Grice ed Occelo:
la ragione conversazionale e la setta di Lucania -- Roma – filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera, Basilicata. A
Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania. O. held that
the number III is the key to understanding the world. According to Ippolito, he
also believed that in addition to the IV elements – earth, fire, air, and water
– there is a fifth principle which is circular motion. Filone says that O.
believes that it is possible to prove that the world is indestructible. Occelo.
Grice ed Occilo:
la ragione conversazionale e la setta di Lucania. Roma – filosofia basilicatese
-- filosofia antica – Luigi Speranza
(Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited
by Giamblico. Brother of Occelo di
Lucania.
Grice ed Ocone: la ragione conversazionale e l’implicature
conversazionali dei liberali d’Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Benevento, Campania. Grice:
“Ocone has selected Croce as the quintessential Italian liberal! That should please Oxonians
like Collingwood!” -- Grice: “I like Ocone’s idea of a liberalism without a
theory – ‘liberalismo senza teoria’ – that should please J. M. Jack!” -- Grice: “Speranza has noted that if Bennett speaks of
meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.” Grice: “While
meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to make a sign
stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism is Humpty
Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si
occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del
liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per
gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella
biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del
filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un
frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume ragionata degli studi su Croce pubblicata
dalla Edizioni Scientifiche di Napoli, che vince l'anno successivo la prima
edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce",
istituito dall'Istituto Studi Crociani. È stato direttore scientifico
della Fondazione Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente
allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far
parte della Fondazione Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di
Nazione Futura. È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione
Cortese di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino
Craxi, del Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e
del Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero
Fonda a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico
II, cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito
dalla Edizioni Scientifiche, che si propone di rinnovare il messaggio crociano
e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. I suoi studi
crociani prendono corpo nel volume Croce, Il liberalismo come concezione della
vita, pubblicato da Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della
Fondazione Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un
Croce partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie
epistemiche, ha numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di
Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè
storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così
formulato: riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia
all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal
proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e
postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta
a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto
di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è
affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua
prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un
liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico.
Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello
scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del
razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito
sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità
in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle
ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in
quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia
contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere Da
ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico
dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di
essere ostracizzati, vanno per O. capiti: pur in modo confuso e
contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al
processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi
dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e
connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione,
che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due
“deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante
economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente
eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui
maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il Riformista”,
è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e “nicolaporro”. Molto
seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione politico-culturale “O.’s
Corner” sulla rivista online “startmagazine”. Un estratto di un suo
articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola con filosofia, Il
Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e
della Ricerca come documento per la stesura della traccia della prova scritta
di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione
secondaria superiore a.s. (Tipologia Redazione di un saggio breve o di un
articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La riscoperta della
necessità di «pensare»). Nella sezione Dal dopoguerra ai giorni nostri,
Percorso Il dibattito delle idee Dall'“impegno” al postmoderno, Dal periodo tra
le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei
testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né
postmodernisti, "qdR". Altri saggi: “Coronavirus. Fine della
globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni
del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha
fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo
secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Reichlin e Rustichini) Pensare la sinistra.
Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino,
Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali
d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli (con altri autori) “Le parole del tempo.
Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri
di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili
riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx”
(Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti.
Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce.
Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio
ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma);
“Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli
scritti su Croce; Edizioni Scientifiche, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in
Istituto Italiano per gli Studi Storici
Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi. Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O.
perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/
Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, Comitato
Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione. rubbettino. Vattimo Pubblicazioni La
recensione, Caffe' Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a
Nietzsche, su il Giornale, Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica
tedesca, su Gianni vattimo. blogspot. com.
La filosofia politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che
filosofo!, su reset. Attualità di Croce su
opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia
della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il
liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è:
manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero
laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Collingwood, Autobiografia
Collingwood; prefazione di O., su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Cesare,
Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e
libertà Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo
senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giorello,
su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac.,
O., Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Marx:
teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia
del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come
concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto
laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su
opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini
set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to
create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound
to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” -- Grice: “The test of a man’s intelligence lies
in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale
democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at
the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at
Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the
‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most!
Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale
italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer:
there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’
means that provincials should not appy!” Corrado
Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al
fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oddi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Figlio
di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per
incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e
introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale
di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo
di Brescia G. Vedova, Biografia degli
scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo
al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di
Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo
collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano
pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di
san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui
avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver
dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima
d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base
dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor
dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non
essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza
vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli
Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta
et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis
Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto
presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in
vita Boltoni , non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca
di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano. N e taceremo , come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot
Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e
di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione
nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni , professore primario di medicina pratica
estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni
a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con
ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si
riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico
ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso,
finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni
fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i
più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di
malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come
sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il
soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto
ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro
de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure
durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di
ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in
una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale
:quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci,
ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo
perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia
de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni:
nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta
insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè,
occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare
aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente,
rinnovò la scena istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a
piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e
l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere
altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse,
coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi
dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti
saremmo stati esclusi dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo
consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo
medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e
professore della stessa cattedra , m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa
come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre
ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini
fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che
pure minacciava apertamente di voler far si che avvenisse. La quale insolenza,
divenuta già intollerabile ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli
per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li costrinse a partire dallo
spedale, e con essi partirono quanti vi erano studenti della nazione
alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli
altri. Informati poscia bene del fatio i governatori dello spedale ,
costrinsero il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua pretesa,
ingiungendogli, sepur voleva intraprendere qualche esercizio a vantaggio di
taluno degli studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro luogo. Cosi, mercè
la prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti alemanni, fu vinta
l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea ricominciare.
Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani per far le vacanze
presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O., eccellentissimi uomini e della
nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far potessimo qualche profitto
nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro pratiche istruzioni quasi ogni
giorno nello spedale di san Francesco sino al principio delle lezioni, con gran
fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della qual cosa poco io dirò, potendo
bene ciascuno dalla rela. zione del mio antecessore rilevare le circostanze
tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo nella state invitati
parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi vieppiù grati a'nostri, li condussero
due volte colà, dando per tutti cavalli e legno il signor O., e quivi
gl'instruirono circa il valore medico delleacque termali e deifanghi. Verso
lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna per le sezioni
anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada veri di quelle donne che
morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare alla presenza degli scolari
le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare ben tosto que lidi
fondamenti della scuola clinica in Padova , che precedette tutte l'altre in
Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche nel successivo
anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure vennero ad
insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi
quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle arti in un
palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani inPadova (intorno
al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo sto si
utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel giorno
appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare lo
sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori scuo
prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace, Campolongo
loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno medesimo
l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque da
ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi
dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover
essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di
astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo
stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro
impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei
malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Offredi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del lizio – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Cremona,
Lombardia. Gli era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna
a Pavia e Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza. Saggi:“De primo et ultimo instanti in
defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle
scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale
di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua
patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze
mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI
CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS
IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum
mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs marginalibus
illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN COMMENTARIIS tractatas,
altero, qui quastionum capita copiosissime comple&titur, PRAETERE A
DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE AVCTA IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS.
DOCTORIS Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus D
APOLLINARIS CREMONE N. noftri, qui à principio est sicut tabula rasa, &
non. 3. de anima tex. in librum primum Posteriorum mouetur ad
intelligendum, nisi de potentia ad actí cap.is. reducatur sic autem
intelligentia non cognoscunt, Aristotelis, exposition cum semper in actu
intelligendi existant, & eodem modo et nunquam in potentia. Bruta etiam
non Mnis doctrina, et discurrunt saltem discursu pfe&to, quamuis in
prin- omnis disciplina incipiosint in potentia ad cognoscendum, & hoc
est telleştiua, ex præpropter imperfectum eorum modum cognoscendi;
existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q aliquo modo, et impertione.
Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per idem medium euidenter
concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu dum cognoscendi
imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus; gentiarī, et
perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim
scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq;
intelli- modum fiunt, & aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt.
Cũigitur intellectui tium. Similiter aút & orationes,quæ p nostro sit
potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem;
scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti- utræq; enim per
prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum,
ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem
accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum naturaliter
eft tex.6. 19 B notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā,
& vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare
que semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et
rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis
di- aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus
in acquirêdo notitia aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia
alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus
operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt
colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü
intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia
intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus
operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent
logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani-
habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito
fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri,
tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum ,
obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, &
speciebus predicamentorum , prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per
cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici
cognosci habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione
determinatur, et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea
nota doctri de inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co-
C F na nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò
in alys Logicelibris conti- à cognofcétibus propofitiones accipiantur,
netur, qui cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de in altera per singulare
iam notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere debet in versale
oftendatur. Simili profe&to modo, telle&tus,o3. de syllogismo, es
consequenter de alijs modis arguendi. Diuiditur autem tota illa pars hoc
Goratoria rationes fuadent, aut .n.exem modo , quia ficut in
a&tionibus Nature diuersitas plis,quod est inductio,aut enthymematibus
reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate fiunt, g&quidē ratiocinatio
est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum, quedam vero raro (propter oratoria
fuadere. defe&tum aliquem in natura,ficut monftra ) sicin
discursibus rationis quidam sunt, in quibus est nePro inductione
expositionis huius libri Poftecefsitas, & ifti cum rectitudine rationis
habentur. riorum , fub brevitate, videnda funt quædam, v3. Ală sunt , per quos vt
plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam inueniendi, et confetur,
non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter fcienciam huius libri, Quis
ordo huius libribus eft defectus rationis propter alicuius principi ad cæteros
libros logica del LIZIO. Quis libri titulus,et defecttum. Pars logice, in qua
de primis determiquid subiectum et sic consequenter habebuntur ipsius
natur, iudicatiua dicitur, et est illa, quæ traditur in Non pigeat hoc cause.
Quantum ad primum fciendum est primò, q libris Priorum et Pofteriorī, dita
autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi sit medius inter
mon catiua à iudicio, eo q iudicium est cum certitudine. dum intelligentiarī, er
modum brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam est analetica .i. refolutoria, co
gisa diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum de
effectibus baberi nö poffit, nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà
iusegnavasi cercare col commercio de'demonj, colle magie e le incantagioni i
rimedj delle malattie, e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior
illustrazione e lode altri insignim e dici cremonesi di questo secolo. O. solenne
filosofo, astrologo e medico, LETTORE DI METAFISICA – come Gilbert Ryle! -- lettore
di metafisica nello studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio
IV, Filippo Maria Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo
dedica O. i suoi Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui
quali piacemi di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio
concittadino ed amico Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne O. in alcuni
principii sull'origine delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che
appartenendo a quell'onorata famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al
melodo naturale e sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie
dottrine aveva proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van
tanto gloriose le scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi
saggi, e nella sua storia della filosofia ita liana riferisce alcune
proposizioni filosofiche dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e
sulle questioni de’libri d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni),
dalle quali scorgesi come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero
dell'autorità, e la posasse sul sentiero della libera e coscienziosa verità.
Quanto alla medicina Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i
migliori medici del suo tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i
titoli nell'Arisi. Il 312 Elogia clariss. virorum Collegii
Pisan.1750 negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio
non scrive quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in
una sua lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella
della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e
biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica
di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna,
Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii
sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai
stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de
Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S.
Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e
professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a
dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di
Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti
Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino
lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate
dall'Arisi. BOEZIO, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e
Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di
Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il
francese Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di
Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae
Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum,
Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli
Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di
Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova
logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino
da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali,
tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni
aggiunte. Di Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi
libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione formarum.
La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie
della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle
Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è
famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o
letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu
professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è
autore di un De Intensionc 339 titolo più particolare che sta in
testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure
si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il
detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis incipiunt
quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris, domini
Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi
Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli
invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene
l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono
generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma
non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono
114 ed esauriscono tutto il trattato del LIZIO, quelle del Codice di Firenze
non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che
sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti dell'Indice come
sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta
questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova
ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum, come il Pom ponazzi,manoscritto
registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae
el privatae, Utin, L'Apollinare, Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più
d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte
della loro vita contemporanei. Paolo Veneto ha fiorito nella prima metà del
secolo XV ed è stato professore a Padova; la sua Somma di Logica e isuoi
Commenti supra l'Organo sulla Fisica di Aristotele e specialmente sul De Anima
furono celebri e c m mendatissimi. Di esso parlano il Tiraboschi e il
Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e Poli nel Supplemento IV al
Manuale della storia della Filosofia del Tennemann. L'Apollinare e della famiglia
Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata,
Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo;
ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima
del Pomponazzi a Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et
Apollinaris ejus discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo;
insegna a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De
Anima” del LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e
stampato più volte. La prima edizione è di Milano (Vedi il Tiraboschi e il Sassi, Storia della
Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia, esistente nella
Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il
trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo
instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da
Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi
alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano
portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter.
Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per
titolo “Illustris philosophi et medici O.
Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis
adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del
Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus
concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani)
de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se
el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim
prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima”
un corso che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini
(Bibliothecae Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella
libreria privata del Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte,
come abbiam detto, che esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento
psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle
questioni che vi sono registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di
Roma è il Commento intero di Pomponazzi sul De Anima del LIZIO, e ciò che più
monta e risulta dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua
età matura, l'espressione più completa del suo insegnamento più importante, il
corso da lui dato o compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segna l'apice della
sua attività, in quel tempo in cui egli stesso datava dalla Cappella di S.
Barbaziano in Bologna il De Naturalium Effectuum Causis, e ilvelerit de materia
prima in rerum natura quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem, cioè la
fede, malaria ali quando desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem velminusali
quando est de forma tam subslunliali quam accidentali. Sed hoc proposilum non
destruil. Er quo sequilur quod si aliquod ens nalurale incipil vel desinil
esse, ipsum incipil vel desinit esse propter cjus formam substanlialem quae
incipit vel desinit esse. Premessa la eternità della materia, tutto il trattato
si aggira sulle difficoltà e le antinomie che possono sorgere dalla
applicazione delle categorie del moto e della quantità alla generazione e alla
cessazione delle forme nella materia, e specialmente dalla relazione della
materia con la forma nei virenti. La qualità delle argomentazioni giustifica la
parola sublilissimus aggiunta al titolo del trattato e ricorda i ragionamenti
della scuola Eleatica di VELIA -- e specialmente di Zenone sul moto. Il saggio è
uno dei più curiosi esempii dell'ardire pur troppo sterile quanto ai risultati
obbiettivi, ma non infecondo quanto alla ginnastica della mente, con cui la
Dialettica del Medio Evo e della Rinascenza si accinse alla soluzione dei
problemi più difficili. Nel manoscritto di Firenze sopracitato come anche in
quello che qui facciamo conoscere Pietro Mantovano è spesso designato colle
iniziali P. M. Fiorentino è rimasto dubbioso se queste let tere indicassero
Pietro Manna cremonese, che Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in
genii gravissimique judicii. Essendo Manna cremonese, è chiaro che Pomponazzi non puo chiamarlo concivis meus. Di
Pietro Trapolino, il più celebre dei due Trapolini che Pomponazzi ha per
maestri, ecco ciò che dice Papadopoli nella sua storia dell'università di
Padova. Pietro Trapolino Patavii natus patricia genle PHILOSOPHVS, malhemalicus el medicus celeberrimus,
Medicinam in Gymnasio palrio professusesl ut constatex Albis gymnasticis.
Vixilannos LVIII; vivere desiitan. MDIX caipsadiequa caplum direplumque
Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quæmulla conscripseralperiere.
Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali. Di Trapolino suo precettore
in medicina Pomponazzi parla nella12a delle sue Du Vilazioni sopra il4o dei
Meteorologici del LIZIO adducendo le difficoltà che egli scolaro gli opponera
su certe cause della mutazione delle forme nei misti. Ivi l'autore avvicina
Trapolino a Gentili, a Forlì e a Marsilio di Santa Sofia altri rinomati
professori di Padova. Di Roccabonella che e pure suo maestro è menzione alla
fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo professore
oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly obsessed with Pomponazzi. They complained
he looked more ‘a Jew than an Italian,’ but he predates Ryle’s Concept of Mind.
One of his influences is Offredi, a lizii – who wrote not just on Aristotle’s
De Anima (a manuscript Pomponazzi consulted) but who himself set to defend
Pomponazzi – to prove that he was a real lizio, he wrote on Analytica Posteriora
too – “Only a true lizio will comment on that!” -- Offredi. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Offredi,” The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olgiati: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei classici – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Busto Arsizio,
Varese, Lombardia. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a whole tract
to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si
forma presso Seminari milanesi. Collabora con Gemelli e Necchi alla Rivista di
filosofia neo-scolastica e fonda con loro il periodico Vita e Pensiero. Insignito
da Pio XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Proto-notario
Apostolico. Inoltre assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere,
di Magistero e di Giurisprudenza. Condirettore della Rivista del Clero Italiano
insieme a Gemelli. Autore di saggi relativi sulla religione e l’istruzione. I
suoi allievi più illustri sono Melchiorre e Reale. Tomba di Gemelli mons. O..
Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis, oltre ad essere dedicato a Tolkien,
è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura
e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della
scuola, della cultura e dell'arte — Università Cattolica del Sacro CuoreLa
storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi: “Religione e vita” (Vita, Milano);
“Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I fondamenti della filosofia classica”
(Vita, Milano); “Il sillabario della Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di
giuridicità in AQUINO” (Vita, Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario
della morale Cristiana” (Vita, Milano); “Il sillabario del Cristianesimo, Vita,
Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia Bustocca. Almanacco della
Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La Famiglia Bustocca, Treccani
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia. Francesco Olgiati. Olgiati.
Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius, Aquino, sillabario, filosofia
classica, filosofia no-classica, logica classica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olimpio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giuliano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lives in the middle of nowhere.
When he finds his city became an uncomfortable place for pagans, he moves to
Rome.
Grice ed Olivetti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’archivista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “Olivetti deals with some topics dear to me and Strawson, like
subject, transcendental subject, and the rest – he also uses ‘analogy,’ which
is a pet concept of mine – I have been compared to Apel, so the fact that
Olivetti in his ‘conversational’ approach relies on him, helps!” - Professore a
Roma -- preside della Facoltà di filosofia. Formatosi a Roma, confrontandosi con i temi del
rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti orientato sul
versante marxista, storicista, postidealista, trova in ZUBIENA il suo maestro.
Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo porta a studiare i temi
della filosofia della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal
filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di ZUBIENA come
organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia classica
tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al tema
della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo Zubiena nella
cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo l'incontro decisivo
col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di questa disciplina come
antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima anzi anteriore» su
base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo settecentesca, soprattutto
ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta rilevanza aveva nel suo
insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave storica, e da ultimo il
confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas e Marion, sia con la
filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua opera maggiore, l'autore
elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo suggestioni di Husserl,
Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e suggerendo una teoria
dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base staurologica ed
etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim interlocutivo»
ibidem). La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere umano. Tale
essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e l'umano non si
coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine dell'etica. Tuttavia
così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la filosofia prima, anzi
anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento del soggetto
trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito cartesiano,
partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni logica, in modo
da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest. Si perverrebbe
così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione trascendentale, in modo
tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta traccia della
rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore dell'Istituto degli
Studi Filosofici Castelli e poi dell'"Archivio di Filosofia", si fece
promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva, a Roma, ogni due anni,
nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia della religione europea e
mondiale (Ricœur, Marion, MATHIEU, Quinzio, Melchiorre, Lévinas, Lombardi
Vallauri, Forte, Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine, Falque, Grassi,
Paul Gilbert, S.J. Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel
Vahanian, Hénaff, Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue
prolusioni e nei suoi contributi introduttivi si prospettava lo sfondo su cui
si sarebbero esercitati i contributi e le discussioni del Colloquio, di seguito
pubblicati in numeri monografici della Rivista "Archivio di
Filosofia". I temi trattati erano spesso centrali nell'elaborazione
di una filosofia della religione come filosofia tout court e abbracciavano,
negli anni ottanta e novanta del Novecento, temi centrali come "Teodicea
oggi?", l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia
della Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro
l'ambito strettamente scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non
ne hanno favorito una conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e
il suo insegnamento ha lasciato un traccia significativa costituendo una vera e
propria scuola di filosofia della religione. Saggi: “Il tempio simbolo
cosmico” (Milani, Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani,
Padova); “Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da
Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia
del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La
filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers,
Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul
tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»
a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La
religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei
limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di
ogni rivelazione, con introduzione Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone,
infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia
della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In
memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1. E. Giacca: un filosofo della religione",
Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su
libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista
-- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico
della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de
fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito
teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olivi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia friulese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia
Giulia. Medico e storico italiano. Anche
filosofo. Enrico Palladio degl’Olivi.
Grice ed Onato:
la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia calabrese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean.
Fragments from his treatise survive. Grice: “But since they are in Greek,
CICERONE refuses to study him!” -- Onato. Onata. Onato.
Grice ed Onorato:
la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.A
member of the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato
Grice ed Opillo: la
ragione conversazionale e l’orto romano -- l’implicatura conversazionale -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Segue l'indirizzo dell’orto. Liberto
di un membro dell’orto, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire
Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie saggi, fra le quali Musarum libri
IX. Aurelius Opilius.
Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl. F. Buecheler, Rhein. Mus.
Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik. endlich Grammatik. Später
löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius Rufus ins Exil nach
Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von neun Büchern mit dem
Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von Gellius und
besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss er sich
besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton einen Pinax
mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich Opilius mit
Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus abgab, werden
wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de
gramm. Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam primo, deinde
rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum
in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque variae eruditionis
aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub
clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex numero
divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus et titulis per
unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide
libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins
Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro
de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106,
unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert
als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich
als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl.
philol. Abh.). Charis. (Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius.
Aurelio plaret. Vgl. O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis.
Jahrb. Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern
von indices plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F.
Osann, Aurelius Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G.
Goetz, Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger,
Lat. serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn
P. Rutilius Rufus war Cos.). Grice: “Since he was a ‘liberto,’ CICERONE refuses
to study him!” -- Opillo
Grice ed Opocher: la ragione conversazionale l’implicatura
conversazionale della giustizia – IVSTVM QVIA IVSSVM – filosofia veneta -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Treviso).
Filosofo italiano.
Treviso, Veneto. Grice: “There are
two points that connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I
love the problem of the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson
(“Individuals!”) – and Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he
calls it, of ‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an
eschatological study!” -- Enrico Giuseppe Opocher. Con Ravà e Capograssi è considerato uno dei maggiori
filosofi del diritto italiani del Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo.
Durante la Grande Guerra la famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì
dapprima nella periferia di Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli
anni successivi riportarono un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico
crebbe, dividendosi tra la città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue
vacanze estive. Dopo il liceo fu
avviato, secondo il volere del padre, agli studi giuridici, benché fosse
decisamente più inclinato verso la filosofia. Si iscrive alla facoltà di
giurisprudenza a Padova, ma continua a coltivare i propri interessi personali
seguendo le lezioni di filosofia del diritto tenute dRavà. Sotto la guida di
quest'ultimo stilò una tesi su La proprietà nella filosofia del diritto di
Fichte, con la quale si laurea brillantemente. Ottenuta la libera docenza,
vinse il concorso per la cattedra di filosofia del diritto presso la facoltà di
giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che in Veneto era divenuto
segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo padovano insegnò ininterrottamente
per quarant'anni, tenendo lezioni per i corsi di filosofia del diritto, di
storia delle dottrine politiche e di dottrina dello stato Italiano. È ricordato in maniera particolare per i suoi
studi sull'idea di giustizia, e sul rapporto tra diritto e valori, nonché per
la redazione di un celebre manuale, Lezioni di filosofia del diritto, usato da
generazioni di allievi. Fu magnifico
rettore dell'Università. È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia
Giuridica e Politica. Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e
col laico Bobbio, fu azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo
del Bo) le attività cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase
amico stretto di Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di
Toni Negri. Saggi:“Individuale” (Padova, MILANI); “Esperimentato”
(Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano, Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova,
MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Fulvio Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di
Silvio Trentin, Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia
politica e civile – filosofia CIVILE --. in Scritti, G. Netto, Ateneo di Treviso,
Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del Pensiero,
Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd. Denominazione attuale: Società
Italiana di Filosofia del Diritto, vedi.
Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della tolleranza, in La Tribuna di Treviso,
Toni Negri: «Un uomo davvero libero nell'università chiusa degli anni '60», in
[Il Mattino di Padova] Giuseppe Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro, Padova, MILANI, 2Giuseppe
Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Società
Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned with ‘iustum quia
iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically false a posteriori,
it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English. Both iustum and
iussum come from the same root. So what is just is what is commanded. The
principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he rather examines
Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht, Wesen, Gemein
Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract between a ego
and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Opocher. Keywords: giustizia – fairness, gius, il
concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum – verbal aspect
here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia del
neo-Trasimaco.”
Grice ed Opsimo: la
ragione conversazionale e la setta di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Reggio).
Filosofo
italiano. Reggio, Calabria. A Pythagorean cited by Giamblico. Grice: “Cicerone
said that in proper Italian, his name was Ossimo!” -- Opsimo.
Grice
ed Orazio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venosa).
Filosofo italiano. Venosa, Potenza, Basilicata. Orazio fu attirato dai problemi
morali ed estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle
"Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia
morale per la quale vuole abbandonare la lirica. Si è notato che questa
epistola è un protrettico. Ma anche negli scritti precedenti O. tocca spesso
argomenti filosofici. Scherzosamente, O. si chiama dall’orto “de grege
poreus” (Epist.). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle
parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei
suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche
una disciplina che non deveno essere ignorate. O. s’interessa soprattutto per
la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante
dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con
simpatia l’etica dell’ORTO, di cui si scorge l’influsso nelle satire, che abbondano di reminiscenze a LUCREZIO
(si veda). O. ri-assume la teoria dell’orto sull’origine del diritto e della legge. Più
volte, satireggia paradossi del Portico: tutte le colpe sono uguali, il
sapiente è re e conosce ogni cosa. O. disegna la caricatura del Portico:
capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono precetti ai quali non
sempre fanno corrispondere la vita. Ma O. mostra di apprezzare maggiormente la
severa nobiltà degl’ideali del Portico. O. si avvicina sia all’Orto che al
Portico quando loda la vita semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la
caccia alle riechezze e al lusso, O. si collega al Cinargo, delle cui diatribe
si avverte l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di O. è
utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non
è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di
incoerenze. Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente
riflessi di teorie del “Lizio” e particolarmente di Neottolemo di Pario, che
assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si
fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale
nella dottrina estetica che O. propugna. He is sent
by his father to study philosophy. His studies are cut short when civil war breaks
out after the assassination of GIULIO (si veda) Cesare. His works, frequently
advocate the simple country life, and a number of letters he publishes indicate
a continuing interest in philosophy. Although he has friends that followed the
doctrine of The Garden, and he is clearly familiar with these doctrines, it is
not clear that he belongs to any particular ‘school.’ In an examination of O.’s
philosophy, we should not look for that comprehensive love of wisdom generally
termed philosophy by the ancients, including science, ethics, and speculative
thought. O. Is not the speculative type of man to be interested in the
composition of the universe. Quae mare compescant causae, quid temperet annum,
Quid velit et possit rerum Empe 00168 at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer
the pLanete wander ad rol Fone spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius that
Is Crazed."). O. Is a realist, concerned with the ethical side of wisdom --
with the conduct of life. O. is thoroughly Roman, and the Romans, except only a
few lofty souls such as Lucrezio, Cicerone, and Virgilio, are of a practical,
mundane nature. The Roman philosopher cares little for the abstractions of
speculation. The Roman is born to rule -- parcere subleatio et debellare
superdos.*2 than oupire, titg Shail be tnite are, to ozdain the law of peace,
to be merciful to the conquered andbeat the haughty down. The philosophy which
appeals to the Roman is that which would give him mastery over self, and hence
over the world. But everywhere around him O. sees the tremendous waste of human
energy, struggling nen, feverishly pursuing the bubbles that do not satisfy,
frittering away their man-hood, consuming time and not achieving the mastery of
life to which their heritage entitles them. For such an audience, then, in which
the will to live is the dominant characteristie, O., the sane, tolerant, and
sympathetic man of the world, with the insight which comes from contemplation
and the inspiration which comes from a realization of the dignity of his task,
formulates his philosophy of living, a simple, practicable code of ethios, to
help men to saner, worthier, happier lives -- a code which furnishes a solution
to the problems of life. It is not an explanation of life, but a way of life,
something tangible, a touchstone by which the Roman man may test his own worth
and contentment. How keenly he feels the importance of his mission we may know
from "Sic nihi tarda fluunt ingrataque tempora, quae spem Consitiumque,
morantur agendi naviter id quod alike to the poor, alike to the rich, and the
neglect. O. Is unusually well qualified to undertake this office of sage,
monitor, and guide, for he is the product of unusual home training, thorough
training 1n the schools of philosophy, and a very varied experience. O. is very
fortunate in his home influence. Born of a freedman father, who knows life from
the point of view of the toiler, O. early aoquires the common sense which is
the basis of sound living. His father gives him an insight into the things
worth seeking, by pointing out the conspicuous failures in his own vicinity.
Instead of merely advising his son to live frugally, he calls his attention to
a certain well-known fellow who squands his patrimony. Others he indicates as
shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action
of certain Romans whose lives are an example to the wole comunity, and shunning
the practices which had made others infamous, he may always have a criterion of
conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and
virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, O. is
sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It is the
finest possible tribute to the fundamental worth of this rustic freedman that O. speaks ever gratefully and without shame of
his humble birth and boyhood training. Just what O.’s life at the 'University'
of Athens may have been, we do not know. But he gives ample proof of his entire
familarity with both L’ORTO and IL PORTICO. The former, so ably expounded by LUCREZIO,
must have made a profound impression on O., the lover of life. That he had a
sympathy with their doctrine of impassiveness -- to them the duty of man being
to increase to the utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and
the highest pleasure being peace of mind -- is proved by Tempora momentis
Tapora potent. Oat qua gordine Dulla -- Not to be exoited about anything,
Numicius, is almost the one and only thing that can make and keep a Ion sun and
stars and the seasons departing in fixed course there are who view with no
tinge of and again -- Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, --
ral eerento ne has esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and
soudii, hs eyes stare and he ds dased. In another place he allies himself
playfully with the more material enjoyments of L’ORTO. Once he admits, half
shamefacedly, his weakness for the hedonism of Ceristippus -- Now imperceptibly
I slip back to the terets of et, tot ne to the worla ate the rorta to. And in a
second passage he praises the adaptability of Aristippus, contrasted with the
cynic. But a man with the rigid training of O.s early years could not be
completely satisfied with the superficialities of L’ORTO and Cyrenaism. He
values happiness, but he has too much moral fibre to find it either in
impassiveness or pleasure for its own sake, and so in spite of his repugnance
to the sternness of IL PORTICO, and the severity of its "Sapiens", he
is drawn toward the positive virtue of IL PORTICO. No utterance could ring more
clearly of IL PORTICO than the following: "Vir bonus et sapiens audebit
dicere: 'Pentheu, 'Adiman bona.''Nempe pecus, rem, Comed bas entro toste httote
tenth maniodsette sub custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.' -- The good and
wise man will make bold to say, 'Pentheus, Ruler of Thebes, what will you force
an undeserving man like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under
the charge of a grim "The deity himself will free me as soon as I I
suppose thig is what he means, 'I will die.' Death is the final goal of things.
Although he appreciates the value of the tenets of IL PORTICO, he cannot take its
asceticism altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling
this jest at them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber,
honoratus, pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est.
-- To sum up, the philosopher is inferior to jove alone; tingo inga aborea
noalthg, sare winen troubied Thus we see that O. is an eclectic, sifting from
all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his
needs. If there appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there
are countless ones, we must remember that he regards himself as the physician
of morals, ministering to many kinds of ailments, each one demanding a different
prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced
to a simple formula. To IL PORTICO O. owes his positive dootrine of self
control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his
superiority to misfortune. To L’ORTO, O. owes his theory of the wise enjoyment
of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of his own foibles
and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune – I commend the safe ana humble when funds are
low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more
sumptuous falls to my good fortune. O’s life experience ia a kaleidoscopic one.
His youth is spent in association with the sons of the wealthy and well-born, and
thus he acquires that tact and urbanity which are so valuable in his later
relationships, and which enable him to give advice on matters of social
conduct. Then follow his attachment to the hopeless cause of the Republicans,
with the disillusionment, loss of property, position, and purpose. such a
complete alteration of nis entire life scheme could not but have a tremendous
effect. Any faith that he might have had in politics as worthy of a man's best
efforts, is of course completely shaken. From that time on he philosophises with
thorough conviction of the insubstantiality of "ambitio". Besides he
realises keenly the moral evils that follow the civil ware, and pessimism and
general contempt for nis shameful countrymen. His fresh beginning in kome in a
most humble position, gives him the first taste of the real struggle of the
great mass of men for the mere means of existence. From this position he sees
the weaknesses of the poor, their unrest, and idle craving for the wealth which
they fail to see is not conducive to happiness. It is perhaps from this phase
of his existence that O. gains an appreciation of the simple joys of life wich
are attainable for all -- sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Lastly
nis friendship with MECENATE (si veda), coming after the bitterness of life,
affords him the leisure to devote himself to philosophy. He learns too well the
instability of position to value it over highly, but from this relationship he
draws the principles which he lays down as guides for patron and client.The
burthen of O.'s PHILOSOPHY OF LIFE – cf. H. P. GRICE, “PHILOSOPHY OF LIFE” -- is
the attainment of HAPPINESS – H. P. GRICE, “HAPPINESS”. Since he tastes of the
sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to philosophy
is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has
a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great
majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first
undertakes an explanation of the NATURE of happiness. Ultimately happiness is
the product of a definite attitude toward life. It is not a mere matter of
chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in
the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal.
the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realise this,
must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects
them suffers for his neglect -- et miPosces ante diem librum cum lumine, si non
-- and if you will not call for a book with a light before dawn, if you will
not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you will be kept awake
and racked with jealousy and 1ove. Men's bodily well-being, in wich they take
such a keen interest, is not half so important as right living. Si latus aut
renes morbo temptantur acuto Quaere fugen morbi. Vis reate vivere: Quis
non?"l who does not? -- And yet they place every other interest before the
wise regulation of life, either because they are too ignorant to realise its
importance, or because they are too slothful and cowardly to face the issues.
Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue inatun -- When you make haste to remove
what hurts the eye, Then let every man take thought of whither his life 1s
trending -- Inter cuneta leges et percontabere doctos, Qua ratione queas
traducere leniter sevum -- In the midst of all you must read and question the
what lessens care, what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of
a iise mo 10e4. -- When once men do come to acknowledge that happiness in not
an accident, but the logical outcome of & well considered and consistently
pursued course of life, they should give prompt attention to these matters of
vital moment, and thus H. indicates the first step toward the new life. Multit
e arttase fygere et sapteatia prine And once aroused it will not seem so
difficult, for -- Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really
desires happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is
worth achieving can be won only at the expense of vigorous effort. -- Sedit qui
timuit ne non succederet. -- osame has beer afraid of fallure, has remained And
again -- Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at
the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it
on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because
his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt
any serious reformation. O. invites him to draw inspiration from his own
altered ideals. Quem
tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem Cinarse placuisse
rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena brevis luvatet prope
rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum. "Leroa -- I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you
know witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have
had my sport, but would be, not now to out it short. Inconsistency is no
disgrace, if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, do not delay,
but act at once! -- Qui recte vivendi prorogat horam("He wao postpones the
season of upright living is like It gidea and will glide, rolling on to all
time.""out down. With this awakened interest, O. thinks it well for
each man to test to the fill each of the things wich men from time immemorial
have deemed the sunmum bonum – OPTIMVM – Grice: OPTIMALITAS -- [Indeed, Piso makes
this assumption, and it leads him erroneously to the conclusion that THE
PORTICO values scientia as its own end, as “QVOD IN EO SIT OPTIMVM”, as that
which is highest in one. Antiochus then attributes to IL PORTICO, whether
rightly or wrongly, the very LIZIO valuation of theoretical over practical life
that we, his readers, know IL PORTICO would refuse. When it comes to accurately
portraying IL PORTICO as philosophical movement, the fact that Antiochus, a
character in Cicero's dialogue, elides the difference between IL PORTICO and
Aristotle serves as no indication of the reliability or unreliability of
Cicero's or his sources. Cicero simply wants to show that, whatever the
original truth of orthodox PORTICO might have been, it lent itself to this
Antiochean interpretation. As he proceeds, the question he asks is whether the
PORTICO can indeed be accused of valuing theoretical over practical life
despite the fact that THE PORTICO would refuse the very distinction.] with a
view to adopting as HIS one, whichever one seems to have the most real VALUE,
to bring the calm and contentment that are significant of a life well lived.
The decision is a momentous one -- Non qui Sidonio contendere callidus ostro
lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque
medullis, Quan qui non poterit vero distinguere falsun. -- He who has not skiil
to know now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in
Aquinun, will not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he
who will not be able to discriminate the false from the true. Try virtue first
of all. Si VIRTUVS [andreia] hoc una
potest dare, fortis omissisHoo age delioiis -- If virtue alone can bestow this,
manfully give up pleasures, and make her your aim. Or try the pursuit of
wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the
heap." Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat,
Meroemur servum qui diotet nomina, laevum Qui fodicet latus et cogat trans
pondera dextram Porrigere. If pomp and popularity secure bliss, let us buy a
slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to stretch our
hand over the counter. And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem.
"elonge that a thousand eyes gaze on you as you Or test the pleasures of
food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons, Quad deceat, guid non,
oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not
"gt us takebaths, forgetful what 18 Or the satisfaction of
mirth--jests.")Then, having advised each man to try for hinself, for each
must be the best judge of his own life. Metiri se quemque suo modulo ao pede
verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to measure hamsel or hie And he
will never be sure that one of these thinge might not have proved the key to
happiness until he has used it and found its futility, O. sings up the decision
which each is bound to reach. Abstract virtue is a hollow thing,"Virtutem
verba putas etLnoun 11gna, -- You think virtue words, and a holy-grove sticks. As
CICERONE says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly
fitted to men who consist of both body and soul. It is too cold, too remote,
andVre guan satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more
satisfactory than virtue as a "summum bonun" (strictly, OPTIMUM, not
‘goodest'), for its weaknesses are all too evident. Even granted that it does
have many undoubted advantages -- Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret Suadele eaus due, w2 -- For of
course queen Cash bestows a wife with a dowry,ney tan le acornid mith Sua bon
and Lode .ho man ofhundred; so you will be one of the masses. Yet how fleeting
wealth 1s!"Quiequid sub terra est in apricum proferet aetas; Defodiet
condetque nitentia. And the summum bonum must be a permanent thing.
rurther-more peace of mind and good health are not conferred by it--Non animo
curas."4ind poia gat ar res tover son the asting oods bratheir lord, or
troubles from his soul. Nor is pleasure a necessary accompaniment of riches. Nam
neque divitibus contingunt gaudia 80118. "I'or pleasures do not fall to
the rich alone. And his advice is bad who bide you get money rightly or not, by
hook or crook, just so that you may get a nearer view of the plays of PUPIO,
for after all, they are lachrimose plays, and why see them nearer? Besides, in
the gest for wealth alone, you are prone to lose the sense of all other values
-- "He has lost his armour, has deserted the post ofполог, who is always slaving, entirely absorbed in augmenting his fortune. Ambition
cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see the ignominy that it
carries with it. One must seek the favor and the gifts of the fickle Roman mob "Plausus
et antoi dona Quiritis, "and make friends of all sorts of people Ut oulque
est atra, Tia quengue deotus adopta teand although the world applauds a man
today, tomorrow its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts
former favorite stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition
will convince a man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit.
" pass de not de bad life whose barta and deata have Furthermore the
unrestrained indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both
body and mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so
men must rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne
voluptates; nocet empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight
bought with pain is hurtful."). None of these external things, then, can
be regardedas the "summum bonum" – OR OPTIMVM – quid in eo sit
optimum --, since not only do they fail to bring the happiness all men are
longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and distress which
plague the world. Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo cupiens pacto;
pavor est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret utrumque.Sa guto
ue ast mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et corpore torpet? He
who fears their opposites excites himself much in the same way as he who covets
them, the flurry in both cases is a torment,whenever the unexpected
appearanceagitates the one or the other. Whether one joys orif at every-It is
not that in themselves these things are wrong--only that they are externals and
one must not attach too much significance to them. It is because men have
overestimated them that the three greatest ourses of the age have come upon the
world--superficiality, restlessness, and greed. Since men are always looking
for something tangible as the secret of happiness they have bedome shallow,
have grown to care far too much for outward appearance, and far too little for
inward appearance, and far too little for inward worth. Si curatus insequali
tonsore capilloslee mediai credis neo curatoria egere -- If I have met you with
my hair dressed by theha hare & hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if
my toga sits unevenly and awry, you laugh; whole round of life, pulls down,
builds up, exchanges the square for the round?lou think mine an ordinary
madness and do not laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee
appointed tortune 8, and tume aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of the And
this same belief that happiness lies in externals makes men restless -- a
feverishness that manifests itself in the iorm of travelling, forever pursuing
the happiness which forever escapes them. now foolish it is to try to escape
the things which batfle one by seeking another clime! -- Sed neque qui Capua
romam petit imbre lutoque Aspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus
collegit, furnos et balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si
te validus lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi
Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs. Dum licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et
Chios et Fhodos absene. "2 AAQpraise bake-houses and baths as fully making
up thebe praised, and uhois, and far-off Rhodes. The peace for which men are
searching may be attained anywhere if they only know the secret. Nam si ratio
et prudentia curas, Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non
animum mutant qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus
atque("So that in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit
is common sense and wisdom that remove cares, and not a spot which commands a
wide sweep of sea, their climate, not their mind,they change whorun across the
sea.An active idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por
totH at u20ra0, 1 a contented sptrit The people are merely consuming time, not
living, who are forever on the march. They exhaust their energies and gain
nothing but discontent. And of these curses of looking to externals for happiness
perhaps the worst is the curse of avarice. Why seek for much in the world when
one can use so little and more cannot delight? Quod satis est ous contingit
ninil amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire
nothingThe grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion. There
can be no tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing desire. Semper
avarus eget; certun voto pete finem. 3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed
80a1 to your What a misshapen monster avarice is anyway -- Belua multorum es
capitum. Nam quid sequar aut quem? A many-headed monster you are; for wnat or
whom shall I follow: As soon as one head is cut off new heads appear, so that
it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, How
helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them
a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires
has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen
above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the
struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris
arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses and Nestor. Nestor
componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem
communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira
Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia
possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis
rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the
strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by
love and both in common by wrath.and anger There as Bannin nithin the valls o
ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a
hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of
things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth,
or any of these external things, which in a limited measure may contribute to
the richness of life, but beyond the golden mean – AVREAS MEDIOCRITAS -- ,
pursued as an end in themselves, are the cause of so much misery, discarding
all such inoidentals men must look for the real source of happiness within
themselves. When men are dissatisfied, it is not the world which is wrong, but
their own attitude toward the world. In culpa est animus, qui se non eifugit
unquam. "Ihates his own. with the harmless place; it is the mind that is
at fault which never escapes itself.") Two great doctrines O. presones -- the
wise control of life and the wise
enjoyment of life. the first thing men must learn is to adapt themselves to
circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice in the world,
to realise that such a thing as periect happiness is nowhere existent and that
all life 18 an adjustment. -- solue puae posot eret estare beatum, Saost the
one ate ony thng Lhat on rate and keep a man happy. Chafing and fretting
against the established order of the universe, against life's seening
inequalities, only serve to augment their hardships. When once men do face the
facts of life and bring themselves Into
accord with them, things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked
upon with indifference. Yon sun and stars and the seasons departing infixed
courses there are who view with no tinge of dread.") And it 18 not only
for his individual well-being, but for the benefit of the state as well, that
he have this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen
to are deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are dissatisfied
with our fortunes, our bitterness will taint every relationship in life, but if
we are sane, life will look back at us with the same calm expression. Sincerum
est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean,
Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough
that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great
parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo
multae magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste
tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem,
speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household
and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know
him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low
senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general,
forthat very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say
that he strangled his father. de deserved the commendation they gave him
yesterday no more than the slander they heap upon him today.caliny terig put
ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how
pernicious this false praise is and to what lengths it leads men."Leu, si
te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi
Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you
are in sound and perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour
ofR2E2™E60a:till paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the world
they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly they are praying to
the gods of trickery to shield their crimes from detection. 3ecause one is not
a thief or a murderer he has no right to demand praise, for he has his reward
already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for
fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae.
