoperte in
forma di dialogo. Tra gli interlocutori la misteriosa figura della piovra
Clipso. Logo-fenica. Altri saggi: “Il numero nell'istanza
ontologica del rapporto d'identità” (Imola, Galeati); “Logica ed esperienza”
(Milano, Marzorati); “Logica della contestazione” (Bologna, Cappelli). Sulla storia della pubblicazione della Teoria
generale, importanti ricerche erano già pronte. Allora, dice: “Ne discuto con
Carnap. Carnap sottopone i risultati dell'indagine. Carnap spiega anche le
ragioni che mi induceno a non diffonderne le conclusioni. Carnap risponde che
quella scelta gli sembra affatto ingiustificata: l'operas crises non poteva
rimanere nel silenzio. Tuttavia non cambiai parere. Non avrei pubblicato, e glielo
confermai. “Dai numeri naturali ai numeri relativi, moltiplicatori e divisor”. Gallo,
“Un uomo genial”, Nuova Ferrara, L'ha vegliato prima di suicidarsi, di Gulotta,
la Repubblica, sezione Bologna, Archivio. Franco Spisani. Spisani. Keywords: il
concetto di numero, numero naturale, numero relativo, logica auto-genetica,
numero relativo moltiplicatore, numero relativo divisore, opposto,
contradittorio, regole e segni, contestazione, esperienza, limiti della
metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spisani” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Spurio: lettere da Corinto – Roma
antica – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Fratello di Lucio Mummio, vincitore di Corinto,
partecipa con SCIPIONE (si veda) Emiliano e con Lucio Metello CALVO (si veda) a
un’ambasciata politica in Oriente e così puo stringere più stretti rapporti con
Panezio di Rodi. Scrive lettere in versi e orazioni. CICERONE lo pone tra i IV
interlocutori del "De republica." Oratore. I suoi discorsi hanno, per
la loro aridità, impronta del Portico. Coltiva gli studi giuridici. A Roman soldier and
writer. A legatus of his brother, and a close friend of SCIPIONE EMILIANO. This
friendship garners his entrance into the Scipionic Circle. Politically, he is
an aristocrat. He writes satirical and ethical epistles, describing his
experiences in Corinto in humorous verse. According to the Encyclopædia
Britannica, these letters, are the first examples of a distinct class of Roman
poetry, the poetic epistle. "Mummii". Mek.niif. hu. Mummius M,
Mortgage, ed. Peck, Harpers Dictionary of Classical Antiquities. Perseus tufts,
Chisholm, ed. "Mummius,
Lucius" . Encyclopædia Britannica. Cambridge. Stub icon This article about
an Ancient Roman writer. Categories: Ancient Roman writersm Romans, writers
Mummii Ancient Roman people stubs European writer stubs When we turn to Rome we
find that letter writing becomes a Roman literary art under Greek influence and
is speedily nationalised as is the dialogue. We know that the epistolary form
is used by S., who appears in CICERONE’s de republica as an intimate friend of
SCIPIONE the younger. He receives a education
in the Porch, and accompanied his more famous brother to Corinto as a
legatus. From Corinto he sends a number of poetic epistles to his friends.
These do not receive general publicity, but are preserved in the archives of
the family where they are read by CICERONE, who praises their wit. Keyword: philosophical epistle. Spurio Mummio.
Grice e Mummio: il portico romano – lettera da Corinto – Roma antica -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mummio Spurio. Portico. A
distinguished orator. Writes a number of letters on ethical issues. A
Roman soldier and philosopher. He was a legatus of his brother Lucio Mummio in
Corinto and a close friend of Scipione (si veda) Emiliano. This friendship
garns his entrance into the Scipionic Circle. Politically, he is an aristocrat.
He writes satirical and ethical epistles, describing his experiences in Corinto
in humorous verse. According to the Encyclopædia Britannica, these letters,
which were still popular, are the first examples of a distinct class of Roman
poetry, the poetic epistle. References "Mummii". Peck, ed.
"Mummius". Harpers Dictionary of Classical Antiquities.
Chisholm,. "Mummius, Lucius" . Encyclopædia Britannica, Cambridge.
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NationalGermany Stub icon This article about an Ancient Roman writer is a
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expanding it. Fratello di Lucio Mummio, vincitore di Corinto, partecipa con
SCIPIONE (si veda) Emiliano e con Lucio Metello CALVO (si veda) a un’ambasciata
politica in Oriente e così puo stringere più stretti rapporti con Panezio di
Rodi. Scrive lettere in versi e orazioni. CICERONE lo pone tra i IV interlocutori
del "De republica." Oratore. I suoi discorsi hanno, per la loro
aridità, impronta del Portico. Coltiva gli studi giuridici. A Roman soldier and writer. A legatus
of his brother, and a close friend of SCIPIONE EMILIANO. This friendship
garners his entrance into the Scipionic Circle. Politically, he is an
aristocrat. He writes satirical and ethical epistles, describing his
experiences in Corinto in humorous verse. According to the Encyclopædia
Britannica, these letters, are the first examples of a distinct class of Roman
poetry, the poetic epistle. "Mummii". Mek.niif. hu. Mummius M,
Mortgage, ed. Peck, Harpers Dictionary of Classical Antiquities. Perseus tufts,
Chisholm, ed. "Mummius,
Lucius" . Encyclopædia Britannica. Cambridge. Stub icon This article about
an Ancient Roman writer. Categories: Ancient Roman writersm Romans, writers
Mummii Ancient Roman people stubs European writer stubs When we turn to Rome we
find that letter writing becomes a Roman literary art under Greek influence and
is speedily nationalised as is the dialogue. We know that the epistolary form
is used by S., who appears in CICERONE’s de republica as an intimate friend of
SCIPIONE the younger. He receives a education
in the Porch, and accompanied his more famous brother to Corinto as a legatus.
From Corinto he sends a number of poetic epistles to his friends. These do not
receive general publicity, but are preserved in the archives of the family
where they are read by CICERONE, who praises their wit. Keyword: philosophical epistle. Spurio Mummio. Mummio
Spurio.
Grice e Sraffa: la mia implicatura – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino).
An Italian noble
-- Vitters, and Grice -- L.cited by H.
