La Grammatica dell Algebra. ^ ^ iRivisla di Psicologia Applicata, n. 4, luglio-agosto 1908). r 7 A Parlare dell’algebra come di un linguaggio. Sommario: Ih che senso ^ f Quali sentii corrispondmio tn al~ e di una sua speciale J. Come si presenti in algebra la distin- gcbra ai verbi. Loro carcittere r . V- ■ l'altra, ad ussa corrispondente, tra ìionè tra verbi transiti^ e verbi ^ _ Dei verbi molteplice-^ nomi (o aggettivi) r elativi, e gH^izioni Carattere grammaticale dei segni mente transitivi, e dell / caratteristiche dei segni di uguaglianza j • fiirtincri e oarlando di essa come di uno spe- LParlando di algebra a dei attribuire, alla pa- ciale linguaggio, devo pregarli d , P ^ essi le attribuì- rola . linguaggio >. ^ astrazione da un scono ordinariamente .di studiano — i quali tutti hanno per loro carattere comune ai ^‘"^‘'^^^^^^ttendomi di applicare lo stesso nome anche elementi delle «parole » P^^ rivolgono ad altri sensi che non siano ad altri sistemi di segni eh , f„n7inni dei linguaggi propriamente detti, radilo, adempiono wttavia alle tCTfpo^J^ e„ „r„SS'e ^.-—nLròne, piò pir"arhVL“rr^^^^^^^^ « UpÓ . Ideo^radoo nel ,uall le ooae [11 .ommario e le pari., che ,u „„p„ve ..ella Xmsh *' «to- parentesi quadre, non furono mclus carte del Vailati, che a lu. servi per la Comunicazione da lu p • ^ grammalicali e sintattici del lingnaggto delle Scienze (Firenze 1906) sotto il ti . Rivista di Scienza (voi. VI, algebrico, e che in parte fu riprodotto in una i^Algèbre ati point de vue Hngui- anno III [1909]. n. XII.4), intitolata : PiiLr it^de de l Algebre ? ^ stiquei\ GIOVANNI VAILATI ai cui si voleva comunicare Jos^'dvano il nome nel Un- scura alcun riferimento ai gruppi d, suoni che ne guaggio parlato. rappresentati, di quei rapporti Per indicare il sussistere, tra g i ogg ^ proposizioni, le scrit- che dai linguaggi parlati sono espressi m principio ad espe- ture di questa seconda specie dovetter affatto dienti (alterazioni nella forma, nell ordine g > preposizioni, analogo a quello che, nelle Imgue parlate etc. ai segni di predicazione, d ;Jggiare interesse per quei sistemi di L’esame di tali espedienti presenta panico ^ „,,iea. ve- notazioni ideografiche che, come cs- g ordinaria, subiscono in certo nendo impiegati contemporaneamente alla ^ avrebbero finito per soc .nodo la cencorreusa di questa, p.eferibill per 1 partico- combere se qualche speciale carattere no lari uffici ai quali sono applicati. dell’algebra, la ragione di Dire che, nel caso che ora c, Jgg,or brevità e pre- tale preteribilltà stia nclPattltudlne sua a j ancora rlsob cislone le proposizioni relative a. numer determinare da quali vere la questione. 04 che Importa dipendano : Uno a che circostanze le suddette proprietà del >■”^8, geografiche al posto delle punto cioè esse si riconnettano f ‘j; ‘7^'®°„gÌ„o .“orso, fatto dall’algebra, ;role. e per nurdrpontTltguagglo parlato, per dare senso alle Afferenti combinazioni dei esempio caratteristico sto. non certo nel fatto che le cifre sia P ^,e„e attribuita ^alrmrrrsrrg^Sa"^ della posizione che esse occupano in hT prop™^^ f rrti soprattutto da attribuire i strumento di ricerca e di dimostra- che come mezzo di ^a avere indotto uno dei piu grandi zione. Tali vantaggi sono rivolgere modestamente a sè stesso una ^a^ cbe è rivolta dallo Schiller a un poeta pre- suntuoso, in quei noti versi . pi confronto tra i “cTriuogo'*!’ impiego dei segni derivano dall’ impiego delle . q un’altra distinzione importante dell'algebra, si P""“ ehe occorre fare tra i sistemi di notazione ^;:.'lomTa;;unT:df’e de, .'aritmetica, o le note musleaii, hanno solo I uf- LA grammatica DELL’ALGEBRA 873 ^ mnorre nei loro elementi, dati gruppi di sensazioni fido di descrivere, e di decom ^ ^pp^nto il 0 di azioni complesse, e queg ,, chimica — si presentano come capaci caso dell’algebra o '5'“' ^ , in parole e frasi del definirla o caratterizzarla m modo f perrtlirco'nicio chiunque abbia coll’algebra una sufficiente -f;:Ìadiffierenzachesiba--^^^^^^^^^^^ à^e potr^rcorr— 'linana, le proposizioni relative ai numeri e alle loro proprietà. differenza equivale ad ammettere implicitamente che Il riconoscere una tale differenz ^ espressione e come strumento la speciale efficacia ^°^t^ibuire, non tanto all’ impiego che in essa di ricerca e di '"arposto^^^ parole del linguaggio or- dintio! q^a^P^uttostra delle parti’colarità di indole . sintattica ». meren i "Esamffiar'e iTche cosa guaggio