"*("You will commit no crime through fear of punishment.")Good
men desire virtue for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare
boni virtutis amore."("Good men hate sinning through love of
virtue.")For it is what you are that really counts, not what the world
thinks. Even the school boy realizes this.("Yet the boys at their games
say: 'You will be king if you act rightly. However many of the externals of
life fortune man have given a man, if he is weighed down by the sense of his
own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the man conscious of his
own rectitude fears neither loss of property or of life. Si forte in medio
positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia
naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream wereFreedom is
another element in this wise regulationof life--freedom from all these
externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun
liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon
oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in
the orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the
man who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of
riches has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized
what a hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in
the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be
aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper
position, else it may take out of his hands the direction of his life--it will
either be his master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia
culgue, "3("Each man's hoard of money is his master or his slave. O. boasts of his own freedom from the opinionof
the masseg-- Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a
source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole. Invidus
alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni maius
tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's goodly•
treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous of
others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his
own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta
pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. The gods have
given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their
powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and always
imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous. "5("It
remains for you to go where iuma and Anous have descended. There is no hope of
a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet he is not pessimistic
about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and since there is only this
brief span of years for every man, ending all too soon in oblivion, let him on
that account make the best possible use of each day -- Carpe Diem -- so that
the doom of death will appear only as a dark background enhancing the bright foreground
of life. Looking foward, looking backward breed discontent. Think only of the
present. The surest way to get all the possible joy out of life is to live
every day as though it were the last. Grata superveniet quae non sperabitur
hora. Amid hope and care, amid fears and passions, believe every day has dawned
for you the last; so, welcome shall arrive the hour your will not hope
for.")If men keep this thought ever in mind they will f1ll each moment so
full of the richness of living that there will beno regrets, no joys postponed
to a future day which will never be theirs, when the summons of death does
come.This means that to avoid disappointment men mustenjoy right now whatever
the gods may have given them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
grata sum manu, neu dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater.
Whatever hour the deity has blessed you with, dosoever you have been, you may
say you have lived apleasant life.If among these blessings wealth is numbered,
let men not hoard it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a
fortune if I am not permitted The man who spares in anxiety for hisneima., no
18 all too severe 18 next door to a For there is much to enjoy in ine
world--andmost of the really worth while sources of pleasure are within the
reach of all. shere 18 health. There are all the delights of the country and
out-of-door life. Ego laudo ruris amoenirivos et musco circumlita saxa
nemusque.brown rocks and wood.king, as soon as I have lorsaken tnose soenes you
extol to the skies with loud acclaim. And--"Novistine locum potiorem rure
beato? Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel accepit Solem furibundus
acutum? Est ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius Mbyois olet aut
nitet herba lapillis?"4("Know you a place preferable to the blessed
country?I nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar and the
commotions of the Lion, when once he has gone mad by receiving the stings of
the Sun?Is there a spot where envious care less distraots our slumbers? Is the
scentThere is simple food which nourishes without distressing--"Pane egeo
iam mellitis potiore placentis. "I"Besad, is what I want now more
pleasant than honded There is sunshine, free to all, of which norace is 8o
fond--"golibus aptum. How foolish it is to want more when these things, if
properly regarded, will make one's life rich and blessed--The wise nan will
learn to value and employ what is within his reach.Not the least of the joys of
life is friendship.There is a deal of the utilitarian point of view in orace's
advice about sooial interoourse. The life of a reculse cannot be the richest
one, contact with other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius
said, "Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe
and heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to
make himself as agreeable as possible. temust not pry into people's
secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must
never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he
must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a
teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must
not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia,
for thereby he simply makes himself Obnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.") When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina, Propugnat nugis armatus. Equally
disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely
to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit, Ut puerum
saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas.
"6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of
sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous
duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he
should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne
pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should
be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you
for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give
way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of
friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and
unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in
anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his
client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he
cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear
hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus
amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam
et subducta viatica plorat, ("He who has been taken as a companion to
Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote
1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get
noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around,
for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem,
taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by
patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the
sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes,
as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he
refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship,
for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so
that when accusations assail one who is well known, they may protect him and
back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if
it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid
desset."? went are & of arlends
Low, when those who wantAnd it is a source of shame to a man to be
mock-modest and refuse to help another when it is in his power to do
so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued my influence,
a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.") Tact is
absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time for
everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present
books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must
await a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he
would please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu
fortunam, sio nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune,
so shall we yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social
interoourse isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of
host and guests. The host should be most discriminating in his choice of guests
so that all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That
like meet and be associated with like.") and that all be the kind which
will not make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus
atota forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be
none to carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an
invaluable thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has
become estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of
life is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivamQuod
superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in
annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat
et aufert;Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire
2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my
gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions
for each year, trembling on the hopes of the man. RAPOLLA, VITA
DI CON RAGGUAGLI NOVISSIMI E CON NOTE
DIFFUSE SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA POR TIOI
Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano V *L '*^
^S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» «^ •'1^ •e* *-.'» SU'' X» i
I I i sJ- Sì- I^* VITA DI
QVINTO O. FLACCO DI RAPOLLA o
VITA DI CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB
DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VENOSA. RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB
DELL’ORDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA CITTADINO ONOKARIO DI
POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB PORTICI pTABILIMENTO
JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi, L'ijf.S'^ Dtnique
quid psalterio canorius ? Quod in morem nostri Flacci et Gratci Pindari,
nunc Jamòo CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico tumet, nunc
semipede ingreditìtr. 8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo
di poesìa mastro e di vita. Pisdnnont*, ad O. Venosino cantor, sci
tu ì t'ascolto ! D'un si vivace Splendido colorir, d'un
si fecondo Sublime imagjnar, d'una si ardita Felicità secura,
Altro mortai non arricchì natura Xetattailo, Canto ad Orazio.
Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, DutH ferii
Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio, Trist. 4. Elegia to. il
mastro dei poeti, O. La cui lira per tutto manda il suono, E
qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. Tansillo, Canto al viceré di
Napoli. Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose
D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose, Voltaire, EpItre à
Horace. Sume superbiam Quaesitam meritis
VenoBino. Dauti - /■/. Cult. XIV. //
cittadino di Venosa sentir devesi som- mamente orgoglioso per esser nato
in così celebre terra, pili antica di Roma: splendida civitas,
anche nel tempo dei Romani, splendi- dissima nei medio-evo, e patria, il
che più monta, di Quinto Orazio Fiacco. Del grande Venosino
smisurate innume- revoli sono state le produzioni letterarie che ne
hanno decantato il nome, criticata F opera eterna,
postillato e glossato ciascun verso o parola Non havvi paese
al mondo che non abbia offerto suir altare del culto della poesia
per- fetta di Orazio il suo attestato di reverente omaggio:
Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in Inghilterra si son fatti studi
prò fondi sulle opere del gran poeta italiano, e bio- grafie e
ricerche storiche pregevolissime su tutto quello che riguarda la sua
vita, ed i luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma particolarmente, si
cmiservano reliquie preziose di severe e dotte lucubrazioni su tal
subietto. Duole non poco però che in Venosa, fra tanto lume d
ingegni preclari che ha dato quel paese, non vi sia stato scrittore che
ab- bia inneggiato ad O. con serietà e pro^ fondita, e con opera
particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere attraverso i secoli
venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un bronzo od una lapide
parlava di lui sin oggi. Ed invero il dottissimo cardinale Giovan
Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta volumi in folio non
trovò il posto per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? Luigi
Tansillo, O. de Gervasiis, Donato de Brunis, sommi poeti venosini,
Giovanni Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel- lissimi e
maestrevoli carmi (ingeniosa et ve- nustissima carmina scripsit, disse M.
Arcan- gelo Lupoli), perchè non composero poema sult immortale loro
concittadino? Che anzi giustamente Francesco Fioren- tino j
nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce costui, perchè «
discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con un certo «
risentimento che non è giusto, perché O. non sdegnò altiero il soggiorno di
Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un certo
compiacimento nel ricordare la sua a patria ». O.fuggì da Venosa, sia
per fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia perchè
ogni genio sublitne sorvolando per forza arcana, trova pure
in tutto il ter- restre spazio angusto confine! In luogo di e
alitare tante vuote lodi ad una componente r aristocrazia di quei tristi
tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non poteva il Tansillo
toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che illumina il
mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy? Hanno voi/
do forse rispettare il suo testamento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma
non è lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir
noverato fra cotanto senno, ho composto questo lavoro con gran
fatica, con gran sudore, con gran reli- gione, essendomi prefisso con
esso diradare molte idee oscure circa la vita e le opere di O.,
riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si associa, mettere in
luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava pel passato
delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani e
stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici
sulla celebre Venosa, che si commettono con la vita del suo
immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è
venuto » strenuamente compensato col fatto, che
ho aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che immarcescibile
cinge la fronte sublime del grande italiano. Oggi fra tanto
tramestio di sentimenti di- sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo,
ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei*
terarie immortali come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme
che da esse emanano, o cittadini^ è quanto di meglio si può fare.
Si respira così aura piti pura ; si resta an- negato in un Lete morale
dolcissimo: si guar- da con occhio impassibile la vertiginosa corsa
del torbido torrente della vita umana, da una sponda secura e
tranquilla. Valete. Portici— Granatello. DZE&O
BAPOLLA L mondo, questo pianeta, che pare sin oggi abbia il
primato sul si- stema universale dei pianeti, perchè in esso vive
l'uomo, il re della creazione, avverti , circa duemila anni or
sono, una di quelle trasformazioni , uno di quegli avvenimenti, che
segnano date incan- 'cellabili, e che forse non più si
verificheranno nei secoli futuri, tranne quando avverrà la fine
-dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi vapori
guizzavano folgori rossicce ; reboava il tuono ; poi appariva luce
sfolgorante, bian- chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini,
la mollezza, la superbia, la degenerazione del genio del bene in quello
del male erano giunte all'estremo limite del possibile. Era
prossima l'ora delle rivendicazioni, della re- denzione, della riscossa voluta
dalla ragione. Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an- nunziato,
già da secoli, come apportatore di pace ed amore. Roma, caput mundi,
impe- rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi, ghermendo prede
facili in difficili e remoti paesi. La potenza e la protervia dell'uomo
si disegnavano al massimo grado. I grandi ed i piccoli, i padroni e
gli schiavi, i senatori al- bagiosi , i cresi onnipotenti ed i
gladiatori morituri. Roma già da sette secoli esisteva,
quando l'umanità parve potersi paragonare al vapore chiuso in forte
e potente recipiente che sem- bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei
Greci, le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come i Cinesi , i
Babilonesi ed i Persi , che vanta- vano maggiore e più antica coltura,
eran pres- sochè cancellati da questi violenti conati
di gente che era barbara e volea divenire inci- vilita. Neir
immensa Roma, per la quale po- poli al sommo grado belligeri
pugnavano sanguinosamente per potersi dire cittadini romani^
vagavano uomini quasi nudi, ed appena ornati da toghe e preziose
porpore, che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti e le erculee
braccia ; e le altiere fronti pare- vano non use a piegarsi alle volubili
e spesso avverse disposizioni del destino. Da Roma partiva quella
voce imperiosa che comandava alle schiere invitte la conquista del
mondo intero. Tutto pareva nascer gigante in quel
tempo, e con l'impronta del misterioso e del sublime. Mario, Siila,
Mitridate, Ottavio, Cinna, Giugurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio,
Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti- bullo,
Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale , Tito Livio , O.,
Mecenate , Augusto I Gli uomini, dalla civiltà, che
lentamente in- vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- no la
schiavitù più abbietta. Fremevano e le- vavano ruggiti di
leoni. E Mario era un leone della foresta : nato da vilissima gente,
sorbì sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i potenti ed i
gaudenti. Era smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo, come
se quel colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità
dell'animo, come dopo molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di
nobile stirpe solea far aspro maneggio. Gridava fremente alle
turbe spensierate e lussuriose : O voi altri, che vantate imagini
lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; verrà Y ora della
rivendicazione sociale. II vostro cammino trionfale sarà arrestato
da un fiume di sangue. Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate da
montagne di ca- daveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito
dalla natura il genio uguale a quello di Cesare, suo grande nepote.
Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila.
Con Siila stesso si misurò a suo forte discapito. Corse vagolante
sulle rovine di Cartagine. Dipoi iniziò la fatale guerra sociale. Morì
atterrito da visioni tremende 1 A Siila scorrea nelle
vene sangue gentile di patrizio. Avea fierissimo e troculento
aspetto; era vendicativo oltre ogni credere, ma celava in petto
cuor generoso e forte. Non poche migliaia di Sanniti
restarono sgozzati al semplice muovere del suo soprac- ciglio, e
nel sangue restò affogato anche lui, che invano entrava nel cotidiano
bagno di es- senze per torsi di dosso la miriade di paras- siti e
microbi che lo dilaceravano e lo spen- sero. E la lotta ferveva sorda,
quasi ne fosse infetto il sangue degli umani, tra i servi e gli
strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, nelle barbare e sanguinose
lotte, formicola- vano, per appagare la sozza cupidigia di vec- chi
lussuriosi e donne ben pasciute e coronate di rose, e briache e spossate
dalla crapula e dal piacere. Era il preludio delle guerre servili.
Dugentoventimila servi e Spartaco con centoventimila gladiatori
produssero uno scoppio ed uno schianto formidabile, come
potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. Licinio Crasso, quegli che
rappresentava l'or- pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei-
mila. A spaventoso movimento, repressioni più spaventose. Licinio
Crasso fu favolosamente ricco per le opime spoglie e per V oro rag-
granellato con la confisca dei beni delle sue vittime e dei milioni di
proscritti. Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli fatto
ingoiare fuso e bollente dinanzi agli stessi suoi figli. E trentamila
Romani sgozzati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia, furono quelli che
espiarono con lui V inau- dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza
nu- mida e di regio sangue , morì da eroe nella fiera mischia sulla
riva del Sele in Lucania, condottiero di stanche e poche agguerrite
schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e Crasso, tra il gladiatore ed
il potente, tra quel povero oppresso e quel ricco oppressore, es-
servi dovea odio mortale. Perversi però e scelesti ambidue !
Cicerone e Catilina, sommo oratore ma ambiziosissimo l'uno,
patrizio romano disso- luto l'altro. Dalla congiura del secondo,
che mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni, e dalla fine
del primo si videro strani risul- tati. Catilina cadde trafitto nel campo
tra le sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone
ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro- stri del foro romano, e la
lingua foracchiata dall' aureo spillone della proterva Fulvia.
Splendidi esempii agli ambiziosi I Mentre che alla magnifica Atene
non re- stava che il primato nel mondo per le let- tere e per le
scienze, e mentre V immensa Roma repubblicana si affraliva e s*
incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas- sacri e
le guerre , nasceva Cesare. Cesare lo si disse dapprima
congiuratore con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il sangue
vile di Mario. Era rinfocolato da am- bizione smodata e livore. Fu uno
dei più grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò da atleta
gigante con Pompeo, nato da eque- stre famiglia e partigiano del nobile
Siila, e Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani gliene
recarono la testa mozza, e volle punita la barbara adulazione. Era
letterato di gran talento. Era generoso, ma sotto il mantello di
leone ascondeva animo felino , vendicativo, dissimulatore. Catone preferì
trapassarsi di propria mano il corpo con la spada, piuttosto che rendersi
servo di Cesare. Cesare am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Germani,
i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. Bruto, il fiero
repubblicano, il prediletto di Cesare, s' intinse pure del sangue di lui;
si macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo premeva come
incubo, anelava alla libertà, E tale fu la progenie umana sin da
che vide la luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo
colla missione di pace tra gli uomini. Fatalmente però gli uomini
si mantennero sempre gli ' stessi. Adamo ribelle al Dio
creatore; Caino fra- tricida per invidia e per sete di dominio. E
da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a Bruto, tutti ambiziosi e
ribelli; e da questi a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli
spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole umane. *) E da
questi ai Torquemada, agli autori degli auto-da-fè, dei roghi ove
bruciarono Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi
XI, il compare di Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del
Louvre aizzava le orde a fare strage, e permise la tre- menda notte
di S. Bartolomeo , a Robespierre che allagò il bel suolo di Francia col
sangue delle vittime del Terrore ; al prigioniero di S. Elena, che
seminò di stragi, rovine e morti buona parte del mondo ; sino a quelli,
innu- merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo
a soqquadro l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la
linea che appare precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile,
contro qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres- sione; mista a
malvagità ammantata, sia dalla porpora, sia dai cenci; in diverse guise,
nel- l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so- vrani e
sudditi, tra volgo profano e menti elette, e persino tra letterati e tra
i sacri mi- nistri delle diverse religioni; il quale odio malvagio
personificato potrebbe raffigurarsi quale Encelado premuto dall'
Etna. La scala della nequizia in tutti i tempi ha toccato i
cieli, come quella biblica. . . . Tale era lo stato del mondo allorché
nac- que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene scorreva sangue di
schiavo. I ELLA vetustissima
Venosa [Venu- sid), città situata tra la Puglia e la Lucania) , nel
dì 8 dicembre dell'anno 689 dalla fondazione di Roma, sessan-
tacinque anni prima dell' era cristiana, essendo consoli Cotta e Torquato
, essendo Cesare compromesso con la prima congiura di Catilina, perchè sognava
la caduta della repubblica e la dittatura, nacque Quinto O. Fiacco.
Il nome di “Quinto” se lo appropria lui stesso nel libro secondo delle
satire. O. ognuno lo chiama, ed egli stesso così sempre si noma nei
suoi scritti. Plutarco lo disse “Fiacco” nella vita di Lucullo – cioè: “orecchiuto”,
ed egli stesso, nell'Epodo e nella satira, così si cognomina. Ma
tale soprannome non indica che ha orecchie deformi, bensì può
riferirsi a lui, quello che egli stesso dice di essere di
facilissima audizione, oppure che quelli di sua famiglia fossero distinti
con tal nomignolo, tra le non poche famiglie della tribù oraziana, della
quale si discorrerà in appresso. In un antico manoscritto che si
conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che vuoisi opera del
dottissimo Cenna, venosino, si asserisce che O. nacque nelle case
dette, al tempo nel quale il Cenna scriveva, dei Plumbaroli, presso le
mura della città, e presso certi molini, che in appresso (come
rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e
che oggi son quasi di fronte alla cattedrale, venendo
^( 13 M^ dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto
/e Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero. La quale
condizione se non era tanto miserevole quanto quella dello schiavo,
poteva dirsi av- vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li-
berto ripeter doveva quella larva di libertà dal suo antico padrone; come
cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio; aspirar non
potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e le dita
di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo stesso
matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari, perchè un
liberto spo- sar non poteva sia la figliuola d' un senatore o d* un
patrizio, sia altro essere nato libero od ingenuo, come diceasi allora.
Viveva il liberto sotto la tutela del passato padrone, e lui
malaugurato se a questo si fosse ribel- lato: ridiveniva schiavo. Spesso
il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- rifici,
mediante lieve mercede. Malamente taluni vollero sostenere che il padre
d'Orazio fosse libertino nel senso voluto da Svetonio in altri suoi
scrìtti, e non nella biografia d’O., cioè figliuolo di liberto o figlio
di schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo padre, usa sempre
la parola libertinus^ ma nel senso detto dapprima, volendo intendere
che suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto poi la libertà. Non
vi pjiò cader dubbio al- cuno. \ . Il padre di O. presta il
servizio di riscotitore di tasse del comune di Venosa e di
banditore, era un servus pubKcus; il Che dimostra che il suo passato
padrone essere dovea di alto grado sociale, assegnandogli tali
uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser- vizio della città. Nel suo
stato perciò dirsi potea felice ed agiato, stantechè possedeva
presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- nosa, un fondicello che gli
dava ( sebbene O. dicesse esser suo padre macro pan- per ugello) un
conveniente provento, e quindi potette unire al suo impiego anche
un negozio di salsamentario, o salumiere; e come vuoisi da
Svetonio, Tunico biografo, così la- conico, ma purtroppo veritiero,
veniva scher- nito il giovanetto O. dai suoi compagni di scuola
così: Quottes ego, vidipatrem tuum brachio se emungentem ? ^) Ingiuria
solita in quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice- rone
riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se emungere solebat.
5) Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che Orazio
ha scritto sopra i suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi
contemporanei, compreso lo stesso Svetonio, né il nome di suo
padre, né il nome e la condizione di sua madre. Il Fabretto,
celebre raccoglitore di iscri- zioni e sigle, riporta un frammento d'
iscri- zione che dice leggersi sopra una casetta in Venosa, che
erroneamente fu detta esser la casa di Orazio, così concepita:
HORATI C. L. Dio .... MlTULLEIAE UX. . . . e che
sì è voluta decifrare così: HoRATio DioDORo Caji Liberto
MiTULLEjAE Uxori) La quale interpretazione importerebbe che
il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre
Metulla. Ma é questo -«( i6 ))^ un falso
indìzio, poiché in Venosa furonvi non pochi che si dissero Grazi, ed a
qualcuno di questi è riferibile l'iscrizione funeraria. I due
eruditi Grotefend, il Franke nei suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella
sua splendida opera The works of Q. Horatius Flaccus illustrateci ,
opinarono il padre di Orazio poter esser un discendente dell' il- lustre
famiglia romana degl’ORAZII, e che ri- divenuto libero, avesse ripreso,
secondo il costume del tempo, il proprio nome. Ma il Mommsen, nella
sua opera Inscriptiones Regni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni
rin- venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù Hofatia,
colonia romana, nella quale erano allistati gli abitanti della città di
Ve- nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- sta colonia, non
discendeva però dalla fami- glia degli Orazii, nel qual caso farebbero
op- posizione le continue lamentazioni del figlio di vii
nascimento. Né si potea concepire che , fra tanta chia- rezza
di prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale , O. poi
non enunziasse neppure il nome di quelli che gli -«(
17 )f^ aveano data la vita. Ed è poi noto, come si vedrà in
appresso, che tutto venne confiscato alla famiglia di Orazio dopo la
disfatta di Fi- lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, e del
tutto sprovvista di mezzi, il che per- metter non poteva ad essi il
foggiarsi lapidi con iscrizioni commemorative. G. Batt.
Duhamel, nella sua opera Philo- sophia vetus et nova ad usum scholae,
opina che un avo d’O, assoldato nell’esercito di Mitridate, venne nelle
guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma, e comprato
da un questore venosino, dal quale si ebbe la libertà. Ma tale idea
fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla pen- na del
letterato e filosofo del Calvados, non ha fondamento, mancando della
parte princi- pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo fatto
libero, dal quale deriverebbe il padre di Orazio (di cui neppure sa dire
il nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, non
liberto, come era infatti; Orazio chia- mando sempre suo padre
liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sem- pre
rammarico per tale causa. Altri poi (come rilevasi da vecchissime
edizioni del gran poeta ) credettero assegnare al padre di Orazio il nome
di Tubicino; ma pure questo va chiaramente emendato, stanteche si è
voluto confondere il nomignolo del- l'uffizio che il padre di O. si aveva
in Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban- ditori in quel tempo
solcano annunziarsi a suon di tuba, diceansi trombettieri (
tubicen^ tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che
s'ignora del tutto il nome del padre di O. e quello della sua genitrice:
se ne conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo.
Orazio disse essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa
la libertà. Tale origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui
cade in acconcio notare che mentre Orazio non ha mai indi- cato il
nome di suo padre e di sua madre, non ha mai nominata la città di Venosa.
Con molta lucidità indica il luogo della sua na- scita e ne fa un
piccolo cenno storico topo- grafico così concepito: Io non so con
preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il colono venosino
suole volgere l'aratro tra i due confini di queste due regioni. E che Tansillo
venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di Napoli:
Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però ch'il venosin
villano Ara i confini d'ambidue paesi. Ed una colonia romana fu spedita
in tal luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar- neli, e per
impedir poi che tale infesta gente corresse sopra Roma a molestarla come
pel passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non poco ai Romani
come le storie luculentemen- te asseriscono. E tale colonia romana
spedita in Venosa, secondo attesta LIVIO, formar dovea guarentigia
a tutta la regione pugliese e lucana, e mostra ad evidenza V
importanza della città di Venosa in quei tempi. O. volle con
precisione dichiararsi ap- partenente alla colonia ronìana che
discac- ciava da Venosa i Sanniti. Eppure i Sanniti furono di
razza Sabina, ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè la patria
prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda desiderata patria, la sua
aspira- ^ 20 >»^ zione. Oh coincidenze misteriose!
Oh lumana commedia ! Eppure i costumi dei Sanniti furono
qual si conviene a popolo belligero, sobrio e buo- no. Governavansi
in austera repubblica, ed il sistema democratico formava la base
delle loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria davan persino
le avvenenti compagne e le figlie come premio. O sacrifizio memorabile
\ Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più destri e
valorosi. Venne però l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna
guerra tra le genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni
prima di Cristo li espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio
allorché dice che la colonia venosina, debellati i San- niti, divenne
propugnacolo contro le ossi- dioni di tal forte e belligera gente.
Convien quindi notare che Orazio per quanto asserì esser nato sul
suolo venosino, per tanto sem- bra mostrarsi superbo di appartenere alla
co- lonia romana ivi residente: che anzi bisogne- rebbe assegnargli
meritevolmente la taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non
nominare una sola volta in tutte le sue opere la patria sua, come
non precisa il nome ( e li avrebbe immortalati) né di suo padre, né di
sua ma- dre, bensì il nome del suo primo maestro Flavio venosino e
della sua castalda, Fidile^ cosi sacrilegamente si esprime: Sic
quod-- cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis, venusinae
plectantur silvae, te sospite. E Gargallo, quasi arrossendo, in tal
guisa traduce, cangiando le venosine selve in lucani boschi:
Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ Ai flutti esperii^ di là ratto
il muova A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia) E per giunta
in tutte le sue opere O. non nominando mai, come dissi, Venosa,
spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi, TAufido (l'Ofanto odierno), il
Vulture, il Ma- tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa
Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis- sima Venusia, era bella,
com' è tuttora, su- perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e
dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno tutti gravi e non poche
mende, ma bilanciate con le qualità individuali, superiori e rare, vanno
cancellate. Salve perciò, o Orazio, sovrano poeta, onore della razza
umana! Venosa, la patria tua, perdona tale non- curanza, e tale al
certo involontaria irricono- scenza. L' hai ricolmata di gloria
imperitura, indicando a chiare note che sorbisti le prime aure
della vita sulle sue opime colline ; e ciò bastar deve per fare
scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di te, se pur può
albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino livore o sdegno, come
invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-. tal Tu
certo vivi ancora. Il tuo spirito im- mortale aleggia benefico genio del
luogo su quella ancor bellissima terra; oppure da qual- che stella
lucente gitta raggio amico che mo- stra la via al viandante in quelle
selve lucane, od al nocchiero la via nera dell'antico mare Jonio,
ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora oggi si annega ! Orazio
scrisse : Che qual figliuol di libertin trafitto Soft da
tutti) Invero Guerrazzi da savio sostiene: La ignobilità più
che la chiarezza del Itg^taggio riuscire stimolo acuto a ben meritare;
aven- do la natura concesso all'uomo maggiori po- tenze per
acquistare, che non per mante- nere. ^L'assillo nonpertanto che
tormentava Ora- zio era la sua nascita: perché non potendo
schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea
discendente da schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più
su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che il padre vieppiù
incrudeliva, estolle la ma- gnanimità del suo genitore per averlo
fatto educare, istruii^e e porre a livello dei giovani di buone
famiglie ed agiate. Che anzi con boria e sicumere che mal velava lo
struggersi interno, asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di
schiavo, coi figli dei senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella
superba Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollosa questa
sua assertiva, allorché si noterà co- me egli stentar doveva per
accaparrarsi sia l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei
grandi, che un solo fortuito caso gli permise avvicinare, e
come molte volte ingiustamente ne restava mortificato, mendicandone
le grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di
venire annoverato tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi
maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori
! Non è lecito credersi di più di quello che si è in realtà,
né fidar troppo sul proprio me- rito, per quanto incontrastabile esso
sia, in questa commedia umana nella quale regna sovrana V
ingiustizia ! Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole quando si
rivolgeva circa la sua condizione nella società nella quale viveva.
Ma quel marchio che al solo presentarselo alla mente lo straziava a
morte, il marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva
talvolta aver le traveggole. Riesce sublime quando esclama:
Io disdegno e allontano Da me il vulgo profano Tacciasi
ognun Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò
grandemente il padre, perché questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo
ove molto era conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle
prepotenze dei ricchi, dei se- natori, dei cavalieri e di ognuno con Y
i- struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot- tenne.
Orazio nacque, come si accennò, dodici anni prima della congiura di
Catilina. Cele- bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio
Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i FILOSOFI Terenzio VARIO e
Numidio FEGULO. E per l'arte tribunizia CICERONE, Ortensio e Quinto
Catulo. In Venosa in quei tempi eravi pure una classe sociale che si
distin- gueva dalla volgare, la quale frequentava la scuola di un
maestro Flavio, del povero Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar-
si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi consacrato nel libro di O.,
che pur non dice il nome del suo genitore, della genitrice, della
patria. A questa scuola attinse i primi rudimenti il piccolo Orazio. I
suoi compagni lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col
farsi in seguito beffe di essi e dei loro parenti nobili venosini I La
povera nobiltà venosina) quella nobiltà che ebbe incisa in pietra
pelasgica tale enfatica iscrizione : Ex LUCULLANORUM PrOLE
RoMANA Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus CORRBCTOR
ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM Splendidae Civitatis
Venusinorum Consecravit ") resta schernita e vilipesa
dallo stile del sommo satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed
agiate della città di Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con Orazio
e famiglia, stante che ne conoscevano Torigine. Fu questa una delle
ragioni per cui il padre decise condurlo in Roma. Dovette poi notare nel
giovanetto un ingegno precoce e svegliato che promet- teva alcun
che di grande, e pensò abbiso- gnargli più ampli orizzonti e pabolo più
ade- guato e conveniente. Orazio aveva circa otto anni o dieci al
massimo, secondo il computo di Andrea Dacier, nella sua Chronologia
an- norum Horatii, allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a
frequentare quelle scuole romane. Ed è caro quel vanto che
-«( 27 )»- trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor-
dando il padre ed i felici giorni della pueri- zia, e sentendosi nella
folla della scolaresca deir immensa città susurrare airorecchio di
esser creduto di alto lignaggio, dice : Ma d'alti sensi osò
condurre a Roma Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti Che un
cavaliere che un senatore insegna Ai propri figli, Allor se, come
avviene In un popolo immenso^ avesse alcuno Gli abiti visto^ ed i
seguaci servii Certo creduto avria spese sì fatte A me apprestarsi
da retaggio avito] La quale ingenua confessione dimostra che il
padre di Orazio, sebbene appartenente alla bassa condizione di liberto,
non doveva essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco.
Quanti miseri studenti , figliuoli di coloni agiati e signori delle provincie^
non vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad apprender lettere o
scienze ? Ma ben pochi vivono certo vita allegra, vestono panni di
lusso, e possono farsi seguire da servi e staffieri con panieri ricolmi
di succulenti ma- nicaretti od altre costose leccornie ! O.
però per generoso e riconoscente sentimento riferisce al padre il
potersi istruire con tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano
o falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che abborriva
dall'orpellato fastigio, e mordeva con denti velenosi i prodighi, i
ricchi ed i centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una morale
istintiva covava Tira repressa del figliuol del liberto 1 ni.
L padre d' O. condusse suo figlìo in Roma, cioè cin- quantacinque
anni prima dell' era cri- stiana, non raggiungendo questi ancora i
dieci anni di età. Forte baleno dì or- goglio e di stupore dovette
abbagliare il piccolo venosino, ma pur cittadino romano, nel
calpestare le aboliate strade della magnì- fica Roma.
Ergevasi la città , che imperava allora su buona parte
dell' orbe terraqueo, sui dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il
Citorio, e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti
, rifulgono oggi maggiormente nel mondo , perchè dominio di
validissime potenze: la tiara, e la monarchia costituzio- nale deir
Italia unita e libera. Aveva ponti lunghi e meravigliosi, porte
monumentali, mura che potean vantarsi più durature e in- concusse
delle ciclopiche o pelasgiche o delle cinesi. Avea più di quattrocento
templi ador- nati di colonne preziose, archi trionfali, obe- lischi
fatti trasportare con ingentissime spese dalle più remote regioni del
mondo onde si fosse palesata la grandezza delle vittorie romane dalle
spoglie ricavate dai potenti e riottosi nemici. Se però Roma
mostravasi tanto superba e potente alla vista, il che poteva lusingare
i sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non proveniva da
paese barbaro e povero , bensì da Venosa, caput Apuliae, città
monumen- tale e stupenda, siccome attestano le antiche carte e le
lapidi che hanno sfidata la corro- sione dei secoli, "^)) non
cessava di ascondere nella sua ampiezza e magnificenza gente av-
vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di Cesare, Pompeo e Crasso
(quel Crasso di cui più sopra si delineò la proterva jattanza),
quel popolo, dapprima così forte e generoso, vedeva sfuggirsi, pel
libertinaggio prepon- derante, la libertà che offriva ai cittadini
la repubblica di Catone, repubblica ormai mo- ribonda. La mollezza
ed il mal costume tor- cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo
romano. E perciò Orazio stesso, allorché co- minciò a balenargli in mente
il vero, scrisse che le cure del suo buon genitore, che gli fu
guida permanente, fra tante grandezze e fra tanto scompiglio morale lo
ritrassero dal ca- dere in brutture ed ignominie e dal venir tacciato di
cattivo cittadino ; che anzi gli procu- rarono la stima dei buoni e dei
veramente grandi. Il padre soleva giornalmente condurlo
dai maestri più celebri della città, ed ai banchi di quelle scuole
famose sedevano con lui figliuoli di senatori e di altre famiglie nobili
ed alto- locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre che non si
sarebbe rinfacciato al giovanetto Quinto O. la nascita vilissima,
perchè s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio immenso, oceano
nel quale rifluivano tutti i popoli della terra, lo assorbivano. E lo
schiavo fatto libero superava per lusso e per criterio sicuro
moltissimi ingenui e gentiluomini. O. gliene fu gratissimo ; e scrisse
che se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto scegliersi un
padre, avrebbe scelto quello che gli die natura, non trovando altro
uomo più coscenzioso, più perspicace, più amore- vole di questo !
Desta ammirazione e mera- viglia questa confessione, se si rifletta che
il padre di Orazio era illetterato, e che era stato soggetto alla
schiavitù 1 Ed Orazio nel parlar di suo .padre include pure
la madre sua, perchè dice: io pago a' miei (genitori), di fasci E di
sedie curuli avoli adorni Saprei spezzar. Le prime lettere gli furono
apprese da Pupilio Orbilio da Benevento, che, come narra Svetonio, fu
dottissimo grammatico in quel tempo e tra i migliori maestri sotto il consolato
di CICERONE Visse centenario; morì povero , solita fine dei non pochi
lavoratori coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e non
risparmiò la sua sferza allo stesso O., che se lo rammentava con satirica
soddi- sfazione. L'uso delle sferzate nella palma delle
mani degli scolari, antico più del tempo del quale si discorre ,
formava sin negli ultimi nostri giorni un genere di punizione che la
civiltà invadente va oggi disperdendo, siccome si è tolto il
barbaro uso di bastonare e torturare i poveri folli ! Le cure morali
debbono sosti- tuirsi a quelle corporali e costrittive. Alla
scuola di Orbilio Pupilio cominciò O. ad alimentarsi della poesia latina;
menando a memoria e tratteggiando le scene drammatiche del poeta Livio
Andronico ed altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni,
cominciò ad attingere alle fonti delle lettere greche, che egli stesso
poi definì le più pure e che dovevano occupare i dì e le notti
degli scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi- loco, Alceo,
Stesicoro, Simonide, e non tra- lasciando i latini, a cominciar da
Lucilio, che gli fece acquistar gusto alla satira, furono i suoi
modelli nel bello scrivere, e da essi ap- prese quell'arte divina ,
quella melodia am- maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio
tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-agonarsi all'ape industre del monte
Matino (ser- vendosi per similitudine del nome d* un monte della
sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso del quale spento vulcano ebbe
la 'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da
ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for- mar xumti immortali
1 Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- rogare l'aurea
massima di Ovidio del prin- cipiis còsta, nel senso inverso, per umU,
privo del tetto «npic.1, eha Bud«t var»(EUr bnpuko SctDW
col cV»l. Io radiche, essendo gli scribi addetti al
contenziose amministrativo, od alla pubblica contabilità, formavano
un' autorità speciale, siccome la Gran Corte dei Conti dei nostri giorni.
Essi formavano un collegio a parte e la carica era vitalizia ed
inamovibile. Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, e
presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del secolo decimonono,
come da altre che vennero con esattezza riportate e com- mentate
dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Tommaso Reinesius, nella sua
Syntagma inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da Visconti, si
rileva appunto l'importanza del- Tuffizio di scriba. Hawene
una di un Tito Sabidio Massimo, scriba della questura, ed appartenente al
sur- referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- rono un monumento
in riconoscenza dell'alta protezione accordata da lui a questa
città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. Q. SEX.
Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. Salio. Curatori Fani
Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. Locus Sepulturae.
Datus, VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS.
TlBURTIUM. Siccome quest'altra seguente iscrizione a
Manio Valerio Basso antico tribuno di legione come era stato Orazio, pubblicata
nel 1854 nel Giornale di Roma dal comm. Visconti, rende noto che la
carica di scriba della que- stura soleva assegnarsi alla miglior
classe dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam- biare con la
carica di tribuno delle milizie, acciocché se qualcuno fosse stato
esonerato o per età o per volontà, trovar potesse un appannaggio
adeguato al proprio valore, ed un meritato guiderdone: Man.
Valerio. Man. F. Quir. Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q.
VI. Primo. Harispic. Maximo. Testamento. Fieri. Iussit.
Siri Et. Fratri. Suo. Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum.
Erroneamente quindi gli antichi interpreti della parola scriba e
dell' impiego ottenuto da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e
biografi attribuirono solo il senso di copiatori di pubblici atti, oppure notai
o redatt di atti privati, all'ufficio di scriba. Tale dignità
elevata, ottenuta solo per ii pegno di altissimi personaggi, rese ad
Oi zio più facile V accesso ed il conversare e grandi ed i potenti
di queir età, come si \ drà in appresso. L’importanza poi di tale
impiego ott nuto dal poeta si rileva anche da quello ci egli stesso
scrisse nella satira sesta del libi secondo : Quinto ,
Ti pregano i notai che non ti scordi Di tornar oggi pel noto
affare Al collegio d* altissima importanza [Anche il Gargallo
spiega la parola scribi con la voce notato; ma non credo aver
voluta egli intendere quello che oggidì importa h carica di notaio,
bensì componente il collegio degli scribi questorii suddetti.
Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua dimora in
Roma tra Toccupa- zione che gli offriva tale dignità onorifica e
lucrativa e tra i diletti della poesia. Non può asserirsi con piena
conoscenza quanto Weichert, uno dei più indefessi il-lustratori del
poeta, nella sua opera Poe- tarum latinorum, vuol sostenere, cioè
che O. avesse solo ventisette anni allorché venne presentato a
Mecenate, cioè nel 715 di Roma. La cronologia diventa un mito
quando si ravvolge in date così lontane e senza testimoni oculari.
Volendo però seguire tale opinione, adottata pure da Andrea Dacier, la
presentazione di O. a Mece- nate successe quattro o cinque anni
dopo la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran protettore
degrillustri letterati di quel tempo, non lo ammise nella propria corte
se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo e
l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio, che
glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo-
nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che
Orazio aveva so- stenuto la carica di tribuno nelle legioni di
Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. Riesce quindi logico
noverare la satira quarta del primo libro di O. come scritta poco
prima che fosse a Mecenate presentato, stante che in essa si scusa con
quelli che lamentavansi delle sue punture, e gliele rimprove vano come
poco coerenti per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi.
] egli vuol farsi credere semplice moralista filosofo che castiga,
ridendo, i costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il
leggere satire, il veder frizzata la catti gente non riesce certo
piacevol cosa a colo che hanno la coscienza poco monda. Ma e è puro
ed integro ed onesto, non teme scudisciate del poeta, siccome
disprezza calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai dar divulgando
le mie composizioni nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche
nel accademie. Scrivo per semplice diletto, spini da forza arcana e
per pura intenzione di ù del bene e purgare la società inondata d;
vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori
di patrimoni eh costarono sudori a generazioni di lavorator
Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci: può mai tacciarmi d'aver
tradita l'amicizia d'aver calunniato chi merita lode, d'aver
scemato il merito, anzi non aver abbastanz; lodato i cittadini eminenti
ed onesti? Un uomo che parla così di se stesso me-
ritava venire annoverato tra quelli la cui ami cizia è un guadagno, un
pregio, un onore. Vario e Virgilio lo presentarono a Me-
cenate. iur> nurmi; • Kt»
pu prtgjo la noa. cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu
k ÉufanUl pad or nada td kncluopv. Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa
AIO Cilnio Mecenate nacque in Arezzo l'anno di Roma 686,
e 68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile, dalla nobilissima famiglia
Cilnia, discendente dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri
etruschi venuti a soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini.
Nacque tre anni prima di O. Visse i primi anni legato di amicìzia col
giovane Ottaviano, e fecero insieme gli studii delle h tere e delle
scienze in Atene. Egli pure, seguendo le orme degli avi,
intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt rioso Cesare in tutte le
battaglie per demoli la repubblica e difendere Roma dai nemi
interni ed esterni. Non fu affetto dal morbo dell' ambizion
Allorché Augusto divenne padrone del v stissìmo imperio, a Mecenate
vennero ofFei i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg
rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl di rappresentarlo quando si
allontanava e Roma. Preferiva il sistema governativo a
regim monarchico assoluto, piuttosto che quell retto a repubblica,
e riuscì a far determinar col suo savio consiglio Augusto a
conservar quel potere sovrano che per suoi fini particc lari avea
deciso abbandonare. Si avvalse dell propria influenza, dei suoi
disinteressati am monimenti e del suo credito per rendere Au gusto,
imperatore e pontefice, proclive ali clemenza ed a far più manifesto il
fastigio della monarchia. Amante del lusso, egli stesso spronava Augusto
severo, economico e restio al grandeggiare, al rendersi sovrano per
magnificenza e per sublimi intraprese edi- lizie e monumentali.