P. Grice, “Some like Vitters, but Moore’s MY man.” Vienna-born philosopher
trained as an enginner at Manchester. Typically referred to Wittgenstein in the
style of English schoolboy slang of the time as, “Witters,” pronounced
“Vitters.”“I heard Austin said once: ‘Some like Witters, but Moore’s MY man.’
Austin would open the “Philosophical Investigations,” and say, “Let’s see what
Witters has to say about this.” Everybody ended up loving Witters at the playgroup.”
Witters’s oeuvre was translated first into English by C. K. Ogden. There are
interesting twists. Refs.: H. P. Grice, “Vitters.” Grice was sadly discomforted
when one of his best friends at Oxford, D. F. Pears, dedicated so much effort
to the unveiling of the mysteries of ‘Vitters.’ ‘Vitters’ was all in the air in
Grice’s inner circle. Strawson had written a review of Philosophical
Investigations. Austin was always mocking ‘Vitters,’ and there are other
connections. For Grice, the most important is that remark in “Philosohpical
Investigations,” which he never cared to check ‘in the Hun,’ about a horse not
being seen ‘as a horse.’ But in “Prolegomena” he mentions Vitters in other
contexts, too, and in “Causal Theory,” almost anonymouslybut usually with
regard to the ‘seeing as’ puzzle. Grice would also rely on Witters’s now
knowing how to use ‘know’ or vice versa. In “Method” Grice quotes verbatim: ‘No
psyche without the manifestation the ascription of psyche is meant to explain,”
and also to the effect that most ‘-etic’ talk of behaviour is already ‘-emic,’
via internal perspective, or just pervaded with intentionalism. One of the most
original and challenging philosophical writers of the twentieth century. Born
in Vienna into an assimilated family of Jewish extraction, he went to England
as a student and eventually became a protégé of Russell’s at Cambridge. He
returned to Austria at the beginning of The Great War I, but went back to
Cambridge in 8 and taught there as a fellow and professor. Despite spending
much of his professional life in England, Vitters never lost contact with his
Austrian background, and his writings combine in a unique way ideas derived
from both the insular and the continental European tradition. His thought is
strongly marked by a deep skepticism about philosophy, but he retained the
conviction that there was something important to be rescued from the
traditional enterprise. In his Blue Book 8 he referred to his own work as “one
of the heirs of the subject that used to be called philosophy.” What strikes
readers first when they look at Vitters’s writings is the peculiar form of
their composition. They are generally made up of short individual notes that
are most often numbered in sequence and, in the more finished writings, evidently
selected and arranged with the greatest care. Those notes range from fairly
technical discussions on matters of logic, the mind, meaning, understanding,
acting, seeing, mathematics, and knowledge, to aphoristic observations about
ethics, culture, art, and the meaning of life. Because of their wide-ranging
character, their unusual perspective on things, and their often intriguing
style, Vitters’s writings have proved to appeal to both professional
philosophers and those interested in philosophy in a more general way. The
writings as well as his unusual life and personality have already produced a
large body of interpretive literature. But given his uncompromising stand, it
is questionable whether his thought will ever be fully integrated into academic
philosophy. It is more likely that, like Pascal and Nietzsche, he will remain
an uneasy presence in philosophy. From an early date onward Vitters was greatly
influenced by the idea that philosophical problems can be resolved by paying
attention to the working of language a
thought he may have gained from Fritz Mauthner’s Beiträge zu einer Kritik der
Sprache 102. Vitters’s affinity to Mauthner is, indeed, evident in all phases
of his philosophical development, though it is particularly noticeable in his
later thinking.Until recently it has been common to divide Vitters’s work into
two sharply distinct phases, separated by a prolonged period of dormancy.
According to this schema the early “Tractarian” period is that of the Tractatus
Logico-Philosophicus 1, which Vitters wrote in the trenches of World War I, and
the later period that of the Philosophical Investigations 3, which he composed
between 6 and 8. But the division of his work into these two periods has proved
misleading. First, in spite of obvious changes in his thinking, Vitters
remained throughout skeptical toward traditional philosophy and persisted in
channeling philosophical questioning in a new direction. Second, the common
view fails to account for the fact that even between 0 and 8, when Vitters
abstained from actual work in philosophy, he read widely in philosophical and
semiphilosophical authors, and between 8 and 6 he renewed his interest in
philosophical work and wrote copiously on philosophical matters. The posthumous
publication of texts such as The Blue and Brown Books, Philosophical Grammar,
Philosophical Remarks, and Conversations with the Vienna Circle has led to
acknowledgment of a middle period in Vitters’s development, in which he
explored a large number of philosophical issues and viewpoints a period that served as a transition between
the early and the late work. Early period. As the son of a greatly successful
industrialist and engineer, Vitters first studied engineering in Berlin and
Manchester, and traces of that early training are evident throughout his
writing. But his interest shifted soon to pure mathematics and the foundations
of mathematics, and in pursuing questions about them he became acquainted with
Russell and Frege and their work. The two men had a profound and lasting effect
on Vitters even when he later came to criticize and reject their ideas. That
influence is particularly noticeable in the Tractatus, which can be read as an
attempt to reconcile Russell’s atomism with Frege’s apriorism. But the book is
at the same time moved by quite different and non-technical concerns. For even
before turning to systematic philosophy Vitters had been profoundly moved by
Schopenhauer’s thought as it is spelled out in The World as Will and
Representation, and while he was serving as a soldier in World War I, he
renewed his interest in Schopenhauer’s metaphysical, ethical, aesthetic, and
mystical outlook. The resulting confluence of ideas is evident in the Tractatus
Logico-Philosophicus and gives the book its peculiar character. Composed in a
dauntingly severe and compressed style, the book attempts to show that
traditional philosophy rests entirely on a misunderstanding of “the logic of
our language.” Following in Frege’s and Russell’s footsteps, Vitters argued
that every meaningful sentence must have a precise logical structure. That
structure may, however, be hidden beneath the clothing of the grammatical
appearance of the sentence and may therefore require the most detailed analysis
in order to be made evident. Such analysis, Vitters was convinced, would
establish that every meaningful sentence is either a truth-functional composite
of another simpler sentence or an atomic sentence consisting of a concatenation
of simple names. He argued further that every atomic sentence is a logical
picture of a possible state of affairs, which must, as a result, have exactly
the same formal structure as the atomic sentence that depicts it. He employed
this “picture theory of meaning” as it
is usually called to derive conclusions
about the nature of the world from his observations about the structure of the
atomic sentences. He postulated, in particular, that the world must itself have
a precise logical structure, even though we may not be able to determine it