algebrico, ricercare ^ ^ e propriamente dette: que- riscontrano, in maggiore o minor grad J . sembrano bene degne di Tra le distinzioni, che si trovano *‘“‘I,elle che si riferiscono rittcair;‘:.rc:ot^^^^^ - -- 874 GIOVANNI VAILATI Una frase spesso ripetuta dai linguisti (‘), colla quale essi tentano di precide ciò che costituisce il tratto caratteristico di un vero . linguaio >, hi opposizione alle forme meno perfette di espressione istintiva di stati d amm . qualf si riscontrano anche negli stadi inferiori di sviluppo della vita animale . ' la «pcriiente • « il linguaggio comincia dove le interiezioni finiscono». Se noi ci domandiamo, alla nostra volta, in che cosa differiscano effettiva- mente le interiezioni da quelle che i grammatici chiamano le altre . parti del discórso , ci accorgiamo subito che esso sono le sole parole che, anche enun- flTLàtalnte, bastano, per sé stesse, a esprimere -^^Ye Qualche opinione, di chi le pronuncia, mentre le altre specie d . i nomi eli aggettivi, i verbi, etc., non possono, d’ordinario, servire a a e p se non comparendo raggruppate le une insieme alle altre, in modo da dar uogo a una. frase o a una proposizione. ^ . Quando emettiamo, per esempio, il suono brr, o il suono " • ^ biamo bisogno di aggiungere altre parole per fare intendere a ^Ze che "sentiamo""del freddo, o che desideriamo che egli non faccia nimore. SeTnvece pronunciamo, per esempio, il nome di un oggetto --a accompa- gnarlo con qualche parola (o gesto), che indichi cosa vogliamo dire di esso - fhe diefiii cioè: se vogliamo dire che lo vediamo, o che lo desideriamo, o fotmilmo, ; che ne aspettiamo la comparsa etc. aifatto alcuna nostra opinione, o disposizione d animo, ma al piu segna^ liamo che stiamo pensando a quell’oggetto, senza dire nulla di ciò che ne pen segue che le interiezioni possono qualificarsi come quelle, tra le parole del nostro linguaggio, che hanno più . significato » di tutte le akre, e in cer o modo, come le sole che ne abbiano, quando sono prese a se. mentre altre sono soltanto capaci di acquistarne, nel caso che siano assunte a far parte una frase che ne abbia. .. L’affermazione riferita sopra equivale, dunque, a dire che il « vero lin- guaggio » comincia con la prima introduzione di parole che, prese per se stesse non hanno alcun significato, e che di tanto un linguaggio e ° più rilievo hanno in esso le parole che si trovano in questo caso, di front litro che, anche enunciate isolatamente, esprimono qualche opinione, d’animo, di chi le pronuncia. Si ha una conferma di ciò nel fatto che le parole che hanno meno senso delle altre - quelle cioè alle quali è necessario aggiungere un piu grande numero di altre parole per ottenere una frase che voglia ^ sono apppunto quelle che compaiono piu tardi, tanto nello sviluppo storico dei linguaggi, quanto nel processo individuale del loro apprendimento. Tra tali parole sono da porre, in primo luogo, le preposizioni, in quanto esse hanno l’ufficio di indicare le varie specie di relazioni che possono sussi- fi) La trovo citata tra gli altri da G. Zoppi, nel suo volume sulla Filoso/ìa della Gram- malica (Verona, 1880), che ho trovato pieno di osservazioni suggestive sull 'argomento qui trat o. LA GRAMMATICA DELL’ALGEBRA 875 stere tra gli oggetti di cui si parla. Esse infatti, appunto per questa ragione, non indicano assolutamente nulla se non sono accompagnate dalle parole che denotano gli oggetti tra i quali si asserisce aver luogo la relazione che ad esse corrisponde. Così, quando pronunciamo, per esempio, le parole : « accanto *, « sopra », « dopo », etc., senza indicare quali siano le cose di cui intendiamo affermare che runa è ^ accanto » all’altra, « sopra » l’altra, etc., noi non comunichiamo a chi ci ascolta alcuna determinata informazione sulle cose di cui parliamo. A considerazioni analoghe si presta il confronto delle varie specie di verbi e, in particolare, la distinzione espressa comunemente con l’opporre i verbi « transitivi » ai verbi « intransitivi », — col porre in contrasto, cioè, i verbi che, come per esempio : « desidero », « respingo », « nascondo », « indico », etc., richiedono che alla loro enunciazione segua l’indicazione di qualche « oggetto» al quale si riferiscono, coi verbi che invece, come per esempio: « dormo » « cresco », « rido », « muoio », etc., non hanno bisogno di alcuna ulteriore determinazione o specificazione di tal genere (^). Qui è tuttavia da osservare chela