Sposò Terenzia, donna di grandissima bellezza, ma altezzosa ed infedele.
La ripudiò: ritornò ad essa sommesso: che non hawi grande uomo
esente da mende , principal- mente dipendenti da procacia donnesca.
So- stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne ebbe la forza. U
illustre tedesco Meibom la dipinge nel vero suo aspetto. Era
scrittore forbito, piacevole ed erudito. Compose ( ma non sono giunte
fino a noi ) una Storia naturale, la Vita di Augusto, e diverse
tragedie e poesie. Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi
competere con Lucullo: largheggiava con ma- gnificenza regale. Ma quello
che lo rese pro- verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be-
neficato i sommi letterati del suo tempo. Virgilio, Vario, Terenzio,
Tibullo, Catul- lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono i
suoi favoriti. Né la sua protezione si limi- tava a piccoli sussidii, ad
inviti ai suoi sontuosi conviti od a sterili raccomandazioni Bensì soleva
rendersi splendido per largi zioni tali da bastare ad assicurare
l'agiatezze per tutta la vita del protetto. Pochi sovran si sono
succeduti sulla scena del mondo prodighi come Mecenate, e tanto avveduti
nei dare ed innalzare chi realmente possedeva meriti personali così
insigni da immortalare il protettore, considerandolo nei frutti del
lorc ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli
nel Lazio si rinvenne un bu- sto marmoreo di Mecenate. Le rovine
della splendida sua villa a Tivoli non sarebbero bastate a
rischiarare la sua vita e la sua gran- dezza senza la Lucerna venosma,
che lo ha fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna. Il vero
monumento imperituro a Mecenate glielo ha innalzato O. Fiacco
venosino. Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo insigne
protettore: O Mecenate, o decoro nostro e parte massima della nostra
fama. » Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me- cenate gloria,
presidio, sostegno e forte scu- do della sua persona; ma non attribuisce
a lui, bensì al proprio ingegno la propria im- -«( 79
)^ mortalità. La superbia Oraziana (superbia derivante dai
meritati allori ) non comportava servilità comuni al volgo.
Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- gli una sola favilla
di quel genio che il gran cittadino di Venosa stesso definì particella
di aura divina? Tutti i tesori di Golconda non
equivalgono a quegli slanci di lirica sublime che non han- no avuto
eguale in nessun mortale quaggiù ! Come si accennò innanzi, O.
venne presentato a Mecenate mentre vivea occu- pato neir ufficio di
scriba questorio, e nel comporre satire ed altre poesie, che aveano
già richiamato l'attenzione degli altri eruditi del giorno. E ciò dovette
succedere neir an- no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor-
passato il ventisettesimo anno. Egli stesso così descrive questa
presentazione: r ottimo Virgilio Da pria^ poi Vario
dissero chi fossi, ' Né me figliuol di genitor preclaro Né me
opulento possessor che scorra Suoi vasti campi su destrier
pugliese^ Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ Giusta tua
usanza^ tu rispondi: io parto. E dice pure: Fattomi al tuo
cospetto, singhiozzando Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua
Era infantil pudor nodo ed inciampo. Donde nacque mai in Orazio tanta
umiltà tanta bonomia e tanta confusione vedendos al cospetto dell'
erudito e ricchissimo e pò tente Mecenate, se non dallo scorgere in
lu un amico sincero che cordialmente e senzc vedute interessate lo proteggeva,
e lo 'ponevc nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava
l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams di lui, mentre pel
contrario molti altri lo di- sprezzavano e lo invidiavano, e per tal
fine cercavano fargli il maggior danno possibile? Aggiunger poi si
deve che la magnificenza che circondava Mecenate, il suo palagio,
la fila dei cortigiani che colle teste curve sino a toccare le
lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio dovettero colpire O.,
che, per quanto impavido fosse, dovette risentirne certamente
imbarazzo e confusione. Ti è occorso mai, o lettore, di
presentarti, dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle
anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. ti trovasti mai alla
presenza del gran Re Vit- torio Emanuele ? Quella figura atletica,
chiu- sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, colla divisa
brillante di generale italiano, con quelli occhioni vividi e fieri che ti
scendeano come saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo, quasi
a scrutarne le più riposte idee e sentimenti, non ti produsse alcuna
emozio- ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse di sua
mano largita un' alta onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito
sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e compiacimento? Se nulla hai
provato, dir debbo che l'animo tuo è insensibile come pietra fi-edda di
sepolcro! Garibaldi, Cavour, Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taciturno
tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, quando la mano del gran re
strinse la loro! Discordanti ben vero appaiono le opinioni
circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da Virgilio e da Vario
presentato a Mecenate. Molti sostengono (e si riscontra nelle
me- morie dei suoi moderni biografi) che siffatto avvenimento
accadde nell'anno 735 o 736 di Roma, così che fanno succedere nel 737
il viaggio di O. con Mecenate a Brindisi e quindi pochi mesi dopo
questa data la pub blicazione della satira quinta del libro primo
che ne descrive facetamente il viaggio , l evoluzioni, gì' incontri
avvenuti ed altri fat terelli piccanti. Ma nella Cronologia
del Dacier, che devt stimarsi la più esatta disposizione degli av
venimenti e degli anni nei quali O. com pose le sue poesie, attenendosi
ai diversi con- solati sotto i quali O. accenna scrivere, viene
indicato il viaggio di Brindisi nel 716, od in quel torno di tempo, cioè
quando O. avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò più presumibile.
Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio
por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- guardo alla sua
salute un po' malandata ed alla circospezione a conservarsi, ed alla
sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e rifiutava perfino
gli inviti di Augusto, non appare verosimile. Sia però come si
voglia, certa cosa é che Mecenate riserbossi nove mesi per poterlo
ammettere nel novero dei suoi amici stretti. O., erudito,
giovialissimo, baldo, perchè adusato agli esercizii aspri della milizia:
sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e chiaroveggente: amante
del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle libazioni dei cecubi e
dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- scarle
col vischio della poesia, dovea venir ricercato nelle brigate e nelle
accolte dei dotti e dei viveurs di quel tempo. Era bel
giovane, se non bellissimo, e ne menava vanto; ed i malanni della precoce
se- nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la cisposità
degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo ancora reso solibus aptum, né
biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o delle fredde docce di
Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere la bilancia a suo
favore. Mecenate, gran conoscitore degli uomini, ed
indagatore minuzioso, specialmente trat- tandosi di quelli che doveano
essergli sempre vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con sé,
dopo nove mesi di prove ed indagini, com- mensale ed ospite nelle sue
splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni detrattori
del sommo poeta, che nel temp in cui O. e presentato a Mecenate, ve
nisse pubblicata in Roma una lettera sua i prosa, e dei versi elegiaci
supplichevoli, co quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n
implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms calunnia (e Svetonio stesso
lo asserì) apparv più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat
tava di libelli infamanti. O. non piatì sup plice nessun onore, provando
in petto senti menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé tanto
che in luogo di adulare sferzava i cor tigiani e lo stesso Mecenate sino
a dargl dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de fatti di sua
vita e le proverbiali espression di superbia che si notano nei suoi scritti,
at testano lalto grado della sua alterigia , fie- rezza ed
indipendenza. E non aveva poi h carica autorevole e redditizia di scriba
que- storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante poco, a lui nemico
del lusso e delle albagie boriose dei grandi, come potette
addebitarsi tanta viltà ? Molti scrittori dissero O. es- sere
traduttore dei poeti greci. Frontone chiama O. memoriabilis poeta, e
nient'altro. È noto del resto che il gran Venosino nei più
antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza altissima, come ora si
tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere sem- pre il male
nel prossimo, e fingono non ve- derne il bene I L'adulazione,
gli omaggi resi da O. a Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo
animo riconoscente e buono. Mecenate lo colmò di doni e favori. O. se
l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per aver ester- nata la sua
riconoscenza procacciossi la taccia di pettegolo e vile adulatore. Lessing
^7) così si esprime : « La malizia regna sovrana negli
apprezzamenti, come nelle altre cose. Che un letterato espri- ma le
proprie idee sulla divinità in maniera da rendersi sublime, esponga le
massime più belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene dair
ammirare il cuore da cui partono siffatti sentimenti, bensì gli si
assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al contrario, allo
scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto , lo si dirà
derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. Così giudicano gli
uomini! Le massime così morali ed istruttive d O., la sua
circospezione, la sua religio ne, la sua integrità, la sua indomita
fierezza il suo animo generoso ed affettuoso insieme la sua
amicizia, che si svelava sempre sin cera e disinteressata, non furono
bastevoli e liberarlo dal dente della calunnia e dai vita perii
degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici
non potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do
che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel
tempo e soltantc qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono
O. Oh stolti ! O. era stella sfolgoreg- giante di propria
luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- dirono certo,
perché pregavano O. stesso a presentarle, ed O. negavasi) suppliche
e petizioni a Mecenate per aversi quello che O. ottenne per suoi meriti
straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da
Vario e Virgilio, i quali indipendenti e sommi non mercanteggiavano sulla
virtù e suiramicizia ! O. conservò sempre una virile dignità, né fu mai
pa- rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele
gli fu sino alla morte che li colpì, per istrana fatalità, insieme! Svetonio
riporta l'epigramma faceto ed amichevole che Mecenate ad O.
diresse, che molto spiega e rischiara : Ni te visceribiis
meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me videas
strigosiorem, (( Se io, o O., non continuerò ad amarti più di
me stesso, possa tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto. »
^^) Al cardinale Ippolito d'Este, che non era certo al livello di
Mecenate, né per inge- gno, né per ricchezza e potenza, e che ri-
volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde traeste
fuori, messer Ludovico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa
che la povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non
m*ami Che di mia libertà per suo amor esca. Quel ch'io
non spero aver fa eh* io non bramii Che né sdegno ne invidia mi
consumi . Si noti differenza di sentimenti ! O. così risponde al
celebre giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a
celebrare coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano :
Trebazio di Cesare tinvitto Osa le gesta celebrar^
sicuro Che ne otterrai ricca al lavor mercede, O. cedono
ineguali A tanto desio le forze inferme. . . . . fuor
che in propizio istante . . Mai non Jìa che di Fiacco accento voli)
Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed c( si tibi natura
deest, corpuscolum non « deest. )) Dai quali brani si rileva
che Augusto non solo stimava Orazio al massimo grado, tanto da
temere che essendo le sue opere immor- tali, non curasse d'immortalarlo
in esse, quanto eragli amico intrinseco e con lui so- leva
scherzare come con un suo pari. Ed Augusto non addivenne l'erede
testamentario del poeta? Sono fatti che riescono incom- prensibili
a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande sia la potenza del
genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate venosino è un
fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti possono
spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del
volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che
chiarissima a lui stesso appariva. Di bronzo più durevole Ho
un monumento alzato.,.^ Non Jta che basti a chiudere Me breve
tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh* io seppi alzarmi
Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,.. Superba or va^
Melpomene Dei meritati allori Tutto il terrestre
spazio È angusto a me confine,... Non io Da r
urna e da la stigia Onda sarò ristretto^ Già del figliuol di
Dedalo Io spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi posteri
Farà ch'io, guai per fresca Aura, arbuscel piti vegeto Ognor m^
innovi e cresca..,. La pompa è a me soverchia Che r altrui tombe
onora,.,. 34) Colui che si esprimeva in questi termin sentir
doveva di essere di gran lunga supe riore a tutto il resto degli uomini,
e non rieso incomprensibile che abbia potuto divenire i favorito
del potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso Mecenate.
E che la superbia di O. fosse stafc sprone ad acquisto di
ricchezze ed onori e vuo- ta supremazia sui suoi simili,
patentemente vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle sue
massime radicate di sobrietà e morigera- tezza, dal suo contentarsi del
poco e godere della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo
offerirgli più che un podere in Sa- bina, potean delegarlo proconsole in
terre lon- tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò
sarebbe stato un offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli
fastidio, un attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i
voti del venosino. È notorio che Orazio non usò altri di-
stintivi di onorificenze se non lanello e gli ornamenti di giudice, ^5)
ma valevasene sol- tanto per accompagnare Mecenate nei pub- blici
ritrovi, perchè non amava certo che si fosse detto che l'amico del
potente signore fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere
che comandato aveva una legione ro- mana! Un poderetto in
luogo ameno, salubre, tranquillo e lontano dai rumori della gran
città, un tetto sicuro, la certezza di vivere agiato, la vicinanza ai suoi
sinceri amici protettori, ai quali dimostrava ad ogni p
sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo sufficiente
ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah
che daddovero era una grand' anim quella di Orazio venosino ! O
divino Verd o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi
venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba jattanza,
e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò !
Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce
zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual riuscì
appena in certa guisa a far risonar pel mondo la tromba della fama,
che non pii si appagarono di piccoli poderi o rustich-
casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi
viventi. Vollero onor sommi , castelli , parchi , magnificenza ,
fra stuono di accademie e di teatri, e scialo à superare i re
della terra ! LA VILLA SABINA SvsTomo — Vitt ili Orma
L'ooohka eoM DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA
qaaL poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo
— Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice in
Napoli si ammirava un cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia,
dell'illustre pittore Camillo Miola, mio amico, autore della Sibilla, del
San- sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre
pregevolissime tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione
ita- liana del 16 luglio 1882 fa elogio sommo, dichiarandolo uno dei
migliori artii moderni d' Italia. Ed invero chi esamina quel
quadro st pendo yien compreso d' ammirazione p l'arte e per la
precisione storica che vi nota. Non palagio cinto da portici, o i
parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca celli con grifoni e sfingi
di bronzo; ma ui modesta costruzione nascosta da un altissin
albero, sul quale si arrampica un cespo g gantesco, che lo fa assomigliar
ad un eno me roseto; con semplicità di colore, con pi cola corte,
con finestrette modeste, da un delle quali pende una gabbiolina con
un capinera, e da cui compare il busto di On zio che maschera una
vaga donzella, dell quale si distinguono solo le belle fattezzrini e
Batillì imberbi con lunghe chiome, che saltellando ed agitando nacchere e
tirsi, si versan dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel
podere. Una capretta randagia presso il rustico cancello di legno,
apparisce spetta- trice innocua di quelle piacevolezze campestri.
Basta veder quel quadro per formarsi una idea della proprietà che Orazio
si ebbe in dono da Mecenate, unico dono che la sua modestia
aggradì, e che confaceva al suo ideale. Orazio cosi enunzia
la topografìa del suo podere rustico: Tutto di monti una
catena il forma^ Se non che t interrompe opaca valle Ma così^ che
sorgendo^ il destro lato Ne copre il sole^ e con fuggente carro
Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima Ne loderesti) Nella
terza satira del secondo libro per la prima volta parla di tal dono che
gli venne fatto da Mecenate quando cioè Agrippa fu edile. Perchè,
siccome opina il Dacier, nella sua Cronologia delle opere oraziane,
tale satira in quel tempo fu scritta. Ed O. ringrazia cordialmente Mece-
nate per tal dono che gli giungeva nel suo trentesimosecondo anno di
età. La voracità del tempo che ogni traccia di opera
distrugge ed oscura, fece del tutto scomparire le vestigia della villa di
O. in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e la
religione che accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i
ru- deri di tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso
Orazio nelle descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi
ul- timi anni stabilire il luogo preciso, la con- formazione e r
area dove quella villa sor- geva, e dove il gran poeta, al dir di
Sve- tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu) e nella
quiete. Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus- siano,
nelle sue Racemationes venusinae; Obbario, nelle sue no- te sulle
epistole oraziane; e principalmente r opera che X illustre Chaupy
pubblicò in Roma sulla Scoperta della casa di O., possono offrire prezìose
notizie sulle ricerche pazienti e sulle in- vestigazioni profonde e
minuziose fatte per dar luce chiara a tale obbietto. O. disse
che al suo piccolo fondo ba- stavano cinque lavoratori per menarlo a coltura,
i quali andavano a smerciarne le der- rate a Varia, piccola città lambita
dall' Aniene, ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia- centi a
quelli che lui stesso abitava, e dove ciascuno soleva vivere con la
propria fami- glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul far
della sera, sprigionavansi cinque nuvo- lette azzurrognole che ne
indicavano il ru- stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno
tranquillo. Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii di
terre nelle province meridionali di vivere nel proprio fondo circondati
dai rispettivi coloni, e r occhio vigile del padrone non nuoce alla
prosperità di esso. Si comincia pure oggi a comprendere dai
ricchi possessori di latifondi che la pigra vita delle popolose città non
ridonda a vantag- gio della loro fortuna. Si creino pure ca-
stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora presso la sorgente, donde
si ricavano quel ricchezze che rendono disuguali gli uomii fra
loro. Si renderebbe così possibile e pei donabile tale disuguaglianza! Il
principale castaido di O. dovev nominarsi Davo, marito forse a quella
Fi dile alla quale dirige consigli savissimi salutari con una sua
epistola. Davo esser do veva un cattivo castaido, come lo son per h
più quei villici che abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal
vedono un nuo vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami
ed a sorvegliarli. O. lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè
nelle fe- ste saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena
facoltà di esternare i proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti
dal pa- drone, ancorché gliele cantassero amare, (e tal costume si
è conservato sin negli ul- timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino,
nel suo sudicio e laido poema, che intitolò //
yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà possa degenerare in licenza)
svela il suo animo protervo, indocile e poco amante delle rusticane
usanze e prosperità derivanti dalle buone e fertili annate, e dall' amor
del suolo opimo; che anzi si svela amante dei piaceri della città
per quanto spregiatore delle gioje campestri, e sotto la veste del
campagnuolo si nasconde un guattero tralignato, ed un operajo
invido ed infingardo. Davo prima di entrare nel podere aveva
servito dei signori romani nell* ufficio di mediastmus. Si figuri il bel
tomol Il fondo si componeva di una selvetta ce- dua (dove al
poeta successe quel fiero in- contro col lupo, ed un dio propizio lo fé'
restare incolume) ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che servivano
ad alimentare le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre-
scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali pruni,
susini e cornie ab- bondavano, con diverse altre specie di frutta
delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben potea dirsi di ritrovarsi a
Taranto. La vite poi formava la parte più ricca del fondo, e dalla
quale Orazio solea distillare quel cele- brato vinello che non disdegnava
far gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo del fondo
scorreva un rivolo di acqua freschissima, che ricascando in gt
terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava poi una fonte
limpida e crisfc lina da potersi paragonare al celebre fon
Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; la patria del poeta, e che
ancora oggidì qu di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah di Venosa,
presso il bosco di Banzi. La fontana D* acqua perenne a
la magion vicina,,, '9> è appunto \ attuale fontana degli
Oratir presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press Venosa nella strada
che mena a Palazzo £ Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai da
Orazio in una gita a Venosa per cacci, o diporto.
Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio corpo
marcescibile, ma Y anima mia soprav- viverà I In che cosa si discosta
dalle credenze del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla
divinità che dall' alto dispone, assiste e pro- tegge ? O
Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- cipio, r esistenza d' un essere
soprannaturale che tutto vede e dispone, e che premia o punisce.
Non è la sommissione buddistica, bensì la virile sommissione ad una forza
on- nipotente. Orazio diceva: Che Giove fra celesti
Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo
in questi ultimi tempi, ben- ché ammantato di scetticismo volteriano,
gri- dava: // est, il est, il est! ■**) A tali credenze
religiose mescolandosi la -c(a più dolce salsa alle
vivande Procaccia col sudor. 5^) Soleva in compagnia dei suoi
familiari ed alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere a queste
semplici vivande un buon bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi
mede- simi avevano manipolato dopo la gioconda vendemmia.
La sua mensa era linda, lucente, bianca, sulla quale campeggiava un
vasello emble- matico ripieno di sale: e V aveva per caro auspicio
e quale usanza religiosa. Il sale ha avuto grande importanza in
tutti i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva
per purificare e consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa
nostra è 19 ( H6) mista al
sale. Questa sua grande mondezza, non lo dissuadeva dall' invitare a
convito amichevole, oltre ai suoi amici di condizione eguale alla
sua, siccome Torquato, Settimio, LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle
donzelle di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, Glicera, Cloe,
Tindaride, anche il gran Me- cenate, al quale scriveva: n
nauseoso lusso ammirar cessa. Grato ben giunger
suole Sovente ai grandi il variar di scena. Cerca mensa frugai^ là
dove ammessa Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora In pover tetto
fa sparir le impronte Che affanno incide in accigliata fronte.
Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio Povertà senza fasto e senza
sfregio) Ed in tali circostanze straordinarie mo- strar si
soleva galante a modo suo. Inco- minciava col prevenir gli amici che se
con- servavano vino miglior del suo, Io portas- sero pure alla sua
mensa che non se ne sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un
bicchierino di soverchio alla salute del do- natore. O. ammetteva
che il vino rinfocolasse l'estro poetico, e perciò mal soffriva
sedessero al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- tirono di
vino sin dall' alba le dolci muse. Prometteva ai commensali che li
avrebbe collocati nel triclinio ciascuno presso a per- sona che non
gli riuscisse antipatica o me- ritevole di troppe cerimonie. Né
disdegnava riservare il posto ai più gai, ai più giovani e baldi,
presso quelle generose donzelle ro- mane di bellezza e brio regine. La
gentilez- za, poi, formava il principale suo pensiere. Così
scriveva a Torquato: Già il focolare da un pezzo e le
stoviglie Splendon rigovernate a farti onore A bere^ a
sparger fiori io già son primo,.,. Che sozza coltre Che
sordido mantil non giunga il nc^so Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il
piatto Tal non sia che specchiarviti non possa) Né gli
piacevano numerosi convitati, ma pochi, cari e buoni: Che caprino
sentore ammorba i troppo Folti conviti. Riesce in vero gradito e
dilettoso figi rarsi in mente il nostro O., re del coi vito, con
quel suo faccione pieno e rose^ ilare, faceto, coronato di rose,
levigato terso colla cute, da sembrare un majaletl lustro e
pinzo. Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi zo per la
sua terra, e dilettavasi a smuover glebe e sassi, adocchiare i filari
delle vit curare gì' innesti delle piante e degli albei da frutta;
della qual cosa solcano ridere vicini) i quali conoscendo come
Grazi frequentasse la corte, e che di Augusto e e Mecenate e di
altri potenti fosse familiare non poteano persuadersi di questo suo
amor per così rustiche e basse faccende campe stri. Non riflettevano
essi che nella ment del venosino eravi fisso, incardinato il « m
admirari y> secondo l'opinione di Laerzic e di Democrito. Orazio era
dotato di « aia raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor lo
lusingavano punto, anzi ne era al somme disgustato, siccome ritrovava
diletto in quelle sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie
consiglio: Alma al ben fare accorta Tu serbi •
inflessibile A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57)
E dopo le escursioni nel podere ponea mano a coltivar lo spirito,
scrivendo, leg- gendo, meditando. Solca poi di tratto in
tratto recarsi nella gran città, in Roma, sia pel disimpegno della
sua carica di scriba della questura, sia per altre faccende, sia per
coltivare le amicizie di Augusto, di Mecenate e di altri che egli
stimava, principalmente versati nelle lettere e nelle scienze. Ma sen
ritirava sfinito, perchè la folla dei postulatori, degl'intriganti,
dei finti amici invidi e malvagi, degli zingani, dei ciurmatori,
ruffiani, baratti e simili lor- dure, e dei molestissimi e garruli falsi
lette- rati non lo avevano risparmiato. villa, e quando io
rivedrotti^ e quando Potrò dei prischi saggi or fra i volumi Or tra
il sonno e le pigre ore oziose Trarre de V egra vita un dolce oblio
ì Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte E i buoni erbaggi come
va conditi Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I notti I
cene degli dei^ dov* io Presso il mio focolar coi miei m' assido^ E
mangio^ ed alla vispa famiglinola Dei servii nati dai miei servii io
stesso I già libati pria cibi dispenso! S^) Della sjpa
persona soleva avere som cura, perchè quasi giornalmente immerge
nel bagno, e dopo ungere si solea di o profumato e finissimo. Nel vestire
most vasi dimesso e noncurante, ma non pe privo di gran pulitezza o
da potersi dir come vuole san- to Attanasio, al dir dello stesso
Lupoli e del Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi- nario ed
inesplicabile quanto in appresso verrò esponendo circa le consuetudini
do- mestiche d’O.. Nelle molteplici edizioni delle opere
del sommo poeta, le quali riportano la sua bio- grafia redatta da
Svetonio Tranquillo, ho rilevato che si è tralasciata una notizia
in- teressante che riguarda una sua pratica oc- culta, la quale può
ben riferirsi al culto sur- riferito di misticismo caldaico.
La vita di O. composta da Svetonio Tranquillo, che fu V unico che
scrisse del gran venosino pochi anni dopo la morte di lui, e che fa
accrescere certezza alle investiga- zioni fatte neir analizzarne le
opere, si com- pone non più di una sessantina di versi di stampa.
Tutto è laconico e scritto fugace- mente, come se si trattasse d* un
cenno ne- crologico. Sembra che Svetonio abbia vo- luto far notare
con certa diffusione Solo l'a- micizia intima che legava O. ad
Augusto, ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani di lettere.
La quale riproduzione di brani di lettere di Augusto ad Orazio dirette
forma- vano forse il soggetto che per la maggior parte dei
contemporanei destar doveva in- teresse maggiore, e far di O. un
uomo agli altri superiore per tanto onore. Il brano della biografia
che è stato cancellato ( forse per purgarla), V ho rilevato da un'
edizione olandese delle opere di O. pub- blicata da Bond, che
la prima volta comparve in Londra nel 1614, e dopo se ne riprodussero
diverse al- tre edizioni intere, ed è il seguente : (( Ad res
venereas (Horatius) intemperantior traditur nani speculato cubiculo
scorta dicitur , habuisse disposila , ut quocunque respextsset, tòt
et imago e re f erre- tur....... )) Formava adunque per
Fiacco un culto (( / ars Venerea » , ed egli addimostrava- sene
tanto fervente, perchè nato nel luogo ove sorse il primo Succoth-Benoth.
Nella cennata antica cronaca venosina del Cenna , il quale era pure
investito della prima di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale
di Venosa, si leggono i seguenti versi che rin- forzano la mia
assertiva: « Alcuni, e spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi
Dialoghi, vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato in sua vita
di costumi osceni, il che tutto è falsissimo, siccome lo testifica
Ludovico Dolce nella vita di esso Horatio. » E Sivry, eccelso poeta, nel
suo poema. « L Emulation » va all'eccesso contrario, proclamando O.
(( modéle de bravoure et de chasteté. » Ciò che forma adunque
l'addentellato al dispregio di molte produzioni oraziane, viene per
tal riguardo distrutto ; considerando che la sporcizia e l'oscenità, non
erano poi in quei tempi una qualifica essenziale dell' immoralità e della
disonestà. Egli stesso ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e
colpi- sce gli adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I
Eran questi per lui grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il
cor- reggere i costumi, qual altro fondamento di morale, mancando
la cristiana, poteva offrir- gliene sostegno ? Egli rampogna
acremente i Romani d' ir- religione e lascivia. Egli volle vivere
sempre celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto d' alta
responsabilità che non volle allacciar- sene, né restarne tenacemente
avvinto. La moglie di Mecenate gli forniva un esempio troppo
splendido d* incostanza, infedeltà e disonestà. Terenzia seguì Augusto in
Asia abbandonando lo sposo. E non parea conve- niente al sagace
venosino far la triste figura di Mecenate, intendendo professare V
opi- nione di Seneca a tal riguardo, quando com- pose la biografia
del marito dell' infedelis- sima Terenzia.Il suo celibato vien confermato
dal non aver scritto mai carme o verso per donna che fosse stata
sua moglie. E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del libro
3^: Te Mecenate il rimirar sorprende Che vivo cespo ardente^
e incensi^ e altari^ Io cèlibe^ di ?narzo a le calende E fior
prepari. E solo ad un celibe sarebbe convenuto far pompa di
tante conoscenze di cortigiane e donne allegre. Lagage, Gige, dori,
Barine, Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride
ed altre dimostrar posso- no, essendo state amanti riamate di
Orazio, che se egli non aveva moglie, godeva non poco del benefizio
inapprezzabile di essere li- bero e celibe.
ìÀjiS^Ì se. "*-Sj
GuOALio — Tml. di Orm , N moltissimi punti delle opere di
Orazio appare che nella sua mente elevata si presentava l'immagine
della morte, questo indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema,
questo fatto in- cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli
covava in petto un cuor di ferro, e so- steneva che : Con
impavido ciglio Se delteteree spere in pezzi infrante. Valta
compage piombi Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s)
Non poteva con tutto ciò esimersi da quella paura istintiva, da
quel senso di terrore in- generato dal dover mancare alla vita, dal
do- ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto. ...... Nato a
morir ^ Tutti attende alfin quella profonda Che non
conosce aurora unica notte Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda Presto
rapì t inclito Achille morte E a me ciò farse offrir vorrà la
sorte Necessità di morte Getta sovra ciascun
Legge crudeli Ma pazienza mitiga Ciò che non ha riparo
Tutti spigne tal forza ad ugual meta Che a pugnar seco è
mortai forza inabile) Tutta la sua filosofia: le massime di Democrito
e di Epicuro, che facean precetto essenziale di dispregiare e non curare
gli orrori del sepolcro, non bastarono a toglier questo pensiero
ftinestissimo dalla mente di lui. In mille maniere lo rimuginava, lo
com- mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- ce ed i fulgori
delle verità cristiane non gli rischiaravano l'intelletto e non gli
molcevano il dolore, promettendogli una patria lassù, sulle sfere,
patria immutabile, bella d' ogni godimento ed allietata dalla vista di
quel Dio rimuneratore e buono ed onnipotente. Ammetteva Y
Èrebo e Y Olimpo, come so- levansi ammettere quei miti inverosimili
ed incredibili, che acchetavano la bramosia di quei popoli privi di
una fede consolatrice, che prometteva la beatitudine ventura come
compenso alla vita onesta e laboriosa. Dato che il piacere terreno
formar do- vesse la meta della felicità, che poteva spe- rarsene
dalla vita futura? Il nulla, la distru- zione completa, la particella
della materia andava a ricongiungersi alla materia:
Noi cadendo Nella notte che non sgombra Più non siatn che
polve ed ombra . Degli anni il breve termine Vieta ordir lunga
speme: V ombre favoleggiate e la perpetua Notte già già ti preme)
Nella distruzione completa del suo essere O. ammetteva che
soltanto una parte di se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il
frutto dei suoi sudori, il suo monumento: r anima sua. E tale
credenza, che non era dubbio, gli scusava la fede nel!' immortalità dello
spi- rito umano. L* (( omnis moriar », espressione
tanto concisa per quanto chiara, spiega che non eravi dubbio in lui
neir immortalità del- lanima. La paura della morte comune a tutti,
sebbene con tanta jattanza, dalla maggior parte apparentemente sfidata,
più che O. vinceva il suo protettore , Mecenate. E siccome la paura è
attaccaticcia e conta- giosa, O. non addimostravasi meno al-
larmato di lui. E tal pensiero dominante trapela nelle sue opere, come
quell'altro, che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né
bastavagli a frenargli la lingua, la sua for- tezza e valentia. La paura
della morte era così possente in Mecenate da fargli dettar quei
versi riportati da Seneca, che non fanno grande onore al valoroso
romano: Vita dum superest, bene est Hunc mihi vel acuta
Si sedeam cruce^ sustine ! Tanto grave e scoraggiante riusciva per lui
tale idea, che avrebbe meglio amato ve- nire inchiodato in croce come
l'ultimo dei malfattori e vivere, che farsi tragittar da Caronte nella
palude Acherontea. Orazio venivalo consolando con teneris-
sime espressioni, perchè O. non era codardo, né intendea scoraggiarlo
maggior- mente. Ma le sue espressioni non appro- davano gran che.
Tentò alfine porre in ope- ra il savio consiglio, che la pena gli
sa- rebbe venuta scemata sapendolo compagno nel dolore, ed è perciò
che gli dice senza essere scevro di paura : , Non piace ai
numi Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi Un dì medesimo
fia d* ambi estremo Ne il voto è perfido, inseparabili Andremo^
andremo. Che pria se muori Pur teco air ultimo comun mi trovi I
nostri unanimi fuor S ogni esempio Astri consentono 69) E
tale profetica consolazione, per istrana fatalità, si verificò pur
troppo. Non è lecito veder tutto con tinte soprannaturali. Buona
parte di quello che molti direbbero spirito profetico attribuir si deve
alla paura della morte che premeva così Mecenate come O. E la paura, il
dubbio dell' ignoto, non è vigliaccheria, bensì è innata nella
natura umana. Anzi prode è colui che questa paura affronta, e
guarda imperterrito quella figura armata di falce, sfidandola sui campi
delle battaglie, al letto degli appestati. Se non vi fosse
terrore e spavento istin- tivo del morire, quale prodezza, qual
valentia sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le pesti, il
mare irato ed il baleno delle armi nelle tenzoni cavalleresche? L'
amistà che legava Mecenate ad Orazio, il sentirsi quel grande consolato
da lui così coraggiosamente lo fecero memore del poeta che
l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli altri. Nel suo testamento
scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura di O.
Fiacco come prendereste cura e terreste memoria di me stesso I »
E riesce veramente straordinario come, morto appena Mecenate, che
era già soffe- rente e presentiva la propria fine , dopo pochi
giorni, un subitaneo malore colpì il sommo filosofo, da non lasciargli
neppure il tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo- lontà.
Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima notte, siccome
aveva promesso. O. morì a Roma,
essendo consoli Caio Mario Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di
anni cinquantasette, due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27
novembre. Già da qualche tempo varcati i dieci lu- stri, O. non
senti vasi sano: accusava sof- ferenza ai nervi e malinconia che
accom- pagnar sogliono per lo più quelli che tra- scorrono molte
ore del giorno a logorarsi la mente coi severi studii. Perchè i visceri
si rendono sofferenti per le occupazioni men- tali, e defatigata la
mente, la tetraggine invade il cervello , principalmente quando gli
anni incalzano. In una lettera che il poeta scriveva ad un
compagno d'impiego nella questura, Cel- so Albinovano, suo amico, ma che
giunto al- l' apogeo della grandezza, perchè ben ve- duto e
careggiato dal giovane Nerone, erede dell' imperio, mostravasi altezzoso e
superbo (sebbene non manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo ,
per questo favorito di ven- tura) così diceva : Dritto né
ameno è di mia vita il corso^ Perché men della mente sano
Che delt intero corpo^ udir vo' nulla, Nulla imparar che il morbo
sgravi, I fidi Medici fanno orror, gli amici restia Perchè al
sottrarmi al rio letargo intesi. 7o) Ed a Mecenate . scriveva
: Ma di cor debil troppo e troppo infermo Me conoscendo^
chiederai tu quale Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70
Col corpo affranto dal peso degli anni, dalla vita trascorsa nelle
fatiche mentali e nelle avventure e nei godimenti venerei,
sopraggiunse ad O. la nuova della mor- tale malattia del suo Mecenate e
la fine dì questo. Il colpo fu troppo violento e dovea riuscirgli
fatale. La sua fibra debole non poteva resistere. Pomponio Porfirio, che
con lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la- coniche note di
Svetonio, circa la vita di Orazio, dice che lo stato suo di salute
era deteriorato assai con gli anni, che non gli conveniva più restar
l'inverno nelle monta- gne della Sabina, nella sua cara villa : che
svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo scrisse) come il luogo più
aprico: ce Tiburi enimi fere otium suwn conferebat , ibique carmina
conseribebat.ì) E Tivoli desiderava Orazio infermo e pensava morirvi là.
Così egli scriveva al fido amico Settimio: Oh tregua al
vecchio fianco Tivoli dia Quivi piagnente di pietosa
stilla Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^)
Certuni erroneamente attribuirono la mor- te di O. a suicidio, tanto
apparve strana la coincidenza della sua con la morte di Me- cenate.
Ma deve venire del tutto bandita tale idea per le seguenti ragioni.
Orazio dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so- leva
dileggiarli; e la storia di Empedocle di GIRGENTI che ricorda ntìV^rfe
poetica, chiaramente lo dimostra. Empedocle per desio di molta
vanagloria e prodezza, invano precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola
ne tradì la inutile bravura. Esaminando imparzialmente e con
co- scienza la vita di O., si nota che ogni sua cura si volgeva a
conservarla, sia che militasse a Filippi, sia che vivesse in Sabina. Era
poi tarchiato ed obeso, e quindi facilmente proclive all' apoplessia. Che
era già fiacco e malandato in salute nel suo undecimo lustro. Che
il dolore della per- dita del suo più caro amico e protettore
Mecenate (egli così amante degli amici e riconoscente) doveva avergli
prodotto tale un rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la
morte con colpo apopletico. E son numerosi gli esempii di fratelli od
amici ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re- pentina
disparizione d* un fratello o d' un amico, li han seguiti immantinenti
nella tomba sopraffatti da colpo di malore vio- lento.
Non altrimenti deve pensarsi di O.. E che fu tale il suo genere di
morte lo prova poi chiaramente il non avere avuto il tempo di
tesser un elogio funebre al suo sommo protettore Mecenate, che aveva
assistito negli ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e con altri.
Eppoi non ebbe forza di scrivere il proprio testamento.
Svetònio dice: (c Quum urgente si va- letudinis non sufficeret ad
obbligandas testa- menti tabulas . Dovette avvalersi di quello che, dice
Giustiniano, prescrivevasi dal giure civile di quel tempo, cioè della
prova testimoniale di sette cittadini, che dinanzi notaro provarono
esser volontà del moribondo O. che l'imperatore Augusto fosse il suo erede,
Orazio per decidersi a lasciare erede \ imperatore , che consentì
ad accettare \ eredità, doveva esser fornito di non pochi beni di
fortuna. Che di fondi, che di valsente doveva aversi senza manco
veruno un buon dato, stante la sua parsimonia. E lo certifica
Svetònio quando accennando alle largizioni di Mecenate e di Augusto dice:
(( Unaque et al- tera liberalitate locupletavit. » Ma delle
sue sostanze rimaste non appare vestigio od accenno, meno della villa e
del podere in Sabina, che han formato, come si disse, la paziente
investigazione dei dotti archeologi e degli ammiratori del grande filosofo.
L' aver lui posseduto poderi in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che
una supposizione dei comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua
aspirazione han formato un dominio. Mentre chiaramente Orazio, nella sua
diciottesima ode del secondo libro dice: (c Satis beatus unicis
sabinis. » La quale esplicita dichiara- zione formò la base delle
rimunerate inve- stigazioni archeologiche del Capmartin de Chaupy,
siccome si accennò parlandosi della villa oraziana. Che anzi in Taranto è
comune r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel luogo
detto ce Le Leggiadrezze ». Ma per quante ricerche siansi fatte dai
dotti, principalmente dal Tommaso Nicolò d' Aquino, autore dell'opera
Delle delizie Tarantine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione
topografica di Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato
tarantino, nella sua versione dell' opera del Aquino, con note, non
si è potuto affermare che O. avesse dominio in Taranto, ma soltanto
ohe vi avesse fatto delle brevi escursioni per isvago. In Venosa
poi, sua patria, non evvi vestigio di casa o podere a lui od ai
suoi appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di Cenna,
venosino, nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della
città di Venosa del 1500, nella quale si dice aver posseduto Orazio una
casa presso le antiche mura della città, a levante, forse alludendo
a quella che si accennò nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno
della tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- zione. E da
tale ipotesi lascia derivare che dalle finestre di quella sua abitazione
in Ve- nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra vastissime
campagne, e da quella veduta venisse ispirato a dettare i versi : «
Lauda- turque domus longas quae prospicit agros. » Perché non
riferire invece con maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si
dimostra chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si
è riferito nei capitoli precedenti circa la dimora di O. in Venosa,
ove si trattenne solo adolescente : circa la con- fisca di tutti i
beni della sua famiglia, perchè seguace di Bruto, e particolarmente per
non averne fatto il menomo indizio in tutte le sue opere. Venosa ai
tempi di Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten-
sione dei campi asserita dal Cenna è un sogno. Che O. abbia
fatto in Venosa qual- che rara apparizione , forse per diletto ed
in compagnia d'amici, lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di
Bandusia, che rumoreggiava con polla cristallina ed ar- gentea nei
fitti boschi di Banzi , dove es- sendosi recato O. a cacceggiare od
a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a seconda dei
pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. O., come
si disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di
Roma, essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato. Morì a
Roma, consoli C. Mario Censorino, C/ Asinio Gallo, cioè nell' età
di anni cinquantasette. Acrone scambia però, per errore dei copiatori
delle sue opere , il numero LXXVII per LVII, assegnando ad O. anni
settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: « Alti supra
septuagesimum annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum
existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio,
ritengono con precisione gli anni della vita di Orazio essere stati
cinquanta- sette, il primo dicendolo morto nell’ anno di Augusto, il
secondo asserendolo morto nelle date surriferite, e riportando i
consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai quali limiti precisi
estremi non è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne trasportato
, tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno
antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba
della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita
di Orazio di Sve- tonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo
suir Esquilino, e presso ad esso una tomba monumentale. In questa
ripo- sarono Mecenate ed O.. Mecenate ed O. vissero amicissimi,
intrinseci, vera- mente uniti di pensieri e di amore ; benché l'uno
nato di reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol di
liberto. Una possanza inesplicabile ed onnipotente li fece
incontrare, divenire tra loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme
dormire nello stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i
tardi posteri ricorderanno le gesta e la gloria pel suono reboante
della tromba della fama procacciatasi col proteg- gere
generosamente quella schiera immor- tale di uomini che vissero nel secolo
di Au- gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È
tutta sua la gloria che fa semprepiù, col trascorrer dei secoli,
stupire l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di vita sarawi
sul globo. Del sommo poeta non si conservano sta- tue antiche
o figure nei monumenti da po- terne precisare la struttura corporale ed
i lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare tanto chiaro il
ritratto, che basta coordinare le parole che si riferiscono al suo
fisico, per vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con
certa vanagloria la lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano ,
che ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma che gli anni e le
cure aveano resi argentei. -«- Questi hanno
improntata una certa tinta di pazzia benigna, che in luogo di
ammira- zione suol destare compatimento, antipatia e ribrezzo. Le
cellule del cervello, Y involucro osseo che le ricopre, il corpo umano,
non han bisogno di quella veste esterna non naturale, oppur
naturale, sian cenci o por- pore, adipe, globuli rossi, magrezza
estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio od un cretino I
Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli antichi della
Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma- nierose,
affabili, con un corpo formato al pari di Antinoo. O. ne sia esempio
lu- culento, e Foscolo e Byron e Leopardi negli ultimi scorsi anni
così difformi tra loro. Assicura Giuseppe Ilario Eckhel,
celebre antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- trina Nummorum
» e lo conferma Masson nella sua vita d’O., nel capitolo inti-
tolato De Horatii effigie, essersi rinvenuti dei medaglioni di metallo,
terminati nella loro circonferenza con un cerchio da tre a quattro
millimetri di larghezza, e che possono ben rassomigliarsi alle nostre me-
daglie commemorative o di onore, nei quali si vede inciso in un lato un
busto , ed intorno ad esso la scritta chiarissima (( Horattus »,
mentre nell' altro lato la scritta n' è illegibile e consumata. Il busto
anzi- detto è modellato esattamente a tenore di quanto più sopra si
è esposto. Uno di essi si conserva nel museo del Louvre. E certo
appaiono riproduzione di busti o medaglie d' onore di Orazio vivente,
eseguiti nel quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno è r
opinione del dottissimo barone Walke- naèr. Nessun busto marmoreo, come
si disse, « o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il
gran venosino. Deve però convenirsi che un uomo che ha da poco varcati i
cinquant' anni, raro è che si renda deforme e barbogio. Anzi la
razza umana generalmente suole giungere a questa età ancora atta a
buona vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi. Se r aureola che
circonfuse Orazio non fu il (( nomen imitile » e neppure X opi-
nione che i suoi contemporanei ebbero di lui ( opinione poco
proporzionata ai suoi meriti, secondo che dottamente asserisce
Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe tra i dotti il primo posto,
perchè Dante stesso chiamò Virgilio Aquila ed O. Satiro), maggiormente
risulta la sua vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo che per r
eternità gli uomini risentiranno per lui Trascorsi
appena nove anni dalla morte di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri-
sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por- tentosa! L'ETERNO
MONUMENTO ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode. Che dire di
O. filosofo, creatore nella letteratura latina di due ge-neri di poesie
del tutto nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la
lettera all' eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice
:' « Dei lirici O. è quasi il solo che merita di esser letto,
poiché s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è pieno di
dolcezze e di grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-*
delle figure, delle espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E
Petronio ^7) continua as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed O. sono
accuratemente felici, come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o
non vi- dero la strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il
coraggio di batterla. » E que- st* opinione distrugge la miserabile
assertiva di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che chianja
Orazio Fiacco , siccome accennossi, appena poeta non isprezzabile
[memorabilts poeta). Tanto potevano in questo possessore degli orti
mecenaziani V invidia ed il livore, . che tra certi letterati sono solite
malattie I Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio,
Petronio, Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio,
Giovenale, Lattanzio, Alessandro Severo, Dante, Voltaire e cento altri, a
coro unanime, gridarono le lodi del gran venosino. Moltissimi
eruditi si sono occupati di stu- diare precisamente le opere di O.. I
più celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- lejo, il Masson,
il Dacier, il Sanadon, Passow, Kirckner, Franke, Weber, Grotefend,
THart, il Milmon, lo Stalbaum, il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il
Dab- ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern, il Walckenaer, il
Siringar, il Manso, V O- relli, si avvalsero degl' interpetri antichi
delle opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio Porfirio, e
dell'altro che prendendo nome dal suo editore, si disse Scoliaste
Cruchiano, non meno che di Emilio e Terenzio Scauro. Ciascuno
di essi ha cercato desumere con pazienti ricerche il tempo nel quale O.
scrisse le singole parti del suo eterno monu- mento. Cercherò notare le
più interessanti investigazioni. O. dapprima scrisse le
satire e ne compose il primo libro negli anni di Roma, non avendo
ancora raggiunto il trentesimo anno. In essa, siccome si accennò,
irrompe con impeto sarcastico contro un tal Rupilio che
con lui aveva militato nell'armata di BRUTO, Segue poi la seconda
scritta nell' autunno del 714, nella quale parla in generale dei
vizii di cui la società romana era infetta. La quarta satira
fu scritta nell'estate del 715, ed in essa cerca scusarsi col pubblico
dell' essersi mostrato un po' virulento nello sferzare la cattiva
gente, e secondo il parere di Wei- chert fu questa la satira che i suoi
amici VIRGILIO e VARIO presentarono a MECENATE, avendo inculcato al
poeta di scriverla per cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse
la terza nel principio del 716, ed in essa fa vedere che mentre gli
uomini sogliono cri- ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i
proprii. Vangelo dice : « Tu suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del
tuo prossimo, e non vedi la trave che è lì lì per acce- carti ? ))
Dopo poco tempo da che tale satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso
tra i commensali di Mecenate; infatti la satira quinta che descrive
con gran lepidezza e pre- cisione un suo viaggio da Roma a
Brindisi, vi fa risaltare la figura di Mecenate come attore
principale e come uomo politico, spe- dito dal governo per delicati maneggi
a quel luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per- sonaggi
influenti, e che compagni insepa- rabili di lui furono O., Virgilio,
Vario, COCCEIO e TUCCA. Compose poi la prima satira in omaggio al
suo gran protettore, e pubblicando il libro la pose come
principale, perchè a lui dedicata e per testimoniargli la sua stima ed il
suo affetto. Scrisse la nona dopo circa un anno per cor- reggere
quei miserabili che invidiandogli la protezione di Mecenate, mostravano,
.mor- dendolo col dente velenoso della livida in- vidia, di non
esserne a parte. La bellissima satira sesta, nella quale pone la virtù
come il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava con la quale
schernisce i superstiziosi e le donnacce, furono scritte, secondo l'opinione
di Spohn, nel 719. Il libro degli Epodi era già stato composto da O.
prima del cennato primo libro delle satire, ma fu pubblicato piu tardi.
Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi dai versi Epodois di
Archiloco, che fu l'in- ventore dei giambi, al dir di Diomede gram-
matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- preso il Gargallo nelle note,
ammettano che epodi si dicesse il libro compilato da odi pòstume di O.,
fondandosi sul termine gre- co epodem, che significa sopraccantare.
E la terza del secondo libro delle satire sostengono essere stata
scritta nella villa Sabina, dimostrando che già poco più che trentenne
Orazio avea avuta donata quella proprietà. Riguardo alle odi,
furono scritte, se- condo il parere di Butman, del Dacier e di
altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, E da quest'anno ed i seguenti
sino al 744, cioè nella sua età di anni cinquantacinque, solo
l'ultima ad Augusto, come omaggio al più grand' uomo del secolo e suo
insi* gne benefattore. O. dalla sua villa aveva spedito
ad Augusto diversi scritti e molte delle let- tere surriferite, e
gliele indirizzò con un viglietto umoristico consegnato ad un Vinio
Frontone Asella, che è proprio l'epistola decima del primo libro. Augusto
dopo aver letto tali componimenti, gli rispose così: (( Sappi che
io sono teco sdegnato , perche in molti di cotali scritti (come sono le
satire e le epistole) tu non parli principal- mente con me. E forse che
temi non ti sia per tornare ad infamia nella posterità, se tu
mostri d'essere stato mio amico ?» A questo onorevole ed amorevole
rimprovero Orazio rispose colla prima epistola del secondo libro,
che è invero un capolavoro nel genere sotto ogni rispetto. Il
primo libro delle epistole venne com- posto prima del quarto libro delle
odi. Il carme secolare scritto per condiscen- dere al volere
di Augusto fu composto nel 737, cioè nel quarantottesimo anno
d'Orazio. L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo capolavoro, e che può
dirsi una lettera di- dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni ,
può benissimo classificarsi come terza nel secon- do libro delle
epistole , e venne composta nel 741-742, mentre la prima epistola
del secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi essere V ultimo
lavoro del poeta, e fu com- posta nel 744, avendo il poeta V età di
anni cinquantacinque. Nessun autore al mondo ha ottenuto
tanta pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua opera, quanto
Orazio Fiacco. È qualche cosa che sa quasi dell' inverosimile.
Basta però per convincersene notare il numero straordinario delle
edizioni delle sue opere, dacché ci furono tramandate, siansi es-
se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti. Nessun erudito
scrittore ha saputo sin oggi precisare chi sia stato il primo scopritore
dei canti immortali di Orazio, né dove rinven- gasi la prima
edizione di essi nei tempi re- motissimi composta. Vuoisi da taluni
che in un museo inglese se ne conservi vestigio. Certissima cosa é
che da molti secoli, sia in Italia che in Germania, in Francia ed
in Inghilterra principalmente, le edizioni delle opere del gran
poeta possono contarsi a cen- tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove
ne sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e note illustratrici. È
proprio l'arboscello pro- fetizzato da O. : Laude fra tardi
posteri Farà ch'io guai per fresca Auray arbuscel più vegeto
Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i Quante opere insigni
di altri uomini nati in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia ed
altrove sono state composte nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute
e scom- parse per sempre. E dei monumenti sanscriti di Persia,
delle opere eccelse degli arabi che scrissero nei tempi del califfi e dei
sultani, e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che
invano i Mechitaristi tentarono illustrare, che cosa rimane ? O sono
cadute neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, o giacciono
ignorate in fondo a qualche pol- verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha
pro- dotto un fenomeno superiore, se pure non uguale, a quello del
monumento oraziano. Alle opere di O. avvenne un simile me-
raviglioso fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che
fruttificando, e dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come
si disse e lo con- fermò Leopardi, non furono tenute in quella
stima che meritavano) divennero poi giganti. Le radici dell'albero, ormai
reso smisurato, si distesero nelle viscere della terra, per tutte
le latitudini, con gagliardia non mai vista. E per disperdersene le
tracce, per abbat- tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- rebbe
che la terra universa andasse in fran- tumi. Dalla nostra
Italia, avventurosa patria del poeta, sino ai più ignorati angoli dei
poli, appaiono vestigia del portentoso volume, in tutte le lingue
tradotto e glossato. Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta del
monumento oraziano è una fronda fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei
più grandi italiani. Non era scorso un secolo dopo la
morte di O , siccome attesta Giovenale, che già le opere di lui,
dai suoi contempora- nei poco apprezzate, servirono in presso che
tutte le scuole di Roma come libri di testo, unite a quelle di Virgilio;
sicché deve arguirsi che non poche edizioni dovettero farsene in
quei tempi remoti. Ma il primo editore conosciuto si è Vezio Agorio
Ba- silio Mavorzio, che studia, con Felice grammatico, sui manoscritti e
ne fece redigere non pochi esemplari riveduti e corretti. Riuscirà
tuttavia interessante Tenumerarne le seguenti edizioni principali antiche
e moderne, che sono sparse pel mondo, sopra tali esemplari
condotte: Edizione primaria, senza luogo ed anno, con
'caratteri romani, di fogli 147, di linee 26, in folio piccolo.
Altra che non porta data, né firma del ti- pografo che s' ignora, stampate
in lettere rotonde, di forma poco graziosa. Antichissima. Se ne conoscono
solo due o tre esemplari in Inghilterra. Edizione pure senza
luogo, senza data e senza tipografo conosciuto, pure in caratteri
rotondi, ma molto belli. Edizione di Napoli. In quarto per Arnauld de
Bruxelles, pagine Edizione di Milano. In quarto. Ant. Zarolus. Fatta
sopra quella dì Napoli. Milano. Filippo di Lavagna. Venezia.
Filippo Conda- min. Venezia. Senza nome di tipografo. Milano. In
folio. Per Antonio Miscomini, col comentario di Cristofaro
Lantini. Milano. In folio, con co- menti di Antonio Mancinello e
degli antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. Strasburgo.
In quarto. Gruninger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito
sopra manoscritti preziosi antichi. Con molte incisioni. La prima
edizione Aldina. Ver nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo
Manuzio. Rarissima e preziosa. Firenze. La prima dei Giunti in 8.°
Filippo Giunti. Rarissima. — La prima Ascenziana, Venezia. Aldo
Manuzio. Riproduzioni. Paganini. — Venetiis. In quarto grande, Petrum de
Nicolinis de Sabio. Con note erudite di Erasmo de Roterdamo, Angelo
Poliziano ed altri. Rara. Venezia. Con postille di Gior- gio
Fabricio di Basilea, Mureto. Lione. Due volumi in quarto di
Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò magistralmente Orazio,
avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione ripetuta con molte
correzioni ed aggiunte in Parigi, in Francoforte, ed in Parigi. Anversa.
Teodoro Pulman con critiche rinomate. Parigi. In 8^ Henry
Stefano; anche con critiche. Anversa. In quarto. Alfonso Cru-
chio. Leida. Con lo Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano
antichissimo, ed altri della biblioteca dei benedettini di Gand
andata in fuoco nel 1568, manoscritto accreditatissimo. Anversa. Daniele
Heinsius. Due volumi in ottavo. Londra. Giovanni Bond. Stu- penda,
bellissima Anversa. Sevino Torrenzio. In quarto con dottissimo
comento. Anversa. Edizione elzeviriana con note di Daniele
Heinsius. Con disser- tazione dotta di tale letterato sopra le sa-
tire. Anversa. Nuova edizione del medesimo, riveduta con
note. Leida. Variorum, Editore Cor- nelius Schrevelius.
Lugdunum Batavorum. Ex of- ficina Hackiana. Con comentari
sceltissimi di varii per Giovanni Bond. Rara. Cornelius Schrevelius
accurante. Riproduzione. Anversa. Variorum. Sulla pre-
cedente di Schrevelius, corretta. Parigi. di Dacier. Tolosa.
In 8.°. Pietro Rodellio, molte volte ricopiata. Parigi. Ad usum
Delphini. Stupenda. Parigi. Jouvensy. Cambridge. Di Bentley.
Cambridge. Di Riccardo Bent- ley. Con gli studi i di tale scrittore
sopra Orazio. In quarto. Monumento immortale dell'arte critica,
lacerato dai contemporanei per livida invidia. Ripetuta l'edizione
in Amsterdam più volte, ed in Lipsia. Parigi. Due volumi in quarto.
Stefano Sanadon, con traduzione delle opere di Orazio molto
stimata. Londra. Con note del Dacier. Ad usum Delphini.
Rarissima e preziosa. La suddetta in Amsterdam, riveduta e
corretta. Otto volumi in ottavo. Lipsia. In ottavo di Mattia Ge-
snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e Both. Parigi. Edizione
classica in ot- tavo di Giuseppe Valart. Napoli. Michele Stasi, con
note di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. Molto
stimata. Lipsia. Due volumi in ot- tavo, contenente solo le odi,
con note ed illustrazione di Ch. D. Jhan. Edizione Bipontina.
Ripetuta in Milano. La stupenda edizione di Bodoni in Parma. Londra.
Due volumi in ottavo di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa. La
più stupenda e magnifica si- nora edita di Didot. Lipsia. Mitscherlinch. Mancano
in essi le satire e le epistole, ma sono eruditissimi pomenti e
note sulle altre opere e partico- larmente sul carme secolare.
Lipsia. Di Guglielmo Baxter con note di Gessner e Zeunio. Composta
sulla prima edizione dello stesso editore in Londra. Lipsia. Ti^
volumi in ot- tavo del Doering. Riputatissima edizione per uso
delle scuole. Roma. Due volumi in ottavo di Carlo Fea. Con
critica e note riputatissime. Edizione bellissima. Parigi.
Due volumi in ottavo di Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi e
gli epodi. Ma è superba. Breslavia, In ottavo di L. Fed.
Heindorf, con conienti eruditi e note. Con- tiene solo le satire. Maneim-Baden.
Due volumi in ottavo di F. Both. Heidelberga. Ristampa
dell'edi- zione di Carlo Fea di Roma con molte ag- giunte. Heidelberga.
Due volumi in ot- tavo di Grevio. Contiene le sole odi. Jahn.
Lipsia. Con scel- tissime note ed aggiunte. Schmid. Contiene
solo le epistole. Lugdunum Batavorum. Un vo- lume in ottavo.
Edizione di Perlkamp. Zurigo, Gaspare Creili. Con biografia di
Orazio e note. Libro erudi- tissimo e molte volte riprodotto, e
partico- larmente l'ultima edizione quarta, accura- tamente
emendata e corretta, sicché con ra- gione può dirsi la migliore. Venezia.
Premiato con meda- glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con
traduzione in versi e note del celebre mar-chese Tommaso Gargallo. Un volume
in ottavo, preziosissimo. Della vita e delle opere di Orazio
scris- sero pure con profondità di vedute e som- ma dottrina:
Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 5 volumi in ottavo.
Berlino Gotthold Leissing, De O., Berlino. Masson, Vita di O..Leida Eichstedt
, Critica ed osservazioni stille opere di Orazio. Jena, Eusebio Baconiere
de Salverte. Osserva- zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa-
rigi, Cristofaro Martino Wieland, Traduzione delle opere di O. con note. Berlino.
Morgesten, Le satire e le epistole ora- ziane. Un volume in quarto,
Lipsia. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- cesi che convien
notare: C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione delle odi di
Orazio in versi francesi con biografia ricavata da vecchissimo
mano- scritto. Andrea Dacier, Horace. Opera
latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, Più sopra
mentovata, essa può definirsi una delle più dotte e belle edizioni
delle opere del poeta. Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon,
Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- ne, Daru, Ragon, Duchemin,
Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, Lacroix,
Dabner, Boileau, e l'insigne poligrafo barone Walckenaèr, che nel 1840
compilò una Storia della vita e delle poesie di Orazio, Parigi, due
volumi in ottavo, opera dottissima ed insuperabile. E
redizione grandiosa del Didot del 1855 in Parigi, con tavole topografiche
e note e biografia, che può asserirsi la più perfetta edizione del
secolo. Riproduzione con ag- giunte di quella suddetta del 1799.
E TRA GL’ITALIANI: Metastasio, Leopardi,
Algarotti, Corsetti, Bertola, Galiani, Alfieri, Cesari, Tommaseo, Cesarotti,
Pagnini, Salvini, Pallavicini, Colonnetti, Bindi, Gligerio Campanella,
Rocco, ed altri molti scrittori di comenti e studii e saggi
critici. Ma in Italia tra le molte traduzioni delle opere
oraziane, la più perfetta e completa è quella del marchese Tommaso
Gargallo, e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa, facendo
risaltare la bellezza della frase oraziana, tale ammirevole letterato ha
cercato inciderne il concetto, abbellendola con versi
armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla musa stessa del gran poeta
venosi no. Mi sono avvalso in questa mia opera ap- punto
della traduzione del Gargallo, principalmente in quei passi della storia, nei
quali era necessario dar luce alla dicitura con le stesse parole di
Orazio, le quali forma- no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi
massimi del poeta : « Jamais homme n'a donne un tour plus heureux à la
parole Pour lui /aire signifier un beau sens, avec brteveté et deli
e atesse. » ^') E perciò ser- vendomi dei versi sublimi frutto del
forte ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua italiana ,
per illustrare uno dei più grandi italiani, ho creduto far còsa grata
ai miei concittadini, ai quali, per questo mio lavoro, chiedo venia
e benevola approvazione. M^ihr^^yrj&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; Da1
Municipio di Venosa venne emesso il seguente proclama: L'idea di onorare
la memoria deità orientale anteriore r^( 212
y»^ all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che
nelle notizie sull' etimologia del nome della città di Venosa si disse da
Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M. Farao, nella
lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Napoli),
ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte molte
preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del
frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in
una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal Pratillo,
dal Corsignani, dal Lupoli , dal Cimaglia, da Mommsen e da altri storici
e raccoglitori di sigle, che viene così tradotta : MbKCUKI
tMVIC. 8ACR. pro salute Pbassbmtis mostri Agaris
Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di corniola
incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla famiglia
Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- nata sua opera, che raffigura
Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al
disotto la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag-
giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò aver piena
conoscenza di Venosa antica studii e pon- deri r e Iter venusinum » di
cosi eccelso scrittore. Il tradurre in buona lingua italiana tale
stupenda opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa e
meritoria. (4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati, Cicerone.
Op. Lib. IV. Atl Herennium. Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip. Gargallo
Tonìmaso — Traduzione delle opere di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode
28.*" Idem Loc. cit. lib. i.* satira * Guerrazzi G. D.—
Orazioni. A Cosimo Delfante. r^- (io) Gargallo. Trad. di
Orazio, lib. 3* od^ i.* Della nobiltà venosina. — Non è conveniente
avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della nobiltà
venosina, perchè erroneamente si attribuisce al Summonte quel brevissimo
e misero accenno sulla to- pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e
privilegi annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per
mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece inserire dopo
Topera del Summonte « Istoria della città e Regno di Napoli » un
trattatello intitolato « Raccolta di varie notitie historiche >,
mentre con precisa diffu- sione si rilevano ragguagli in altre opere di
altri autori. Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte
ci- tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in Napoli, redatto
nel terminare del 1500, e che vuoisi opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna,
venosino, essere stata tradizione dei vecchi, che le mura della città di
Venosa, mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im-
portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu- cullo, il
celebre milionario del tempo dei Romani, e che fii lui che fece
trasportare in Venosa buon numero di statue e preziosi marmi serviti di
decorazione ai monumenti di quell'illustre città, sicché videsi
creata per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una
carica onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli,
siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non però dal Cenna
suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- stenti in Venosa. Bemusbi. MOMUMRNTUlf. POBLICX. rACTUM D. D.
M. MUTTIBMUS. L. F. C. Vibius . l. F. M.
Bfsssius . F. OB F. M. Camillius .
HONOREM. l. F. >•- M. Mumnius « L*.
F. C. Vmn» . L. F. n . Vis . J.
D. Statuas . KZ D. D. Rbficivmdas
e. Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte
dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po- che nobili
famiglie romane, dalle quali poi derivarono quei componenti la nobiltà
fiorente, che sino all'inva- sione dei barbari formavano il lustro di
quella bellissima terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella
nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 e proseguendo
poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei prìncipii del secolo presente,
si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà da potersene fregiare con
orgoglio. I sovrani che si successero nel regno di Napoli
arric- chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie,
tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore Ludovico I con la
quale si definiva non poter Ve- nosa venir data in feudo ad alcun signore
o barone del regno ( il che poi per la instabilità di fede o per
fini politici dei sovrani che si successero, non venne man- tenuto,
siccome ad altre città è avvenuto), ma restar dovesse autonoma e libera
di sé, governata dai suoi patrizii illustri, scelti dal popolo.
E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora in Venosa, vi
mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe- derigo, a visitarvi quei
gentiluomini, ai quali poi diresse la seguente lettera : e Nobilibus et
egregiis viris univer- « sitatis et hominibus civitatis Venusii,
fidelibus nostri e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi
de- [E già precedentemente Ludovico II, il giovane, imperatore
d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle soflerte
devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica lapide
esistente nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che Pirro del
Balzo avesse edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello
splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ceneri di Guiscardo e di
altri sommi guerrieri e duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di
Malta, il che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu-
Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì L'iscrizione è la seguente:
StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM FUKHIS
Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E nella venuta in
Venosa (riporta sempre il Cenna) del cardinal Consalvo, i nobili venosini
si mostrarono magnifici e splendidi quanto dir non si può, e
formarono un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed
illustri del regno. In detta accademia presedeva lo stesso
cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o
MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa [Porfido venosina,
(volgarmente oggi Montalto) che rappresentava l'Olimpo. E che la
nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita insigne per tutto il regno,
convien trascrivere quanto riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista
del 1500 per quanto disadorno scrittore : e così si
enumerano molti doni che i sovrani solevano assegnare, per
testimoniare fatti di valore e degni di stima e compenso.
Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine riportate dal
surriferito Cenna, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani nella
sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae Historica monumenta selecta >
edita, come si disse, ^el 1723, che rimontano sino al precedente secolo
deci- mosesto: Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte
di Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno di Napoli,
e condottiere di cavalieri venosini, del quale diflusamente parla il
Giannone, nel quarto volume della sua Storia civile del regno di Napoli
ed altri storici. Deitardis. Gomiti.
Plumbaroli. — Da cui derivò un Corrado Plumbarolo, duce preclaro di
cavalieri venosini sotto i re aragonesi. Maranta. Che ebbe
tre giureconsulti insigni, lu- minari del foro, nel 1600, e due illustri
vescovi, dei quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il
Gian- none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa e
celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, agitata tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero
Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. Da essa derivò quel Jacopo Cenna
definito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L D. e si dice
autore della cronaca antica di Venosa, che, manoscritta, si conserva
nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Cappellani. Una Laura
Cappellano fu madre del celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui
padre era nobile nolano. Porfidi. Celebre famiglia fregiata
del titolo di conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa
Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di Venosa, Ludovisio,
nipote di Gregorio XV. Fenice. Solimene. Casati,
Consultnagni. Giustiniani, Caputi,
Simone. Moncelli. Costanzo. Famiglia proveniente da nobili
vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui nipote
sposò nel 1641 1' U. I. D. Rapolla della nubile famiglia Rapolla di
Venosa, dei quali il figlio Nicolao fu nel 1693 protonotario
apostolico. De Bellis. De Luca. Da cui derivò queir
insigne cardinale Giovan Battista de Luca, onore della città di
Venosa, autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio.
Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta venosino. E Giordano Bruno o de
Bruni, figlio del nobile Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del
Tansillo (Gior- dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di
Gia- copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo, siccome
attesta Minieri Riccio) non è forse da questa famiglia venosina derivato Fioriti.
Tramaglia. Ttsct. Tommasini.
Palogani. Pagani. Balbi.
Sperindeo. Berlingieri. Violani. Gervasiis.
Orazio de Gervasiis fu il più insigne membro della celebre accademia
venosina, e poeta fa- moso. Abenanti,
Grossi. Protonotabilissimi, Capibianchi,
Campanili. Ferrari, Faccipecora,
Leonetto Troni, Antonello Trono fu esimio nella legale
palestra. Aloisiis, Rosa. Biscioni.
De Vicariis. Rapolla. Dalla quale derivarono il
Clarissimus D. Venanzio U. I. D. vicario generale — Diego ^ U. I. D. Il Corsignani
parlando di lui dice : « Romae triginta fere Annis Curiam laudabiliter
prosecutus in legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno
j*joi ex hac vita discessit. Donato U. I. D. — Ed il celeberrimo D.
Francesco giureconsulto, presidente della Regia Camera della Sommaria nel
1760, senatore del S. Con- siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri
del regio erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto
Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico Antonio
Muratori De jure Regni. Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo.
Vitamore. Moncardi. Lauridia. De Jura o
Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi.
Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine di Malta.
Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e dal Corsignani ,
due sole compaiono tuttavia esistenti in Venosa: la Rapolla e la
Lauridia. Della seconda di essa si legge nella cattedrale di Venosa la
seguente epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi Baptistab
Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili
Sbkbmsi Prognato MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS,
ThKOLOGICIS ASTIBUS OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB
ECCLBSIAB Canonicatu Insignito, humanab salutis Ann. oca.
abtatis suab xxyii ad Supbbos Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus
Fratbi DIGNI8SIM0 P E la famiglia Rapolla imparentata sin dal
1 566 con la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi
Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta neir ordine di
Malta, e con la Lauridia, conserva nella vetusta e stupenda cattedrale di
Venosa V altare gen- tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno
dei più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima alle
nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si ammira un quadro
pregevolissimo di S.^ Maria di Costan- tinopoli, e vi si leggono le
seguenti iscrizioni : Sull* altare : HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA. U.LD.
BT. HOR. DE. BELLA . A. EF. M. D. EQUES. DE .
ORDINE.VICTORIÆ .TISCI. EORVM. MATRIS. RESTAURANDUM. CURAVER .
BIDCXVI. àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO .
VSNO. FUrr . CONCESSO. VENANTIO . RAPOLLA . U . I . D.
PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT.
SUCCESSO . ET . PATRONI. CONSENSUS. ACCESSIT . Sotto l'altare:
SACELLUM . HOC. NOBIUS. FAMILIÆ . RAPOLLA . VENUSIMAB. . IN .
VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA. RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS .
RAPOLLA. Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li
Frusci di Venosa si rileva che
dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa, D. Saverio
Compagno, e del vescovo del tempo ed altri molti, nel monastero di Santa
Maria la Scala si volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e privilegiato
delle monache educande della famiglia Rapolla, e vi si fé* innalzare
inciso su pietra in fronte dell* architrave della porta che dà nel giardino di
tal luogo, (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia
Rapolla, la seguente iscrizione: CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO .
ABBB. U. I. D . AX.OISIUS. Rapolla. Patritius. Vbmosinus. EkBGI.
CUItAVtT CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB. Rapolla. Momcalis •Profkssas.
suak. kx. rmA-ntc. MXPOTXS. OmnOMQUB. SDCCBSSOBUM. DB.
FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS. OCCIDBBIT. La casa
Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente, tanto che nel 1807,
essendosi recato a visitar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del
reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran magnificenza per
due giorni con tutti i generali e gli altri personaggi della sua
splendida corte, dal nobile Venanzio Rapolla, al quale rilasciò certificato di
sovrano comt>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo-
luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repubblica partenopea, e
tornato da poco tempo da emigra- zione politica in Francia, accettare
titoli, onori od altro compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua
opera « Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La
Venouse moderne à, malgré sa faible population, con^ serve quelque chose
de plus que son nom et sa position antique^ pouisqu* elle est le siege d'
un eveché, Ormai ò noto, ed il
Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche degli antichi e presenti
tempi della città di Venosa Potenza^ tipi Favata e Frediano Fiamma, rettore
del seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necrologia del
nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini) riportano, che essendosi
disposto di trasportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, con
grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Venanzio Rapolla tanto seppe
destreggiarsi ed agire nella capitale del regno, ove venne trattato
l'affare in Consiglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far
distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese a tale scopo più
di lire ventimila, che non volle per sua generosità gli venissero
rimborsate. Veramente nobile animo ) Splendido esempio di filantropia Riportata
da M. A. Lupoli nella sua opera quel preclara gentiluomo, mio defunto
genitore, nobile Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel
di- stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto
parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di miglio, mentre si
attendeva allo scavo di arena in una grotta messa sul ciglione di una
collina verso oriente, sovrastante al fiume che scorre nella
vallata sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è
rinvenuto un lungo corridoio con altre strade laterali, con una quantità di
sepolcri scavati nel tufo, coperti da grossi mattoni antichi, con delle
iscrizioni indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui
soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo si dice il
Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno ad esso dei resti di
fabbriche che indicano come un forte nucleo di abitanti viver doveva in
tale spianata , che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di
Magdala, ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la loro
necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- tezza arguirsi che
Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che si estendevano verso le colline,
che oggidì diconsi Monte e Montalto sino al fiumicello divento, formava
una va- sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai
tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue e nobiltà, e
conservossi tale sin presso al 1500, quando andò mano mano
assottigliandosi per danni solTerti dai tremuoti, dalle pesti, dalle guerre
e dall'aprirsi dei diversi sbocchi a centri che cresceano in importanza,
gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E venne
tanto assottigliandosi da divenire un tempo un borgo, fortificato però,
di poche centinaja di fuochi, sinché poi non risorse a novella vita. Quei pochi
fieri abi- tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde
la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- no però
sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine. In essa nacquero
e vissero baldi guerrieri, come si disse, e letterati insigni e sommi
giuristi ed eminenti ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di
genio, de- stinati a grandi imprese. L' antica grandezza
lasciò uno stampo in ciascun abitante di tale ameno e forte luogo.
Ciascun abitante porta con sé una particella dell'aura divina, che
emana da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle e
feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii antiqui^ sostiene
essersi coniate in Venosa delle monete raflìguranti Giove che gitta
fulmini. Come esprimere me- glio figuratamente la potenza della città di
Venosa ? Oggi Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri-
fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a poche città
meridionali d'Italia. Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di O.
— Lib. i." sat. Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua ode
quarta del libro terzo ed il « pios errare per lucos > han dato
campo a non poche dispute tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra
gli altri per- sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita
una balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del pargoletto
prese parte, tenendolo addormentato in su le ginocchia, fuori la porta
della sua casa rurale in Ve- nosa. Gargallo traduce : Da
pueril trastullo Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia
-«( 232 )»- De r Apula nutrici, amar
faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie Tutu a nuazi
arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli.
Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar appulo oltre la
soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si chiarisce che T Apula nutrice
per Orazio era Venosa , usando il tutto per la parte, cioè la Puglia
Daunia. Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia
Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re- gione del
Vultore, mentre il Vulture era situato nella Puglia Peucezia , quindi
fuori dei confini della Puglia Daunia, patria di Orazio. Con tale
criterio resta dilu* cidato questo passo di Orazio, il certo un po'
oscuro per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È certo
che O. intese parlare, nominando il Vulture , della catena appenninica
minore dopo il Vulture, cioè i monti alle cui pendici Venosa era situata,
che in quei tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona
parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.). Infatti accenna
in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- sque bandinas\ ad Acerenza
{celsa nidum Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti
luoghi che fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra-
scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse inteso
parlare delle pendici del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe dovuto
far cenno di Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se
non esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro della
pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia o zona di terra
abitata, come la Rendina attuale, ove la taberna celebre è anteriore
all'epoca romana della quale si discorre. Del Vulture hanno
ampiamente e dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul Vulture),
Daubeny {Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia— Oxford), il
prussiano Ermanno Abich, L.. n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag.
250, Tipi Di Angelis — Napoli, XTobiltà e 1)0rgh68ia —, Tifi
Tarnese — Napou, Uemorìe storiche di Portici — Stabilimento Tipografico
Vesuviano — Portici, Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo
Dei Conti Sì Bavoja— Tipi Giannini — Napoli.
ì Quinto
Orazio Flacco. Orazio. Keyword: Il Giardino. Luigi Speranza, “Grice ed Orazio”
– The Swimming-Pool Library. Orazio.
Grice ed Ordine: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diamante).
Filosofo italiano. Diamante, Cosenza, Calabria. Professore a Calabria. Rriconosciuto
come uno dei massimi studiosi del Rinascimento e Bruno. Ben noto ai lettori per
i suo eccellente saggio su Bruno, è anche uno dei migliori conoscitori attuali
del milieu sociale, artistico, letterario e spirituale dell'età del
Rinascimento e degli inizi dell'Età moderna.Sigillo d’Ateneo dell’Urbino.
Centro di Studi Telesiani, Bruniani e
Campanelliani. “L' utilità dell'inutile” (Milano, Bompiani). Opere: “La cabala
dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno” (Teorie & oggetti, Napoli, Liguori,
Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo); “La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia
e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard
e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria
della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re. L'impresa
di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la vita. Una
piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo, Gli
uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di
Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was
a PRIEST before he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a
priest, as A. J. P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher.
Campanella was a priest too, and I’m not sure about Telesio. I mention the
three because while there is a Keats-Shelley Association in Rome, only the
Italians can think of ONE centro di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI –
enough to have a triple split personality!” Nuccio Ordine.
Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso, risus significant laetiia
animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi telesiani, divenne centro
di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! – telesio not a priest!--. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita dell’utilitarismo di Geremia
Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Orestada: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean cited by Giamblico. He frees Senofane from slavery – as cited by
Diogene Laerzio.
Grice ed Orestano: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’opzione eroica – filosofia
siciliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo italiano. Alia, Sicilia. Self-described
as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something pompous about Italian
philosophers and their isms – Orestano’s ism is the superrealism!” Grice: “When I was invited to deliver my
lectures on the conception of value, I was hoping it was a first, but Orestano
had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti
nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre
vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato
da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in
contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore
d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si
ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera
principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della
Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed
Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una
scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”,
Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma,
Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di
pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di
popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano,
Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di
Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e
del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà
europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano,
Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano,
Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca
Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca,
Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova
Europa” (Milano, Bocca); Prolegomeni
alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano,
Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano,
Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”;
“Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi
danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia
filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della
moda e questioni sociali, Dizionario Biografico
degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in Federalisti siciliani, A. R. S. Intergruppo
Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di
storia, in La politica tra storia e
diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può
raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante
per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale
di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio
della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di
valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti
concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI
VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le
quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola
dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di
volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le
variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE
ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più
importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO
DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore
di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il
valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL
DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE
al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno
si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore.
La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui
si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se
la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica
si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la
circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un
proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W
(99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al
danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per
quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y)
W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo
quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono
più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non
modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo.
L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce
aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce
grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora
aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che
sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione
dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del
valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO
(malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il
senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è
completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi
tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo
indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della
volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che
però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e
negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una
doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella
tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della
volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno,
a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze
dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si
avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è
risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa
volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma
positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale
negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra
loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi
comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in
principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra
l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di
questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande
interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo
interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a
un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore
morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non
tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del
valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le
costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g”
e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse
altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è
quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u”
pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F , 1
W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)=
0, lim W (ru)= 0 , , limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0
lim W (gu)= – 00. pure evidente, che
la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più
IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina
un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare
nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta
attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta
una costante “c” o “c '”. Queste formule
non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g =
00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C , lim W
(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra.
Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili
congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per
grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri.
Si avranno così le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' .
Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso
senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario.
Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per
esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora
si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di
meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI
LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande
ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c”
corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”,
più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule
diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo
punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per
semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)=
T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C
per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e
limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne
ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con
una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni
staranno, secondo la formula principale or ora ricavata, in un
rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale.
In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo)
o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE
E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto
più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o
inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece
quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di
detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui
scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1).
UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la
caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O
COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o,
come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e psicologicamente.
E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure in un'indagine
psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore etico è la
psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda direttamente
dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o categorica)
sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè, anche
ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva una
interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come sia
possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo
strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale
valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato.
Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo
fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme,
un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita
umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso
di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia
porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La
psicologia è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è
impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore
di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde
la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo
contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti,
consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo
morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si
suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni
sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non
rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per
riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo
scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non
può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a
determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge
argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e
necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie
di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia
nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti
psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li chiama
GENOVESI, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato
comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come
nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le
dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione
non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può
rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale
nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando
si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e
degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il
concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale
immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse
attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore
definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un
istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua
utilità, sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella
proposizione universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere
che i dubbii della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i
risultati che la psicologia ci potrà offrire non avranno valore di
modificazione del contenuto normativo della morale, ma bensì tenderebbero
a modificare il carattere formale di essa, come dottrina del dorer essere e
come scienza. Al Congresso medesimo Calò presenta una comunicazione intorno
alla Calderoni ritiene che l'assenza della ricerca e della sufficiente analisi
di quello ch'è il fatto ultimo e irriducibile su cui poggia tutta la vita
morale, il giudizio etico, ha impedito il costituirsi dell'etica come scienza.
Molto ha anche nociuto “la nessuna, o quasi, distinzione che si è fatta tra il
giudizio etico e il giudizio teoretico o conoscitivo, La morale deve invece
ricercare come ogni altra scienza, dei fatti ultimi, elementari, irriducibili
su cui fondare l'edificio autonomo delle proprie investigazioni. L'elemento
irriducibile, la realtà ultima, da cui deve prendere le mosse ogni dottrina
morale, è un fatto psicologico, un sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà
sempre al contenuto normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre
la psicologia intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le
conclusioni intorno al fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla
simpatia saranno negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione
presenta i caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti
sociali, oppure i caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la
valutazione etica e una gradazione fondata su altra base, non su quella della
realtà effettiva dei fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno
positive, l'etica, assumendole come sue proprie, avrà a fondamento il
significato psicologico e antropologico dell'umanità morale e potrà
scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine TAOROZZI ri-assume
il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere dalla scienza, e
che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano universale valore massime
conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’ “Ama il tuo prossimo.
Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un sentimento, d'un'azione,
d'una determinazione volitiva, tale giudizio si presenta alla nostra coscienza
con un sentimento particolare di approvazione o di disapprovazione. L'esame
retrospettivo ci dice, che quel giudizio non risulta da un meccanico
sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato (buono, giusto, ecc.),
dal paragone delle loro estensioni e connotazioni rispettive, dalla rivelazione
pura e semplice del loro rapport. Ciò che interviene, e ciò che più importa, è
il sentimento di approvazione o di disapprovazione, di adesione o di
ripugnanza. Qui si presenta un problema fondamentale. Trattasi di vedere se il
sentimento di approvazione o di disapprovazione accompagni semplicemente, come
effetto o come carattere, la rivelazione del rapporto in cui l'obbietto
considerato è con quel predicato. O se quel sentimento appunto renda possibile
la costituzione del predicato e quindi, mercè la capacità di riferimento
propria della ragione, l'enunciazione del rapporto. Questo problema non può
essere risoluto senza una analisi comparativa del giudizio conoscitivo e del
giudizio valutativo. E quest'analisi mostra appunto che, mentre nella funzione
conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto, nella funzione valutatrice è, al
contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere è constatare, attingere ciò che
è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello spirito non è di chi constata, ma
di chi reagisce. Non di chi afferma e riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge
qualcosa risultante da ciò che in lui non corrisponde, ma risponde alla realtà
conosciuta. E l'atteggiamento non di chi afferma o nega, ma di chi si
sovrappone alla realtà, o che le assenta o che le si ribelli, sia che lodi, sia
che condanni. Mentre, per il teoretico, il sentimento è un accessorio
trascurabile, per il moralista, esso è la vera realtà etica, poichè il senti
mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto di giudizio etico. In ultima
analisi, ogni giudizio etico si riduce ad approvazione o disapprovazione d'un
sentimento, d'un istinto, d'una volizione, d'un'azione. Ora l'approvazione e la
disapprovazione non sono che due speciali sentimenti, due forme diverse
d’uno stesso sentimento, il sentimento del valore. Il giudizio etico, dunque, intanto
è possibile in quanto si compie una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la
ragione valutativa ch'esso suscita in noi. E, insomma, questa stessa reazione
che costituisce tutto quanto noi diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto
come soggetto del giudizio. Si direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica
quanto e come vive nel senti mento valutativo. Questo poi varia e quasi si
determina e si atteggia diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e
di venta volta a volta sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico
o dei loro contrari, di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o
di stima di se stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che
ognuna di queste determinazioni del sentimento di approvazione e di
disapprovazione ha una sua individualità e che l'analisi di esse ci dà
l'analisi di tutta la coscienza morale. Il sentimento del valore, come fatto
fondamentale della coscienza etica, si pone a norma della realtà interiore e
dispone gerarchicamente i vari istinti e le varie tendenze. Un'altra sua
proprietà è anche quella di avvertire ogni atto che rappresenti un non-valore
come un'intima contradizione, il che dà luogo al sentimento particolare
dell'obbligazione. Il sentimento del valore è dunque di sua natura tale da
assumere, di fronte al resto della realtà psichica, un'attitudine speciale e da
contrapporre all'esistenza di fatto un'esistenza di diritto. Esso si distingue
profondamente dal piacere e dal dolore, perchè questi sono stati subbiettivi
interessanti semplicemente l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento
del valore è obbiettivo anche rispetto alla individualità del soggetto che
giudica. Il sentimento del valore oltrepassa la sfera della mia utilità o del
mio benessere individuale; sono io che sento, ma non perme. Altro carattere
differenziale è questo, che nei sentimenti di piacere e dolore lo stato
subbiettivo è confuso con l'oggetto della rappresentazione, mentre nel
sentimento del valore, l'oggetto è nettamente distinto dall'atto valutativo e
può essere rappresentato come obbietto di conoscenza teorica. Ciò ch'è
piacevole e spiacevole non esiste che nel sentimento e per il sentimento, mentre
ciò ch'è valutato è chiaramente rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è
insomma conosciuto. Non si può valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero
che la valutazione si presenta spessissimo sotto forma di preferenza e il
valore viene appreso comparativamente ad altri come plus-valore o come minus
valore. Sebbene il giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel
sentimento,esso non esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della
funzione conoscitiva, la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la
funzione apprezzativa. La grande varietà dei giudizi morali osservabile fra
individui diversi dipende appunto dal diverso modo come sono appresi e
considerati gli obbietti,dai diversi elementi che ci pone in luce la funzione
conoscitiva. Così, mentre l'analisi del processo della valutazione etica è
compito della psicologia morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni
morali si riferiscono non possono esser tratti analiticamente dalla natura
stessa dei nostri sentimenti di valore. Essi possono essere determinati in
parte in base alla considerazione di rapporti for mali della volontà, in parte
in base all'esperienza storica e sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative.