completely. He also held that the world consists primarily of facts,
corresponding to the true atomic sentences, rather than of things, and that
those facts, in turn, are concatenations of simple objects, corresponding to
the simple names of which the atomic sentences are composed. Because he derived
these metaphysical conclusions from his view of the nature of language, Vitters
did not consider it essential to describe what those simple objects, their
concatenations, and the facts consisting of them are actually like. As a
result, there has been a great deal of uncertainty and disagreement among
interpreters about their character. The propositions of the Tractatus are for
the most part concerned with spelling out Vitters’s account of the logical
structure of language and the world and these parts of the book have
understandably been of most interest to philosophers who are primarily
concerned with questions of symbolic logic and its applications. But for
Vitters himself the most important part of the book consisted of the negative
conclusions about philosophy that he reaches at the end of his text: in
particular, that all sentences that are not atomic pictures of concatenations
of objects or truth-functional composites of such are strictly speaking
meaningless. Among these he included all the propositions of ethics and
aesthetics, all propositions dealing with the meaning of life, all propositions
of logic, indeed all philosophical propositions, and finally all the
propositions of the Tractatus itself. These are all strictly meaningless; they
aim at saying something important, but what they try to express in words can
only show itself. As a result Vitters concluded that anyone who understood what
the Tractatus was saying would finally discard its propositions as senseless,
that she would throw away the ladder after climbing up on it. Someone who
reached such a state would have no more temptation to pronounce philosophical
propositions. She would see the world rightly and would then also recognize
that the only strictly meaningful propositions are those of natural science;
but those could never touch what was really important in human life, the
mystical. That would have to be contemplated in silence. For “whereof one
cannot speak, thereof one must be silent,” as the last proposition of the
Tractatus declared. Middle period. It was only natural that Vitters should not
embark on an academic career after he had completed that work. Instead he
trained to be a school teacher and taught primary school for a number of years
in the mountains of lower Austria. In the mid-0s he also built a house for his
sister; this can be seen as an attempt to give visual expression to the
logical, aesthetic, and ethical ideas of the Tractatus. In those years he
developed a number of interests seminal for his later development. His school
experience drew his attention to the way in which children learn language and
to the whole process of enculturation. He also developed an interest in
psychology and read Freud and others. Though he remained hostile to Freud’s
theoretical explanations of his psychoanalytic work, he was fascinated with the
analytic practice itself and later came to speak of his own work as therapeutic
in character. In this period of dormancy Vitters also became acquainted with
the members of the Vienna Circle, who had adopted his Tractatus as one of their
key texts. For a while he even accepted the positivist principle of meaning
advocated by the members of that Circle, according to which the meaning of a
sentence is the method of its verification. This he would later modify into the
more generous claim that the meaning of a sentence is its use. Vitters’s most
decisive step in his middle period was to abandon the belief of the Tractatus
that meaningful sentences must have a precise hidden logical structure and the accompanying
belief that this structure corresponds to the logical structure of the facts
depicted by those sentences. The Tractatus had, indeed, proceeded on the
assumption that all the different symbolic devices that can describe the world
must be constructed according to the same underlying logic. In a sense, there
was then only one meaningful language in the Tractatus, and from it one was
supposed to be able to read off the logical structure of the world. In the
middle period Vitters concluded that this doctrine constituted a piece of
unwarranted metaphysics and that the Tractatus was itself flawed by what it had
tried to combat, i.e., the misunderstanding of the logic of language. Where he
had previously held it possible to ground metaphysics on logic, he now argued
that metaphysics leads the philosopher into complete darkness. Turning his
attention back to language he concluded that almost everything he had said
about it in the Tractatus had been in error. There were, in fact, many
different languages with many different structures that could meet quite
different specific needs. Language was not strictly held together by logical
structure, but consisted, in fact, of a multiplicity of simpler substructures
or language games. Sentences could not be taken to be logical pictures of facts
and the simple components of sentences did not all function as names of simple
objects. These new reflections on language served Vitters, in the first place,
as an aid to thinking about the nature of the human mind, and specifically
about the relation between private experience and the physical world. Against
the existence of a Cartesian mental substance, he argued that the word ‘I’ did
not serve as a name of anything, but occurred in expressions meant to draw
attention to a particular body. For a while, at least, he also thought he could
explain the difference between private experience and the physical world in
terms of the existence of two languages, a primary language of experience and a
secondary language of physics. This duallanguage view, which is evident in both
the Philosophical Remarks and The Blue Book, Vitters was to give up later in
favor of the assumption that our grasp of inner phenomena is dependent on the
existence of outer criteria. From the mid-0s onward he also renewed his
interest in the philosophy of mathematics. In contrast to Frege and Russell, he
argued strenuously that no part of mathematics is reducible purely to logic.
Instead he set out to describe mathematics as part of our natural history and
as consisting of a number of diverse language games. He also insisted that the
meaning of those games depended on the uses to which the mathematical formulas
were put. Applying the principle of verification to mathematics, he held that
the meaning of a mathematical formula lies in its proof. These remarks on the
philosophy of mathematics have remained among Vitters’s most controversial and
least explored writings. Later period. Vitters’s middle period was
characterized by intensive philosophical work on a broad but quickly changing
front. By 6, however, his thinking was finally ready to settle down once again
into a steadier pattern, and he now began to elaborate the views for which he
became most famous. Where he had constructed his earlier work around the logic
devised by Frege and Russell, he now concerned himself mainly with the actual
working of ordinary language. This brought him close to the tradition of
British common sense philosophy that Moore had revived and made him one of the
godfathers of the ordinary language philosophy that was to flourish in Oxford
in the 0s. In the Philosophical Investigations Vitters emphasized that there
are countless different uses of what we call “symbols,” “words,” and
“sentences.” The task of philosophy is to gain a perspicuous view of those
multiple uses and thereby to dissolve philosophical and metaphysical puzzles.