suddetta distinzione, in quanto è sta- bilita dai grammatici in base al criterio puramente formale %onsistente in ciò che il verbo esiga, o non esiga, ciò che essi chiamano un « complemento di- retto » —, non coincide esattamente con quella che, per il nostro scopo, sa- rebbe opportuno fosse posta in rilievo. A nessuno certo può venire in mente di dar torto ai grammatici quando essi si preoccupano di distinguere i casi nei quali l’ indicazione dell oggetto, a cui si riferisce l’azione espressa da un verbo, avviene per mezzo della semplice aggiunta del nome di tale oggetto — ‘come quando si dice per esempio : « de- sidero la tal cosa » — dai casi nei quali invece è necessario che, tra il verbo e il nome, sia interposta una preposizione — come quando si dice per esem- pio : , di certi nomi come quelli che abbia'mo sopra citati, è ordinariamente indicato col qualificarli come nomi « re- lativi ». ..... Della connessione tra i nomi « relativi » e i verbi transitivi si ha una chiara manifestazione anche nella possibilità, frequentissima, di tradurre frasi, in cui a un dato oggetto, o persona, è applicato un nome esprimente una re- lazione, in altre ^si, equivalenti, nelle quali figura invece un verbo transitivo. Non vi è, per esempio, differenza tra il significato delle frasi : « il tale è nemico del tale altro », o « il tale oggetto c più alto del tale altro », e le altre : « a tal persona odia la tal altra », o « il tale oggetto supera, o sopramnza, il tale altro », etc. Il matematico e filosofo americano Charles Peirce, che più di ogni altro si è occupato dell’analisi e della classificazione delle varie specie di « relazioni », è stato portato dalle sue ricerche a stabilire una distinzione tra i verbi (o nomi ed aggettivi) transitivi, a seconda che essi esigano l’aggiunta di un solo o di più nomi per acquistare un significato determinato, per diventare cioè capaci di affermare qualche cosa degli oggetti e delle persone a cui vengono ap- Sono, per esempio, verbi « doppiamente transitivi » (o bivalenti (‘), come si potrebbero chiamare con una opportuna immagine tolta dal linguaggio della chimica), comportanti cioè l’ aggiunta di due nomi, i verbi seguenti : « in- segnare » (qualche cosa a qualche persona), « dare » ( qualche cosa a qualche persona), e i corrispondenti nomi: « maestro » (di qualche cosa a qualcheduno) « donatore » (di qualche cosa a qualcheduno), etc. (•) Sarebbe forse più proprio chiamarli « trivalenti », in quanto anche il soggetto rappre- .senta una « valenza ». Sarebbero allora « bivalenti » i verbi semplicemente transitivi, « umva- lenti » i verbi intransitivi, e « nullivalenti » (o privi di « valenza ») gli impersonali come « piove, » « nevica ». etc. Gli impersonali latini come « pudet me ». « piget me » « mihx tur » etc. sarebbero « bivalenti » come i verbi transitivi. [Come esempio di verbi a quattro « valenze » si potrebbe citare il verbo « scambiare » nel senso commerciale (« il tale scambia con la tal persona, la tal cosa con la tal altra », o più semplicemente « le tali due persone si scambiano fra loro le tali due cose »)]. LA grammatica DELL’ALGEBRA 877 Esempi di verbi « trivalenti » capaci cioè, o esigenti, di venire . o « comperare > (« vendo un oggetto A a una persona B, per un prezzo C », « compro un og- getto A da una persona B, per un prezzo C »). .... Nel caso di questi verbi « plurivalenti », o molteplicemente transitivi, si scorge chiaramente quale sia l’ufficio che hanno le preposizioni, in quanto ser- vono quasi da organi connettivi, per applicare a ciascun verbo ordinatamente i rispettivi « complementi ». [Quanto più cresce il numero delle « valenze » tanto più cresce naturalmente il bisogno di speciali segni o particelle destinate ad evitare le ambiguità nel- Tassegnazione di diversi complementi a uno stesso verbo. Servono a tale scopo, nel linguaggio ordinario, le preposizioni (o le flessioni) corrispondenti ai diversi « casi » dei nomi]. Finché il verbo, pur essendo a più « valenze », è tale che, come avviene per esempio in quelli sopra citati, i diversi nomi richiesti per completarne il si- gnificato appartengono a categorie cosi distinte da rendere impossibile qualsiasi equivoco o confusione tra loro — quando, per esempio, come nel caso del verbo' « dare », l’un complemento deve indicare una persona, e l’altro un oggetto —, può parere sempre superfluo l’impiego di qualsiasi preposizione. Si tende infatti ad abolire