CALDERONI, nelle sue Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è
recentemente proposto di porre in rilievo talune concordanze fra le leggi
economiche del valore e della rendita e le valutazioni morali sociali. In tal
modo egli crede che l'economia politica possa apportare un contributo positivo
alla scienza della morale e aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale
può considerarsi, così Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate
richieste vengono fatte da taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli
altri, I quali oppongono a queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore
o minore, e richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi
di natura determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale
di approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, CALDERONI accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da CALDERONI
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli
individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono
perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è
possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento
di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso
di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni CALDERONI passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò CALDERONI vuole
opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia
morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a difettare
in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che
cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione;
mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria
e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto maggiore
è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni si
troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love
Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as
he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin
‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So
we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil for
alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be
reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows
who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do
I” --. Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione
eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della
nazionalita, l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe
carismatico, l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni.
Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.
Grice ed Oribasio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Marte, o la
scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. – Giuliano’s personal philosopher. He shares
Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises survive, as does paganism –
“Only you shouldn’t use that vulgar adjective,” as Cicerone says!” – H. P.
Grice.
Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale nella
logica della monarchia romana – i sette re – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Vallerano).
Filosofo italiano.
Vallerano, Viterbo, Lazio. Grice: “Only in Italy, a philosopher, rather than a
cricketer, is supposed to take part in a revolution and write a book about his
shire!” -- Fondatori della Repubblica Romana. “De' paragrandini metallici” (Milano, Fondazione Mansutti). Il padre,
medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente. La professione non
lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di filosofia nei seminari e
nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia, dove si laureò. Insegnò a
Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione delle Romagne;
successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di Bologna, che fu
sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria. Tentando di mettersi
in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro centinaio di
rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne catturato
dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco Bandiera
(padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari
furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse
per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando
sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse
l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue
attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò
un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della
Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in
riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica
molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di
Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi
italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di
prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani,
Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari,
Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono
questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano lo ha
onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella
del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla
facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale
di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi
di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia
Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Mansutti,
Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli,
schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano:
Electa, Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi,
«Lettere Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. -- rità assai leggieri, e, se
grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato
aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della
dignità regale nella città de’ sette colli, ha dovuto essere da me
corretta, e ridottasotto la forma seguente. La successione al trono mai non
appartenne in Roma a figliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre
a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi -- Numa, Servio, Tarquinio il
Superbo. Lo sposo della figliuola Maggiore e a tutti gl’altri preferito -- Servio.
Quando i generi sono morti, la successione passa ai primogeniti del primo
genero -- Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo
concerne; Anco Marcio. Quando si tratta di DUE RE, in luogo di un solo, e di quella
magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità regia,
parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi due
generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a
quello, secondo l'ordine legale DUE FIGLI DI GENERO --- REMO E ROMOLO -- Bruto
e Collatino. La figliastra del re e equiparata alla figlia nel dritto di dare il
trono al marito, o a’ suoi discendenti maschi, in un tempo in cui probabilmente
figlie proprie non esistevano -- Tullo Osti. Quando non v'hanno, nè generi, nè
figliuoli di generi, il trono passa a’ nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta
contingenza, come legittimi eredi de’dritti degl’ascendenti loro -- Tullo
Ostilio, se si preferisce l'ipotesi , nella quale egli è NIPTE D’UNA FIGLIA DI
ROMOLO -- maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne
tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la
dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la
memoria, è stato ugualmenle un genero di re -- Numa MARCIO -- ; due altri, ne'quali'
non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le
vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto -- i figliaoli d'ANCO --; due
di che solo si parla presso Plutarco se si ricusi di considerare l'Ersilia
dalla quale discende, come FIGLIA DI ROMOLO, e se si rispetta la tradizione,
secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più il padre adotetivo
della SECONDA ERSILIA. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far
valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue
figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema
autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramanda il suo grado
nell'erede necessario della moglie – BRUTO rispetto a LUCREZIO TRICIPITINO, suo
successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi
furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in
non cale i maschi, ricadde in una persona estranea, cioè non legata di piirentela
colla famiglia reale -- Tarquinio Prisco. Quando, non ostante l'aversi eredi
legittimi per parte di donna, una persona estranea consegue la dignità regia,
ciò avvenne contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio. Non altra è l'espression'
rigorosa de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti correggerne
la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se posso dirlo,
in nessun modo 'temeraria.' Le mie autorità , i miei ragiovamenti , non
sofferirono contraddizióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si volle
solamente avvertirmi che nel mio sistema sono alcuni fatti dubbiosi, e ricavati
per conghiettura. stato . co: Voleso e Proculo, sono stati proposti senza
gran fatto fermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità
di candidati, e sembrano avervi rinunziato essi stessi; finalmente sono messi
innanzi in un tempo nel quale tutto che concerne le leggi relative alla
successione regia era evidentemente suggetto di controversia, e dispuldvasi
intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io
risposta, io vi ho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni;
lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche
volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni
principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè
-- per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo
d'anui -- non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini,
sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised
on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their
unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the
consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed
him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to
oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there
are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. PATRIZIO
VITERBESE; CONSIGLIERE ORDINARIO DI STATO DI 3. S. P. DI M. MEMBRO DEL
COLL F1LOSOF. DELLA UNI V. DI ROMA, PROF. DI STOR. ANT. ED ARCHEOLOG.
NELLA STESSA UNIY fclA* PROF. DI FISICA NELLA UNIV. DI BOLOGNA CC. CC.
MEMBRO CORRISPOND. DELL* A. SC. MOR. E POL. DELL’lSTIT. DI FRANCIA,
ACCAD. BENED. DELL’ ISTIT. DI BOLOGNA , UNO DE'TRE SOCI ATTIVI DELLA
CL.DI LETT. DELLA REALE AC. DI SC. E LETT. DI PALERMO . SOC. ONOR. DELLA
IMP. E R. AC. DI SC. E LETT. DI PADOVA. SOC. CORRISP. E R. IST.
LOMBARDO DELLE SC. DI MILANO E DELL* IMF. E R. IST. DI VENEZIA , DELLA
AC. DELLE SC. E LETT. DI TOAINO...E DI MOLTISSIME ALTRE ACC. DI FRANCIA ,
GRECIA, E ISOLE IONIE , NAPOLI E REGNO , ROMA E STATI PONTIF. , FIRENZE E
TOSCANA , LOMBARDIA CC. CC. CC. : M l' ì(? 0
POLITICI j\r rro vjl Con giunte dell' A. NAPOLI
STAMPERIA DEL KIBRENO. Faites , mon garcon, faites, ré{K>nd lo vìeux
radicai, et dites-leur aussi à ces hotnwes qui ont cbassé et. ..et tous
ceni qui ont osé ex printer un mot de se ns commun et d'humanité, qui
lapident Ics prophètes et éteignent l’esprit de Dieu, qui aiment le mensonge ,
qui pensent ameoer le rógne de l’atnour et de la fraternité aree des
piques , des bouteilles de vilriol , aree le meurtre et le blaspbéme ,
dites-leur à eui et à tous ceux qui pensent comme eux qu’un
vieillard...dont les ebeveux ont bianchi au Service de la cause du peu-
ple..., qui contempla lecraquement des nalions en g'3 et qui entcndit les
premieri cria d’tm monde au berccau, qui, lorsqu’il était encore un
enfant , vit venir de loin la liberté et qui se réjouit en la voyant
comme devant une fiancée, et qui pendant soixante pé ni- bles années
, l’a suivie à travers les soliludes ; - diles - leur que cet homme leur
eovoie le deraie r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur
qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de leur r message
qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de
leurs convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur cetle
terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de
leur s passioni, les esclaves du premier coquin venu à la laogue
reten- tissante , du premier charlalan veuu qui dorlote leur opinion
pcrsonnclle ; dites-leur que Dieu les frapperà, Ics fera renlrer dans le
néa nt et les dispenserà jusqu’à ce qu’ils se soi- ent repentis ,
qu’ ils se soieot fait des coeurs purs et de nobles ames , et qu'ils aieut
re- lenu les lecons qu’il s’ efforce de leur donner depuis quelque
soixante ans ; dites-leur que la carne du pcuple est la cause de celui
qui créa le peuple, et que le malhcur toin- bera sur ceux qui prennent
les armes du diablc pour accomplir l’ceuvre de Dieu ? » Sandy
Mackate nel Romano Alton locke di Kingsley Revue des deux Mondes. DUE
PAROLE A CHI È PER LEGGERE Stampo ancora una volta , cedendo alle
lusinghevoli istanze di parecchi amici miei, questi Opuscoli , a'
quali m’è altresì parulo bene d' aggiungere qualche annotazione
nuova dove V argomento s embravami o richiederlo , o me- ritarlo.
Certo, che, s'io pongo mente, non alla benigna acco- glienza
soltanto , la quale a essi Opuscoli fecero que' che m' onorano da lungo
tempo della loro pregiata amicizia , e le mie povere cose hanno abito di
giudicare con molta indulgenza , ma sì a quel che altri , a me per lo
addietro ignoti, o ,per fermo, non congiunti d' alcun vincolo di
an- tecedente amistà, ne scrissero ne' giornali , o con priva- te
lettere me ne significarono , io debbo tenermi come ba- stantemente
ricompensato della quale che siasi fatica dura- ta nel comporre le pagine
che qui appresso seguitano. Tra coloro che più contribuirono alla
buona fortuna della mia impresa ho debito di noverare principali i dotti
e bene- meriti scrittori del Giornale che ha titolo — Civiltà
Catto- lica — E so la mina degli sdegni a’ quali questo atto di
franca gratitudine è per metter fuoco nel campo nemico , poiché campo
nemico non manca. Ciò non mi sarà impe- dimento al fare lealmente il mio
dovere di render loro pub- bliche grazie. . II
Giornale — la Civiltà Cattolica — è a troppi , e in troppe sue parli un
osso non poco duro da rodere. Nel di- fetto d' argomenti logici , si può
a libito dirigere contro al valoroso drappello de' dieci o dodici
campioni che vi brandiscono cotidianamenle la penna, batterie, da
ogni lato , di que’ pessimi argomenti rettorici, che si chiamano,
in arte , argomenti ad odium , e ad invidiam : resisterà però illeso ed
invulnerabile agli strali spuntati de' loro sar- casmi , come le legioni
romane restavano salde ed immote agli urli co' quali i barbari , nella
loro impotenza , ten- tavano spaventarle. Quando si sarà detto e ridetto
, fa- cendo l’ alto dello scherno e del vilipendio — È opera dei
rugiadosi — che si sarà provato con ciò ? Si sarà lascia- ta una prova di
più della misera e svergognata dialettica del nostro secolo, rotto a
tutte le perversità, ed avvezzato- si a dare alle villanie valore di
ragioni. Tornando al mio proprio libro , censure fino ad ora
, le quali valgano la pena d’ una speciale risposta, non le ho
vedute , nè udite. Sunt quibus in
dictis videar nimis acer, et ultra Legem... e
, rileggendo a mente fredda , conosco l' acrimonia di certe espressioni ,
la qual forse sarebbe stato meglio tem - perare un po' più. Tuttavia ,
ben ponderata ogni cosa , ho creduto dover lasciare tutto come stava ; e
ciò , in pri- mo luogo, perchè questa in somma è una ristampa , la
qual non dee mentir al suo titolo ; in secondo luogo , perchè , al
postutto , muri può dire che , contro ad alcuno sin- golarmente, abbia
combattuto e combatta con armi ripas- sate alla còte samia. Il mio
proposito fu ed è, non di fa- re duelli, ma battaglie. Le persone io le
ho sempre rispettate e le rispetto , perciocché ho voluto , e voglio ,
esser libero ( ed esco ornai dalla metafora ) di trattare /’ errore
pervicace e spavaldo con tutta quella severità ed austeri- tà di forme
eh' et merita , e che un uomo , , il quale ha sentimento di sua dignità ,
rifugge dall’ adoperar contro all’errante. L’errante è, quanto alla carne
ed allo spi- rito , consanguineo e fratello nostro. Niun può sapere s'e
i non sia più presto un fanatico ed un illuso , che un perver- so ,
od almeno un gran perverso. Ha sempre diritto al fare in sé rispettare la
santa emanazione del soffio divino ri- cevuto , od ereditato , nella
fronte. È sempre la creatura celeste, che, se cadde , può rialzarsi , e
che, quand’an- che , per propria colpa, è in terra , e più al basso che
in terra , esser dee per noi , più ancora subbietto di compas-
sione , che obbietto di collera. Ma V errore staccato dalla persona , l'
errore lasciato in tutta la sua schifosa nudità, non ha diritto ad alcun
riguardo , e vuol essere trattato senza discrezione , senza misericordia.
Quanto a colui che avendolo in sé incorporato, sé da quello non
distingue, ed a sé stima dette le ingiuriose parole, che quello solo
feri- scono , tal sia di lui. Più di cosi non aggiungo. E
forse non era nè manco necessario dir così : tanto più , che , nell’
antica prefazio- ne , ciò stesso, comechè più brevemente , aveva significato.
1 discreti perdonino. Gl'indiscreti riconoscano che queste ciance
premesse per lo meno non hanno il torto della pro- lissità. wmmm
PARERE D’ UN AMICO INTORNO 11 MIO SAGGIO
Ho Ietto attentamente la prefazione , e le due dissertazioni vostre. Io
credo che abbiate ragione. Avete però del pari prudenza? - II mondo è
oggi troppo malato. Certe verità dette con durezza qua e là soverchia
fanno l’effetto del dito stropicciato sulla piaga viva. Il meglio che vi
possa accade- re è di non esser letto. Se leggeranno , le grida saranno
al- te .... terribili. Perchè stuzzicare il vespaio? Ciò non è de-
gno della vostra vecchia esperienza. Il passato non vi ba- sta?
Pensateci. RISPOSTA Ho pensato .... e stampo la
prefazione, e le dissertazio- ni. Le considerazioni che mi schierate
innanzi hanno molta verità, ma non mi rimuovono dal mio proposito.
Jigitized by Google La prudenza ! - Sta ottimamente. La
prudenza è però spesso il soprabito della vigliaccheria ; e in questo
caso non è niente altro che un belletto dell’egoismo. Per non
incorrere nel male proprio .... per non turbare la propria pace .... per
non tirarsi addosso disturbi o peggio .... per non guastar, come suol dirsi, i
fatti suoi, s’ban da lasciare, senza darsene per intesi, le menti umane
sem- pre più travolgersi , le opinioni sempre più corrompersi ,
certa gente accrescer la pervicacia nell’errore, e propagar- lo a tutto
potere. Sentendosi bollire in corpo la verità utile, ed
affacciarlasi alla bocca , s’ha da ringhiottirla , o sputarla ( scusate
la pa- rola ) nel fazzoletto e poi rimettersela in tasca, quand’an-
che s'è persuasi, che a gittarla là alla palese sarebbe bene ; che questa
verità messa in pubblico sgannerebbe alcuni r eh’ essa suonerebbe alto
all' orecchio d’altri, e servirebbe a svegliarne il coraggio addormentato
, o gioverebbe almeno a restare come testimonio a’ futuri che v’è, pur
tra noi, qualcuno , il quale ricusa le complicità , protesta virilmente
contro alle cattive e rovinose dottrine, se ne sdegna com’è il suo
debito, ed è disposto a mostrare, che chi sproposita e minaccia scompigli
e rovine, invano si confida d’avere il monopolio della franca ed ardita
parola. Io vi ringrazio, caro amico: ma voi m’amate troppo.
Non pensando , che al mio privato materiale vantaggio, ave- te
dimenticato a mio prò il resto del mondo. Io sento d’ a- marmi men di
quel che voi mi amate. Intendo benissimo , che scrivere com’ io
scrivo , è pre- pararsi disgusti .... e forse peggio. Ma considero ch’io
son vecchio, e nell’ ordine naturale poco ancora mi resta a vi-
vere. La mia povera e caduca persona non è ornai di tal prezzo che siavi
interesse per me a risparmiarla. È lungo tempo da che ho perduto il sapor
delia vita , e che le sue dolcezze non mi fanno gran gola , nè le
amarezze grave of- fesa al palato. La lode è un amo che non mi passa la
pelle. Il biasimo ( dove creda non meritarlo ) è un’ortica che non
mi punge. La minaccia è contro a sì poco che a tenerne con- to è una
miseria. Di me sarà quel che piace alla Provviden- za. Nella minuzia di
tempo che a vivere mi rimane , vorrei pur fare il bene nella maggior
misura che posso, a qualun- que mio costo. E poiché il pubblicare queste
mie carte mi sembra, che o in una guisa o nell’altra qualche bene
possa recarlo, perciò le pubblico. Al mio male quale che siasi,
dunque, non ci badate, com’io non ci bado. Fate conto ch’io sia soldato.
Sarebbe pur bella che al soldato si consi- gliasse di pensare alle
ferite, alle quali battagliando s’es- pone ! Per altra parte,
a me tocca ricomperare il tempo perdu- to, ed affrettarmi a farlo. Troppo
mi dorrebbe il lasciare di me tal memoria in questo mondo che dia giusto
diritto a suppormi quale certe antecedenti particolarità della mia
vi- ta possono aver fatto credere ch’io mi sia. Non nego, e
sarebbe ridicolo il negarlo, d’avere avuto anch’io le mie politiche
illusioni ( certo però non quelle di gran lunga , le quali oggi corrono il
mondo , e sono in gran favore presso tanti ). Sento il dovere di far
conoscere a qualunque prezzo ch’io non sono mai stato da confondere
col più de’ cosi detti liberali d’ oggidì, e che istruito ornai io-
ti all’ esperienza, non sono nemmen da confondere con quel- l’io che già
fui, e molte mutazioni ho in me fatto. Costi ciò tutto che s’abbia da
costare al mio amor proprio, vo- glio che Io si sappia. Gli altri posson
tacere ; io non lo pos- so, nè Io debbo. E so che dirassi da
taluni ch’io adulo que’che regnano. Veramente crederei che tutta la mia
vita passata m’avesse da essere scudo contro alla bassezza di questa
accusa ; tanto più che quegli stessi i quali la daranno (dove tuttavia
que- sto ardiscano ) , dovrebbero ricordare , se quando essi re-
gnavano pur testé , io li adulava. Sarebbe avere aspettalo un po’ troppo
tardi a mutar natura. . . . Ma voi dite eziandio , che il mondo è
troppo malato , e che le sue piaghe non vogliono esser toccate com’ io qua
e là le tocco , senza molta discrezione. Caro amico ! la vostra
seconda proposizione distrugge la prima. Se accordate che la malattia del
mondo è grave , pretendete voi di curarla coll’acqua di gramigna? Eh si:
vi son medici che non curano le malattie, ma si contentano di guardarle.
Se morte soprav- viene, tanto peggio pel malato. Il medico se ne lava le
mani. Io non sono di questa scuola. Vi sono piaghe che han fatto il
callo, evoltano tutta la malignità aldidentro;ed allora l’arte insegna di
trattarle col caustico. Si fan cerimonie, e si ri- sparmia la sensibilità
quando il male é leggiero; e questo , per vostra confessione , non è il
nostro caso. Da ultimo io vi prego a considerare ch’io mi guardo
scru- * pelosamente dall’attaccare le persone. Il mio
dogma é - Parme personis , dicere de viliis. Contea il male non mai
congiunto al nome di tale o (ale altro, credo mio diritto, e
Digitìzed by Google — li — mio debito scagliarmi con
tanta più veemenza quanta mi sforza ad usarne l’animo grandemente
commosso. Delle per- sone io non sono, non voglio, e non debbo essere il
giudi- ce; nè v’è il prezzo dell'opera ad esserne il pubblico accu-
satore. Per altra parte il pubblico non perde nulla per ca- gione delle
mie reticenze. Le persone s’accusan da sè. La loro moda è di non
dissimulare quel che pensano , quel che vogliono, quel che van
facendo. Per chi’ scrivo? Pei popolo? Il popolo non legge. Tra que’
che leggono , gli uni non han bisogno di leggere ciò ch’io scrivo ,
perchè ciò eh’ io scrivo è quello che essi me- desimi scriverebbero se
avessero a scrivere. . . quello che sanno già , e di che sono persuasi
tanto quanl’ io lo sono. Gli altri , nel maggiore lor numero , son
oggimai venuti a tale, che, quand’anche io fossi aitr’ uomo da quel che
so- no , cioè, quand’anche fossi più eloquente oratore di De-
mostene e di Cicerone, e più stringente ragionatore di Zeno- ne, e d’
Aristotele , non si lascerebbero smuovere dalle opi- nioni loro, delle
quali han fatto carne e sangue. . . una (falsa) religione... un culto...
una necessità... una parte prin- cipalissima , e la più soave, delia lor
vita interiore ed ester- na. Ove fosse pur possibile che consentisser
d’aprire gli occhi dell’ intelletto alla luce de’ ragionamenti , e si
lascias- sero illuminare nella cecità alla quale son venuti di
deli- berato e volontario proposito, e vedessero, perciò vinti, il
bisogno d’ abbiurare la politica fede in che Guor vissero e giurarono di
morire , non oserebbero farlo, vincolati, come sono (impavidamente diciamolo),
alle sette che li tiran- neggiano e ne tengono in catena ogni libertà.
Cosi , solo a pochissimi , posso io rivolgere la parola con qualche
spe- ranza che sia per tornare non inutile; e son que’ pochissi-
mi, i quali non tanto innamorarono del creder nuovo, che di questo
credere abbiano a sè fatto una passione , e non un legittimo atto della
facoltà intellettiva, al quale sian giunti per lavoro di ragionamento ,
soggetto , come tutti i legittimi atti di ragione , alla necessità di
sottostare alle leggi che governano la potestà raziocinante , e che
debbono dominarla. Io m’inganno però anche rispetto a essi
ultimi. Noi vi- viamo in un secolo , nel quale la ragione stessa è come
mor- ta dell’abuso che se n’è fatto esagerandone i diritti , e fal-
sificandoli. Due già erano , dal tetto in giù ( e voglio dire nelle
que- stioni dove rivelazione non ha luogo ) gli elementi neces-
sari — coessenziali.... tendenti a rafforzamento reciproco, per dare
fermezza alla morale governatrice delle volontà e delle azioni umane,
ragione (d’individuo) , ed autorità (col- lettiva dei più savi , la cui
ragione siasi guadagnata , per ogni correr di secoli , maggior fede
presso l’universale, che le spicciolate ragioni di tale o tal altro o di
stuoli compara- tivamente piccoli, e d’un opinar dissonante ). Il qual
se- condo elemento ( l’ autorità ) è dunque ( a ben considerarlo
nella sua vera e giusta natura c quiddità ) ragione aneli’ es- so, ma una
ragione preponderante e superiore , come quel- la che non è il giudicare
soltanto d’ alcuni separatamente presi , e ristrettisi nella lor propria
e privata impotenza , fallibilità e pochezza, ma è la quinta essenza
delle ragioni dei più ( chè questa sola, dai tetto in giù, pur sempre ,
in certe questioni di senso comune , è l’ autorità vera o legit-
timamente sovrana ). £ dico dei più , o sia che si contino nel numero, -o
che si pesino nel valor loro intellettuale: i quali perciò , quanto son
maggiore stuolo nel lor consenso prestato a equipollenti sentenze ....
quanto rappfesentan meglio, colla lor somma , tempi e scuole e popoli
diversi... quanto hanno maggiore e più costante comunion di pareri,
non ostante la diversità di sangue, di luogo, d’educazione, e di tutte le
secondarie influenze, tanto fan più sicuramen- te una forza morale, clic
è forza di natura, non d’arte , e che è qualche cosa più potente e più
salda che la tanto og- gi predicata sovranità del popolo; poiché èia
sovranità, non d’un popolo, ma la sovranità della specie umana
tutta intera , esprimente il suo voto colla più legittima e la più
autorevole delle maggioranze possibili ad ottenersi. Or noi, uomini
del secolo XIX, de’ due soprannominali elementi, uno e il più gagliardo,
ripudiammo... Y autorità-, ed abbiamo chiamato sovrana unica la ragione
(d’individuo), cioè V anarchia! Noi , tutti o quasi tutti
(dico noi ragionatori nel popolo , e consenzienti a ragionamento )
abbiamo stabilito in cuore questo primo articolo del nostro atto di fede
politica. Io non crederò mai che quello che persuade il mio proprio
in- telletto; e quel che pèrsuade il mio proprio intelletto io io
crederò conira ogni persuasione degli altri , contra ogni dot- trina di
sapienti o di popoli , contra ogni sperienza di pre- senti, di passati ,
o di futuri, contra ogni domma di reli- gione, contra ogni legge di
governi... E stabilita una volta questa democrazia delle fedi...
decretato anzi , che, in ar- gomento di fedi d’ogni genere , non è
governo alcuno pos- sibile, ma gli uomini han tutti naturale e
iualienabile di- ritto d’indipendenza reciproca ed assoluta . . . dove
ornai vassi , ed a che? posto che le fedi , cioè le persuasioni
del- l’ intelletto , sono il perno, sul quale s’appoggiano per muo-
versi le volontà umane. C’è più possibilità di leggi? C’è più speranza
d’obbedienze, altre che tirate colla forza ma- teriale? C’è più virtù di
logica? C’è più società ? (1) (li ISullius addiclus jtirare in
rerba mtigtstri ama ogni giovane dire di sè slesso uscito ap|»ena dalle
scnole di quella filoso- [Persuadetemi , noi diciamo , e mi piegherò ad
obbedire , senza combattere il vostro comando con ogni mio mezzo.
Persuadetemi che quel che m’insegnate è vero, e quel che lia , che
oggi , sotto Dome d’ eclettica, invade un grandissimo numero di scuo- le
, e quel eh’ è il peggio , anche colla innocente approvazione , e sotto il
pa- tronato , di maestri ottimi , i quali mostrano di non aver ben
compreso a quale indirizzo con ciò guidano gl' illusi discepoli. Se
l'avesser compreso , si sarebbero accorti , che professare eclettismo è
professare la negazione d’ogni vera certezza, riducendo quella maniera di
certezza , che pur si concede, ad un fenomeno d’individuo senz’alcun
valore per gli altri individui liberissimi di preferire ciascuno la stia
propria certezza alle opposte altrui , comechè d’un numero quanto sì vuol
grande, c consenzienti in una medesima oppo- sta sentenza.
L'eclettismo non è una filosofia, ma una negazione della filosofia
quale scienza altra che opinativa. Essa è anzi peggio che ciò , perchè
mentre nega una certezza intrinsecaad ogni filosofia d'individuoo
d’individui (per numerosi eh’ essi siano nel consentimento ad una stessa
filosofìa) , e mentre non s’ av- vede , che con ciò viene a negare, per
conseguenza, ogni autorevolezza in- trinseca a tutte le certezze
individuali, confessandole tutte intrinsecamente incerte , accorda non
pertanto a ciascuno il diritto di fidare nella propria certezza , e ,
quel eh' è il più, il diritto di regolare le proprie azioni a detta- to
di questa incerta certitudine : ciocché viene a dire , che , nel tempo
stes- so nel quale afferma la fallibilità di tutte le certiludini
individuali, afferma nondimeno f infallibilità loro nell’ applicazione
all' individuo , dando a esse il diritto d’ingannarlo , e all’individuo
il diritto di seguitare unicamente que- sta guida fallace, quando , a
proprio esame , non gli paia tale. E cosi , in luo- go d’ una morale ,
viene a stabilire e farne legittime tante quante piu vuoisi o non
vuoisi. L'eclettismo non è nè manco un metodo, come alcuni
spropositando dis- sero , perchè non indica- una speciale strada da
seguire nella ricerca del ve- ro. Esso è niente più che una professione
di libertà e d' indipendenza nell’opi- nare ; è un assoggettamento a
niente altro , che alla ragion propria. Filosofia eclettica è
parola che non ispiega nulla quanto alla natura delle dottrine. Dice solo
che il libro , il quale reca in fronte questa parola , è scrìt- to
seguitando il dettame della ragione dello scrittore , fattosi giudice
supre- mo d’ ogni ragionamento ed opìuamento altrui. Cosi , tutte le
filosofie , per diverse che siano , c 1’ una all' altra contraddicenti ,
possono intitolarsi , del pari, eclettiche, e tanto più eclettiche,
quaulo più professanti indipen- denza. Messo taluno alte
strette , crede d'aver salvato a bastauza la mala parola si fecouda
d’errore, rispondendo che il filosofo eclettico, quando accorda alla
ragion propria l' autorità che pur le accorda secondo il canone fonda- [che
nii comandale è giusto . ... Ma siam noi tutti atti ad es- sere persuasi?
Gl’ingegni nostri son tutti di quella virtù, di •* quell’addestramento,
di quella purità e serenità, che li fa esser buoni a intendere un
raziocinio , a non lasciarsi illu- men late dell’ eclettismo ,
parla della retta ragione, cioè convenientemente usata e normale; e non
s’ accorge, che , colla sua risposta o rinega la scuo- la eclettica e la
disdice , o ne lascia interi tutti gl’ inconvenienti ed i difetti.
Che cosa è la retta ragione, e la ragione convenientemente usata, e
nor- male ? Ad esclusione de' notoriamente pazzi ed universalmente tenuti
per tali , e perciò per non uomini , o per non più uomini ; e de’ rozzi
ed incolti , che riscuotono risaie da tulli, e son tenuti universalmente
per incompetenti, ossia per non ancor uomini (i quali ultimi tuttavia del
ticchio dell’ eclettismo non vanno immuni , nè si di leggieri della loro
autocrazia e indipendenza si lasciano spodestare ; e il fatto odierno di
tutte le filosofìe di piazza più che troppo lo prova ) , ognuno di noi ,
che abbiamo il mesticr d’ occuparci di studi e di stampa, crediam d’
usare la ragion retta, e convenientemente usar- la con ogni normalità, e
troviam facilmente, con poco impiego di senno ed industria, un coro
grande o piccolo di lodanti, il qual basta per darci persua- sione, che
la ragion nostra è per lo meno tanto retta e normale quanto quel- la di
chicchessia. Peggio è che vi son uomini , di ragione , per fermo , squi-
sitissima , e universalmente riconosciuta come tale, de’ quali, per
conseguen- za , mal si potrebbe dir che non hanno la ragion retta ed a
ottima norma , e non sanno usarla ; e pur mostrano , col fatto , che le
loro ragioni li conduco- no a dottrine opposte.... 0 vuoisi
dire che la ragion retta e normale si riconosce a certi criterii suoi ,
che non sono della ragione d’ individuo , ma sono d’ una universale
ragione, a' quali criterii debbono le ragioni individuali commensurarsi,
accet- tandoli per una norma estrinseca alla quale debbano affarsi ? Ma
ecco dunque rinegata allora e disdetta veramente la scuola eclettica , e
confessato il biso- gno d’un dommatismo,' al quale debba soggiacere ogni
opinar privato, per- duta la libertà della ribellione c l'
indipendenza.... Facciasi tutto che vuoisi , ci è appunto nella
filosofia necessità d’ un dom- malismo dominante i capricci e le
contraddizioni degl' ingegni in certe fon- damentali questioni
costitutive del viver morale e civile. L 'eclettismo potrà permettersi
all’ amor proprio d’ognuno nelle altre questioni , come una con- cessione
di poco o niun nocumento. E nondimeno , anche in quelle , il giu- dizio
dell’ individuo dee sottostare al senato degli uomini che si chiaman
competenti . . .. Ma questo non è un argomento per una nota, per la
quale il poco che se n’ è detto 6 troppo , mentre ciò che ad una nota è
troppo , ad una trattazione conveniente è men che poco . ] dere
da un sofisma , da un paralogismo , a por nell’ esame * delle questioni
la necessaria preparazione di scienza, a spo- gliarsi di tulle le
prevenzioni dell' intelletto , dell' affetto , dell’interesse? Siam tutti
veramente uomini ed uomini ma- turi; o molti di noi non sono, e non
restano, fanciulli sem- pre , e non sono , e non restano , bruti , o
quasi-bruti ? A tutto questo nessun pensa a rispondere. Il primo
arti- colo del simbolo de’ nuovi pseudo-apostoli sta pur fermo. Io
non crederò , se non mi persuadete; e non farò di buon accordo , e senza
resistenza , che quello che sarà conforme al mio credere !
Dirassi eh’ io esagero gli errori del tempo presente. J)i- rassi ,
che non tutto alla sovranità del proprio intendi- mento è dato , ma non è
, nel fatto , chi non fortifichi , an- cor oggi , le suggestioni del
proprio intendimento coll’ au- torità di numerosi stuoli d’ amici e d’
uomini del proprio partito , ovunque sparsi , e in più d’un paese
predominan ti. Aggiungerassi , che la fede nou è atto di libertà , ma
di coazione morale , alla quale l’ intelletto-, che nou è po- tenza
libera , non può resistere : ma faci! cosa è dare ri- sposta.
Si , per fermo. Contro alle necessità imposte da natura non cosi di
leggieri vassi. O vogliasi , o non si voglia, non si può restar soli del
proprio parere , se nou s’ è monoma- niaci , che è dire malati di
cervello. L’istinto stesso ci spin- ge a metterci all' unisono con altri
, verso i quali ci attrag- gono simpatie naturali o artificiali, e a’
quali si crede, per- chè si crede a noi medesimi : e v’ è in noi tendenza
al for- marci un mondo di que’ che ci accostano , e che accostiam
noi , magnificando ed esagerando il valore e il numero lo- ro. Cosi,
quando il mondo che ci siaui fatto pensa e crede come noi , e noi
crediamo e pensiamo come quello , ci pal- elle qiiesta universalità
parziale e locale valga la vera uni- versalità potente a vincere tutte le
contraddizioni. Ma può ella esser questa l'autorità destinata a fare
spalla alla ragion privala di chicchessia, o ad essere uno de’ due
puntelli del I' uomo , postigli da due lati per impedirgli il cadere ?
La specie umana è forse un partito, ed è una ragion di partito la
ragione umana? I partili forse non s’ingannano , e non ingannano? Non
hanno passioni che velano il giudizio? Non hanno interessi che muovono le
passioni? O nou v’é obbli- go , nelle grandi questioni umanitarie , non
di misurare il proprio deliberare e credere col deliberare e credere di
((ud- ii , o pochi o molli, a’ quali ci stringono i nostri interessi
e i nostri affetti, ma di misurarlo con quel che delibera e cre- de
la sola legale maggioranza del genere umano, cioè quella che si raccoglie
in una somma, comprendendo nel computo i popoli di tutte le età, di tutte
le stirpi, di tutte le regioni, e dando particolar valore a que’ che si
reputaron sempre i più savi, i più probi; e riguardando un po'nella
verificazione delle dottrine ( in virtù di quell’argomentazione che i
dialettici chiamano ab absurdo) ai grandi ed ultimi conseguenti loro,
i quali , se contrari alla perfezione della specie intera, signi-
ficano , con ciò stesso, efficacemente, la falsità d e’ principii, donde
que’ conseguenti discendono? E istituita questa misu- ra e questa
comparazione , non bassi egli obbligo, per una generale norma , di dar sempre
più valore all’espressione ultima di quel sentimento della vera
maggioranza degli uo- mini, che al sentimento suo proprio, e de’ suoi
colleglli ed amici, per numerosi che paiano e siano? o siani venuti
a tanto stravolgimento di logica , che ornai l’ autorità di ciò che
si chiama il senso comune , ed è appunto il da noi de- scritto in ultimo
luogo , è distrutta ed annullata ? Dopo di che, qual forza ha più
l’altra obbiezione dedotta dal supposto, che l’inlelletto non soffra
violenza, e che, ri- spetto al credere, non si è liberi di credere quel
che si vuole, ma si è costretti a regolare la propria fede secondo la
luce in- teriore, d’onde essa fede ha unico procedimento? Ammetto
il fallo: sebbene, anche in ciò, molto dipende dalle prepara- zioni
estrinseche della monte, e dalle disposizioni del cuore. Pur liberalmente lo
ammetto. Ma, dal fatto cosi ammesso, qual diritto scaturisce ? Forse che
regolar dobbiamo le nostre a- zioni interne cd esterne, secondo la suprema
norma di quel che all’ intelletto nostro pare unicamente vero? Non
già. L’obbligo è d' umiliarci , e di riconoscere , una volta per
sempre , l’inferiorità del nostro intelletto, quando ci accor- giamo che
i privati opinamenli nostri son contraddetti dalla grande universalità
degli opinamenti dell’umana famiglia , considerata nella totalità sua
presente e passata; e di lasciare allora da parte il falso lume del
proprio intendimento per diriger noi e le cose nostre coll’altro lume
tanto più si- curo , eh’ è il lume a cui demmo il nome di cornuti
senso. Ed intendiamoci bene , a evitar tutte le ambiguità.
Qui non parliamo delle questioni , intorno alle quali il cornuti
senso non ha luogo, ne competenza, nè autorità... di quelle questioni ,
che non son fatte per esser trattate da tutti , e che non bisognano a
tutti per la -loro normale esistenza e sussistenza... Qui si tratta di
quelle questioni, le quali pos- sono e debbono chiamarsi le grandi
questioni del genere umano: le grandi questioni teoriche, fondamento
sommo da fatti appartenenti ad un tem- po di tralignamento ,
a svantaggio e discredito delle aristo- crazie , non può in nulla
percuotere le dottrine che qui si professano. La questione allora sarà al
più , se i ceti aristo- cratici possano mai realmente preservarsi dalle
mutazioni che li fan perniciosi più presto che utili , e ridursi a tale
di conservare piena conformità col tipo migliore , o di rigua-
dagnarla ; ciocché per me non è nemmeno una questione , e non può esserlo
per alcuno , il quale tutta la potenza del- le buone arti educatrici
conosca. Risaliamo dunque , ripeto , al tempo di certe vere ed
an- tiche aristocrazie cavalleresche , normalmente condotte a
quella natura , che aver denno per essere dell’utile specie da noi voluta
, e spesso stata e vedutasi nel mondo. In esse voi troverete familiari
alcune virtù sommamente utili al popolo , e diffìcilmente reperibili
altrove nel numero e col- l’abbondanza che più sono desiderabili.
Chi noi sa ? Nelle prosapie aristocratiche , principalmente , se non
unicamente , può sperarsi- di trovare , ad ogni necessità , i veri patres
palriae , preparati a tutti i bisogni ; cioè quegli uomini autorevoli ,
potenti , coraggiosi , avvez- zi a mettersi fuori si dignus vindice nodus
, godenti già il pri- vilegio d’essere ascoltati con riverenza , con
effetto , assen- nati , sperimentati , periti , probi , pe’quali è fatto
naturai dono, ancor più che artificiale , tutto che è generoso ,
no- bile , magnanimo , eminentemente civile ed utile a civiltà ; e
prima la lealtà oggi si rara , il eaudore , la fede , la in-
corruttibilità , la fermezza , il disinteresse , la franca ed in- violata
parola , quella che proverbialmente pereiò si dice parola di cavaliere ;
il mantenere a qualunque costo i patti e le promesse ; il non mai mentire
; il religioso astenersi da ogni cosa vile o brutta... Non è
la santità de'perfelti in religione , nobil dono di Dio , e privilegio
sommo di grazia , sdegnoso per solito di queste cose terrene e caduche ;
è la virtù antica e civile , una cosa illibata , ingenita , uscita dai
paterni lombi , ed avuta da natura , più ancora che da innestato
ammaestra- mento ; che perciò non costa fatica, nè sacrificio, ma è
ab ovo e per traducem, fin dal primo impasto dell’uomo e della
razza. — Con questo, è l’abitudine dell’ anteporre l’interesse pubblico
ed altrui al proprio e privato... è la naturale ge- nerosità e
larghezza... è il preferire quasi istintivo del retto all’ utile... è la
disposizione avita di tutte le cosi fatte stirpi a eminenza di cittadine
virtù ed attezze... il primeggiare nel ci vii senno e consiglio... il
gittarsi innanzi, come il ’ prode destriero al romore delle battaglie ,
anche non chia- mati , nè pregati , né desiderati , in tutti i grandi e
solenni bisogni della cosa pubblica , senza risparmio di sè e delle
sue fortune... il trovarsi pronti e preparali a soccorso , a protezione ,
a sosteguo , a sovvenzione , a incoraggiamen- to , a guida , a ufficio di
capitani e di porta-bandiera. E I’ esser sempre caporioni agli altri nel
bene , e caporioni efficaci , ascoltati , sentiti , rispettali ,
obbediti... l’aver coraggio civile o militare secondo clie fa d'uopo... il
guarda- re dall'alto al basso il puro e vile materiale interesse , e
il cercar sempre nelle questioni il lato della moralità e della
giustizia... Non mi state a dire che queste qualità preziose son
rare come le mosche bianche. Rare forse oggi , vi ripeto : ma non
rare in ogni tempo ; non rare quando gli uomini s’e- ducavano a modo
antico. E se si riusciva ad ottenerle , quando a quella forma s’
educavano essi , io non veggo , perchè richiamando le stesse cagioni ,
non s’abbiano ad ot- tenere , e non si possauo , gii stessi
effetti. Non mi venite a soggiungere , che altrettanto e meglio
, per forza di conveniente educazione, puossi ottenere fuori delle
privilegiate caste. L’educazione è cosa sempre troppo artificiale , e
troppo perciò difficile a condursi a buon ter- mine , se natura non
agevola , e condizioni intrinseche non favoriscono ; e l’una e l’ altre
non favoriscono , se fin dai primi istanti non concorrono ; e dai primi
istanti non con- corrono che assai di rado , e solo con qualche frequenza
, quando certe disposizioni son fatte dono abituale per lunga serie
di generosi avi , e quando ogni cosa che è intorno le seconda.
Imperciocché indipendentemente da quel che allo- ra è dato per una felice
armonia del fisico col morale im- prontata per concepimento , v’è lo
spontaneo innesto che nou può mancare a chi è uato in mezzo alle morali
qualità che si voglion generate ; a chi le ha trovale in casa , e
n’è stato cinto da ogni parte fin dalla prima infanzia -, infine a
chi non ha incontrato , anche uscendo" di casa, che quelle , come
cosa propria della casta in mezzo a cui vive. Le quali cose tutte non
sono , per fermo , allo stesso modo , in uno stato dove non è che
democrazia, pe'figliuoli degl’ingenliliti da un giorno , e degli
arricchiti. Perchè in questi per solito le ricchezze e l’innalzamento è
dall’industria mercantile o quasi-mercantile ; e l’industria delle
mercature e de’com- fu- merei, pur troppo , a esser
promossa, e tanto da generare tesoro , ha bisogno d’accompagnarsi con
amor di guadagno , e d’ esserne preceduta come da suo naturale stimolante
: amor di guadagno , che è passione per sè , non dirò vile , ma
certo un po’ bassa , e non troppo generativa di virtù po- litiche. Ed ha
radice d’egoismo e d’interesse materiale e per- sonale , due interessi
che non poco penano a subordinarsi all’interesse morale , tanto da
contentarsi sempre delle se- conde parti. Donde poi viene , che nelle
case di si fatti (non ch’io neghi molte onorevoli eccezioni) gli esempi
non soglio- no esser quali in quelle della vera e buona aristocrazia ;
e colla rarità di questi esempi va proporzionata la difficoltà della
fruttuosa educazione di che favellavamo. Che se, pe’fin qui
discorsi argomenti , s’ è dunque cercalo di provare, che utile pertanto è
l’aristocrazia, rispetto al crea- re , con un buono e conveniente
indirizzo , una schiera di cittadini egregi, quali con arte di speciale
istituzione appli- cata a’ primi che presenta il caso , o la fortuna , è
difficile ot- tenerli; già possiamo a un altro argomento venire, e sarà
l’ar- gomento di un secondo e ancor più elevato interesse politi-
co, il qual consiglia a mantenere, quantunque dentro giusti contini, un
ceto aristocratico nello stato; c questo è l’inte- resse cornai at or e.