These puzzles were the result of insufficient attention to the working of
language and could be resolved only by carefully retracing the linguistic steps
by which they had been reached. Vitters thus came to think of philosophy as a
descriptive, analytic, and ultimately therapeutic practice. In the
Investigations he set out to show how common philosophical views about meaning
including the logical atomism of the Tractatus, about the nature of concepts,
about logical necessity, about rule-following, and about the mindbody problem
were all the product of an insufficient grasp of how language works. In one of
the most influential passages of the book he argued that concept words do not
denote sharply circumscribed concepts, but are meant to mark family
resemblances between the things labeled with the concept. He also held that
logical necessity results from linguistic convention and that rules cannot
determine their own applications, that rule-following presupposes the existence
of regular practices. Furthermore, the words of our language have meaning only
insofar as there exist public criteria for their correct application. As a
consequence, he argued, there cannot be a completely private language, i.e., a
language that in principle can be used only to speak about one’s own inner
experience. This private language argument has caused much discussion.
Interpreters have disagreed not only over the structure of the argument and
where it occurs in Vitters’s text, but also over the question whether he meant
to say that language is necessarily social. Because he said that to speak of
inner experiences there must be external and publicly available criteria, he
has often been taken to be advocating a logical behaviorism, but nowhere does
he, in fact, deny the existence of inner states. What he says is merely that
our understanding of someone’s pain is connected to the existence of natural
and linguistic expressions of pain. In the Philosophical Investigations Vitters
repeatedly draws attention to the fact that language must be learned. This
learning, he says, is fundamentally a process of inculcation and drill. In
learning a language the child is initiated in a form of life. In Vitters’s
later work the notion of form of life serves to identify the whole complex of
natural and cultural circumstances presupposed by our language and by a
particular understanding of the world. He elaborated those ideas in notes on
which he worked between 8 and his death in 1 and which are now published under
the title On Certainty. He insisted in them that every belief is always part of
a system of beliefs that together constitute a worldview. All confirmation and
disconfirmation of a belief presuppose such a system and are internal to the
system. For all this he was not advocating a relativism, but a naturalism that
assumes that the world ultimately determines which language games can be
played. Vitters’s final notes vividly illustrate the continuity of his basic
concerns throughout all the changes his thinking went through. For they reveal
once more how he remained skeptical about all philosophical theories and how he
understood his own undertaking as the attempt to undermine the need for any
such theorizing. The considerations of On Certainty are evidently directed
against both philosophical skeptics and those philosophers who want to refute
skepticism. Against the philosophical skeptics Vitters insisted that there is
real knowledge, but this knowledge is always dispersed and not necessarily
reliable; it consists of things we have heard and read, of what has been
drilled into us, and of our modifications of this inheritance. We have no
general reason to doubt this inherited body of knowledge, we do not generally
doubt it, and we are, in fact, not in a position to do so. But On Certainty
also argues that it is impossible to refute skepticism by pointing to
propositions that are absolutely certain, as Descartes did when he declared ‘I
think, therefore I am’ indubitable, or as Moore did when he said, “I know for
certain that this is a hand here.” The fact that such propositions are
considered certain, Vitters argued, indicates only that they play an
indispensable, normative role in our language game; they are the riverbed
through which the thought of our language game flows. Such propositions cannot
be taken to express metaphysical truths. Here, too, the conclusion is that all
philosophical argumentation must come to an end, but that the end of such
argumentation is not an absolute, self-evident truth, but a certain kind of
natural human practice. Sraffa.
Keywords: la mia implicatura. Refs.: H. P. Grice, “Il gesto della mano di
Sraffa.” Speranza, “Sraffa’s handwave, and his impicaturum”; Luigi Speranza,
“L’implicatura di Sraffa,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Stabile: critica della ragione borghese
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Sapri). Filosofo italiano. Laureatosi a Napoli con una
tesi sulla filosofia del valore, divenne ricercatore a Salerno. Pubblica saggi in
"Prassi e teoria", "Aut Aut", "Studi di filosofia
politica e diritto", "il Centauro", "Ombre rosse",
riviste tra le più prestigiose nel panorama della pubblicistica filosofica
italiana. Collabora alla direzione della collana di testi e studi
"Relox" di Bibliopolis di Napoli. Salerno gli dedica un convegno di
studi: "La saggezza moderna. Temi e problemi”. Il fondo rappresenta sua biblioteca.
Alcuni volumi sono in possesso di Salerno. I volumi del fondo sottolineano
l'interesse verso la critica marxista -- moltissimi i volumi degl’Editori
Riuniti. Degni di attenzione alcuni esemplari caratteristici come ad esempio
quelli della collana "I gabbiani" del Saggiatore o ancora la collana
quasi completa degli "Opuscoli” della Feltrinelli, i volumi della collana
"Biblioteca di nuova cultura" della Mazzotta, e quelli della
"Scienza nuova" della Dedalo -- collane radicalmente trasformate nei
successivi anni o sostituite da altre. Talora nate solamente per offrire testi
economici che rispondessero ai bisogni di una maggiore diffusione culturale.
Sono presenti anche dei volumetti allegati a periodici di partito -- PCI e PSI
-- e le pubblicazioni dell'istituto di filosofia a Salerno. Altri saggi: “Valore
morale e società” (Salerno); “Soggetti e bisogni” (Firenze, Nuova Italia); “Saggezza
e prudenza: studi per la ricostruzione di un'antropologia” (Napoli, Liguori); “Piccolo
trattato sulla saggezza” (Napoli, Bibliopolis); “Umanesimo e rivoluzione” (“Prassi
e teoria: rivista di filosofia della cultura”), “La saggezza moderna” (Napoli,
Edizioni scientifiche italiane). Storia della filosofia, Salerno. Charron
Storia della filosofia, Salerno. Giampiero
Stabile. Stabile. Keywords: Grice’s ‘Needs, need, bisogno, bisogni, bisoin,
complex etymology, durf, tharf, ragione borghese -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Stabile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Stasea – Roma, o della virtù – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo italiano. The first
lizio to take up residence at Rome. He defends the position that virtue (andreia)
is not sufficient for happiness – a position on which some Lizians were
prepared to compromise, in order to achieve a conciliation with the ethics of
the Portico. Keywords: Lizio.