queste in tutti quei casi in cui si abbia particolare interesse a fare economia di parole, come per esempio nei telegrammi, negli indirizzi, negli av- visi economici delle quarte pagine dei giornali. [Se si telegrafa, per esempio « spedite plico segretario » nessun dubbio può nascere che il plico è la cosa spedita e il segretario la persona « a cui » la spedizione è fatta, e non vi- ceversa]. Ma quando, invece, i diversi complementi di un verbo appartengono tutti a una medesima classe — quando sono, per esempio, tutti nomi di persone, come per esempio nelle frasi : « dico male di Tizio a Caio », « dico male a Caio di Tizio » — , l’omettere le preposizioni equivarrebbe a togliere ogni mezzo a chi ascolta di distinguere le diverse relazioni in cui i diversi nomi stanno col verbo, e a esporsi quindi a esser capiti a rovescio. Se, tenendo presenti le considerazioni svolte sopra, ci proponiamo di de- terminare quali siano gli speciali caratteri grammaticali e sintattici per i quali il linguaggio algebrico si distingue da quello ordinario, un primo fatto note- vole che ci si presenta è l’assenza, nel linguaggio algebrico, di qualsiasi specie di verbi (cioè l’eguaglianza e e oro aree), resterà, per ciò solo, precluso il suo simultaneo impiego per esprimere qualsiasi altra relazione tra figure, come per esempio, quella di « egua- g lanza » propriamente detta (o sovrapponibilità), quella di similitudine, etc. 1 inconvenienti ai quali, in casi di questo genere, potrebbe dare occa- sione 1 impiego di uno stesso segno, per indicare relazioni affatto diverse po- trebbero essere evitati in algebra ricorrendo (come, infatti, qualche volta si fa) all introduzione di nuovi segni che, accanto a quelli di eguaglianza e di dise- guaghanza, assumessero l’ufficio che, nel linguaggio ordinario, spetta alle di- verse specie di verbi transitivi (, «il tale edificio è eguale all’altro in altezza ^ \ i tali due cliL si equivalgono per salubrità », etc. ner T Preposizìone è, per così dire, accidentale ; in greco, cusatir^Tn questione, posto All’ac- cusativo , in latino si adopera l ablativo. Ma vi è anche un altra forma che possono assumere le proposizioni del tipo suddetto, ed e quella che si presenta nelle frasi: « la statura della tal per- sona eguale a quella della tale altra », « l’altezza del tale edificio ^ e.u^le a 0 Sull opportunità di ricorrere a questo espediente, nel caso delle relazioni tra gli enti geometrici considerati nel calcolo vettoriale, si è molto discusso recentemente (al Congresso»,. tenuto a Roma nell'aprile scorso) a proposito della relazione pre- -sentata su tale soggetto dai professori Hurau-Fort. (ilell 'Accademia Militare di Torino) e Marco- LONGO (dell'Università di Messina). i ormo; e aiarco- LA GRAMMATICA DELL’ALGEBRA 883 qtiella del tale altro », « la salubrità del tale clima à eguale a q^lella del tale altro », etc. Queste espressioni, nelle quali figurano, al posto del soggetto e del predi- cato, i nomi, non più degli oggetti di cui si parla, ma delle qualità di essi, e dei caratteri rispetto ai q,uali essi sono posti a confronto, corrispondono preci- samente alle espressioni che compaiono nel linguaggio algebrico quando, per esprimere, per esempio, che due angoli a, b hanno uno stesso seno, si scrive: sen a — sen ò, o quando, per indicare che i triangoli ABC, DEF hanno una stessa area, si scrive: area ABC area DEF. I due esempi citati — quello del seno e quello dell’area — possono ser- vire a mettere in luce una differenza che è importante segnalare. Mentre deH’affermazione che un angolo ha un dato seno si può definire perfettamente il significato anche senza considerare alcun altro angolo oltre quello di cui si parla, per il caso invece dell’area il significato della frase : « la tal figura ha una data area », non può venire determinato se non ricorrendo, o ri- ferendosi, direttamente o indirettamente, a quelle operazioni di confronto tra l’area di una figura e l’area di un’altra (la quale altra può anche essere, per esempio, quella che si è scelta per unità di misura delle aree) che sono richieste per riconoscere se due date figure hanno, o non hanno, una stessa area. In altre parole, mentre nel caso del seno di un angolo si può prima dichia- rare o definire che cosa esso sia, e poi passare a riconoscere se il seno di un dato angolo sia eguale, o maggiore, o minore del seno di un altro, nel caso dell’area invece tali due procedimenti sono inseparabili, e non possono neppure essere concepiti indipendentemente l’uno dall’altro. II modo ordinariamente impiegato per distinguere i casi dell’una specie dai casi dell’altra consiste nel dire che, mentre, nei casi analoghi a quello del seno, si definisce « esplicitamente » un nuovo segno di funzione, nei casi invece ana- loghi a quello dell’area il significato del nuovo nome introdotto è determinato soltanto « implicitamente », o, come anche si dice, per mezzo di una « defini- zione per astrazione ». Il più antico esempio, che di definizione per astrazione ci presenti la storia del linguaggio matematico, è la definizione della parola « rapporto » (^.