Il quale interesse, naturale antagonista del- V interesse riformatore ,
molti non vogliono conoscere utile , perchè non vi pongon mente : e , non
avvertendolo , non se ne fanno una chiara idea. Ma non perciò non esiste;
e non è rilevantissimo, e tanto anzi più importante, quanto le
forme del governo son più liberali, e tengono delle repubblicane, o
delle rappresentative e democratiche, e quanto v’è più grande l’autorità
delle turbe popolari. Perchè il proprio delle democrazie, come in
generale dei popoli e de’tempi tendenti a democrazia , è, in politica,
il moto perpetuo. Un paese dato o soggetto alla dominazione, od
alle forti influenze de’ capricci , di quello che fu e sarà sempre varium
et mutabile vuigus , è come dire un terreno in man d’una compagnia d’
agricoltori , ognun dei quali vuol coltivare a suo modo ; e dove ,
secondo che uno riesce a prevalere sull’ altro nella lotta delle volontà,
e nella perti- nacia e nella validità de’ contrasti, distrugge l’opera
de’com- pagni, e rilavora, e risemina a suo modo. Il qual terreno
la- scio decidere a chicchessia se può mai prosperare , e dare un
frutto che valga le spese, e le fatiche periodicamente aborti- ve. Un tal
paese è sempre sul disordinarsi, e riordinarsi per disordinarsi di nuovo,
e tornare ad ordinarsi: come ciò ac- cade del mobile campo del mare a
ogni nuova aura che spi- ri , non importa da qual parte. Le leggi non vi
durano. L’e- spcrienze lunghe non vi si maturan mai. Le fortune vi
sono instabili , come le dignità , come le influenze , come le ric-
chezze, come le risoluzioni. Ora un tal paese, per avere una qualche
speranza di requie, e di rallentamento negl’impeti inconsiderati del
moto, ; per non lasciarsi perpetuamente al- lucinare da false apparenze
di mali, da false apparenze di be- ni, giudicate secondo la prima
impressione, e guidanti a fatti spesso inconsiderati e rovinosi, ha
bisogno che sia , nel po- polo, un certo numero di cittadini saldamente
potenti (cioc- ché non vuol dir prepotenti), i quali mettano nella
bilancia disposizioni opposte ; cioè appunto quelle disposizioni
che si chiatnan conservatrici , com’é il proprio delle aristocra-
zie, alle quali tutto fa invito a temere i troppo rapidi mu- tamenti , e
a temperarli , facendo per propria essenza l’officio del regolatore nell’
orologio , e della scarpa nel carro, non per arrestare l’ andamento, o
per voltarlo io contrario, ma per fare necessario contrasto alle
accelerazioni dissenna te, e per impedirne le aberrazioni pericolose. Né
voglio, a provarlo , altra dimostrazione che quella delle prove
stori- che, dalle quali risulta che nessun paese prosperò mai lun-
gamente, dove un robusto ceto aristocratico non si ponesse in mezzo tra
le facili velleità delle plebi e de' municipii, tra i piccoli e gretti
interessi del terzo stato ... tra le tendenze agli abusi del potere in più alto
luogo; c non concorres- se con ciò validamente e in modo principalissimo
alla costru- zione diffìcile del buon governo. Finirò
enumerando i beni accessorii , che a lutti i prece- denti van connessi.
Unicamente coll'aristocrazia, che si tie- ne ancorala sopra una ricchezza
immancabile ( non fluttuan- te , non fortuita , non nata oggi o ieri , c
non destinata a perire domani), e sopra tradizioni antiche di potenza, e
so- pra le aderenze numerose e gagliarde che la corroborano , e la
fan per cosi dire immortale , sono possibili, od almen frequentissimi ,
tanti abbellimenti delie città ; que’ palagi , de’quali parlavain sopra,
che sffdano i secoli, e che son co- me reggie; i musei, le ville, i
parchi, le splendide ed ere- ditarie proiezioni alle belle arti di lusso
, alle lettere , alle scienze; i costumi gcutili, il secolo di Leon X, la
conside- razione al di dentro, e al di fuori, la dignità c il
decorodelle nazioni. Solamente coll'esistenza di famiglie, la cui
podero- sa influenza sugli uomini e sulle cose abbia grande ed
anti- co ed esteso fondamento , è lecito sperare ad ogni privato
facili appoggi e saldi nelle solenni necessità d’ogui genere , ferma
resistenza contra ogni nemico interno od esterno che minacci lo stato e
la città , c perfino la miglior guarentigia possibile contra gli abusi
d'autorità, procedenti da ogni alto luogo. Questi abusi , possibilissimi
anzi dove non sono che governo e popolo più o meno minuto, e qua c là
ricchi sen- za consistenza e senz’ altra fede che nella loro pecunia,
non possono esistere o sussistere gran fatto dove quel terzo ele-
mento dello stato è fortemente costituito su basi ben radi- cate che non
tremano ; le combinazioni ternarie , in queste faccende, piu essendo
valide ad impedire le abusive preva- lenze da qualunque parte , c quindi
le prepotenze di qualun- que origine. Ivi i facili rivolgimenti c
sconvolgimenti trova- no remora gagliarda e principalissima, distrutta la
quale i Ire- muoti politici si succedono a ogni piè sospinto ; e dura pròva
più d’un paese n’ha falla in questi nostri lagrime volissi- ini tempi. Di
qui è che la sapienza antica , per voce di Plato- ne c di Cicerone, cosi
appunto sentenziava ne’ libri De repu- blica. Si ama favellare soltanto
delle soperehierie de’ nobili , di certe violenze che alcuni di loro si
permettono, di certi mali ch’essi han prodotto. Bisogna, com’ io diceva,
pesar più giusto, e mettere su la bilancia nell’ altro piatto i
vantaggi. Quando avrete distrutta la nobiltà , e avrete solo
tollerato quella ineguaglianza di fortune , che non siete padroni di
di- struggere, e che resisterà ad ogni vostro tentativo livellato-
re , avrete tanto e tanto le stesse violenze e le stesse soper- chierie
da que’che avranno la prevalenza di fortuna, ma le avrete senza il
correttivo ed il freno che per sua natura è chiamalo a mettervi il buon
patriziato per una dicevole edu- cazione e tradizione. Servio Tullio, fin
dai tempi regii di Roma , non annullò questo ; ne moderò i poteri ; e
provvi- de con ciò alla fuUira grandezza di quella ch’era destinata
ad essere la capitale del mondo. La elevazione di Roma re- pubblicana è
dovuta principalmente al suo senato di patrizi. Le successive invasioni
della plebe alzaron molli di quesla sino a quello, cd era giusto ; non
abbassarono quello fino a sè, che sarebbe stato follia. . . distruzione
di Roma. I Ce- sari lolser di mezzo, o snaturarono l’organo politico,
pel quale Roma dominò la terra ; eslcrminarono le grandi fami-
glie, fecer perire l’ antiche tradizioni , tolsero ogni impedi- mento ,
ogni potestà tra sè e il popolo , e con quale effetto non ho bisogno di
ricordarlo ad alcuno. Venezia ed Inghil- terra. . . la Venezia de’
passati secoli , l’Inghilterra d’oggi- di, son altra prova storica e
splendida della mia tesi. I so- prusi e gli abusi di potere si possono
correggere, impedire, medicare; il male della mancanza della nobiltà è
immedica bile nel materiale e nel morale. . . E la nobiltà è
zero senza ricchezza ; e la ricchezza è labi- le senza fedecommessi.
Dunque i fedecommessi, oltre al non essere ingiusti , oltre all'essere
senza detrimento al paese che li ammette, gli sono necessari (1).
(1) Di qui è , che, a mio senso guardando alla ragion politica , possono
nel- r eredita fidecommissaria difendersi anche certe sostituzioni , e
certi passaggi di famiglia a famiglia come mezzo di perpetuare i gran
nomi , la memoria de’ grandi servigi , e gli obblighi che queste memorie
traggon seco. L'argo- mento è degno per lo meno di nuovi esami. Non è il
mio Bne l’intraprenderli. N- B. Dopo stampale , una prima ed una
seconda volta , queste lettere , un vicino paese fu , nel quale i
maggiorati s’ abolirono , disputatone prima , co- me e quanto lo si
poteva aspettare , nella camera dei suoi deputati , e nel se- nato
de’sapienti del luogo. Nè negherò , che , vista la coedizione de'tempì e
delle opinioni , il conservarli sarebbe quivi stato un’ anomalia ; certo una dis-
armonia con tutto il resto. Nel fallo , si guardi meno alla quistione
assolu- ta , che alla relativa ; e meno la relativa al piti o manco di
vantaggio del po- polo, e in generale dello stato, ebe ia relativa all'
andamento politico in cui lo stato s'è colà messo, ed alle necessità che
ciò s'è tratte dietro. La questione giudicata oggi cosi sta donque forse bene.
Bisognerà vedere se ugualmen- te starà bene domani. DELLA LIBERTA’ E
DELL’EGUAGLIANZA CIVILE. -DEL GOVERNO E DELLA SOVRANITÀ’ IN GENERALE. -
DELLA COSI DETTA SOVRANITÀ’ DEL POPOLO E DELLA DEMOCRAZIA. -DEL
VOTO UNIVERSALE. DELLE RIVOLUZIONI E DELLE RIFORME NEI GOVERNI
EC. Al REPUBBLICA*! RICOVERATI IH IHGBlLTERRA E ALTROVE
Il ne faut pas vous le dissiniuler. Le peuple, ainsi que la
bourgeoisie n’a nulle confianee en vous. Le peuple rii de vos pasquinades
politiqueset socia- les: il vous a connus à l’oeuvre : il a jugé la
puis- sance de vos moyens et la fécondité de vos res- sources; il a
vu poindre , sous volre iniiiative , celle réaction que vous condamne/.
aujourd'bui, mais dont le principe est loujours vivant dans
vos vues et pour rien au monde il ne se sou- cie de riimeltre
nne seconde fois ses destinées eulre vos mains.
Tranquillisez-vous donc , et quoi qu’ il arrive , ne vous excilez
pas le cerveau , ne vous écbaufl'ez l.oint la bile. Acceptez en tonte
résiguation le repos que vous fait l’cxil , et metlez-vous bien
dans la téle qu’à rnoins d'unc transformation com- plète de volre esprit,
de volre caraclèrc, de votre intelligence , volre ròte est lini....
Teuez, voulez-vous queje vous dise louie ma pen- sée? Je ne connais
qu’un mot qui caractérise vo- tre passò, et je saisis celie occasion de
le Taire passer de l’argot populairc dans la langue polili- que.
Avec vos grands mols de guerre aux rois , et de l'ralernité des peuples ;
avee vos parades re- volulionnaires , et toutee lintamarre de
démago- gues, vous n’avez été jusqu’à préscnt , que des
blagucurs. Journ. le Peuple ile l»bO Articolo di P. /.
Prudhon- Della libertà nel civile consorzio, e dei limiti che
necessariamente debbc avere. Che cosa volete , signori
maestri del mondo, che si rin- nova? - « Libertà ed eguaglianza nel
consorzio civile, nco- « nosciute e difese; e , come frutto della libertà
e dell’egua- « glianza , la parte di sovranità nel popolo , che a
ognuno « coegualmente spelta per quel che concerne gl’interessi «
sqoi, e gl’interessi dell’universale in correlazione co’suoi. « Perchè ,
se gli uomini sono uguali per natura ( e certo lo « sono}, è una iniquità
il farli disuguali per arte; è una slo- « Udita il lasciarsi far tali ,
ed ammettere maggiori di sé so- ci pra sè quando piace , e quando non
piace. E se gli uomini « sono liberi per natura, è una iniquità il farli
più o meno a schiavi per arte, e stolidità il lasciarsi far tali, ed
ammet- « tere padroni di sè sopra sè , quando piace, e quando non «
piace. » - Ma qui vale la risposta celebre degli spartani a Filippo re -
(1). « SE ». La libertà! Innanzi tratto, parliamo un po’ sul serio:
rac- cordate voi veramente all’ uomo , voi che pugnate tanto per-
chè vi si lasci interissima , e quasi o senza quasi priva di vin- coli ?
- Ma molti di voi , che chiamano l’uomo una macchi- na fisica , so che il
libero arbitrio, cioè questa tanto richiesta libertà, dicono non esistere
; poiché tutto che facciamo , lo facciamo, secondo essi, per coazione
prodotta in noi da im- pellenti motivi, interiori od esterni , che prepotentemente,
(I) Plutarch. fìe g.imililale. Edil. Rnisk Voi Vili, 32.
Digitlzed by Google benché occultamente , ci spingono a fare
o non fare , ed a fare una cosa piuttosto che un' altra. Dunque , almen
per tutti cotesti negatori del libero arbitrio, le dimande d’ esser
liberi hanno assurdità manifesta , e mancan di senso , es- sendo in
contraddizione perfetta colla loro intima e confes- sata persuasione di
non poter esser soddisfatti nelle loro di- mande , nè essi , nè
chicchessia (1). Essi sanno , o preten- don sapere , che chiedono quel
che non è possibile dar loro ; poiché quel che chiedono , a lor detto , è
un nulla , un non-ente; e niun può dare ad altrui, se non illudendolo,
un non ente, un nulla, una cosa, che nè ha egli, nè alcun altro
possiede, o può possedere. Dunque la libertà non possono chiederla, che
coloro i quali la credon possibile all’uomo , e che non risguardano il
mondo morale, ossia il mondo delle volontà, come un conflitto di forze,
ognuna delle quali non può non esercitarsi , che nel modo col quale nel
fatto s’esercita, senza che alcuno possa iutervenirvi per azioni
diverse da quelle con che ogni volta in realtà v’interviene. La libertà ,
in altri termini , non posson chiederla , che gli spiritualisti ; e già
in ciò v’è molto di guadagnato: perchè cogli spiritualisti , se sono
veramenle quel che dicono di es- sere, si può disputare con ferma
speranza di giungere pre- sto o tardi a spogliarli di certe idee, per
così dire, superfetate ed aggiunte, contro a naturatile loro persuasioni
di spiritua- listi: idee non compatibili con quelle persuasioni, e tali,
che nonèdifficile alla lunga di farle apparir loro quali realmente
sono, riducendole al giusto loro valore. È argomento ad hominem — Ex ore vestro
voi judico. Que’ cbe negano la libertà non solo non posson chiedere
questa , ma non possono , sul serio e da senno , chiedere o pretendere
nulla , nè accusar nul- la, nè lagnarsi o adirarsi di nulla, nè trovare a
ridire su nulla. Nella loro ipo- tesi lutto quel che è o sarà, tatto quel
che si la o si farà , non dipende dall'ar- bitrio 'di chicchessia. È o
sarà, à fa o si farà , perchè non puh essere nè farsi diversamente.
Dimande, lagnanze, accuse, saranno, per vero, esse pure atto necessario,
ma un alto senza significato, o d’ un signitìcato che non può stare. La
proposizione non lo che accennarla. Il trattarla ex profitto non è di
questo luogo. E che cosa è questa libertà ? - « La facoltà ( rispondono
} « d’usare delle proprie forze , fisiche o morali, nel modo « che
più aggrada, la quale ( dicono que’che vi credono ) « è una facoltà
primitiva e naturale, e tale perciò che non si « ha diritto di toglierla.
» Intanto , essi che l’ ammettono, si vergognerebbero di non ammettere
però , che alcuni di si fatti usi della libertà propria son buoni , altri
cattivi , e che i buoni usi ognuno è tenuto a praticarli , e i cattivi
ad evitarli. Dunque coloro che ammettono la libertà, .e che per-
ciò ne chiedono alla congrega civile la maggiore possibile in- dipendenza
e franchigia, concedono almeno una legge inte- riore, e naturale, e non
abrogabile , data al loro intelletto , che comanda , consiglia , o
proibisce; legge obbligatoria per ognuno. Dunque concedono, che la
libertà, per sua natu- ra , non è poi cosi sfrenata come lo si suppone ,
nemmen nell’uom solitario e sottratto perciò ad ogni coazione
estrin- seca de’simili suoi, da che è limitata e vincolata da una
legge interna, che notabilmente ne restringe pur sempre i poteri.
Anzi, poiché, conceduto il bene ed il male nelle azioni libere o
volontarie, vengono con ciò necessariamente a con- cedere la distinzione
tra l’uomo da bene e perfetto, e l’uo- mo imperfetto e cattivo, conseguita
da questo, che per essi il migliore ed il più perfetto degli uomini è
quegli che più limita le proprie libertà , e che , per conseguenza , nel
fat- to, è o si fa men libero; e viceversa , che l’ uom peggiore e
più imperfetto è quegli il quale più ai vincoli della libertà si sottrae,
godendo, nel fatto, d’un più illimitato uso della li- bertà propria. Qual
è l'uomo il più libero ? — Il ciallroue , che , senza un riguardo per sè
o per gli altri , va e fa e dice, e si veste o sveste , e s'accompagna o
scom- pagna , e si satolla negli appetiti suoi più disordinati e più
bestiali ed immon- di a tutto suo grado, gitlandosi panciolle o
rotolandosi in istrada, ubriacan- dosi nella taverna, appaiandosi colle
sgualdrine, gridando e urlando per via , spargendo motti , dileggiamenti
, bestemmie , ingiurie a questo ed a quello. Or, se la civil convivenza è
ordinata a rendere gli uomi- ni, non più imperfetti e cattivi, ma sempre
migliori e piu perfetti (ed aspetto che qualcuno voglia con moderna
impu- denza negarmelo), è chiaro, che quello è il consorzio umano
più conforme alle leggi di natura, in che il male è più difficile a
farsi, ed il bene piu facile. Laonde , se un modello di ot- timo civile
ordinamento è a proporsi come un tipo al quale si debbano conformare,
quanto meglio ciò è dato, le uma- ne congreghe , converrà dire l’ideal
naturale ( come lo chia- mano ) dell’ ottima e perfetta civil convivenza
esser quello dove alle volontà del male è recato il massimo
impedimento, alle volontà del bene il massimo eccitamento e favore,
alle volontà indifferenti quanto a bene ed a male la massima indi-
pendenza : quello dunque dove la libertà ha vincoli molto maggiori de’
vincoli che le nostre leggi, anche le più rigo- rose impongono.
Tuttavia confesso, che chi cosi ragionasse andrebbe trop- po in là
col ragionamento, massime ove difendesse l’opinio- ne, che questo ideale
sia immediatamente riducibile ad atto nella odierna condizione delle
aggregazioni umane che si no- man popoli. Confesso, che, conosciuto il
mondo cosi com’è, e considerato quanto immensamente son gli uomini
ancor lontani, nella lor molta corruttela , dal tollerare
universal- mente d’ esser costretti a farsi ottimi, e ad incontrare
osta- coli ad ogni azion loro men che retta ed a bene rivolta; ve-
duto quindi che la legge troppo rigorosa incontrerebbe in- numerabili
ribelli, i quali sarebbe presso a poco impossibile frenare, e colla forza
ridurre ad obbedienza, o pur solo pu- nire; infine, richiamalo alla
memoria, che Iddio stesso, nella formazione dell’ uomo , mentre si è
contentato di dare ad — Lo 5cln 'rauo clic corre armalo le campagne
taccinlo silo tulio che trova , spogliando i viandanti ,
accoltellandoli.... — E qual uomo onesto , nel senso che questa parola
ottiene in ogni vocabolario di popolo civile, vorrebbe es- sere cialtrone
o scherano ? o eie' specie li ci' il consorzio è possibile ne' cial-
troni , e fra gli scherani?] ognuno le norme del bene e del male , ba però
voluto la- sciare, a tutto risico di chi devia da queste norme, la
libertà di si fatta deviazione ; di qui è che , per men danno , e
per men difficoltà , i savi , che dell’ ordinamento degli stati han
fatto particolare studio, avvisarono la necessità di abbando- nare al
proprio libito di ciascuno il più di quegli abusi di li bertà recanti a
tristo o sconveniente (ine, ma che non nuo- cono altrui, riserbato il
vincolare con leggi quegli abusi die agli altri recauo un più o men grave
ed ingiusto nocumento, od una indebita e non lieve molestia : ciocché
accordandosi a riconoscere e concedere ( e vi riflettati bene i capitani
e i campioni delle nuove dottrine) non credon già di aver, per si
fatti divisamenti, proposto quel che veramente sarebbe il meglio; ma,
proponendolo, o, a dir piu vero, confessando d’ essere stati costretti a
concederlo , compiangono di non aver potuto proporre c consigliare che un
men male. E tut- tavia questo men male non lo propongono, e non lo
accet- tano, che in modo , per cosi dire , precario , e finché ,
con un migliore indirizzo della educazione privala e pubblica , sia
lecito assai più recidere di questa libertà del non buono, senza troppa
resistenza , e per successivi sempre maggiori troncamenti giungere alfine
a quel minimo di libertà lasciata al mal fare , che costituirebbe de’
civili ordinamenti la vera normalità. Ed ecco ricacciate in
gola, io spero, a certi insipienti ban- ditori del sacro diritto (coni’
essi soglion chiamarlo) d’ esser padroni delle azioni loro, tante balorde
cicalcric di pocosen so , che vanno eglino ripetendo , e che, se
dimostran qual che cosa, dimoslrau solo quanto è grande la ignoranza di
gri- datori si fatti in lutto che risguarda la vera filosofia delle leg;
gi e la vera natura dell’ uomo. — Io so però con qual mutamento di
linguaggio si sforze- ranno essi di riguadagnare terreno, se non di
fronte, almen per fianco. Senza osar troppo di negare, presi cosi alle
strette, che quegli usi della libertà , dai quali un altro , e con
piu forte ragione più altri, o la comunità intera, possono essere
più o men notabilmente ed ingiustamente pregiudicati, deb- bono dalla
legge frenarsi , diranno però, ed in effetto dico- no ( abbassato molto
il tuono della voce e della superbia ) , che la forfattura de’
legislatori a cui si chiede emendamento è appunto nel giudizio del male ,
operato o da operarsi , il qual conviene, o prevenire perchè si tema, o
punire perchè si risguardi come fatto, e delle condizioni che si stima
utile all’ universale di lasciare in potestà de’governanti lo
impor- re a’ singoli , quale un debito comune di violenze fatte o
da farsi alia libertà d’ ognuno pel bene di tutti. Rispetto a che
ricusano il più delle norme stabilite dalla sapienza antica , senza un
riguardo eh’ ella sia stata sempre una e costante , sempre simile a sè
fin dalle prime manifestazioni sue, giun- gendo da gente a gente al
nostro tempo ; e trinceratisi so- pra questo terreno , vogliono , coni’
oggi dicesi , guarentite almeno certe principali libertà, o salvati certi
privilegi di li- bertà, di che fanno enumerazione, secondochè, per un
detto di detto, impararono (1). E qui non discenderò io a dispu-
tar loro ciascun palmo del nuovo terreno in che s’accampa- no, questo non
essendo per ora il mio proposito. Non ch’io non voglia, a miglior tempo,
a un per uno , espugnare cia- scun de'baluardi ove atlendon battaglia,
impotenti, come si sentono, a tener la campagna aperta. Ben, fermandomi
qui sulle generali, poche cose dirò, che importa stabilire, come
opportune premesse a tutte l'altre, quasi circonvallandoli in- torno d’un
regolare assedio, per toglier loro qualunque spe- [ È degno d’esser
notato che si schiamazza e si pugna per si fatte liber- tà, e per questi
privilegi sempre ne’ tempi in cui più si vuole abusarne , e da que’che di
abusarne hanno il proposito deliberato. Que’ che non han bisogno
dell’abuso , e che non lo hanno nell’animo e nel desiderio , è chiaro che
sa- rebbe ridicolo se ciò curassero. Ed altrettanto è a dire de’ secoli
in cui raris- simi sono, o nessuni, gli abusa tori di fatto o
d'intenzione. Queste grida allora non si sa che siano. Si chiede il permesso
di quel che si vuol fare, e si muo- vono lagnanze di quel che , volendo
farlo, non sì pub ; non di quello mai, che non occupa la mente, e che non
ispiace di non poterlo operare a suo grado.] anza di esteriore sussidio, e di
futuro scampo. Dove, se per avventura, io paia a taluno usare, a
dispetto, un troppo su- perbo linguaggio , valgami a scusa la salda fede
che ho nel- l’animo, non veramente del prevalere per senno, ma sì
certo dello scendere a combattimento con tale una soprabbondan- za
di forze, che il far fronte, negli avversari, più mi sembra presunzione
ed insania , che coraggio e bravura. E prima , prendo , come suol
dirsi , atto del concesso , e dell’ ornai da essi perduto per non poterlo
difendere : cioè , che tutte le declamazioni, le quali fannosi, a destra
e a sini- stra , suonare sul sacro diritto della libertà umana , cosi
in generale sfrenata , e della intangibilità di questo diritto ( le
quali declamazioni tanto si vanno ripetendo a illusione e per- vertimento
degli sciocchi, e col plauso del codazzo lungo an- zichenò de’tristi, i
quali approvano e fan coro, perchè l’ap- provazione è come indiretta
difesa di molte ribalderie loro); tutte queste declamazioni , dico ,
bisogna ringhiottirsele , o riservarle a’ crocchi degl’ imburiassali a
lor forma, e già non più ragionanti, nè disputanti, ma credenti, e
disposti a con- tendere solo co’pugnali e colle contumelie. Per tutti gli
altri un punto è vinto, ed una verità è conquistata: la libertà,
per sé medesima, dev’ esser vincolala in tutti. Questo non ammette
più disputa. Or, ciò premesso, io dico poi , che, nelle azioni le
quali necessariamente han , per cosi dire , contatto cogli altri ,
e sono usi di libertà che agli altri possono riuscire o molesti o
pregiudice voli, a rendere, non pur possibile, ma solo reci- procamente
tollerabile la consociazione degli uomini, è chia- ro che l’interesse
comune richiede il provvedere a tanto, che i conflitti delle coeguali
libertà siano evitati il meglio che es- ser può, e siano del pari
scansate le cagioni, quant’elle sono, onde , per fatto delle libertà
male-usate, si renda sgradevole ed intolleranda ad altri, pochi o molti,
la convivenza. E poi- ché nessuno è giusto che sia giudice in causa
propria, quando specialmente la causa propria è in contrasto colla causa
degli altri, perchè niuno, negl’ innumerabili e colidiani casi di si
fatti contrasti, vorrebbe aver fede nella giustizia e nella di- screzione
d’un che ha interesse a favorire sè stesso (massime considerando , che il
momento medesimo del conflitto , al- lorché più le passioni sono in
presenza , in accensione, ed in tumulto , dovrebbe esser quello del
giudizio ) , perciò è ne- cessario, che ognuno anticipatamente sappia (da
terzi ed im parziali, e parlanti con autorità in guisa da comandare
obbe- dienza ed ottenerla) quel che può e deve, e quel che non può,
nè dee. Di che poi si conclude, che, innanzi al fatto, egli è della più
grande evidenza , bisognare alcune regole presta- bilite, ossiano leggi, per
le quali si determini efficacemente il lecito e l'illecito. Resterà
dunque solamente a cercare, da quali, secondo ragion naturale, debbano
queste leggi emet- tersi , ed in che misura. E la -questione
giunta a questo termine, s’allarga. Perchè, venuto il discorso alle leggi
che stabilir denno i confini e la misura della libertà civile,
l’argomento facilmente trapassa alla non meno astrusa ed importante
trattazione del primitivo stabilimento di tutte l’altre leggi
obbligatorie per l’universale, e si di quelle che fermano, o fermar
debbono le originarie con- dizioni della civile congrega, nelle parti
onde si compone od hassi a comporre l’intera macchina governativa, qual
si ha, o qual si desidera averla, si di quell’altrc, che, a volta a
volta, si van facendo, o si vorrebbero fatte, per nuovi bisogni che
si stimano sopravvenuti, o per correzione d’antichi e nuovi errori , de’
quali credesi avere accorgimento. Intorno a che una opinione oggi , e da
molli anni, a memoria di noi vec-r chi , cerca di signoreggiare il mondo
, secondo la quale , la volontà egualmente ed il senno di lutti avrebbe
in ciò a con- sultarsi, e a deliberare, per quella dottrina che troppi
pon- gono a di nostri in cima a ogni altra, e che chiamano il dom-
ala della sovranità del popolo , da cui , come da vecchia sua radice ,
sorse già e prese forza l’altro domina del cosi detto patto , o contratto
sociale ; due domini a’ quali dassi appunto per fondamento , come la
libertà originaria e naturale del- l’uomo, cosi l ’ eguaglianza primitiva
d’uomo con uomo. Or poiché, rispetto alla prima già vedemmo, quantunque
som- mariamente , quel che bassi a pensarne , favelliamo adesso
della seconda. Della eguaglianza in generale, e quanto poco esista
essa nella specie utnana. Si pretende, che gli uomini, per naturale
diritto, sian tutti uguali , e , al solito , insegnando al popolo questa
supposta fondamentale verità, que’ che la insegnano si guardan bene
dal dichiararla con più esplicite parole , e dallo spiegare in che senso
, a lor senno , questa eguaglianza può affermarsi, in che senso non lo si
può. E il popolo fa di questa propo- sizione quel medesimo, che
dell’altra, la qual die e-Gli uomi- ni son lutti liberi - Ambedue le
accetta così come gli si dan- no, senza limitazione, e se le stampa bene
in mente al modo che suonano, per poi trarne le conseguenze dirette ed
estre- i me, che oggi pur troppo ne trae... conseguenze che la pace
del mondo da sessanta anni disturbano ed impediscono. Io spesso ho
domandato a que’ difensori di si fatte stolte teori- che, co'quali è pur
possibile tentare un po’ di ragionamento, qual fondamento dessero (
parlando dell’egualità ) al domma che stabiliscono ; e i più di loro
m’hanno risposto con gran franchezza , che l’eguaglianza è da legge di
natura, perchè la natura ci ha fatti tutti della stessa specie, e della
stessa car- ne; tutti, gli uni agli altri, fratelli. Ma, quando li ho
incal- zati, chiedendo, se la natura facendoci uguali quanto a spe-
cie e carne , e con questo dandoci una comune fraternità , abbia poi col
fatto mostrato di averci voluto ad un tempo da- re anche le altre
eguaglianze qualitative e quantitative , ossia di modo, e di grado, che
bisognano per costituire l’assoluta eguaglianza naturale, la quale
intende il popolo, non ra’han potuto più rispondere cosa che valga. Almeno
avessero po- tuto dimostrarmi che queste ultime sono una
conseguenza necessaria di quelle prime! Bisogna compatirli. Essi non
po- tevan fare l’ impossibile. La natura, certo, non ha
voluto farci diversi da quelli che ci ha fatto. Ora è chiaro, ch’essa ci
ha fatto in ogni cosa dis- uguali. ( E si noti , eh’ io qui uso il
linguaggio de’ moderni filosofanti. Metto da parte la fede, il peccato
d’origine, e le sue conseguenze. Parlo , come oggi usano tanti , della
na- tura acefala , e separala dalle sue cagioni , come se non le
avesse ). Infatti che vogliamo ricercare? Il fisico, o il morale?
Ma, nel fisico , nessuno, per fermo , avrà l’ ardire d’ affermare ,
che la natura, fabbricandoci tutti della stessa carne, e collo- candoci
nella stessa specie, abbia voluto altro farci che dis- ugualissimi. Non
forse ogni giorno ci schiera essa innanzi i belli ed i brutti , i dritti
ed i bistorti , i contraffatti a ogni forma ed i ben composti della
persona.... i sani e gl’ infer- micci, i gagliardi ed i frolli , gli
svegliati ed i pigri o buo- ni-da-nulla? Non forse tra milioni di visi
nessun ce ne pre- senta ben simile... ben uguale ad un altro « imprimendo
ad ognuno una fisonomia sua, che è la sua e non d’altrui? Non forse
disuguali dà le complessioni , la fazion generale della persona, le
idiosincrasie ? Pur la carne è una in tulli , e la stessa : la specie è
una e comune. Più però l’originaria e naturale disuguaglianza fassi
palese, ove al morale riguardiamo, e si a questo nella parte intel-
lettiva e discorsiva, si nella memorativa, si nella immagina- tiva, nell’
affettiva , nella volitiva, e in quante altre le sotti- gliezze de’
filosofi distinguono... Ho io bisogno di dire, che hannovi nati stupidi ,
e nati con ogni buona disposizione di memoria, di giudizio, d’ acume... ?
Ho io bisogno di ricor- dare le portentose varietà d’ altezze , di
capacità, d’umori , di tendenze, infinitamente tra loro disparate e
distanti ? Ho io bisogno di avvertire , che GALILEI (si veda), Newton,
Eulero, Lagrangia non nacquero per esser umili ragionieri di lor per-
sona sopra un povero banco di libri tenuti a scrittura-dop- pia ; Cesare,
Carlo Magno, Napoleone, non erano modellati alta stampa d'un piccolo
caporale di milizie ; i Law non fu- rono mai del legno di che si formano
i Colbert , i Turgot ; Omero non doveva essere Clierilo, nè Virgilio
Bavio... , e tutta la larghezza d’ un oceano doveva separare Marco
Tul- lio Cicerone da Marco figliuolo, Marco Aurelio Antonino da
Commoilo, Tito da Domiziano... Vaucanson da un costrut- tore d’organucci
di Barberia... Giovanna d’ Arco dalla mia donna di faccende ?
Non favello delle disposizioni di cuore... delle disposizio- ni di
volontà... del più o meno di mercurio, di zolfo, di sali, che, fino dal
primo impasto, è infuso nelle nostre crete; e del diverso rombo di vento
a che si volge l’ago delle nostre tra- montane. Nel vostro stesso campo ,
signori maestri del no- vello mondo, consultate Gali , Spurzheim ,
Fossati, Combe. Crederanno leggervi sul cranio, scritto e significato a
grandi rilievi, se siete della pasta dei Tersiti, de’Paridi, degli
Ulissi, de’ Palamedi, o degli Achilli.... E non solo
differenti s’esce di prima stampa dall’utero ma- terno. Altre cagioni
soggiungono, da natura pur sempre, e dal conflitto perpetuo delle sue
forze , per le quali alle ine- gualità fisiche e morali, cominciate fin
dai primordi nostri, se ne vanno altre aggiungendo finché dura la vita,
ed alcune per effetto della stessa vita. Imperciocché a questo lavorano
giornalmente le infermità, e centinaia di fortuiti accidenti che
sopravvengono... le differenze di climi e del tenor di vita... i nostri
spropositi volontari ed involontari... : senza di che molle cose al
vecchio toglie P età , e al fanciullo non le dà ancora... E
l’arte , eh’ essa medesima è da natura , opera forse , e conduce, a
diverso fine? -L’arte è l’educazione, secondo che ce la danno, secondo
che ce la diamo. Or l’educazione, fac- ciasi quel che si vuole, è per
l'uomo una nuova grandissima cagione d’ inegualità , la quale niun potrà
mai governare in modo da impedirle il produrre questo ultimo
effetto. E , primo , è una potente cagione d'inegualità dalla
parte degli educatori. Perché come poterli applicare a uno stesso
modo, a una stessa misura, in tutti i luoghi ed a tutti? nelle città e
ne’ villaggi ? nelle campagne e ne’ boschi ? a que’ che vivono raccolti
insieme, e a que’che in solitudine, o grande- mente spicciolati e divisi
? Come trovarli, da per tutto, uguali in eccellenza, per dottrina, per
zelo, per altezza, per l’allre molte qualità che aver denno , o
dovrebbero ; o come non piuttosto contentarsi assai spesso di non
trovarne, di non a- verne, o di averne de’mediocri, degl'insufficienti, o
decessi- mi? Come, da per tutto, avere o procacciarsi le stesse
faci- lità secondarie , gli stessi ausiliarii mezzi , senza di che
la bontà degli educatori o fallisce, o men vale? Come non avere
riverberate sugli educati le diversità che provengono dalla diversa
natura de’ maestri, de’ metodi, degli aiuti estrinseci? E, per tutti
questi motivi, come non giungere all’effetto ul- timo, che, se le
differenze predisposte da natura erano già grandi, più grandi ancora
saranno esse fatte, dopoché di ne- cessità in diversissimo grado e modo
l'arti educatrici saran- nosi adoperate? Secondo , è un’altra
cagione d’ineguaglianze , dalla parte di coloro che debbono educarsi.