Grice e Statilio: Roma -- ogni uomo
è stolto o pazzo -- Roma antica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Amico di CATONE. L’orto. Satura e farsa filologica. Penna. Secondo
un'ipotesi allettante, con S., amico di CATONE e morto a Filippi con BRUTO. In
questo contesto forse non è del tutto inutile notare che una filosofia è
presente. S. being
sollicited by BRUTO to make one of that noble band, who struck the god-like stroke
for the liberty of Rome, refuses to accompany them, saying, that: all men are fools,
or mad, and do not deserve that a wise man should trouble his head about them.
Keywords: ‘All men are fools, or mad’ -- Giardino, horti epicuri – hortus
epicuri. Garden. Friend of Catone Minore and Marco Bruto and a staunch opponent
of Giulio Cesare.
Grice e Stefani: “senso composto” – semantica
filosofica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pergola). Filosofo italiano.
Grice: “I may well say that my idea of a propositional complex owes much to
Stefani’s obsession with ‘sensus’ simplex or ‘divisus, and ‘sensus compositum’
–“ “The opposite of ‘com-posito’ is de-posito, though!” -- Grice: “I like his diagrammes; The Boedlian has
loads of his mss!” Grice: “He has a figure for the ‘figura quadrata,’ –“. Grice: “He has a figure for ‘suppositio.’” – Il membro
più noto di una famiglia di insegnanti marchigiani. Avviato alla carriera
ecclesiastica nella città natale, ma presto si trasfere a Venezia. Il suo
saggio più importante è il “De sensu composito et diviso”. Insegna a Rialto. Altri saggi: “Dubia in
consequentias Strodi,” “In regulas insolubilium,” “De scire e dubitare,”
“Compendium logicae,” “Logica,” “Tractatus de sensu simplice, sensu composito, et
sensu diviso”, Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fonte:
Dizionario di filosofia, riferimenti. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Stefani. Keywords: senso semplice, senso composito, senso deposito, senso
diviso, dialetttica, grammatica filosofica, semantica filosofica, loquenza. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Stefani.”
Grice e Stefanini: l’inter-personalismo contro
l’idealismo filosofico – filosofia fascista – veintennio fascista -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Treviso).
Filosofo italiano.
Grice: “Italians are obsessed with personalismo; I am with interpersonalismo!” “L’essere è personale.” “Tutto ciò che non è
personale nell’essere ri-entra nella produttività della persona, come mezzo di
manifestazione della persona e di *comunicazione* o conversazione *tra* due
persone,” “La mia prospettiva filosofica. Attivo nelle associazioni e nei
movimenti cattolici del trevigiano, iscrivendosi a gioventù cattolica dove
assume presto l'incarico di presidente diocesano. Qui svolge la vocazione di
educatore, seguendo, in particolare, gli insegnamenti contenuti nell'enciclica
Rerum Novarum di Leone XIII -- opera pure nel sindacato cattolico dei
lavoratori. Dopo il diploma presso il liceo classico Canova, dove ha fra gl’altri
ROTTA come insegnante di filosofia, si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia
a Padova. Nell'ateneo patavino, la corrente del positivismo è tra le più
seguite. In controtendenza, decide di scrivere la propria tesi sull’inter-personalismo,
avendo ALIOTTA come relatore, con cui si laurea in filosofia . Nel periodo di
studi padovano, inizia a frequentare anche il circolo di ZANELLA e inizia a
insegnare. Mentre completa gli studi universitari, inizia già a respirarsi aria
di guerra in Italia, ma come molti giovani, pur favorevole ad una posizione di
neutralità nei confronti della guerra, viene comunque chiamato all’armi.
Terminato il conflitto, uscendone con il grado di capitano e una croce al
merito di guerra, studia l’estetica di GRAVINA. Eletto consigliere del comune
di Treviso ma, la violenza dello squadrismo fascista investe anche il
trevigiano. Si oppone con fermezza a tale ideologia, dimettendosi e dedicandosi
completamente all'insegnamento, che ora è la sua occupazione principale e che
conduce sempre secondo una pedagogia ispirata ai principi cristiani,
costantemente attento e sensibile sia ai bisogni che agl’interessi degli
studenti. Si dedica con scrupolo alla stesura di apprezzati testi didattici di
storia e filosofia. Conseguita la libera docenza, ottiene, per incarico,
l'insegnamento a Padova. Oltre ad iscriversi al partito nazionale fascista,
affianca l'insegnamento nelle scuole pubbliche a quello universitario fino a quando,
vinto l'ordinariato, ha una cattedra di storia della filosofia a Messina che
tiene fino a quando si trasferisce a Padova. Al contempo, tiene per incarico
l'insegnamento di estetica a Padova e quello di pedagogia a Venezia, nonché
sarà preside della facoltà di lettere e filosofia dell'ateneo patavino. Nel dopoguerra, riabilitato alla propria
cattedra e all'insegnamento universitario, si dedica prevalentemente allo
studio e la ricerca, ma partecipando anche alla ri-organizzazione della
filosofia italiana, in particolare promuovendo incontri, convegni e riunioni
all'Istituto Aloisianum dei padri gesuiti di Gallarate, che divenne poi il centro
di studi filosofici di Gallarate, per primo diretto da GIANON. Socio
corrispondente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, nonché socio
effettivo dell’accademia patavina di scienze, lettere ed arti, ricevette il
premio della r. accademia d'Italia per le discipline filosofiche, e il premio
Marzotto per la filosofia, nonché è membro dei consigli direttivi della società
filosofica italiana e del centro di studi filosofici di Gallarate. Fonda a
Padova la “Rivista di estetica”, della quale dirigere solo il primo fascicolo e
a cui gli subentrerà PAREYSON. Gli saranno intitolate delle scuole medie
statali di Treviso e Padova, nonché l'ex istituto magistrale di Mestre. Uno dei
maggiori rappresentati dello spiritualismo, ri-esamina storicamente e
criticamente diverse correnti della filosofia, fra cui lo storicismo, la
filosofia dell'azione, l’idealismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, lungo
il corso della storia della filosofia, da FIDANZA ed AQUINO a GIOBERTI, ROSMINI
ed altri, sulla scia della sua prima formazione incentrata su uno stretto
connubio fra prospettiva storica e dimensione teoretica. Interessato pure all'estetica, su cui scrive
molti saggi, il contributo più importante è frutto della sua costante
riflessione su personalismo e spiritualismo, grazie alla quale il rapporto
soggetto-oggetto viene interpretato in termini di alterità, di altro da sé,
prospettiva questa che permette di concepire il singolo individuo come membro
di una comunità. Questo rapporto soggetto-oggetto, da un tale punto di vista, è
concepito come il momento fondante di ogni comunità di esseri umani in
relazione fra loro. Le più importanti problematiche connesse a questi principi
di base, sono affrontate nella “Metafisica della persona” – cf. Strawson, “The
concept of a person” -- e “Inter-personalismo”. Strettamente connesse a queste
tematiche filosofiche, poi, sono quelle didattico-pedagogiche aperte e portate
avanti pressoché durante l'intero suo periodo di attività, dai primi anni
formativi, in continuo ripensamento e progressiva ri-visitazione. Per quanto concerne poi la sua vasta
produzione, ricordiamo solo che dà alle stampe le seguenti, notevoli saggi:
“L'esistenzialismo” “Spiritualismo”, “Il dramma filosofico”; “Metafisica della
persona”; “Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico”; “Inter-personalismo”;
“Estetica”; “Trattato di estetica. Viene pubblicata la raccolta di scritti
intitolata “Inter-Personalismo”. Dizionario Biografico degli Italiani. L.