ó^oc) che si trova posta a base della trattazione delle proporzioni, nel V libro degli Elementi di Euclide, Questa definizione, che la tradizione fa risalire a Eudosso, consiste infatti soltanto nel determinare esattamente — sotto una forma applicabile anche al caso delle quantità incommensurabili — il senso della frase « le tali due gran- dezze hanno lo stesso rapporto delle tali altre due », oppure « il rapporto tra tali due quantità è eguale a (o maggiore, 0 minore di) quello tra le tali altre due quantità ». Per mezzo di un tale procedimento, una relazione tra quattro grandezze — la relazione cioè che si esprime dicendo che esse formano una proporzione — viene a poter essere espressa sotto forma di una eguaglianza fra due termini, in ciascuno dei quali figura uno stesso nome, o segno, di funzione (tra due va- 884 GIOVANNI VAILATI riabili); mentre della parola « rapporto > non è data, e non occorre c e s , altra deBnizione oltre quella che consiste nell’attribuire un determinato alle frasi in cui si parla di eguaglianza o di diseguaglianza tra rappor quantità (*). Sui numerosi esempi che del suddetto genere di definizioni ci presentano ! diversi rami della matematica e le varie scienze nelle quali essi trovano apph- C3^ion0 non c oni il Cciso di fcrnicirsi. « . • i Si ’presenta^pportuno invece il domandarsi quali siano le condizioni da cui dipende l'applicabilità del procedimento descritto sopra ; il domandarsi, cioè in quali circostanze le « definizioni per astrazione » siano possibi i, e in qua casi sia lecito, o conveniente, introdurre nuovi segni di funzione per mezzo di 6SS6 j Ciò equivale a domandarsi quali sieno le proprietà di cui deve essere do- tata una relazione (o una corrispondenza) tra oggetti di una data classe perche il suo sussistere, tra due oggetti « e à di tale classe, possa venire espresso per mezzo di eguaglianze del tipo:/«=:/^. ove del segno / non e finizione oltre quella che risulta dal significato che si attribuisce alla forra condizione indispensabile per l’applicazione di untale procedimento è, anzitutto, questa: che la relazione di cui si tratta abbia in comune colla rela- zione di « eguaglianza > la proprietà che, per il caso di quest ultima, viene espressa dall’assioma : Se a è uguale a e -5 è uguale a r, anche a e ugna e a c. Se infatti questa condizione non si verificasse — se cioè la relazione in questione fosse tale che, dal suo sussistere tra due oggetti a e -5, e tra due altri, ^ e & non derivasse senz’altro il suo sussistere tra a e r -, il servirsi di una espressione del tipo ; fa—fb, per indicare il fatto che essa si verifichi tra due oggetti a ^ b, porterebbe alla conseguenza assurda (o, ad ogni modo, incompa- tibile con una proprietà, fondamentale, del segno di eguaglianza) che, ^lle egua- glianze : fa±ifb, e fb—fc. non si potrebbe dedurre l’altra Per una ragione analoga, la relazione di cui si parla dovrà anche godere di un’altra proprietà: essa dovrà cioè essere tale, che, dal suo sussistere tra due oggetti « e à, si possa sempre concludere che essa sussiste pure, all’ inverso, tra b ^ a. Altrimenti si dovrebbe ammettere che, dalla formula fa =/à, non si possa passare all’altra fb—fa, contrariamente a un’altra delle proprietà ca- ratteristiche dell’eguaglianza. [Soddisfano a questa condizione, per esempio, le relazioni di perpendico- larità e di parallelismo, mentre non vi soddisfa, per esempio, la relazione di divisibilità, poiché dall’essere un numero divisibile per un altro non deriva cer- tamente che il secondo sia divisibile per il primo]. (•) Il nome di « definizioni per astrazione » è stato introdotto, per la prima volta, da G. Peano. Il riconoscimento dell’importanza del procedimento che conduce ad esse, risale a H. Grassmann {Ausikhttungslehre, 1844). Un notevole