Imperciocché le inegualità già preordinate in ciascuno nell’esser
coucetli, come potran- no non avere accrescimento e moltiplicazione,
aggiuntevi le inegualità avventizie, prodotte dall’azion di coloro, che,
più o men bene, o più o men malamente, educheranno? Dove, tra
inegualità ed inegualità , sarà pur talvolta che accadano compensazioni:
ma sarà più spesso ancora, che le inegualità si sommino, e s’alzino a
maggior valuta... Terzo, son molte più, accidentali, cagioni, che
necessaria- mente faranno anche maggiore essa differenza : come dire
, il più o men bene, o male affetto stato di salute, o di vigo- re
, il più o meno di fortuiti ostacoli , o di fortunate agevolezze
sopraggiuugenti : la nebbia delle passioni viziose che alcuni offuscalo
la loro forza che molti distrae; lo stimolo delle passioni generose che
ad altri é incitamento... cento al- tri e mille incidenti della vita, che
or turbano, or secondano, e fan mentire in bene o in male ogni anticipato
presagio da natura tratto... Ma v’ è una piu generai
considerazione , che vie meglio conferma la verità del mio detto. Essa ci
è somministrala dalla ricerca del fine stesso per cui la natura ci diede
delle arti educatrici il bisogno, l’istinto, ed il seme. Questo
fine evidentemente, e per sua essenza, è, sempre, e ogni giorno
più, disuguagliare, anziché uguagliare. Imperciocché la per- fettibilità
umana esse arti han persubbietto sul quale lavo- rano ; e la
perfettibilità è cosa sterminata. L'arte, cioè l’edu- cazione,
perfeziona, che è dire s’ aggiunge alla natura, ac- ciocché quello che in
essa è germe, tallisca, cresca in pian- ta, e fruttifichi. Ora il germe è
d’ineguaglianze: dunque ine- guaglianze raccoglierannosi dall’ educare,
tanto maggiori, quanto l’ educare sarà più perseverante, e condotto a
mag- giore eccellenza. In ciò sta il progresso, che è pure un altro
degl’ idoli del nostro tempo : in ciò la civiltà, effetto princi- pale
del progresso , che tanto oggi i nuovi dottori dicono di voler
promuovere, non s’accorgendo , che il suo vero fine è aumentare le
differenze tra gli uomini, non già scemarle. Gara infatti essa è per
essenza , e specie di palestra aperta a tutti, dove arte aiuta natura a
far si che ciascuno co’ vantag- gi che può e sa, si gitti innanzi quanto
più può e sa meglio, lasciando iudietro il compagno o i compagni di
quanto piu intervallo è possibile , nelle diversità di direzione che
tutti prendono. Cosi arte e natura a un medesimo scopo conven-
gono. Quella accresce 1’ effetto di questa. La disuguaglianza é data
all’uomo per legge; il disuguagliarsi per istinto, e per bisogno. Voi piu
facilmente fabbrichereste gli uomini della favola di Luciano, usciti
dalla granata magica , con metodo di successive dicotomie, che gli uguali
i quali sognale. Arroge, die questa è una legge non esclusivamente pro-
pria della nostra specie. Chi ben considera, trova ch’è legge data
all’intero universo, come norma del suo modo d’esse- re. Tutto in esso è
varietà e diversità. Tutto è gerarchia. La materia è una nella sua
sostanza , pur l’oro non è argento, nè T argento rame, nè il rame piombo
, nè il piombo arse- nico , nè l’arsenico azoto od ossigeno. Vi son
dunque caste nella materia , come nella specie umana ; come nelle
specie degli animali domestici (cavalli , pecore, capre)... V’ è
una gerarchia delle stelle tra le stelle, delle comete tra le
comete. V’é il grande ed il piccolo, il luminoso e l’oscuro, quel
che domina e quel eh’ è dominato. Un carbone è cristallizzato ; è
brillante; è la coli-i noor, la montagna della luce, che brillerà sulla
fronte di Vittoria regina d’ Inghilterra ; un altro car- bone non è buono
che a scaldare la pentola della massaia. Lo stesso grano, dice il più
santo de’libri, è trasportato dalla piena del torrente nel mare , e vi
perisce ; dal vento tra le sabbie , e non vi nasce ; dall’agricoltore nel
campo , e , se- condo le condizioni diverse del terreno e de’ succhi , v’
in- tristisce c non viene a spiga , traligna ed è ucciso dalla gol-
pe... prolifica ed è ricchezza della messe e del granaio. Evi- dentemente
queste diversità di sorte furono, sin dalla prima origine, ne’ disegni
del Creatore, nelle necessità imposte al creato... Quanto
agli uomini, ciò non è solo un fatto cieco ed im- provvido : è una
manifestazione splendente della sapienza del divino architetto. La vita
normale della civil congrega ha bisoguo di simiglianti radicali
disuguaglianze. È forza che v’ abbia chi non si sdegni d’ esser destinalo
ad metalla , alla coltivazione laboriosa delle terre, alle meccaniche
fatiche del- l’incudine, della sega, della pialla... Come è forza che
v’ab- biano altri ad altro buoni, ed a meglio, secondo tutta la va-
rietà degli uffici e de’ servigi che se ne aspettano. Fede c fi- losofia
s’ accordan poscia a proporci , affinchè nissuno si la- gni , il sistema
delle compensazioni in una seconda vita. Or, se tanto è innegabilmente vero,
come s’ osa insegna- re al popolo l’opposto di queste dottrine? Come
s’abusa della sua irriflessione naturale e della sua ignoranza per
falsificar- gli sino a questo segno il giudizio? Come s’ardisce
predi- cargli ogni giorno il domina supposto delVeguaglianza, o non
fiancheggiandolo con ragioni, o rendendolo credibile con mi- serabili
ragioni di fratellanza universale, d’identità d’origine, o simile? (1)-E
v’ha chi chiama perfino a complicità dell’in- ganno la religione , come
se vi credesse! V’ha chi usa come argomento: Siamo lutti figli d’Adamo;
lutti ugualmente re- denti sulla croce; tutti ugualmente fratelli in
Cristo! - Fra- telli si certo ; c figliuoli lutti della prima umana
coppia , e della seconda per Noè il diluviano; ed ugualmente
ricompe- rati col prezzo di sangue sul Golgota: ma non perciò
uguali; come uguali non erano, ancorché fratelli, più ancora
stretti tra toro che non un uomo a un altr’ uomo, Caino e Abele ;
come uguali non erano tra loro, ancorché fratelli, Isacco ed Ismaele,
Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e Beniamino, e gli altri figliuoli di
Giacobbe... Fratelli, e perciò tenuti a reciproca- mente amarci, ad
assisterci, a giovarci; ma non a modellarci ognuno sull’altro , ma non a
metterci tutti a uno stesso li- vello , ma non a interdirci ogDuno i
vantaggi delle nostre individualità , o a pretender di divider cogli
altri gli svan- taggi. L’ autorità della religione , della quale s’ abusa
, non ha mai consacrato queste massime , o , per dir meglio , ha
consacrato sempre le massime contrarie. Io dimentico però, che hannovi, a
di nostri, cristiani a’ quali par bello servirsi del vangelo per
falsificarlo, e spurii cattolici, i quali s’argo- mentano d’ insegnare
caltolicliesimo alla Chiesa , e teologia alla teologia! (1)
É facile intendere, se non il come, almeno il perchè. Si cercano nel vol-
go, e nel minuto popolo complici, ed uomini di braccio per l'opera di di-
struzione ebe si medita; e l’adescarli con si fatti miserabili e detestabili
ingan- ni par utile , se non bello. Se non che intendo bene quel che
vorrassi rispondermi. Sorgeranno d’ ogni parte di coloro , che vorranno
dirmi , nissuno esser si stupido da pretender di negare il fatto
visi- bile e palpabile delle ineguaglianze di natura e d’arte, che
son tra gli uomini, troppe delle quali non possono non essere in un
grado maggiore o minore, si nel morale, che nel fìsico. Solo chiedersi
oggi quell' eguaglianza , che spetta agli uomini , in quanto congregati
in società; e questa esser Veguaglianza che chiamasi civile, cioè de’
fondamentali diritti della vita di citta- dino; e pretendersi essa come
dovuta per legge eterna di na- turale giustizia. E avvegnaché, ristretta
la proposizione en- tro si fatti più precisi e più angusti termini , non
è poi si chiaro il comando della legge di giustizia la qual si cita ,
e resta sempre a superarsi la difficoltà del concepire come e
perché abbia a credersi di misurar giustamente, applicando a tanti fra
loro disuguali una misura uguale per tutti , fan prova d’ avviluppare sé
e gli altri in un tessuto di ragiona- menti , che è pregio dell’ opera l’
esaminare- Esaminiamoli dunque, c cerchiamo di far conoscere quanto essi
hanno po- co del solido, e quanto facilmente s’abbattono, e si
riduco- no a nulla. Dell' eguaglianza nel civile consorzio e su
quali falsi fondameli ti si pretenda stabilirla. Si vuole l
' Eguaglianza civile , cioè l’eguaglianza ne’ fonda- mentali diritti
della vita di cittadino! E per che buona ra- gione ?-Rispondono i pili
barbassori: « non veramente per - « che siavi tra gli uomini
l’eguaglianza primitiva di natura , « o perché possa l’arte giungere a
distrugger mai le diffe- « renze che natura ha in noi largamente seminate
nel tisico « e nel morale j ma perchè , tra tante che mancano ,
un’e- « guaglianza primordiale è pur veramente in tutti, ed è « T
eguaglianza di condizione primitiva , quando la vita civile « ha per noi
, secondo ragione , normale coininciamento. » E , a meglio spiegare il
concetto loro , cosi ragionano , tornando un tratto a considerazioni
relative alla libertà - « Sia quel che si voglia de’ limiti che la legge
eterna ha se- « gnato al libero arbitrio d’ogn'uno , e della natura
obbli- « gatoria de’ precetti ch’essa legge dà a tutti ; se
potente- « mente c’invila essa ad unirci in civil convivenza , non
, « per fermo , l’invito è coattivo (posto che niuu pretende «
esserci disdetto il segregarci per vivere in solitudine , « quando ciò ne
piaccia) ; e molto meno è obbligatorio a un « dato modo d’associazione
(posto che niun pretende esser- « ci da ragione naturale vietato il torci
all’ associazione , in « che , per esempio , ci troviamo inclusi dal
nascere , per « entrare , a nostro libito, in un'altra la quale
consenta « di riceverci). Dunque l’entrare , o il restare , in una
data « civil congrega, è , per sé, atto di libertà, rispetto al qua
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conserviamo intero l’arbitrio. Ma lo stesso ragio— « namento può
ugualmente applicarsi ad ogni uomo. Dun- « que tutti gli uomini , debbono
, in ciò , riguardarsi d* li- ft guai condizione : lutti almeno coloro ,
a togliere qui ogni « soGstcria , che hanno sufficiente normalità coni’
uomini , « quanto alle facoltà naturali (salvo il diverso grado in
che « le posseggono) , per non dare evidente motivo d’ esser te- «
nuli come non liberi. Ma concessa l’esistenza d’almen « questa
eguaglianza , non v’è poi ragione perche da detta « eguaglianza non si
derivi un’altra eguaglianza , e vuoisi « dir quella per che , ne’
rapporti generali di cittadino a cil- « ladino , e da cittadino a tutta
la congrega , pesi c benefi- « zi , cioè doveri e diritti sian
parificati. Dunque sì fatta pa- li rificazione , che è l’eguaglianza la
quale aveva a dimo- « strarsi essere di diritto naturale , lo è
realmente. » Dal qual tenore di discorso è poscia uscita , nel passato
secolo , tutta la dottrina del palio sociale, c (connessa con
quella) l’altra dottrina , secondo la quale il popolo , cioè la somma
di tutti i concorrenti a civil consorzio, nell’atto del concor- rervi , c
dopo esservi concorsi , ha in sè la vera sovranità e supremazia, per tal
guisa , che ognuno ne possiede la sua coeguale parte: ciocché costituisce
poi quella che si chiama la sovranità popolare , o la democrazia
risguardata come il solo governo naturale e legittimo. Donde molte
conseguen- ze scaturiscono , c principalmente questa « Che gli entrati
, « od i liberamente restati in una civil convivenza, se dispn- ee
nendo di sè , come sovrani che ne sono , tutti con egual « volontà e
potestà si spogliano o si spogliarono pacifica- le mente d’una parte
della sovranità di sè stessi , per forma- le re di queste parti riunite
l’altra sovranità posta fuori , e ee depositata in mani terze , alla
quale , in essa convivenza , ee liberamente si sottoposero, non però a
questa seconda so- « vranità non si serban sempre superiori. Nè , in
quanto è « artificiale , e procedente dal loro libero arbitrio , da
cui « trae tutto il suo valore su ciascuno , può questa sovranità
fattizia distruggere la supremazia delle volontà da « cui supponsi
derivala. E perciò , quantunque soprastante « per patto , essa è
nondimeno in realtà soggetta , e dalla « stessa volontà onde procede può
quindi essere rivocata e « distrutta ». Le quali teoriche con tanto animo
i nuovi maestri le difendono , che , non potendo non accorgersi ,
ciò , nel fatto , non esser mai , perchè , storicamente par- lando ,
l’asserito patto sociale , mai , o quasi mai , non in terviene , ancorché
per diritto dovrebbe , a lor sentenza , intervenire « ciò dicono provar
solo la spuria origine delle « civili congreghe in che , per tal guisa ,
si è inclusi. Don- « de è poi , che il pacifico e precario restarvi , il
qual fac- « damo , non può , a lor detto , chiamarsi nemmeno un «
tacito consentimento. Imperciocché secondo il proverbio, « chi non parla
non dice niente. Ed , essendo che ogni go- « verno é intanto una forza di
fatto alla quale difficilmente « si può resistere , cosi il non dir
niente esso medesimo è , « conchiudon essi , una necessità imposta ,
piuttosto che « volontaria. Il perchè , ora massimamente che i popoli
co- « minciarono a parlare , il diritto, il quale non poteva essere
abrogato , o soppresso, risorge , dicon essi , con tanto « più vigore , e
legittimamente pronunzia illegittimi quc’civili consorzi , e sentenzia
rivendicata e ripigliata da tutti « quella sovranità di sé , che natura
diè loro , per esercitar- « la congiuntamente , dove ciò aggradi , nella
formazione « di consorzi nuovi e di nuovi governi , a tal forma , e
con tali leggi , che il libero ed effettivo consentimento prece- «
da consorzio e governi, e li accompagni , o , cessando , « cessi
l’autorità di questi , c sia come se non fosse. Donde « tornan di nuovo
alla tesi , che la democmzia è nel diritto x di natura , in quanto almeno
poter supremo, cioè alto ed « indeclinabile potere , che sovrasta ad ogni
maniera di go- « verno , la quale il libero consenso degli uomini abbia
sta- « bilito, o sia per istabilire ; e che tutte le altre maniere di
« governo, anche consentite , sono artificiali e transitorie, mentre
quell’ una , o esista o no in alto , è permanente ed «
imprescrittibile... » Cosi presso a poco ragionano , quanto a tutto
cotesto domma dell'eguaglianza , e a’ corollarii che ne traggono ,
i più logici tra costoro, e nondimeno ragionano pessimamente e con
una molto povera logica. Perchè , in tutta l’esposta tela di raziocinii ,
s’afferma , più che si provi , quella sup- posta egualità di condizion
primordiale , che , o realmente , 0 per una finzione giuridica ,
precede , o debbe precedere, l’ingresso consentito d’ognuno nella civil
convivenza , e che è data come fondamento di tutta l’eguaglianza civile
intorno alla quale si disputa. In questa vece facilissimo è dimostrare
che il fondamento , assunto per postulato non ha sussistenza alcuna.
Imperciocché sia pur dato e non con- cesso a’cosi ragionanti d'assumer
l’uomo nel momento d’en- trare con perfetta libertà di sè in una associazione
nuova, 1 cui patti abbiano allora allora da stringersi , e, come
mol- ti oggi dicono , da formularsi (ciocché , nel fatto , non è
mai) ; certo , anche in questa immaginaria ipotesi , di che direm poi
quel che è a dirne , falsissima cosa è, che , nella turba de’ concorrenti
a costituire la nuova congrega , cia- scuna arrechi , non una quale che
siasi equipollenza , od eguaglianza di requisiti , ma quella equipollenza
od egua- glianza che sarebbe necessaria per venire alla conclusione
a cui vuol venirsi. L’equipoHenza o l’eguaglianza che v’è , è quella
delle individuali libertà degli ancora sciolti, ossia è l’eguaglianza
nella autocrazia, o nella signoria di sè , che ciascuno , per ipotesi,
conserva ancora , e in virtù delia quale , come padrone della propria
individualità , concorre e consente per la sua parte alla formazione d’
un sociale con- - sorzio (1). Ma da che si viene all’inventario ed
alla ricogni- ti) E tuttavia del rigore di questa stessa speciale
uguaglianza potrebbe di- sputarsi , cercando deulro quali termini, e
sotto quali condizioni ogni uomo è sui juris nel fatto. Ma il cercarlo
sarebbe un'iucidentu questione, la quale ci porterebbe troppo lungi.] zione
de’ capitali e de’ requisiti che ciascuno con sè reca ad associazione,
l’equipollenza o l’eguaglianza subito cessa , e cominciano le
disuguaglianze... tutte quelle disuguaglianze, che noveravamo nel
precedente articolo , e che non posso- no non essere messe in conto
rispetto al reciproco interes- se degli stipolanti , c a quanto esso
comanda. Imperciocché sia pure un contratto quel che trattasi
di formare , e sia pure in libertà d’ognuno il preordinarne gli
articoli a suo proprio grado , o il ricusare la stipolazione. Ma si abbia
in memoria , che qui si domanda al postutto , a stipolazione da farsi ,
non quello che ognuno , con un pensiero egoista di superbia , d’invidia ,
e di gelosia , non volendo esser da meno degli altri , pretende a
perfetta pari- tà cogli altri , per prezzo d’adesione , o sia o no
interesse degli altri il concederlo ; ma quello che gli eterni
principii di ragione c di giustizia in questo proposito consigliano
ed ordinano. Perchè , insomma , bisogna ricordare quel che dicevamo
nel nostro primo articolo. Non è il libero arbitrio puro e semplice la
norma direttrice degli atti umani , e non esso è l’autocrate, oil sovrano
legittimo; nè alcuno ci ven- ga a dire , secondo filosofìa , stai prò ralione
voluntas. Il ve- ro e legittimo sovrano è il Xòyos", e il Xòyos ,
cioè la ragio- ne, non di tale o tale altro individuo , ma si
l’universale ; quello che è la espressione del senno raccolto dalle
ragioni più squisite di tutte l’età e di tutti i luoghi. Rispetto a’
cui precetti non si può nemmen dire che nel caso nostro siavi
oscurità , o incertezza , chiari essendo e non contrastati i principii
generali regolatori de’ contratti di società , non secondo tale o bile
altra legge scritta , ma secondo il natu- rale diritto. Insegna esso ,
che se un individuo contribuisce al bene della società men clic altri ,
non può pretendere d’essere accettato alla stessa dose di beneficii che
gli altri., i quali contribuiscon più. Nè se , quanto
aU’amministrazio- ne della società intera , sono in essa e capaci ed
incapaci , è giusto che gl’ incapaci pretendano il diritto dell'avere altra
parte che indirettissima nella direzione e nel governo degl’interessi
sociali. Di che l’applicazione al caso nostro non ha bisoguo d’altre
parole. E tuttavia l’ altre parole, che qualcun chiede a maggiore
schiarimento saran dette a suo luogo. Qui basti per ora t’avere indicato
in che giace la fal- sità del ragionamento su cui la pretensione
all’eguaglianza civile si vuol fondata ; e- basti chiudere il discorso
facendo riflettere , che , dopo le cose dette , resta almeno a tutto
ca- rico ornai de’difensori di cotesta domandata eguaglianza il
provare , che realmente , nell’ ipotesi del libero convenire degli uomini
a costituire una nuova civil convivenza , tutti arrechino in contributo ,
non una parziale ed apparente , ma una totale e conveniente egualità di
condizione primor- diale , e nè più , nè meno di quella che il caso
nostro ri- chiederebbe a rigore di legge. Ma è una seconda
parte , che non vuol esser passata sot- to silenzio. Questa è l’esame di
quel che si vuol dare per conchiuso ed accettalo ; cioè che gli umani
consorzi , come sono fin qui stali c sono , abbian da considerarsi tutti
ap- punto per illegittimi , e spurii, perchè non consentiti nor-
malmente da ciascuno nel popolo , ed anomali , e non for- mali secondo
quelle che sole si giudicano essere le regole veramente razionali ,
destinate da natura a presiedere al nuovo patto sociale , e a servire a
stabilirlo. Intorno a che veggiamo un po’ quanto , ugualmente, e con
quanto perico- lo , vanno errati coloro i quali cosi predicano , e cosi
s’osti- nano a pervertire il piceol senno delle turbe. • Sta
bene mettersi in capo di sovvertire tutto ciò che è stato , ed è, in
fatto di civili convivenze , e volere sconvol- gere da cima a fondo lutti
gli stati , perchè vi sono alcuni (e sian pur molti ) , che gridano che ,
negli stati , cosi come sono , la distribuzione de’diritti civili non è esatta
! Sta meglio che questi medesimi , i quali cosi propongonsi di tur-
bare violentemente la pace del mondo , giurino di non vo- ler cessare la
guerra da essi intimata , e già flagrante dal lato loro , contro alle congreghe
umane oggi esistenti , e di non posare le armi , e di non finire le
cospirazioni , finché non solo a una riforma in ciò siasi giunti , ma
quel , che è più , finché uon siasi pervenuti alla maniera di riforma ,
la quale , a lor senno , è la sola giusta ! Peccato che vi siano
certe difficoltà teoriche e pratiche , le quali combattono questo bene e
questo meglio... £ so che delle difficoltà oggi non s’usa occuparsi dai
proseliti delle nuove scuole. Chia- mali vigliaccheria, strettezza di
spirilo l'occuparsene. Chiamano oscurantismo il proporle. Chiamano forfattura
il dir- le al popolo. Noi , che non siamo proseliti di quelle scuo-
le, diciamone alcuna cosa. Non saremo da essi ascoltati. Non mancheranno
tuttavia gli ascoltatori in tempi piu tranquil- li , se non oggi. Questa
è almeno la nostra fiducia. Considerazioni contro al preteso diritto di
rinnovare le società umane per accomodarle alle proprie idee preconcette
, e contro alle tentale riduzioni ad allo di questo diritto.
« Il mondo'( vuoisi dirci ) ha bisogno di riforma , e di « quella riforma
che noi da lungo tempo andiamo indican- « do : e , poiché n’ha bisogno,
non resteremo colle mani in « mano. - Giovandoci d’ogni mezzo, tanto
faremo , finché « avrem pur conseguito quel che ci siamo proposto. »
- Quante proposizioni incluse nelle precedenti parole, ognuna delle
quali proposizioni, in argomento si grave , richiede- rebbe un libro a
parte per trattarla come si conviene, e per porre ben in chiaro quel che
debba pensarsene! - « Il mondo ha bisogno di riforma. - La riforma
che bisogna è quella che le scuole democratiche oggi insegnano, e non
altra. - Questa maniera di riforma si ha diritto di cercare
immediata- mente il tradurla ad atto , senza lasciarsi trattenere da
quale si voglia opposta secondaria ragione. - Tutti i mezzi son buoni
e leciti , se a sì fatto fine paian conducenti. » - Ecco quel che
vale il discorso con che abbiamo incominciato questo articolo! -
Non tutte , per vero , le dette proposizioni s’ osa dirle da tutti
: ma tutte son professate con cieca ed ostinata fede. Pro- fessarle, in
questo caso, è metterle in pratica, perchè la lo- ro natura c tendenza è
pratica più ancora che teorica. Due fini si hanno. Uno è terribile. Da
maniaci e per maniaci ; impossibile, grazie al cielo , a conseguirsi
interamente, ma purtroppo tale, che il camminare verso esso è impresa feconda
de’ piu gran mali che melile umana possa immaginare. L’altro è un
castello in aria verso il quale non è pallon vo- lante che possa
condurre, perchè tutti i palloni son condan- nali a precipitare prima di
giungervi: castello senza base , altra che di nuvole; castello posto
nella regione de’ turbini, e del fulmine; dove niuno durerebbe
tranquillo, e senza pe- rirvi alla lunga, corps el biens. Il primo è
mettere a soqqua- dro ogni cosa : città , terre, castelli , e ville, per
distruggervi gli ordini stabiliti , e, se bisogna, tutti che s’oppongono
alla distruzione. Il secondo è dare alla specie umana un altro or-
dinamento: ordinamento repubblicano; ordinamento di pura democrazia,
interpretata e stabilita nel senso il più largo. Se ne spera per gli
uomini d’un altro secolo (certo, non pe’vi- venli oggidi, e, men che per
tutti, pèr quegli stessi che ciò tentano ) quasi l’inaugurazione d’un’
era nuova tra gli uo- mini , era di felicità , di ragione, e di
giustizia! Cerchiam di mostrare quanto questa speranza è vana, temeraria,
fallace, e quanto questa impresa è colpevole, sottoponendo ad una
ad una, ma brevemente, ciascuna delle proposizioni a cri- tico esame.
- 1. Il mondo ( morale ) ha bisogno di riforma ? - Eh si. Ma
la perfezione, in ogni cosa umana, è un punto di mira piut- tosto che una
meta. Vi si guarda, ma non si pretende ar- rivarvi. Vi si guarda per
prendere la direzione, e per ac- corgersi se si sbaglia nell'andare, come
si guarda alla stella cinosura dal navigante, non che il guardarvi
significhi spe- ranza di raggiungerla. E bello è accorgersi
di quel che merita riforma. Per gran disgrazia - judicium difficile ,
experitnenlum periculosum - Si prendono spesso de’ be’ granchi a secco,
in questo mare, piu che in altro, e con più danno. E
conosciuto il bisogno vero di riforma , bello è spesso il tentare di
operarla. Spesso, ma non sempre. Perchè vi sono in medicina certe
malattie, che a volerle curare si fa peg- gio ; e ciò nel morale, come
nel fisico. Perciò un medico savio , prima cerca di ben conoscere la
malattia , e di non ingannarsi nel giudicarla ( cosa, come testé
notavamo, non facile ). Poi cerca se si pnò medicare. Se si può
intrapren- derne la cura subito. Se non giova invece differire il
rime- dio, e far vero il dinotando restiluit rem. Od ancora se a
tut- to non è preferibile il rassegnarsi per non isdegnare il mafe
ed intristirlo. E il medico savio al cito preferisce il tufo; e , salvo
pochi casi estremi , e disperati, che scusano le più grandi temerità, non
mai dimentica lo jucunde d’Asclepiade. Gli stati sono grandi corpi
, ne’ quali un'intera sanità è impossibile. E guai se tutti pretendono di
tastar loro il pol- so, e di trattarli alla risoluta con ferro e con
fuoco, alla Browniana , od alla Rasoriana , dandosi patente di
dottori senza diploma. Turba medicorum occidit Caesarem , e Cesari,
in subiecta materia siamo tutti. Figuriamoci poi quel che de- v’essere,
quando i medici non sono che empirici. . ! Quel che è peggio, nel caso
nostro que’ che si gittano innanzi a tastare il polso, non sono nemmeno
empirici; perchè empiri- ci sono quelli che se non han teorica, almeno
han pratica : e che pratica possono avere di cose amministrative e
poli- tiche tutti cotesti innanzi tempo usciti, o piuttosto
scappati, di scuola , a’ quali l’età troppo giovanile e il non essere
mai stati in faccende nega ogni esperienza? La riforma che
bisogna è quella che le scuole democratiche oggi insegnano , e non altra?
Stimo la franchezza colla quale in piazza questo è spaccialo come assioma
, che non importa dimostrare. V'ha egli in ciò buonafede? Quando lutti
colo- ro ette studiano a queste cose fossero d’ un medesimo avvi-
so, potrebbe ben dirsi a chi non lo sa : Ecco la verità in po- che parole.
Le prove sono inutili. Si tratta di quel che è con- sentito generalmente.
Ma qui la dottrina che si va spargen- do è contro a ciò che i più grandi
Statisti e Politici sempre ed uniformemente insegnarono. Trova oggi
stesso una forte opposizione nelle scuole e fuori delle scuole , presso
il più gran numero di coloro che a queste materie han volto l’animo
preparato da forti studi. Noi medesimistiam per pro- vare, che è dottrina
palpabilmente falsa; e lo proveremo, se al eie! piace.E si tratta d’ana
dottrina che minaccia gran- di interessi stabiliti , dottrina gravida di
sconvolgimenti e di rovine .... forse e senza forse di stragi : e affermo
anzi senza forse, perché quei che la professano , stragi senza re-
ticenza minacciano a ogni terza lor parola. Con che corag- gio dunque
persi fatto modo s’inganna il povero popolo in- vasandolo a questa guisa
di supposte certezze, che non sono che grossolani e pericolosissimi
errori , atti a scaldare le sue passioni le più accensibili, le più
feraci di mali quando sono accese ; o che , per Io meno, son dottrine in
nessun modo dimostrate? 3 La riforma, la cui necessità si v#
predicando con parole, si ha diritto di cercar di tradurla immediatamente
ad atto senza lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta
ragione? Ciò è ben qualche cosa di peggio. Tal diritto in una
proposizio- ne incerta , combattuta , negata da troppi ed
autorevolissi- mi I Bella legislazione iu materia di diritti ! Ciò è il
diritto in causa grandemente controversa ( e non tornerò ad aggiun-
gere , nella quale non è difficile dimostrare che si ha torto marcio ) di
sentenziare, non solo , in proprio favore, som- mando in sé le parti di
contendente e di giudice; ma ezian- dio quello d'eseguir subito la
sentenza che si è pronunziata dando a sé ragione ! S’ardisce dire : « Se
gli altri negano la « certezza della opinione nostra, noi ne siam
persuasi, e « non possiamo permetterci di dubitarne, ed operiamo
co- « me persuasi e non dubitanti ». - Ma gli altri che nega- no,
negano perchè, con più persuasione ancora , od almanco con pari fermezza
di persuasione, hanno una certezza in sen- so contrario. V’è dunque, per
lo meno, lotta teorica e coe- guale di certezze contro a certezze, delle quali
nessuna , cosi di leggieri, cede alla sua contraria (1). Or perchè,
e (1) Io indebolisco l' argomento . e mi lo torlo. Gli altri che
uegano hanno per qual ragione, la certezza vostra dee prevalere alla
no- stra, e non la nostra alla vostra? Per la ragion della forza, o
per la forza della ragione ? Se per la forza «Iella ragione ; dunque
ragionate, e vincete ragionando, cioè persuadendo, ciocché solo è vincere
in fatto di ragionamenti. Ma > finché ragionando non avrete vinto, e
non avrete guadagnato quella generai convinzione degli intelletti, nella
quale sola può con- sistere la vittoria , confessate almeno ch’ei v'é la
sola cer- tezza del non v’ esser certezza, e ciò colla solenne
forinola, Nonliquei; e lasciate le cose, nel generale, come stanno
, finché alla certezza clic si cerca non siasi veramente giunti. Se
poi la certezza vostra volete che alla nostra prevalga per Tunica ragione
della forza, abbiate almeno il pudore di non parlar più di ragione. . .
abbiate almeno il pudore di non parlar più d'eguaglianza civile de’
difilli- Voi rinegate quest'ul- tima col vostro fatto medesimo, mentre la
difendete col det- to, e mentre pugnate ( solete dice) per conquistarla
ad uni- versale vantaggio. Voi la rinegate, perchè vi fate
superiori, e prevalenti , per forza , a lutti coloro che credono e
vo- gliono il contrario di quel che voi credete e volete. Voi la
rinegate, perchè, prima di contar quanti siete, senza legit- timamente
poter sapere ancora se siete la pluralità , o il mi- nor numero, vi
tenete padroni di venire ai fatti, e di com- battere contro ai
dissenzienti da voi, pochi o molti che sia- no , sforzandovi di tirarli a
voi men colle ragioni , che ado perandovi le cospirazioni , e a vostro
libilo le armi , cioè la una certezza ben altrimenti salila die la
vostra. La vostra è ertezza di parti- lo, o di setta : quella degli altri
è certezza fondata sul senso colmine, cioè sul credere presso a poco
universale degli uomini di lutti i luoghi , e di tutti i tempi; di quelli
che si son sempre giudicati i più sapienti, ed i migliori ; de- gl’
interi popoli , i quali tra gli altri ebbero la riputazione di più savi, e che
me- glio prosperarono finché a questa certezza furono fedeli nella
direzione della loro azienda politica. Si può egli dunque istituir
confronto giusto fra la vostra certezza , e la certezza degli altri ? Chi
non ha il senno velato da passione ri- sponda e giudichi.]frode eia
violenza. Voi rinegate, perché non vi vergognale di dire, clic, se anche
una maggiorità evidente e contata , dissentisse in modo esplicito da voi,
voi minorità non più dubbia , pur seguitereste la guerra per vincere,
cioè per fare che il numero minore soperchiasse il maggiore, e per
con- seguente acciocché voi che costituireste il primo dei due
numeri aveste a valere ciascuno più che ciascuno degli altri, costituenti
il secondo numero. Voi finalmente la rinegate , perchè, divenuti ancora maggiorità
manifesta , nel voler tradurre ad alto la opinion vostra, se voleste
esser ben d’ac- cordo colla dottrina vostra d’ universale eguaglianza
ne’di- ritli civili, dovreste concedere che il vostro solo diritto
non potrebbe esser che quello di formare un consorzio civile del
modo che a voi piace con coloro che con voi concordano , lasciando a’
discordi di formare un altro consorzio a lor gu- sto , ma non di sforzare
le volontà de’ discordi a soggiacer- vi ; non di comandare ad essi , e di
disporre delle lor cose : ciocché è misconoscere il loro diritto,
individualmente pari a quello di ciUscun di voi . . . ciocché è dare alla
forza il diritto supremo d’annullare l’eguaglianza. . . ciocché é
con- fiscare in ognuno de’dissidenti I’ autocrazia di sé e delle
sue cose , e ciò a profitto d' una sovranità vostra su voi e sugli
altri . . . E so che risponderete : — « I dissidenti , che riescon
mi— « nori di forza e di numero, sgombrino il suolo, e se ne va- «
dano altrove; o se voglion rimaner tra noi, s’assoggettino « colle
persone e colle cose loro. » — Ma qual è il principio di ragione , col
quale giustificate questa vostra massima di governo ? Un patto reciproco
di cosi fare , tra maggiorità e minorità ? No : perché questa massima non
può esser parie d’ un patto, che non é fatto né consentito ancora, e per
con- seguenza che non esiste altrove che nel paese delle vostre
spe- ranze e de’ vostri desiderii ; donde poi si deduce, che non è
obbligatoria per que’ che ai patto da voi proposto non si son fatti
spontaneamente ligi , e che , come uguali a voi , sono perfettamente
indipendenti da voi. O volete insegnarci, che così dev’ essere per un
diritto realmente superiore ed ante- riore a quello dell’ eguaglianza...
per un diritto antecedente ad ogni patto... diritto naturale... diritto
che attinge la virtù efficace e la sanzione dal fatto, in quanto è fatto;
e dal fatto, in virtù di clic i più numerosi , i più forti, i più destri
est in fatis, che faccian sempre la legge alle minorità di numero,
di destrezza, di forza? Guardatevi dall’insegnarlo. Quei che sa-
ran per avventura disposti a concederlo, potran per virtù di logica
dedurne ben altro da quello che voi ne deducete. Sic- come numero
maggiore, violenza, destrezza non sono lo stes- so che ragione ; siccome
sovranità di numero, di violenza, di destrezza non è lo stesso che
sovranità di ragione ; siccome , secondo la ipotesi assunta, numero
maggiore, violenza, de- strezza non han bisogno di consentimenti e di
patti per co- mandare ; siccome l’essenza di questa virtù di comando è
di misconoscere il principio dell'autocrazia nell'uomo, e quanti» a
sè, e quanto alle sue cose, e d’assoggettarlo, per cosi dire a
posteriori, ad una forza che gli viene dal di fuori , trasfor- mando il
fatto in diritto ( c sia poi, nella pratica, questa for- za , quella
d’una maggiorità, d’una minorità scaltra, o d’un solo ) : cosi, ammessa
una volta si fatta dottrina, s’accorge- ranno ch’ella assorbe ed
annichila tutte le altre. S’accorge- ranno, che non vi sono più , con
essa , nè uguaglianze , uè autocrazie di persona, nè patti che tengano.
Sentenzieranno che la forza, razionale od irrazionale, è l’unica
padrona... la tiranna degli uomini : la forza che ha la ragione di sè
in sè, o piuttosto in nessun luogo, ma che non ne ha bisogno. E sarà
con ciò giustificato non solo il vostro fatto, ma quello d’ogni despota
felice, d’ogni governo forte, qualunque sia- ne la natura, l’origine, e
la forma ; o sarà dispensato almeno dalla necessità di giustificarsi,
perchè sarà annullata la giu- stizia. E voi che avrete messa in onore
questa terribile mas- sima , n’ avrete guadagnato al postutto di metter
in onore un principio, che potrà esservi ritorto contro da ogni fortunato
avversario; e ridurrà tutto il diritto pubblico al dirit- to d’una guerra
perpetua tra gli uodiìdì ; senza mai speran- za di concordia o di
pace. Nè ho qui toccato l’altro punto della proposizione la
quale esamino , contenuto nella seconda parte di essa proposizio- ne
, dove si dice dai nuovi riformatori del mondo , eh’ essi non son
disposti a lasciar di cominciare o di seguitare l’ opera per qualunque
ostacolo d' opposta secondaria cagione: ciocché, mi si perdoni d’ esser
costretto a risponderlo , è favellar da mentecatti. Imperocché i soli
insensati dancominciamentoalle imprese , e s’ostinano a continuarle,
senza punto attendere alle circostanze, alle opportunità, agl’
impedimenti. Povera gente! Questo lo chiamano bravura! la bravura di
Storlida- no nella Gerusalemme liberata. È un amor idolatra della
propria opinione , la quale ha toccato i termini della infa- tuazione e
della mania. Per essi è vero Audaces fortuna ju- vat; non è vero — La
fine de’ temerari e degl’improvvidi è fiac- carsi il collo. Come tra
tutti gl’ innamorati, le difficoltà non servono ad essi ebe a far
crescere in loro le furie cieche del- 1’ amore. Caloandri fedeli ,
andranno per montagne e per valli, colla lancia sempre in resta, contro a
rupi e burroni, se non basti contro ad uomini , e contro a giganti. La
pre- videnza la chiamano codardia, tiepidità, sacrilegio. Sacrile-
gio, perchè questo amore è per loro una religione ( perdo- nino la parola
le orecchie pie). Son sacerdoti dell’ idea, della quale si son fatti un
idolo interiore ; e purché l’ idolo so- pravvinca, muoiano tutti, e la
patria stessa perisca. E sorga un'altra patria, se lo può, e sia rifatto
il mondo a pieno lor grado... o sia disfatto!!! — Aspetto, intanto, che
mi si pro- vi, gl’innamorati ed i fanatici esser mai stati , o poter
essere uomini atti ad amministrare le cose umane, private o pub-
bliche. Governali essi male sé medesimi : può immaginarsi come
governerebbero gli altri ! — Gran miseria de’ nostri giorni, il dover
perdere il tempo a confutare monomanie si mostruose! Il meglio che si
possa fare sul loro proposito è non dirne altro. Qualunque mezzo dee
tenersi per buono e lecito, se al fine conduca della universale Riforma
che vuol ten~ (arsir — Egregiamente , come il resto! L’assassinio...
per- chè no? Questo s’ usa. Questo non radamente è necessario. Ha
spesso una efficacia molto sbrigativa ed unica. Dunque è bene. E se è
bene I’ assassinio... un pugnale dietro le spal- le... un assalto a
tradimento... un’aggressione di quindici armati cantra uno disarmato,
perché non il veleno? perchè non l’ incendio ? perchè non la calunnia ?
perchè non » li- belli infa manti? perchè non le falsificazioni di
carattere? per- chè non il furto, o la rapina? #alum ad bonum ErgobonumH! E ciò sarà chiamato
riformare in meglio il mondo !... Togliete a! popolo ogni
sentimento religioso. La religione, eh’ esso ha, favorisce i tiranni. Toltagli
questa religione , il volgo sarà materialista ed ateo... M’inganno.
Alzerà altari Deo ignoto , come già in Atene ; ma ad un Dio , che non
ha fulmini per punire, non ha che indulgenze per chiuder gli occhi
sui male che fanuo gli uomini ; e gli uomini faranno il male
allegramente, e con piena sicurtà di sé. Ma per (sra- dicare nel popolo
la fede nel Dio de’ Cristiani , nel Dio che lo ajutò ad esser buono colle
sue speranze, co’ suoi spaven- ti , volete adoperar le scaltrezze d’una
filosofia sofistica e trascendente? Esso non la capirebbe, non la
gusterebbe. Me- glio vale creargli il bisogno di non crederla. Si renda
vizio- so , e tanto che disperi del perdono, e trovi più comodo il
negare le pene d' un’ altra vita, che il paventarle. Si seduca- no perciò
le donne, e s’infiammino d’illeciti amori. Si cor- rompa la gioventù...
Debbo io seguitare questo tristo inven- tario di pratiche atte a
pervertire? O non qui scrivo un pic- colo brano della prima pagina delia
storia contemporanea ? Cosi, non è tanto una proposizione astratta,
quella che qui discorro , quanto un’ opera avviata a compimento e
coti- diana. Già non c’ è più bisogno di prediche. Le prediche son
fatte, ed han fruttificato. È in pien corso il nuovo insegna- mento.
Aspettando la universale Riforma, a chi minacciata sotto forma d'una
ghigliottina, (o d’una delle tante eleganze inventate 60 anni fa in
Francia, coggi pronte a risuscitare: u«e fournée, une noyade, una
passeggiata di colonna inferna- le) , a chi presentata nell’ abito verde
della speranza come un secol d’oro che si prepara a nascere per condurre
in ter- ra la perfezione fin qui ignota a’mortali; noi poveri
contem- poranei vivemmo, invecchiamo e morremo tra le delizie d’un
presente tutto pieno di perturbazioni. Ora i benefizi che si promettono
agli eletti son per lo meno nella schiera de’ fu- turi assai contingenti.
Il male che s’ opera , e che si soffre purtroppo, è da lungo tempo una
funesta realtà. Per torna- re all’ argomento nostro , gli scrupoli si van
togliendo. La bella morale del fine che giustifica i mezzi corre il mondo
, c lo conquista. Noi siam cattivi abbastanza. I nostri figli, se
Iddio nella sua misericordia uon ci provvede, saran peggio- ri di noi.
Qual riforma della umana convivenza possa dive- nir possibile con si
fatta educazione degli uomini , altri mcl dica. Io non so indovinarlo. Il
mio stomaco si solleva dalla nausea veggendo i costumi nuovi, le
abitudini nuove, uden- do le bestemmie nuove. L’istoria ha sempre
insegnato, che tutte le volte nelle quali un popolo è stato condotto a
que- sti estremi, esso ha rapidamente degenerato, e finalmente è
perito. Cosi fu spenta la gloria di Grecia e di Roma antica. Cosi la
gloria più antica ancora delle Monarchie de’ Babilo- nesi, de’ Medi, de’
Persiani, degli Egizi. Le stesse cause hau sempre prodotto nel mondo gli
stessi effetti ... e sempre li produrranno ! E qui fo punto.
Fo punto; ma poche altre parole mi per- metto d’aggiungere su tutto
l’argomento di questo articolo. Si vuol distruggere gli antichi
ordinamenti del mondo caule que conte, facendo sempre la vista di partire
dai due princi- pii, della libertà e della eguaglianza. E vedemmo quanto
l’una e l’altra si rispettino in tulli gli sforzi che si fanno per fas et
nefas a fin d’ affrettare l’ ora della riforma. V’ é però ancor peggio di
quel che ho detto, sebbene ho detto molto. Ripigliando da un’ altra parte il
principio de\Y eguaglianza , dopo averlo calpestato c manomesso, e
ripigliandolo a scapito del principio della libertà, si parla d’abolire
lutti i diritti acqui- stali anche per vie le più oneste. Gli uguali ban
da essere uguali, perdendo tutto quello per che con arti anche
degne, e coll’ industria, e co’meriti, e colle fatiche, s’eran fatti mag-
giori , e non han da esser nè uguali nè liberi quanto al di- ritto di
contrapporre il loro no all’allrui si. Gli uguali s’tian da potere non
solo spogliare dagli altri uguali, ma da questi si ban da potere anche
sterminare ed uccidere , se voglion conservare intatta tutta la loro
autocrazia , se non voglion piegarsi a dar mano a queste spogliatrici
dottrine... -Un con- tratto sociale tra eguali ha da esser fondamento
della società nuova per libero consentimento di tutti; ma il patto, o
con- tratto sociale non dee poter aver forza , e il libero
consenti- mento non ha da esser libero di non consentire ai patti
che vogliono i preparatori della nuova libertà ed eguaglianza. E
queste contraddizioni palpabili e nauseose si dissimulano da- gli uni ; e
dette agli altri non li commuovono, ed è come se non fosscr dette, tanto
è fermo il proposito di non ragiona- re, c d’ostinarsi. Ecco a qual grado
d’ accecamento e di de- pravazione s’è giunti.... ! Con che torna vero
quel che già notavamo, chiudendo il 3. articolo. Cercar di confutare
co- storo è spendere parole ed inchiostro a pura perdita. — Scri-
viamo a preservazione dei non corrotti ancora, o ad emen- dazione di chi
sta tra due nè ben sano, nè tutto guasto. Gli altri Iddio li illumini. E
ripigliamo dal suo principio il dis- corso delle ricostruzioni , delle
costruzioni , o delle ripara- zioni dell’ edilizio sociale. Altre
considerazioni sulle riforme nel reggimento delle conviven- ze umane in
generale , e sul diritto e il modo di tentarle. Quantunque d’un
argomento si importante oggi tutti par- lino in tuon di dottori , e quasi
anche i fanciulli , qui «on- dimi aere lavanlur , pur non è men vero ,
che il dire intor- no ad esso quel che veramente la ragione insegni è
cosa grandemente difficile per tutti , ed anche pei più periti nel-
le scienze dello Statista. Due sono i casi. O alcuni inclusi in una
convivenza civile già stabilita , e soggetti alle sue leggi, se ne
stancano , vi si trovan male, vogliono sottrarsene, e ciò non collo
staccarsi e irsenealtrove in cerca d’un’associazion nuova, ma coi
riformar l’associazion vecchia e spiacente, resistendo a questo gli
altri che pur vi sono ; o i venuti a desiderio di rinnovazione del
politico ordinamento, nella civile congrega alla quale s’appar- tiene ,
non sono alcuni , ma presso a poco tutti , cosicché nessun
degl’interessati in ciò resista , e faccia notabile osta- colo. Nel
secondo caso, difficoltà gravi , quanto all’iniziare le riforme , di che
si crede aver bisogno , non possono es- servi (1) , perchè si suppone non
esservi lotta ; ed aversi , (t) Noq saranno le difficoltà quanto al
consenso nelle riforme , ed alla loro attuazione. Resterà peri) a vedere
pur sempre, se le riforme in che consentirono , avranno quel sommo genere
di legittimità che sola puh dar la giustizia e ra- gionevolezza loro , o
se uon l'avranno. E resterà a cercar se , non avendola , siano ciò non
ostante obbligatorie , ed in che senso , e fino a qual grado , o dentro
quai limiti lo siano : questioni difficilissime a trattarsi , ma che non
e questo il lungo di trattare presso a poco , universalità di consenso.
(Le difficoltà co- minceranuo , quando si tratterà del modo , se vogliasi
che questo modo sia il più ragionevole , ed il più profittevole a
tutti). Ma , nel primo caso , non si può dire altrettanto. Quando
un governo è stabilito, e un ordine quale che sia- si già esiste...
quando in tutto il numero dei componenti la civile congrega i
sufficientemente contenti sono di gran lun- ga i più , e i veramente
gravati , e giustamente malcontenti sono di gran lunga i men numerosi ,
il vero diritto non è quello di turbare tutto lo stato tentando novità ,
e con ciò disturbare tutti i contenti e tranquilli , rimescolando e
rin- novando ogni cosa , e scomponendo e disordinando ogni privato
interesse , per fare ragione ai pochi che si lagnano perchè stan male ;
ma è il diritto di cercare , senza punto incomodar gli altri , o comunque
gravarli nelle persone e negli averi , che sia fatta ragione ai pochi che
lo dimanda- no , e che lo meritano. £ questo può esser difficile ;
può essere anche talvolta impossibile senza rovesciare intera -
mente la costituzione dello Stato. Tuttavia ci vuole un bel coraggio per
mettere innanzi la proposizione , che , dove ciò accada , la giustizia
negata a’ comparativamente pochi , debba essere ad essi buono e legittimo
motivo di spinger la reazione immensamente più in là di quel che porta il
loro diritto ; cioè , affinché questa sopravvinca , di scomporre e
distruggere tutta la macchina costitutiva della civil congre- ga , della quale
i più si trovan paghi , mentre ogni turba- mento un po’ generale
dell’ordine stabilito tutti inquieta , molesta , e danneggia (1).
Maggiore però fa d’uòpo che sia questo coraggio , se quei che si fatta
proposizione mettono (1) Può bene io questa ipotesi ater luogo il
principio (ed il più spesso lo de- \e)-Expedit unum hominem mori prò
cunctopopulo.-l pochi gravati, opera- to per ottener giustizia tutto
quello che non pub operarsi senza manifesto e mollo maggiore danno deli'
universale , se ascoltano la voce della coscienza, il meglio che possan
fare è rassegnarsi, come è forza rassegnarsi alle malattie, alle
disgrazie fortuite , ai tanti altri mali della vita. ] innanzi ,
nessuna ingiuria , nessun (orlo ricevettero , e so- no unicamente
duellanti , per cosi dirlo , di malcontento , i quali non si lagnano per
proprio conto , ma si lagnano per conto di quelli che a loro spiace di
non udire lagnarsi , e eh’ essi vogliono che si lagnino per forza ; o di
quegli altri che , pur lagnandosi a buon diritto , nondimeno par
loro che non si lagnino abbastanza , e non sian disposti a spin-
ger le querele fino agli estremi che a lor piacerebbero. Ven- gan di
nuovo que’ehe cosi vogliono e fanno , a parlarci d’e- guaglianza , e di
tutte l’ altre loro frottole di libertà , di giu- stizia , di ragione !