Corrieri, “Un pensiero attuale” (Prometheus, Milano). Citando sue testuali
parole. L’opera di Blondel è più arte che filosofia. I passaggi più ardui
superati con immagini ardite, anziché con logiche dimostrazioni; affermate le
più inconciliabili anti-tesi affinché queste rendano vivo e tragico il
contrasto; i mezzi dialettici atti più a trascinare che a convincere: tutto ciò
ci conferma pienamente nella nostra interpretazione. L'opera del Blondel è, più
che una dottrina filosofica, un romanzo psicologico che descrive l’esitazioni e
l’incertezze, le vane pretese e le supreme aspirazioni dell'umana volontà, che
alfine si appaga e riposa nel divino. Per ciò che al di là del filosofo si
riesca ad afferrare l'uomo, al di là del sistema si riesca ad afferrare il
programma generoso del credente, la filosofia dell'azione può essere
efficacemente educativa, può esercitare nella coscienza contemporanea
l'influsso salutare che essa si era proposta. “L'azione” (Padova). Il quale, a
sua volta, prende le mosse dalle concezioni personalistiche mounieriane e
giobertiane; cfr. Piaia, cit. Altri saggi: “Il problema della conoscenza in
Cartesio e GIOBERTI” (Torino, Sei); “Il problema religioso in Platone e FIDANZA:
sommario storico e critica di testi” (Torino, Sei); “Idealismo cristiano” (Padova,
Zannoni); Platone (Padova, Milani); “Il problema estetico nell’Accademia” (Torino,
Sei); “Imaginismo come problema filosofico” (Padova, Milani); “Problemi attuali
d'arte” (Padova, Milani); “La Chiesa Cattolica, (Milano-Messina, Principato);
“GIOBERTI” (Vita e pensiero, Milano, Bocca); “Metafisica dell'arte” (Padova,
Liviana); “La mia prospettiva filosofica” (Treviso, Canova); Esistenzialismo
ateo ed esistenzialismo teistico. Esposizione e critica costruttiva” (Padova, Milani);
Aubier, Estetica (Roma, Studium); Trattato di Estetica”; “L'arte nella sua
autonomia e nel suo processo” (Brescia, Morcelliana); Personalismo educativo (Roma,
Bocca). Dialettica dell'immagine. Studi sull'imaginismo di S., a cura
dell'Associazione filosofica trevigiana (Genova); Caimi, Educazione e persona”
(Scuola, Brescia); Cappello, Dalle opere e dal carteggio del suo archivio,
Europrint, Treviso, Per una antropologia in S.: metafisica, personalismo,
umanesimo, Cappello, ER. Pagotto, Padova, Lasala, Una ragione vivente.
L'immagine e l'ulteriore, in Frammenti
di filosofia contemporanea, I.v.a.n. Project, Limina Mentis, Villasanta, Boni,
Le ragioni dell’esistenza. Esistenzialismo e ragione (Mimesis, Milano); Rigobello,
Scritti in onore (Liviana, Padova). Rivista Rosminiana, treccani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luigi Stefanini. Stefanini. Keywords:
inter-personalismo, io e l’altro, l’altro da me, altro da se, alterita,
other-love, self-love. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stefanini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Stella: iustum/iussum, o la causa
dell’anormale come l’ implicatura d’Honorè – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Sernaglia). Filosofo italiano. Grice: “What
is it with Italian philosoophers that they are all into what at Oxford we would
call jurisprudence?” Grice: “It seems like all Italian philosophers are like
Italian versions of H. L. A. Hart!”. Studia a Treviso e Milano, sotto CRESPI. Insegna a Catania e Milano. I
suoi saggi si diregeno su alcune tipologie di reati, successivamente sugl’elementi
strutturali del reato. Il suo contributo
filosofico più noto, presso gl’operatori del diritto penale e la comunità
accademica, è “La spiegazione causale dell’azione umana” (Milano), in cui ricostruisce il problema del nesso di
causalità prospettando il criterio della sussunzione sotto una *legge* come
strumento per la soluzione di casi dubbi. Solo mediante una legge di copertura,
atta a spiegare il rapport causale fra la condotta dell’attore ed il effetto e possibile
formulare un giudizio sulla responsabilità dell’attore. Ad es., solo dopo aver
dimostrato, sulla base di una legge, che l'ingestione di un determinato farmaco
determina casualmente malformazioni del feto, e possibile imputare alla ditta
produttrice il reato di lesioni gravissime, colpose o dolose. In difetto di questa
spiegazione causale non puo formularsi alcuna responsabilità a regola di
giudizio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" trovasse applicazione
anche in un processo. Il principio venne accolto in tema di nesso causale dalla
corte suprema di cassazione, anche a sezioni unite. Oggi è norma codicistica.