contributo alla loro analisi è stato recente- mente apportato da A. Pauoa {Alti del sfi Congresso delia Società Italiana di Filosojia. Parma, settembre, 1907). LA GRAMMATICA DELL’ALGEBRA 885 Le relazioni che, pur soddisfacendo alla prima delle due condizioni soprac- cennate [cioè a quella che abbiamo chiamata « transitività sillogistica »], non sod- disfacciano alla seconda, possono, per ciò solo, venir rappresentate da uno qua- lunque dei due segni di disuguaglianza, poiché tanto per l’uno come per l’altro di essi si verifica appunto la prima, e non la seconda delle due condizioni suddette. Le due condizioni enunciate sopra, oltre che necessarie, sono anche suffi- cienti perchè sia lecito il ricorso a una « definizione per astrazione », e all’in- troduzione, per tal via, di un nuovo nome o di un nuovo segno di funzione. La sola obiezione che qui può presentarsi è quella che consiste nel dire che, venendo il segno di funzione così introdotto a essere definito solamente in quanto figura in espressioni di una data forma cioè in espressioni del tipo fa—fb , esso rimane privo di ogni significato in tutti i casi in cui si vo- glia adoperarlo isolatamente, o combinato diversamente con altri segni della stessa o diversa di specie. A questa obiezione si può rispondere osservando che, allo stesso modo come si è attribuito un senso alle espressioni del tipo fa —fb, così nulla vieta di determinare ulteriormente anche il significato di altre espressioni nelle quali, da un lato, o da ambedue i lati, di un segno di uguaglianza, figurino, non già dei termini isolati, come fa o f b, mafdei determinati aggruppamenti di essi (come per esempio f a ^ /^), composti interponendo determinati segni di ope- razione. Perchè ciò possa farsi occorrerà naturalmente che la relazione di cui si tratta soddisfi a un certo numero di altre condizioni, in aggiunta a quelle che, come si è visto, sono richieste perchè il fatto che essa sussiste tra due oggetti a & b possa venire espresso da una formula del tì^o : f a f b. Quali siano queste condizioni risulterà in ogni caso dall esame delle pro- prietà che caratterizzano le diverse operazioni i cui segni figurano nelle formule da definire. Il caso che si presenta più frequentemente è quello di relazioni tali che, mediante esse, si possa attribuire un senso, oltre che alle formule del tipo • yo! — fb, anche a quelle del tipo : fa fh + f c, e per conseguenza anche a quelle del tipo; fa—fb — fc, nonché a quelle del tipo; fa — kfb, ove k rappresenta un numero. Si ha un esempio di una relazione appartenente a questa categoria, nel lin- guaggio tecnico della fisica, in quella relazione che si esprime dicendo, di due dati corpi, che essi hanno una stessa « massa », o due masse che stanno fra loro in un dato rapporto (*). Un altro esempio ci è fornito da tutto un altro ordine di rapporti, da quelli, cioè, riferentisi al « valore di scambio » delle merci. Mentre infatti gli econo- (‘) Posso rimandare il lettore, che desiderasse maggiori schiarimenti, a un articolo che ho recentemente pubblicato, su questo soggetto, nel Nuovo Cimento (Voi. XIV, 1907) : « Sul mi- glior modo di definire la massa in una trattazione elementare della meccanica ». [V. scritto CLXXXI del presente volume]. 886 GIOVANNI VAILATI misti possono, e devono, determinare e definire esattamente il senso di frasi come le seguenti : « il valore della tal merce è uguale al valore della tale altra > , « il valore della tal merce è uguale alla somma dei valori delle tali due altre », etc., essi non hanno alcun bisogno (e neppure alcuna possibilità, a meno di ca- dere in tautologie) di definire isolatamente la parola « valore ». E tale impossibilità non dà luogo, nè qui, nè negli altri casi analoghi, ad alcun inconveniente o ambiguità; precisamente come nessun inconveniente de- riva, nel linguaggio ordinario, dal fatto che noi non siamo in grado di dire che cosa significhino isolatamente le parole « stregua », « solluchero », « josa », « zonzo », « acchito », « chetichella », « vanvera », etc., bastandoci del^ tutto conoscere il significato di tutte le frasi in cui tali parole compaiono, cioè delle frasi « giudicare a una data stregua », « andare in solluchero », « averne a josa », « andare a zonzo », « di primo acchito », etc. Il frequente impiegò che è fatto, nei vari rami della matematica, di locu- zioni, o segni di funzione, il cui senso è determinato solo per mezzo di « defi- nizioni per astrazione », viene a confermare ciò che già è stato asserito indietro, quando si assegnò come uno dei tratti caratteristici del linguaggio algebrico, di fronte al linguaggio ordinarlo, il maggior rilievo e la maggiore importanza che assumono in esso i segni i quali, non avendo, quando siano considerati iso- latamente, alcun senso separatamente enunciabile, sono capaci di venire definiti solo in modo implicito, cioè solo coll’ indicare il significato di intere espressioni, o formule, in cui il segno da definire compaia associato con altri segni. Il riconoscere come affatto legittimo l’impiego di segni o parole, che si trovano in questo caso, e come affatto irragionevole l’esigenza, per essi, di una definizione « esplicita », non è privo d'importanza, teorica o pratica, anche fuori del campo delle scienze matematiche. Basta dare uno sguardo alle prime pagine degli usuali libri di testo, o ai manuali elementari di qualsiasi ramo d’insegnamento — dalla grammatica al diritto costituzionale, dalla elettrotecnica alla musica —, per convincersi del grave danno che deriva alla chiarezza e alla intelligibilità (e nello stesso tempo anche alla precisione e al rigore) della esposizione dalla tendenza dei tratta- tisti a riguardare come unico mezzo, per la determinazione del significato dei termini tecnici, il ricorso alle definizioni propriamente dette. Che il procedimento ordinario di definizione — quello cioè secondo il quale, prendendo in considerazione la nozione da definire, isolatamente e indipenden- temente dalle frasi nelle quali essa dovrà poi essere adoperata per dire qual- che cosa, si mira a decomporla nei suoi elementi, facendola comparire, in certo modo, come il risultato della intersezione di altre nozioni più generali — possa essere, in dati casi, utile e anche necessario, non è da porre in dubbio. Ma, anche senza tener conto del fatto che, anche seguendo tale procedi- mento, si dovrebbe pure arrivare, presto o tardi, a nozioni che non possono essere in tal modo ricondotte ad altre più generali, anche senza tener conto, dico, di questa circostanza, chi espone gli elementi di qualunque scienza non dovrebbe mai trascurare di domandarsi, ogni volta che si tratti d’introdurre un nuovo segno, e di spiegarne il significato, se, tra i due modi, visti sopra, di prò- LA grammatica DELI.’ ALGEBRA S87 cedere alla determinazione di questo - tra quello, cioè, che consiste nel darne una definizione propriamente detta, e l’altro invece che consiste nel precisare semplicemente il senso di determinate frasi nelle quali il termine da definire figura -, sia più conveniente il primo o il secondo ; se, per esempio, quei con- cetti (più generali di quello che si vuol definire), ai quali deve essere fatto ap- pello quando si proceda nel primo modo, siano poi veramente più chiari e piu facilmente apprendibili, dagli alunni o dai lettori, di quanto non sia il concetto stesso che si vuol definire, e se, ad ogni modo, quest’ ultimo non possa essere più facilmente da essi acquistato mediante la diretta osservazione dei fatti e delle relazioni che esso dovrà poi servire ad esprimere. Le discussioni interminabili sul tempo, sullo spazio, sulla sostanza, suU’in- finito, etc„ che occupano tanta parte in ' certe trattazioni filosofiche, forniscono numerosi e caratteristici esempi delle varie specie di « questioni fittizie » alle quali può dar luogo la pretesa di dare, o di ricevere, definizioni propriamente dette, in quei casi in cui le parole o nozioni delle quali si tratta di determi- nare il significato sono di tal natura da non poter essere definite se non ricor- rendo a procedimenti analoghi a quelli rappresentati, in algebra, dalle « defini- zioni per astrazione ». [Si è parlato fin qui dei mezzi che l’algebra ha a disposizione per esprimere proposizioni isolate. Ma quando si discute, o si cerca, o si dimostra, si ha altresì bisogno di poter collegare le proposizioni le une con le altre ; si ha cioè bisogno di mezzi per esprimere i rapporti di dipendenza o di indipendenza che sussistono, o che si vogliono stabilire, tra esse. A tale scopo servono, nel linguaggio ordinario, quelle particelle che i gram- matici distinguono col nome di « congiunzioni ». L’ufficio di queste, rispetto alle proposizioni, si può paragonare a quello che adempiono le preposizioni rispetto ai nomi.. Allo stesso modo come una preposizione, posta tra due nomi, dà luogo a una locuzione atta a esercitare l’ufficio