Dirige riviste giuridiche di diritto penale ed è fra i curatori di raccolte
normative di largo successo presso la comunità forense. S’interessa anche nella
teoria generale del diritto e la filosofia del diritto, mediante saggi maggiormente
agili rispetto ai saggi penalistici. Esercita la professione di avvocato,
partecipa in qualità di difensore d’alcuni imputati, al processo del petrolchimico
di Porto Marghera, dove fa applicazione, dal principio della spiegazione
causale. Altri saggi: “L'alterazione di stato mediante falsità” (Milano); “La descrizione dell'evento” (Milano); “Giustizia”
(Milano); “Dei giudici” (Milano); “ll giudice corpuscolariano” (Milano); “Le ingiustizie”
(Bologna); “il galantumo del diritto”, Corriere della Sera. Grice’s
implicature: ‘only abnormal cases require a cause’ (Teoria causale della
percezione). Federico Stella. Stella. Keywords: Grice, implicature della
descrizione d’azione umana, H. L. A. Hart, Honoré, J. L. Austin, responsibity,
aspets of reason, alethic reason. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stella”.
Grice e Stellini: de ortu morum -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cividale).
Filosofo italiano. La sua fama è dovuta soprattutto al “Saggio dell’origine e
del progresso de’ costume e delle opinion a’ medesimi pertinenti – con quale
ordine si sviluppassero le facolta degl’uomini, ed appetite ne uscissero loro
connaturali” (Siena, Porri). La sua concezione morale è di stampo liceale -- e
sotto alcuni aspetti può essere considerato uno dei precursori della
sociologia. A lui è stato dedicato il liceo classico di Udine e che nella sua
biblioteca contiene gli scritti autografi. Enciclopedia Treccani, su treccani.
Dizionario biografico friulano, su friul. Stellini. Keywords: liceo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Stellini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Stenida: Romolo, il primo re – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Locri). Filosofo italiano. A
Pythagorian, cited by Giamblico – sometimes as “Stenonida.” Stobeo preserves a
fragment of a work on kingship attributed to him. Keywords: re, regno, principe, Romolo.
Grice e Sterlich: i georgofili -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Chieti). Filosofo italiano. Studia a Napoli nel collegio dei nobili, gestito
dalla compagnia di Gesù. È proprio questa esperienza che lo porta a concepire
la sua profonda ostilità verso i gesuiti, che è uno dei tratti caratteristici
della sua filosofia. La cura dei beni ereditati dal padre, di cui era l'unico
figlio maschio, lo portano a dover compromettere le sue aspirazioni letterarie.
Ma la filosofia rimase sempre la sua prima passione e per superare l'isolamento
culturale che gli venne imposto dal dover vivere a Chieti, comincia a
costituire la sua biblioteca. Questa cresce in misura esponenziale di anno in
anno, divenendo così una delle migliori biblioteche del regno. Il suo intento e
di mettere la stessa a disposizione di Chieti per la sua crescita culturale. Sfortunatamente
il suo desiderio è reso vano dall'incuria di chi gestì la stessa dopo la sua
morte. Cospicue parti della biblioteca sono stati individuate in tutta Italia:
nelle biblioteche di Pescara, Chieti, Napoli, etc. Aggiornatissimo sui
dibattiti filosofici e commentarista di Montesquieu, Rousseau, Voltaire, e di
altr’illuministi. Di questa partecipazione all’illuminismo è testimonianza un copioso scambio di lettere
con GENOVESI, BATTARRA, LAMI, BIANCHI, e TORRES. Questo carteggio è un
documento prezioso per delineare l’illuminismo. Lascia anche alcune
testimonianze della sua filosofia anche in due dialoghi di fra' Cipolla e la nanna.
In essi trova largo spazio la sua antipatia per i gesuiti. Tramite la solida
amicizia con LAMI, e membro della crusca e uno dei georgofili. L'illuminismo
nell'epistolario (Sestante, Bergamo). Dei marchesi di Cermignano. Romualdo de
Sterlich. Sterlich. Keywords: illuminismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Sterlich” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Stertinio: il tutore di filosofia – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Portico. Tutore di Damasippo. Keywords: Damasippo.
Grice e Steuco: la filosofia perenne di
Pitagora, Cicerone, Ovidio, Virgilio, e Plinio – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Gubbio). Filosofo
italiao. Acuto esegeta dei testi e profondo conoscitore della lingua romana, si
oppone tenacemente alla riforma protestante e prende parte al concilio di
Trento. Entra nella congregazione dell'ordine dei canonici agostiniani a
Bologna, poi a Gubbio. Inviato a Venezia, dove, per l'ampia conoscenza della
lingua romana e l'acume filologico, gli èaffidata la biblioteca di Grimani,
della quale una buona parte del patrimonio librario è appartenuto a PICO (si
veda). Pubblica saggi contro Lutero (come VIO – si veda) ed Erasmo, accusandoli
di fomentare la rivolta contro la chiesa cattolica romana. Questi lavori
rivelano il solido sostegno che dà alla tradizione della prima Roma. Parte
della sua saggistica include un intenso lavoro filologico sull'antico testamento,
culminato col “Veteris testamenti recognitio”, per il quale egli si basa su
manoscritti della biblioteca Grimani, utili a correggere GEROLAMO (si veda). Nel
revisionare e spiegare il testo, mai devia dal *significato letterale* e
storico. Contemporanea a quest’esegesi e
la composizione di un saggio d'impianto enciclopedico, la “Cosmopœia”. La sua
filosofia polemica ed esegetica destarono l'attenzione favoravole di Paolo III,
e questi lo ordina bibliotecario della
collezione papale di manoscritti e stampe del vaticano. Si reca a Lucca con
Paolo III e Carlo V. Adempe attivamente con scrupolo il suo ruolo di
bibliotecario del vaticano. Nel frattempo a Roma redatta i commenti al vecchio
Testamento riguardanti i salmi di Giacobbe, aiutando ad annotare e correggere i
testi di parte della Vulgata alla luce degl’originali ebraici. A questo periodo
risale la composizione del celeberrimo saggio, “De perenni philosophia” nella
quale mostra che molte delle idee esposte dai filosofi italici antichi – l’orfismo
italico, la scuola di Crotone, Parmenide e i velini della scuola di Velia,
Plutarco, Numenio, gl’oracoli sibillini, i trattati ermetici e i frammenti
teosofici -- e essenzialmente correto. Questo saggio contiene una polemica
indiretta a margine, poiché elabora un numero di quest’argomenti per sostenere
molte posizioni poste in questione in Italia da riformatori e critici. Come
umanista ha un profondo interesse per le rovine di Roma, e nell'operare un
rinnovamento urbano dell'urbe. A tal proposito, degne d'essere menzionate, sono
una serie di brevi orazioni in cui raccomanda di ri-sistemare l'acquedotto Aqua
Virgo, in modo da supplire adeguatamente il fabbisogno di acqua fresca per la
città. Mandato da Paolo III a presenziare il concilio di Trento, che doveva
celebrarsi a Bologna, affidandogli il compito di sostenere l'autorità e le
prerogative papali. Muore a Venezia durante un periodo di sospensione del concilio.
“De perenni philosophia” -- concilio di Trento Esegesi biblica ermetismo
(filosofia) Teosofia. Treccani Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Guido
Steuchi. Stucchi. Guido Steuco. Steuco.
Keywords: Crotone, i velini – I crotonensi --. Cicerone, ovidio, Virgilio,
plinio, roma, aqua virgo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Steuco” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Stilione: principe filosofo. – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Tutor to Severo Alessandro, the emperor.
Grice e Stilone: il proloquio del cielo -- il tutore di filosofia -- Roma
antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lanuvio). Filosofo italiano. Appartenne all'ordine
equestre. Segue nell’esilio QUINTO METELLO (si veda) NUMIDICO. A Roma, è maestro
e scrive discorsi per altri. I suoi discepoli più insigni sono CICERONE e
VARRONE. Conoscitore sicuro della coltura latina, èil primo rappresentante
notevole della scienza grammaticale o grammatica filosofica. Saggi: "Interpretatio
carminum Saliorum"; "Index comœdiarum Plautinarum", "Commentarius
de pro-loquiis" -- uno studio sulla sintassi di impronta del Portico.
Inoltre, cura edizioni di saggi altrui. Gli è stata attribuita un’opera
glossografica. The
text of Svetonio (Gramm.) provides a list of the first Roman philosophers who more
or less exclusively are devoted to grammar. Instruxerunt auxeruntque ab omni parte grammaticam L.
Aelius Lanuvinus generque Aeli Ser. Clodius, uterque eques Romanus multique ac vari et in
doctrina et in re publica usus. The first refers to the philosopher Elio Stilone,
a native of Lanuvio, tutor of Cicerone and Varrone. From Gellius it is possible
to gather some information about his linguistic and philological studies on PLAUTO,
then resumed and developed by Varrone. In a proper linguistic field, some
fragments testify to an interest for archaism, investigated both in the carmen
Saliare and in the XII Tables, as well as in the ancient Italic languages. GELLIO
also reports the title of a ‘saggio’ by S.: “Commentarius de proloquiis” in
which, as GELLIO himself informs us, “pro-loquium” is used to render the “axioma”,
a technical term of the dialectics and philosophical grammar of the Porch which
indicates a simple sentence, complete in all its parts. GELLIO adds that Varrone
borrows ‘pro-loquium’ from his tutor and uses it in the XXIV book of the “De
lingua Latina.” Therefore, Varrone is indebted to Stilo even with regard to the
syntactic terminology. However, the grammatical field in which the dependence
of Varrone from S. is more widely recognised is etymology. Dahlmann, recalling
a hypothesis by Reitzenstein, suggests
that in V-VII of “De lingua Latina”, VARRONE largely makes use of a Etymologicon, of the Porch, rendered into
Latin by S. VARRONE himself acknowledges his dependence on S., often quoting
his master for the etymologies. Out of CI certain fragments of Stilo's collected by FUNAIOLI,
IX are quoted by VARRONE. One being ‘cælum’ < ‘celare’ since its antonym is
'to reveal,’ which makes use of a method of S. --the antiphrasis, by means of
which the sense of an expression is explained by its antonym. A teacher of
Varrone. A highly accomplished scholar. He was the philosophy tutor of both
CICERONE and VARRONE, amongst others. Lucio Elio Stilone. Keywords: Varrone Quinto Elio Stilone. Keywords: Portico,
proloquium, axioma, Cicerone, Varro, Stilone, Gellio, Svetonio.
Grice e Stobeo: l’anticuario della filosofia – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An
anthologist whose work is an invaluable resource for antiquarians. Giovanni Stobeo.
Grice e Svetonio: il commentario alla repubblica, più vasto dalla
repubblica – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Best known for his account of the
lives of the first XII emperors, his output amounts to much more than that. He
writes a lengthy commentary on Cicerone’s “Republic,” which Cicerone liked
‘even if it is longer than my ‘Republic’!” Keywords: Cicerone, repubblica.
Grice e Suda: il saggio e il saggista -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Long thought
to be an Italian philosopher, ‘Suda’ was apparently the title ‘Suda’ gave to
his book! Keywords: Suda.
Grice e Sura: il
corpo e l’animo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A successful politican and general,
as well as a philosopher. He was a close friend of PLINIO (si veda) Minore –
Plinio Maggiore was dead by then. Plinio once infamously consults him on
whether (or not) ghosts exist, citing the example of Ottaviano’s tutor, who
discovered that the house he had purchased at a low prize was haunted,
ultimately to find out that this was due to a corpse buried in the backyward
with chains to his arms and legs. Plinio Minore was not a philosopher but knows
Sura is, and wants to have a philosophical explanation of the whole debacle. Lucio Lucinio Sura. Keywords: Roman for ghost,
Ottaviano, scatologia romana, corpo, animo, anima.
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