di un nuovo nome, così anche una con- giunzione, posta tra due asserzioni, da luogo a una nuova asserzione, la cui ve- rità o falsità può anche essere indipendente dalla verità o falsità di ciascuna di esse. Per una scienza a tipo deduttivo, come e appunto 1 algebra, le piu impor- tanti congiunzioni sono naturalmente quelle che servono a indicare che, di due date asserzioni, l’una è conseguenza dell’altra. Al posto delle molteplici particelle, o perifrasi, che sono adoperate a tale scopo nel linguaggio ordinario (« dunque », « quindi », « perciò », « donde », « di qui », « per cui », « se >, « quando », « in caso che.,.. », « ne deriva », « ne consegue », « ne risulta », etc.), non si avrebbe bisogno in algebra che di avere a disposizione un solo segno. Altre congiuzioni assolutamente indispensabili in qualsiasi trattazione alge- brica, che non sia una semplice raccolta di formule, sono le seguenti : i) una per indicare che una proposizione enunciata non è vcfa (un se- gno cioè corrispondente al « non » del linguaggio ordinario). 888 GIOVAKNI VAILATI 2) altre due, corrispondenti, rispettivamente, all’c e » e all’« o » del lin- guaggio ordinario, per indicare che due date proposizioni sono simultaneamente vere, o che di esse una, e una sola può essere vera. L’avere introdotto quattro speciali segni per indicare i suddetti quattro rapporti tra le proposizioni, e l’aver riconosciute le curiose analogie che sussi- stono tra le proprietà di tali segni e quelle degli altri segni già adoperati in algebra, e merito del Leibniz e dei fondatori della cosiddetta , scelti e co- struiti deliberatamente in vista degli scopi ai quali devono servire, e il cui sviluppo non è soggetto a leggi o uniformità del genere di quelle che lo studio comparato permette di riconoscere e di formulare per i linguaggi « naturali », non mi pare abbia gran peso. Alla distinzione stessa tra lingue « naturali » e lingue « artificiali » mi sembra difficile che dagli stessi glottologi possa venire attribuito alcun senso preciso e scientifico, quando essi ammettono che nella formazione e nello svi- luppo di qualsiasi linguaggio, per quanto « naturale » e non colto, una parte non trascurabile è pur sempre da attribuire ai fattori volontari e individuali che ne determinarono i successivi adattamenti alla sua funzione di strumento per esprimere e comunicare determinati sentimenti o idee. Sarebbe strano del resto che mentre l’obiezione della artificialità non è LA GRAMMATICA DELL’ALGEBRA 889 considerata valida per escludere dal campo della glottologia e della semasio- logia lo studio dei « gerghi > propri delle classi più infime della società, essa dovesse aver vigore soltanto per il caso di quelli che, nella peggiore ipotesi, ci contenteremmo di veder classificati come dei « gerghi » ideografici, propri ai cultori delle più progredite tra le scienze]. [Accennerò infine a una considerazione, di indole tutto aflfatto pratica e attuale, che mi ha fatto parere tanto più opportuno richiamare l’attenzione dei filologi sui caratteri, per così dire, linguistici deH’algcbra. Va diventando sempre più un luogo comune, nelle discussioni sull’ordina- mento degli studi nelle nostre scuole secondarie, il lamento sui danni derivanti, allo studio delle lingue antiche o moderne, dall’impiego di metodi troppo « grammaticali » o « filologici », dalla troppa parte, cioè, che è fatta ordinaria- mente, nei primi stadi dell’insegnamento, all’enumerazione delle regole gram- maticali, in confronto allo scarso tempo e alla minor cura dati invece agli esercizi di interpretazione e di conversazione. A questo che si ritiene comunemente essere un difetto particolare dell’ in- segnamento delle lingue, fanno riscontro, a mio parere, dei difetti, non solo analoghi, ma addirittura identici in quella parte dell’insegnamento scientifico che ha per scopo di fare acquistare agli alunni la capacità di servirsi delle notazioni dell’algebra. Promuovere un chiaro riconoscimento di questa specie di solidarietà tra due rami d’insegnamento che la tradizionale distinzione delle « materie » in letterarie e scientifiche tende a far riguardare come eterogenei e privi di qual- siasi rapporto tra loro equivale a render possibile, tra i cultori dei due ordini di disciplina, uno scambio d’idee che non mancherebbe di riuscir fecondo di eguali vantaggi per ambedue le parti]. ,
Wednesday, August 14, 2024
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