La loro eguaglianza diventa , come al- trove riflettevamo, superiorità
de’ pochi su i molti. La loro libertà diventa licenza di nuocere agli
altri per giovare a sé, o per soddisfare la propria passione. La loro
giustizia è non tener conto del diritto altrui , per non aver occhio che
a quello che si crede essere il diritto proprio , od il proprio
talento. La loro ragione è la ragione del più forte ; una ra- gione
egoista , ostinata , feroce , senza pietà , senza discre- zione , senza
riguardi... una ragione che ricusa di ragiona- re, e che vuol esser
tiranna delle ragioni altrui... 1 Si difenderanno con dire , che ,
ncll’operare quel che ten- tano , il fine loro non è contentare sé stessi
, pregiudicando indebitamente gli altri , c dando loro motivo legittimo
di querelarsi ; ma è proporsi cosa in sé buona : cioè , consi-
derato che gli stali son oggi , dove più , dove meno , in tal mala guisa
ordinali da render possibili per tutti , e inevita- bili per molti , una
gran quantità d’ ingiustizie , d’avanie , d’oppressioni cotidiane , senza
facile riparo , e sovente sen- za alcun riparo ; considerato per
conseguente , che il mal- contento il quale per gli uni è attuale , per
gli altri è virtua- le , e che il danno da tale o tale sofferto oggi ,
può percuo- ter domani , o doman l’altro , a volta a volta , quelli
anco- ra che or sono contenti ; considerato perciò , finalmente ,
che , a distruggere il vizioso edificio delle odierne macchine politiche
per sosliluirvene un altro migliore , è meno ancora contentare sé , che rendere
servizio all’universale , e a quei medesimi che ora per poca previdenza ,
per indolen- za , per egoismo rifuggono dalle riforme e che ciò è
poi promuovere la causa sempre bella ed onesta della giustizia :
per tutte queste ragioni far essi cosa degna d’ approvazione , anziché di
biasimo , perseverando nella impresa alla quale si danno. Ma l’apologià
nulla vale. Primo : hanno eglino ben pensato , cotesti temerari
scon- volgitori delle civili convivenze, la massima gravitò del
fatto a cui s’adoperano? Uno stato è una somma immensa d’in-
teressi distribuiti e collegati tra tanti quanti sono in esso
gl’individui che sono, e que’che prossimamente , o più tar- di , saranno.
Ogni interesse si risolve esso medesimo in in- numerabili subalterni
interessi di cose e di persone , ed ha sempre due parti : una che
risguarda i privati , l’altra che risguarda il pubblico , ossia 1’
universale. Quanto più una umana congrega è matura a civiltà , ed in essa
progredisce, tanto più questi interessi crescon di numero e
d’importan- za. La prosperità privata e pubblica è tutta
principalmente fondata sul rispetto , sulla protezione , sui favore che
otten- gono si fatti interessi. È pur troppo certo (colpa delle im-
perfezioni umane !) , che non v’ha umana congrega , non v’ha stato, dove
gl’interessi qui mentovati riscuotano tut- to il favore , tutta la
protezione , tutto il rispetto che aver dovrebbero, acciocché la
prosperità fosse massima. Per con- seguenza è purtroppo certo , che tutte
le umane congreghe , tutti gli stati han sempre bisogno di qualche
riforma , e di molte riforme , e questo è bisogno che mai non cessa ,
per- chè mai non cessano di rivelarsi e di generarsi i difetti di
rispetto , di favore , e di proiezione di che parlo. Qualche umana
congrega , o qualche stato , tanto alle volte soprab- bonda di difetti di
si fatto genere , che il riformarli si fa un bisogno generalmente , e
fortissimamente sentito. Ma , do- po lutto ciò , può egli dirsi che sia
cosa lecita e convenien- te (per lo sdegno delle riforme che non si fanno
da que’che llO- lo dovrebbero , polendole fare) l’opera cbe ,
con privala au- torità , vogliono alcuni collocare in promuovere tali
con- vulsioni politiche , dalle quali , secondo le maggiori proba-
bilità umane , queste immediate conseguenze sian per di- scendere , che
tutta, o quasi tutta la massa degl’interessi privati e pubblici sia
improvvisamente e grandemente tur- bata-che moltissimi di essi patiscano
enorme ed irreparabi- le offesa , od anche intera rovina-e cbe , per un
tempo più o meno lungo , e sovente lunghissimo , nata , e durando ,
la lotta tra que’cbe si difendono, e que’ctie offendono , in- nanzi alla
vittoria decisiva , la quale di soprappiù non si può mai prevedere per
chi sarà , non s’abbia altro spettacolo cbe di fortune ile a soqquadro ,
di famiglie desolate , di uo- mini esterroinati , di civili battaglie e
guerre... del commer- cio rovinato , dell’industria spenta , degli studi
intermessi , d’ abitudini d’ozio , di turbolenza , e di licenza
introdotte , e di lutti gli altri mali di cui gli annali contemporanei
trop- pi esempi da più cbe mezzo secolo ci somministrano ? Per
poterlo dire , sarebbe almen necessario aver fatto un bilan- cio: il
bilancio de’ danni a’quali vuoisi portare riparo , e di quegli altri, che
, col fine d'arrivare a questo riparo, certa- mente si genereranno. Ma
questo bilancio , che , ne’ singo- li casi , i temerari sconvolgitori
odierni delle civili convi- venze non fanno , e non han fatto , l’ba già
fatta per tutti la storia , e lo ha pubblicato. Essa da lungo tempo ha
inse- gnato agli uomini , che , di tutte le calamità , le quali
pos- sono cadere sopra un popolo , nessuna calamità pareggia quella
di ciò cbe si chiama una rivoluzione , massime dei modo di quelle che
oggi si macchinano , e si hanno in pen- siero , od apertamente si
minacciano. I cattivi governi... le tirannidi d’ogni nome offendono gravemente
alcuni , od an- che molti ; ma , salvo certi casi rari come le mosche
bian- che , lascian sufficientemente tranquilli i più , e , nel loro
proprio interesse (voglio dire nell’interesse de’ governanti) risparmiano
il massimo numero : di guisa che le angherie , - -Pigifoedb y Goo
gle — lil- le ingiustizie , sodo enormi iu pregiudizio d'
alcuni; per molti sono grandi , ma pur tollerabili e pazientemente
tol- lerate , per non pochi nessune. Al contrario , le rivoluzio-
ni , a quel modo che oggi s’ intendono , se pur non siano , come suol
dirsi , colpi di mano , a coi per miracolo succeda un immediafo e
tranquillo riordinamento, per poco che du- rino (e durano spesso una o
più generazioni d'uomini) , of- fendono tutti... anche que’che le han
fatte , i quali , d’or- dinario , finiscono col perirvi , essi e i loro.
Finché si pu- gna , è strage dalle due parti... la strage delle guerre
civili ; strage accompagnata di crudeltà mostruose e ferine , d’ec-
cessi contro a natura. Sono incendi , saccheggi , brutalità d’ogni nome,
e senza nome. Que’che non combattono , so- no vittime spesso delle due
parti combattenti. E chi può prevedere quanto durerà il combattimento ,
quanto sarà esteso , quante volte ripullulerà , or dall’un lato , or
dall’al- tro ? Chi può dire a priori , se vincerà Bruto, o
Tarquinio... se interverrà Porsenna.... se si troverà sempre un Muzio
Scevola , un Orazio , una Clelia... o se piuttosto Roma non finirà per
servire al re di Chiusi , come pur troppo la storia rettificata oggi
dice? Habenl sua sidera lites.-E intanto le fe- licità dell’anarchia per
que’che non pugnano ! Le felicità delle dittature militari nel campo , o
ne’ campi di battaglia , o dovunque armati stanno o passano ! Le terre le
coltiverà chi può, ossia non le coltiverà più alcuno 1 mercatanti
po- tran chiudere i loro fondachi , se tuttavia lo potranno , e se
non li vedranno messi a ruba ed a rapina prima del chiu- derli. I ricchi
fuggiranno , se lor torna fatto , ma fuggiran- no in farsetto , se nou
perdano la testa per via. Palagi , mo- numenti , sa il cielo come saranno
malmenati. Il danaro rubato si dissiperà , come si dissipa sempre il
danaro del furto. L’altro sarà nascosto, o mandato all’estero. Poi
la penuria , la carestia , la fame , e seguace della fame la pe-
ste o l’epidemia. De’ costumi non parlo, né della gioventù falciata
innanzi tempo , o perduta ad Ogni buono impiego Digitized per
l’avvenire... Succederà , quando Iddio vuole , la villo- ria ultima a chi
Iddio vorrà darla (spesso nè agli uni , nè agli altri , ma a' terzi
venuti di fuori... ai Porsenna : secon- do il proverbio , che tra due
litiganti il terzo gode ; con che sarà perduta l’autonomia , e da popolo
che obbedisce a sé stesso ed a’suoi , si sarà trasformati in popolo
conquista- to , in popolo assoggettato , in popolo profeto, in
popolo-co- lonia , in popolo vaceg-da -mungere ) , e colla vittoria
ultima sarà una specie di pace. Che pace però? La pace accompa-
gnata qualche volta da amnistie per tutti , se può sperarsi , che , come
è disposto a dimenticanza vera il Vincitore , co- si sia disposto il
vinto : ma , se a questa seconda dimenti- canza non si crede da esso
vincitore , mancherà d’ordinario la prima , e mancherà , alle volte ,
indipendentemente da ciò , s’cgli creda che bisognin giustizie ed esempi
, e se le collere non calmate cosi consiglino , o le circostanze
paia- no cosi comandare. Ed allora s’avrà un altro tempo , più o
meno lungo , che sarà di terrori più o meno grandi , e di severi gastighi
, od anche aspri , che i gastigali chiameran- no reazioni e persecuzioni
, i gastiganti chiameranno neces- sità , e opere di prudenza ; e chi
oserà dire , in massima generale , da qual parte sia la ragione ? — E
questa vittoria , e questa pace , e i migliori lor frulli , per chi poi
saranno? 10 l’ho già detto. Per chi vorrà Iddio : cosicché è
possibile (si torni bene a pensarvi sopra) , mollo frequentemente è
probabile , e facile a prevedere , se non si è ciechi , che non sarà
dalla parte di chi tentò la rivoltura : ma , o di quelli contro a’quali
fu tentata , o d’altri e d’altri, diversi , e non aspettati , c non
voluti , e non utili. Nel qual caso agli altri mali s’aggiungerà quello
che non s’avrà nemmeno il con- tento d’aver guadagnato ciò che si cercava
; e s’avrà invece 11 dolore e la pena di avere aggravato il male
che voleva al- lontanarsi, o d’ esser caduti, come s’usa dire , dalla gradella
nelle brace. - Anzi non basterà a’rivoltuosi nemmeno l’aver essi per sè
guadagnata la vittoria : perchè aver vinto è poco. Ciò significa essere
riusciti a distruggere , non significa avere edificato , e poterlo e
saperlo fare. L'opera della rie- dificazione resterà ad intraprendersi :
opera più difficile sem- pre che non quella della distruzione : opera ,
che , ne' pae- si , ove gli ordini antichi , colla violenza , si
spiantarono , richiede , per solito , anni moltissimi , e talvolta secoli
, in- nanzi all’ esser condotta a qualche buon termine : opera , in
questo mezzo , tutta di prove e di errori , tutta d’esita- zioni , tutta
di conti sbagliati e da rifarsi ; vera tela di Pe- nelope da far
disperare del compierla ; e che quando pur si compie si trova ben altra
da quel che s’era immaginato , fi- nita da altre mani , sotto l’impero
d’altre circostanze , so- vente di altre idee , tale insomma che , per
ultima conclu- sione si riconosce essere un imperfetto sostituito a un
altro imperfetto , dove ciò solo di sicuro che emerge è la certez-
za del male immenso che si è fatto a pura ed inutile perdi- ta....
(1). Secondo: e fin qui ho supposto che si parta almeno da un
motivo più o meno evidentemente giusto dell’ operare le ro- vine che
vogliono operarsi, col fine huono , sebbene con (1) Non si crede
vero? — Un’occhiata allo Stato d’Europa ila sopra a 60 an- ni in qua.
Veggasi piti che altro la Francia. Vcggansi poscia le tante repubbli- che
succedute alle mutazioni americane. E mi si opporrà, per avventura, il
solilo modello della repubblica degli Stati Uniti d’America ; cioè un
esempio sufficientemente favorevole contro a molti contrari. Questo è la
pruova del terno vinto , che è la rovina di tutti i dilettanti di giuoco.
La repubblica de- gli Stati Uniti d’America ha incontrato quattro fortune
piuttosto uniche che rare. 1. La fortuna d’ essersi imbattuta in un
Washington. 2. Quella d’essere stata , quando cominciava l'affrancamento
un paese nuovo , e d'una popola- zione assai sparsa In mezzo alla quale
le fermentazioni e i conflitti delle idee meno eran facili. 3. Quella
d’averne avuto a progenitori , uomini già educati a libertà , ed a
reggimento presso a poco repubblicano. 4. Quella d’aver do- vuto lottare
contra un potere lontano.... troppo lontauo , e con validi esteri aiuti.
E ancora , prima di giudicare il bene o il male del reggimento che si è
conseguito di stabilire, bisogna la sanzione d’ almeno un paio di secoli. Io
non lo credo fondato su base ferma.] gravo pericolo , e spesso quasi
colla sicurezza di successo non buono, o non proporzionatamente buono. Ma
questa giustizia del motivo v’è ella sempre? Chi la giudica d'ordi-
nario? e quanti sono que’che la giudicano? Uomini d’espe- rienza? Uomini
i più sapienti nel popolo? Uomini che co- noscou bene lo stato vero delle
cose? Uomini, che non si lasciano illudere dalla passione? Uomini capaci
di pondera- re , non solo se il motivo è vero in qualche grado, ma se
è vero fino a tal grado da richiedere un pronto rimedio, da non averiosi
che per una rivoluzione? e da lasciare sperare con qualche buon
fondamento che per una rivoluzione di leggieri s’avrà? Diamo un’occhiata
al passato, ed al presente prima di rispondere, e ricaviamo la risposta
da quel che s’è veduto, e si vede. - Ragazzi , e giovinastri, od uomini
già noti per natura torbida, e per naturale inclinazione a no-
vità. Gente impetuosa, violenta, a cui natura toglie il giu- dizio freddo
ed imparziale dei fatti. Persone di mano, e non di testa, facili a
prestar fede al male che si dice di que’che odiano, e ad esagerarlo, ed a
misconoscere il bene: tali che .a reggimento ed a governo mai non dieder
mano, e che parlano di quel che non sanno, per un dicium de dieta. . .
tali che delle ponderate risoluzioni non hanno nè la scien- za , nè 1’
abito, nè la capacità ; e il cui maggiore studio non è curare, se quel
che vogliono sta bene o male a volerlo , ma cercare come possano
cominciare a ridurlo ad atto. E cotesti formano il fiore dello stuolo.
Gli altri son quali pos- sono accompagnarsi a cosi fatti gonfalonieri ,
come subalter- ni. Volgo proletario, che è facile sedurre con
immaginarie speranze, e mettere in fermento con fanatiche
predicazioni. Disperati e perduti per debiti. Piccoli ambiziosi, che
consa- pevoli della loro nullità e turgidi di luciferesca superbia
, non altro mezzo veggono per sorgere, che il gittarsi a corpo
perduto tra i motori di cose nuove. Giovani entusiasti, po- veri di mente
e di cuore , in cui l’immaginazione prevale al giudizio, il bisogno
d’agitarsi e di fare al bisogno di starsi con uu libro innanzi o Ira le
pacifiche occupazioni d’ una vita di sedentari negozi. Altri che seduce
il mistero delle sette, nati per essere schiavi in nome della libertà , e
bruti in nome della ragione. I seguaci di Calilina , quali ce li
de- scrivono Cicerone e Sallustio.... gli scherani di Clodio ... i
guerriglieri di Spartaco. Ora il senno di questi può con giu- stizia
decidere il tremendo problema delle rivoluzioni , e della necessità del
farle...? Poveri popoli condannati a pa- tire la costoro malefica
influenza! I disordini d’uu governo cotesti son più atti ad accrescerli
che a conoscerli , e a ri- pararli. ,E il lor costume è di dire che il
desiderio loro è il desiderio di tutti, o almcn de’ più, perchè più di
tutti essi gridano , e s’ agitano , e accendon fuoco da ogni parte!
Gli altri che tacciono, e che col silenzio mostrano che non si
malesi trovano da dover gridare, non li contano. Son essi il popolo vero;
il popolo solo. Gli altri, che coraggiosa- mente s’oppongono e gridan
contro, non li apprezzano. Chi sta in casa e bada agli affari suoi non fa
numero. Chi s’oppone è zero ! ! ! Tanto basti avere avvertito
per giunta ali’altre cose dette nell’antecedente articolo, e nel
principio di questo. Si op- porrà — Stando al precedente discorso, le
rivoluzioni non si potrebber mai fare ( vedi calamità !) , e i gravi
disordini de- gli stali non mai correggere. E Bruto primo ( po'ni
esem- pio ), e Bruto secondo sarebbero stati o due pazzi, o due
furfanti. E Roma avrebbe dovuto tollerarsi in pace quella grande iniquità
del regno, e quella maggiore di Tarquinio secondo e di Giulio Cesare. E i
popoli dovrebber soflferir sempre, eie tirannidi sempre trionfare, lo
rispondo. — In- nanzi tratto non si abusi delle autorità. Sappiamo oggi
tutti la verità intorno ai due Bruti, non quale ce l'han trasmessa
menzognere storie, ma quale una bene illuminata critica cereò di porla in
chiaro in mezzo alle tenebre addensate su- gli antichi fatti. Del primo
Bruto poco può dirsi. Esso è mito più che personaggio certo. Stando a
quel che se ne narra.] bene addimostrò s’egli amava la libertà o la schiavitù
diRo' ma, nella famosa storia del bacio dato alla terra. Oggi si
sa, e ben sa, che Roma, innanzi alla distruzione dei Galli, non fu
mai si florida come sotto i re etruschi. La rivoluzione di Giunio Bruto
contra il Superbo , se risguardiamo agli effetti, distrusse per lunghi
anni la prosperità della futura capitale del mondo, e non è sicuro che la
preparasse. A essa dovette Roma i mali d’ una lunga e disgraziata guerra
, che condus- se , come testé notavamo, all’assoggettamento a
Porsenna, il quale altro ferro non lasciò a’ vinti romani se non
quello che agli usi dell’ agricoltura sovvenisse. La città regina
deve la sua rivendicazione in libertà ai fatti della guerra infelice
del re chiusino contro ad Aricia e contro a’Cumani.E senza Bruto , la
tirannide del Superbo finiva al finir di lui : nè le due catastroG, che
successero , pel tentato repubblicano mu- tamento sarebbero state. Se dal
male venne poi bene alla luoga,ciò non è il merito dell’ autore del male.
I provviden- ziali destini di Roma dovevansi compiere ad ogni modo.
— Quanto al secondo Bruto, si conosce nou meno a che buon fine usci
il cavalleresco, e sufficientemente odioso fatto del- l’ingrato bastardo del
Dittatore. Il fanatico non conobbe nè i suoi contemporanei , nè i veri
bisogni del suo paese. Fu un povero politico, siccome un povero
guerriero. Nè com- batteva per la riforma, ma a chi ben riflette, contro
ad es- sa , voglioso di richiamare a una vita impossibile la degene-
rata e morta repubblica , la quale Cesare per ben di Roma aveva
distrutta. E il mondo che vi guadagnò? L’aver per- duto un grand’ uomo
qual senza dubbio era il vincitore delle Gallie e di Pompeo, per fargli
succedere un minore di lui, nè manco despota di quello. — Nondimeno, io
non voglio abusare di questa maniera d’argomentazione. Certe
rivolu- zioni, che , dopo i primi mali prodotti, alla fine son
riuscite ad utilità ( una ogni mille ) io non voglio negarle.
Voglio negare che il massimo numero delle volte siano state atti
considerati e degni di lode, anche quando una utilità se ne trasse. Voglio
osservare ch’elle sono giuocate di lotto , dove il vincere è un caso
assai raro, il perdere è la sorte comu- ne; con questo di peggio, che il
perdere non è mai di poca cosa, nè d’uno o di due, ma di tutto un popolo
, di tutta una nazione, perchè la posta ( 1 ’enjeu ) è la fortuna di
esso popolo, di essa nazione, nel suo presente, forse nell’avve-
nire; sono le vite, gli averi, gli onori , ogni cosa più cara che gli
uomini s’abbiano. Voglio per conseguenza dire , ch'esse possono esser atto
di disperazione o d’audacia, non atto mai, o quasi mai di senno; e che
sono un mezzo, e qualche rarissima volta il solo ( della cui natura
lecita od illecita quanto a coscienza di buon cristiano è questione
che lascio decidere a’casuisti ) per liberare l’universale da mali,
più o men reali, e più o meno intollerandi , son però un pessimo mezzo;
uno di que’ rischia-tutto , che chi sente d’an- dare a irreparabile ed
imminente rovina, tenta qualche vol- ta, come un’ultima speranza, quia
melius est anceps, quarti nullum experiri remedium , ma che aggiunge un
biasimo di più a chi , andando a rovina , per questa via l’ affretta , e
la rende più grave, più inevitabile. Or, data, contro alle
rivoluzioni in generale, questa sen- tenza di condanna , qual rimedio
dunque avranno i tiran- neggiati , gl’insoffribilmente angariati , i
giustamente e gran-: demente malcontenti de’ mali ordini politici sotto i
quali gemono ? Vuoisi eh’ io tratti la questione storicamente , o
teoricamente? Se storicamente, dirò, con franchezza, spesso nessuno.
Perciò gli annali del mondo son pieni delle storie di popoli non solo
lungamente malgovernati , e barbara- mente oppressi , ma sterminati senza
rimedio , e cancellali tutti interi dal libro della vita. Coraggio o
viltà ; resistenza e difesa sino agli estremi, od abbandono di sè, non ci
fanno nulla: chè spesso il tentar di liberarsi e di riscuotersi è
sta- to col proprio peggio , rendendo più tormentosa 1’ agonia ,
più terribile I’ eslerminio. In questa guerra , come in ogni altra, è
quale nel duello. Non vince sempre chi ha ragione. Cosi le disgrazie dei
mali ordinamenti , e le pressure , son come le pestilenze , come le fami,
come gli altri flagelli che cadono a volta a volta sulla nostra povera
specie, a ventu- ra , come un decreto di calamità e di morte , al quale
ci è forza soggiacere. Se parliamo poi teoricamente , dirò , che in
cielo non è scritto , che la giustizia in terra sempre vin- ca. È nell’
economia del mondo, che il male non rade volte domini il bene , e che la
specie nostra riceva , a quando a quando , dure lezioni per imparare
umiltà e rassegnazione; per accorgersi che non è qui il tribunale supremo
dove si giudicano le cause degli uomini in ultima istanza; per Ope-
rare o per temere una giustizia futura ; per credere un’ al- tra vita.
Noi tratteremo altrove questo argomento più alla distesa. Il
rassegnarci sarà dunque lo scoraggiante unico dover nostro? nè Iddio
nella sua pietà e bontà infinita ci avrà dato modo per ajutare la
giustizia , se non a vincere, almeno a generosamente difendere le proprie
ragioni , a virilmente protestare contro alla iniquità e al sopruso?
Questo io non pretendo, e nessuno lo pretende. Quel ch’io pretendo, e ciò
t che i savi pretendono , richiede un più lungo discorso. A
chi , senza passione, studia i casi dei popoli quasi sem- pre appar
chiaro, che si fatta specie di mali assai radamente sono senza manifesta
colpa o cooperazione di chi vi soggia- ce. Si soffre perchè s’è meritalo
di soffrire. I figli pagano la pena degli errori de’ padri. E tuttavia,
se par non esservi rimedio, è che manca le più volte piuttosto la
sapienza e la virtù per emendare il danno, di quello che la
possibilità d’emendarlo. Un popolo che soffre ( giova ridirlo ) ,
soffre ordinariamente, perchè è degno di soffrire; ed allora il
sof- frire è una pena meritata, e il non saper liberarsi di questa
pena, e il seguitare di essa è ugualmente sua colpa. Dove i probi , ed i
sapienti, e i fervidi amatori del pubblico bene abbondano, l'amor del
giusto e del vero necessariamente si prepondera, che l’ingiusto ed il
falso non possono allignare , od allignando non possono guadagnare rigoglio, e
non finire col diseccarsi fino alla radice , e col perire. Perchè
dal retto apprezzamento , nel maggior numero , di quel che è buono
e cattivo, e dall’avversione per questo, e dal biso- gno di quello , si
genera di necessità ciò che si chiama la forza della opinion dominante ,
che è tanta parte della forza delle cose , la quale, allorché ha saldo
fondamento di veri- tà , dura, e non domina da burla. I cattivi , se vi
sono, al- lora han più vergogna , e a lor malgrado , si nascondono
, e non osano, o, se ardiscono , sono presto repressi , senza
strepito d’armi, dalla generale riprovazione, la quale, in innumerabili ,
prende la forma di coraggio civile , che dice animosamente, ma
pacificamente, e con tulli i modi legali, il vero : ciocché è possibile,
ed alle volte è probabile, che nuoca a chi lo dice , ma non è possibile ,
nè probabile, che non Gnisca col giovare all’universale, secondo che gli
esem- pi di sì fatto coraggio fruttifichino , si moltiplichino , e
si rinnovino. In altri prende la forma di pubblica e franca dis-
approvazione , tanto più efficace, quanto men turbolenta, quanto meno
esagerata. In tutti prende ogni legittima for- ma , per la quale sia
possibile arrivare , senza eccessi mai , nè disordini, all’emendazione
del malfatto. E il malfatto bat- tutto da tante parti, ed in modo si
misurato, si degno, sì ani- moso^ nel tempo stesso si prudente, potrà
bene sbizzarrirsi ancora qualche tempo, ma non vincerà la pazienza e la viri-
le e nobile resistenza di quei che giustamente si querelano , si bene
sarà vinto con assai più prontezza che altri non im- magini.
Ma dove cittadini della forte e virtuosa tempra ch’io dissi, o
difettano al lutto , o sono in minimo numero, e gli altri non sono che
turba ignobile , impastata d’ egoismo e di vi- zio , primo (torno a dirlo
perchè bisogna) , la perseveranza e l’ immedicabilità del male a torlo è
querelata. Essa è un effetto le cui cagioni principali sono in chi si
querela, come dianzi affermavamo: secondo, è allora solamente che in mezzo
a popolo depravato si giltan fuori falsi medici ; cioè quelli che han
fuoco soprabbondante di passioni per isdegnarsi di ciò che materialmente
si soffre, e per accender lo sdegno al di là d’ ogni equa proporzione col
suo fomite ; ma non han- no , nè senno per conoscere e pesare quel che
conviene e quel che no , nè virtù per saper soffrire quel che non
può evitarsi , nè altro di ciò che bisogna a dar buono indirizzo al
pensiero riformatore. E son eglino che non contenti di sbagliar essi la
strada, traggon fuori di via gli altri, già pur- troppo , per ipotesi ,
poco alti a fare saper quel eh’ è il de- bito. Eglino che screditano la
moderazione, i mezzi legali e pacifici, e tutto che non sia l’impeto loro
sconsigliato e paz- zo. Eglino da cui nasce e prende piede la falsa
opinione del- l’ impossibilità del bene o del meglio senza ricorrere a’
loro forsennati e pericolosi divisamenti. E già troppo di
questo argomento s’ è favellato. Ma fin qui noi, per cosi dire, non
abbiamo che girato attorno al mas- siccio delle questioni nostre. Ciò è
la trattazione del governo in sè , che si vuole ostinarsi a considerare
come una ema- nazione pur sempre di quella sovranità del popolo, di che
ab- biamo già detto parecchie indirette parole, ma non le dirette
che si richiedono. Direttamente dunque ornai favelliamone, e cerchiamo
che il discorso abbia l’ estensione che l’impor- tanza del soggetto
richiede. De’ governi, e delle sovranità in generale. Si :
nessun assioma più oggi è fitto nella mente degli uo- mini, che quest’
uno , tenuto come principale — La sovra- nità risiede , per sua essenza ,
nel popolo — Chiedete intanto a que’ che cosi pronunziano, qual cosa , in
si fatto assioma delle piazze e delle conversazioni, significa per essi
sovrani- tà , che cosa popolo : chiedete l’ analisi e la sintesi teorica
e pratica dell’ idea che innestano a questi due vocaboli : chie-
dete la spiegazione delle dottrine , che da esso assioma vo- glion
dedotte, od almeno de’suni più immediati conseguenti; e vi accorgerete
esser quello , al maggior numero di loro , niente altro che una frase
oscura e d’ indeterminata signifi- cazione, la quale permette
interpretazioni le più diverse, e, purtroppo, lascia sovente libero il
luogo alle più strane e le più assurde. Come intendete voi ,
brav’ uomo , questo che oggi tutti dicono — Il popolo è sovrano ? —
dimandava io, son or po- chi giorni, a un mercenario, il quale, per
prezzo, prestava alla mia casa non so che faticoso servigio — Rispose —
L’in- tendo , che tutti dobbiamo comandare — Io ripresi — Ma , se
tutti comanderanno, chi dunque obbedirà? — Senza per- dersi d’animo, egli
soggiunse — Que’ che han comandato fi- nora. I nobili ed i preti. I
ricchi e gli usurai. Quei che pos- seggono e possono, mentre noi non
abbiamo fin qui posse- duto , e potuto nulla — Ed io — Ma non sono essi
ancora popolo , e del popolo , e perciò , almen almeno , cosi legitimamente
padroni della lor parte del comandare , quanto I’ han da essere gli
altri? — Ed egli — La parte loro di pa- dronanza l’hanno esercitata e
goduta anche troppo, giacché l’hanno adoperata soli e sempre. Una volta
per uno. Adesso tocca a noi. Essi non eran popolo, nè del popolo ,
quando comandavano , e lasciarono esser popolo, e del popolo, so-
lamente a noi poveretti. Dunque , giacché s’ erano separati dagli altri,
ne patiscano la pena... — Ecco come il volgo in- terpreta la sua sovrana
potestà ! Un abuso sostituito ad un altro abuso : una tirannide ad un’
altra tirannide ( conces- sogli anche, senza esame, nè disputa, che ogni
poter sovra- no dell’ antico modo sia stato, sia, e non possa non
essere, che abuso e tirannide ; concessione , la quale dicano i di-
screti se possa farsi. Certo , in coscienza , io non posso far- la. ) —
Ritorniamovi sopra. 11 secolo interroga — Di chi è per naturai
diritto la so- vranità ? — E son io questa volta , che voglio
rispondere. Nè tratterò prima la quislione , che chiamano
pregiudi- ciale : se quel che lilosolìcamente parlando , sembri a
talu- no , od a molti , od anche a lutti , di naturai diritto
assolu- o più sono per anda- re , innanzi , avvegnaché in si fatti
popoli , le sempre cre- scenti disuguaglianze stabiliscono , per legge di
ragione , una necessità di gerarchie , per le quali vuole giustizia ,
che gli uni siano maggiori degli altri a vario grado , e la sovra-
nità s’ attemperi all’ordine gerarchico, il quale natura ed arte hanno stabilito
, o son per istabilire. Ma essenza della civiltà non è meno un
immenso campo aperto alle passioni ed ai vizi i più detestabili, come
alle vir- tù più nobili. Da una parte avarizia, invidia, rivalità,
egoi- smo , ambizione , tradimento, perfìdia, frode, broglio, se-
duzione, baratteria, truffa, usura, ladroneccio, mariuoleria, stupro,
adulterio, dissolutezza, maltolto, accattoneria , ac- coltellamento,
assassinio , e cento altre mila simili , o peg- giori, depravazioni e
miserie d’una civiltà volta a contrario fine : dall’ altra filantropia
vera , generosità , carità , longa- nimità , sacrifizio abituale di sè ,
e delle cose sue , date a pubblico e privato vantaggio, assistenza a chi
è in bisogno, disinteresse , rettitudine eminente, desiderio intenso del
be- ne, orrore del male , coraggio militare e civile , infaticabi-
lità , zelo, larghezza di consigli, d’indirizzi, d'aiuti... virtù
cristiane. . . virtù civili. Or ciò fa una seconda categoria di disuguaglianze
, maggiori ancora di quelle che precedente- mente consideravamo in più
special modo ; disuguaglianze che hanno un gràdo intermedio de'non buoni e
non cattivi abitualmente, ma degli andanti a orza. Donde la
convenienza di tener gli uni come peste del popolo, e come non
popolo; di diffidare grandemente degli altri , c di non aver fede , a
pubblica e comune utilità , che de’ già provati ottimi , nei quali le
altre condizioni pur concorrano. E di qui una nuo- va ragione perché la
democrazia pura a’ popoli civili tanto men s’ attemperi quanto son più
civili , e contenenti perciò nel loro seno , al fianco di molti ottimi ,
molti (tessimi , e molti che stanno tra l’ ottimo e il pessimo. Il perchè
, se, a priori , e secondo le suggestioni astratte dal senso comune
, in essi popoli avesse a crearsi una sovranità, certo ogni sua
parte sarebbe agli uni negata assolutamente , agli altri non concessa in
ogni cosa, e ridotta , nel generale , a più o men ristrette proporzioni ;
e riservata o interamente, o nella mas- sima sua dose, a’ soli degni di
questo privilegio. In che può ben essere una difficoltà grande
d’esecuzione; ma ciò non toglierebbe che in teorica ciò avrebbe a
giudicarsi il meglio da ogni savio. Per ultimo l’essenza
della civiltà è il creare innumerabili maniere d 'interessi , de’ quali
non è vestigio nella vita delle selve , o delle capanne : interessi
principalmente materiali , odiali e screditati da quei che vorrebbero
ricondurre gli uo- mini alla vita della selva e della capanna ( o lo
confessino , o no, perchè chi vuole il mezzo vuole il fine ); ma
interessi tanto connaturati a ogni società civile, che il turbarli a
qua- lunque grado è fare a un popolo uno dei maggior mali che
possano farglisi. Tali sono gl’ interessi di possidenza, gl’ inte- ressi
d’industria promossi da qùe’ primi , gV interessi di fami- glia,
gl’interessi di condizione , ed altri che non accade speci- ficare più a
minuto. I quali da due parti si possono riguar- dare: dalla parte di
coloro a chi spettano; e dalla parte del- I’ universale , in mezzo a cui
sorgono, e si moltiplicano. E, dal primo lato, giova dire, che hanno essi
una origine, della quale , se sono artificiali i modi , è da natura la
principale radice. Perché è natura l'amare noi stessi , e i nostri
con- giunti , e il nostro e il loro bene ed agio ; natura l’
istinto della proprietà, o del possesso di quél ciré ci troviamo
avere, e di quel che andiamo procacciando man mano ; natura il
cercar di crescere questo capitale nostro, che non siam pa- droni di non
considerare come facente colla nostra persona un sol tutto , per tal
guisa , che , quanto fa esso maggior somma , tanto fa più grande la
nostra importanza , il nostro ben essere terreno, il sentimento d’ esser
meglio che altri riusciti a soddisfare il bisogno ingenito d’alzarci con
ogni nostro onesto sforzo , non per soperchiare chicchessia , ma
per obbedire, anche in questo, alla legge di perfettibilità e di
progresso ; natura quindi ( ciò che istintivamente a un modo medesimo
ammise presso a poco ogni popolo ) , il chiamare ed il credere
legittimamente nostro l’ ereditato , il donatoci , il comperato ,
l’ottenuto , si nel peculio , e si nella superiorità della condizion
relativa a che s’ è giunti , o in che s’ è nati... il guadagnato e
l’avuto dal lavoro, o da traffichi di buona lega; (ìnalmerite natura il
riguardare l'in- teresse proprio d’ ogni forma come non si
esclusivamente proprio della persona , che non s’abbia a riguardarlo
quale un interesse, ad un tempo , dell’ intera famiglia alla quale
apparteniamo, finché sarà essa per durare e per estendersi. E di qui
categorie di ricchezza più o meq considerabile, in opposizione colla
povertà ; di patriziato più o meno emi- nente , in opposizione col terzo
stato e col volgo. Di qui tutta la scala delle fortune, per che uno è
Grasso, o Luculio; un secondo è un accattone di strada; un terzo è un che
vi- ve del suo, masotlilmente, con quel che basta, e con nulla che
avanzi — Da un altro lato, se gli effetti di ciò, nell’uni- versale de’
cittadini, si considerino, quantunque a dì nostri molta sia la proclività
de’ novatori al gridare , questo esse- re, non pur soltanto ingiustizia
degli uni contro degli altri, ma ( quel ch’è peggio) gravissimo danno,
gl’imparziali e giudiziosi però non cosi vorranno affermare quando ben
vi riflettano, e quando massimamente volgan l’occhio alle con-
seguenze ultime. Per chi ben guardaci! mondo è fatto in modo, cosi
aven- do il creatore disposto , che non può uscire di questo di -
lemma ; o dell’esser composto di lutti poverissimi , costret- ti , per
sussistere, alla vita selvaggia , e nomade , e di cac- ciatori ; senza
nemmen pastorizia , non che agricoltura ; o dell’ esserlo d’ uomini, i
quali, cominciato a gustare le ma- teriali e miste dolcezze .d’ un viver
più confortevole , più agiato , meglio congiunto con que’che s’amano, e
co’quali s’ ha strettezza di sangue , più che le gustano , più ne
di- vengono avidi, e più speronano la propria attività per pro-
cacciarsele , ognuno, nella maggior misura possibile , senza essere
impedito o disturbato , e più se ne creano quel che si chiama un loro
interesse individuale, a cui tengon tanto quanto alla propria vita : ed
allora, secondo che un s’ in- dustria più , un altro meno, uno piu è
destro, un altro ha manco attezza , ecco a poco a poco ricchi e poveri ,
possi- denti e proletari , banchieri , mercatanti in ogni ragion di
mercatura e di commerci, agricoltori , fabbricatori, merce- nari,
patrizi, e plebei... uomini accasati e vagabondi , capi di bottega e
garzoni , e manovali , padri di famiglia e sca- poli ricusanti la briglia
delle nozze per amore dell' allegra e libera vita, quegli che ha la casa
e la vigna, e quegli che non ha nè la casa, nè la vigna... E l’amore di
ciò crescendo, cresceranno le distanze tra gli estremi , o le differenze.
— Or quello è barbarie , questo è quel che sempre s’è chiama- to la
civiltà , il progresso , o della civiltà , e del progresso, . effetto, ad
un tempo , c causa e criterio e simbolo il più visibile. Volete voi una
civiltà , invece , ed un progresso , senza questi effetti? Voi vi fate
illusione. Avrete un ricadere infallibile nello stato barbaro.
Imperciocché , si pubblichi , a cagiou d’ esempio , una legge
domani, non dirò che abolisce ogni proprietà, ma dirò che abolisce, pur solo
, la libertà de’ cumuli, e degli accrescimenti , nella possidenza così detta ,
e che con una nuova divisione di tutte le terre distribuisce per teste il
suolo, as- segnando a ognuno tanti iugeri, e non più. Aggiungansi
al- tre leggi , che quanto è danaro faccian colare spartito coe-
gualmente , o più o men coegualmente , su tutti. Chi non vede la
conseguenza forzala? — Tu che non puoi coltivare colle tue braccia , con
quali braccia coltiverai? Con quelle d’ un operaio preso a mercede? Ma
l’operaio è possidente ai par di te , ed ha i suoi propri iugeri da
coltivare. Se ad- doppiando la fatica , pur si darà braccia anche per te
, si contenterà più egli di coltivare il tuo con quello stesso sa-
lario con che te lo coltiva oggi? Vorrà raddoppiarlo, o aste- nersi , perchè
non ha bisogno ; e tu dove troverai questo doppio danaro che t’ è
necessario, se vuoi che i tuoi pochi iugeri ti faccian mangiare? Dove lo
troverai , se sei di co- loro, i quali s’avvezzarono a vivere col solo
frutto della loro possidenza , e non saprebbero far altro? (Oltre di che,
se Io trovi, c glie lo dai, egli diverrà comparativamente il ricco,
e tu diverrai , viceversa, il povero , ristabilita cosi a rove- scio ,
comechè dentro piu ristretti limiti , la differenza di fortuna , e
ripristinato , per contrario verso , un nuovo bi- sogno di livellazione
). Ma, educato come sei, non ti basta, pe’ pochi iugeri che
ti son dati , o che ti restano dopo lo spoglio, il trovare col- tivatori.
Ei ti bisogna trovare un che dell’ amministrazione s’intenda, più di quel
che tu ne intendi, tu che, probabil- mente , non vi pensasti mai , volto
ad altro il pensiero , e solito a farti servire in tutto ; e questi
ancora non vorrà spartire il suo tempo tra l'azienda della propria
coltivazione e della tua, senza esserne ben pagalo egli stesso. Ecco
dun- que per te una nuova necessità di pecunia , che non saprai
donde trarre. Ecco, se tu arrivassi a trovarla su i risparmi eccessivi
che t’ imporresti , una cagione per esso di sopra- stare a te nell’
avere, e di turbare il livello, quanto almeno il misero sistema che
analizziamocomporta (colla conseguenza poi del bisogno di sconvolgere nn’ altra
volta la società, per novamente livellarla, quando il ricco sarà
diventato po- vero, e il povero ricco). Ed ecco, se, non ostante ciò,
non potrai trovarne quanta te ne bisogna, ecco dunque, ripeto, cbe
i tuoi pochi iugeri non ti serviranno a nulla , e re- steranno incolti ,
con danno anche pubblico , e tu morrai di fame. Muori pure, tu fuco
nell’alveare della nazione , tu il « quale non meriti vivere» dirà la
legge nuova, che, senza scrupolo, e senza badare a numero, vuole uccidere
una eletta parte della popolazione a profitto del nuovo mondo, il
quale s’avvisa di fabbricare. « Muori tu, con tutti i tuoi. « Resteranno
, con maggiore utilità, cittadini più laboriosi, « tra’ quali que’cbe
prestan le braccia e la direzione per « coltivare, saran pagati con quel
cbe lucreranno i non col- « tivanti con altre occupazioni retribuite. » —
Ma che oc- cupazioni potranno esser queste? Arti, per esempio, di
lusso? Tu burli. Queste no : perchè il lusso è una superfluità per
que’gran birboni de’ ricchi, cbe necessariamente costa cara, essendo cara
la materia prima, care le operazioni de- stinate a trasformarla , e le
spese di manifattura ; ciocché fa , che il prezzo loro è necessariamente
alto ed altissimo , e perciò irreperibile in un popolo dove ricchi più
non sono. Dunque non più carrozze, non più arredi preziosi , non più
drappi sfoggiati , non più cristalli e porcellane di Sevres , non più ori
e gemme ed argenti , e per analoghe ragioni , non più statue , non più
pitture, non più palagi , non più parchi , giardini di piacere , cavalli
di pompa , vil- le... cose tutte riservate a’ paesi infelici dove duri la
servi- tù degli uomini... Quali pertanto , nella beata tua Sparta,
saranno le arti, a che que’chenon vogliono, o non sanno, o non possono,
coltivar la terra, o fare al più vita di pastori, potranno darsi , per
isperare sostentamento, e possibilità di coltura alle poche terre, che la
legge agraria avrà voluto as- segnare alla loro incapacità? Siccome la
consumazione è quella che regola sempre la produzioiìe , saranno > salvo
poche eccezioni , le arti che si chiamano di prima necessità , ed
elle stesse ridotte alla loro pili grossolana e più rozza e men costosa
espressione.... E questo non si chiamerà rendere la spezie umana
retrograda , e distruggere la civiltà ! ! ! Que- sto sarà il secol d’oro
( senza l’oro , e ricacciato nel fan- go dei consorzi umani che sono in
sul cominciare, e che tengono ancor molto della primitiva creta senza
ver- nice ). E io qui non parafraso l’argomento, e non
lo-scorroper ogni suo punto, piacendomi a descrivere tutti gli altri
con- seguenti: gli studi scaduti, le occupazioni geniali vegnenti
meno , lo slaucio, il potere degl’ intelletti inceppato ... a dir breve,
la condizione di tutto il popolo condotta solleci- tamente a quella
forma, che oggi, per trovarla, dohhiam salire le montagne più selvagge,
insinuarci ne’ villaggi i più rozzi.... Pur so qùel che si
risponde dai gros bonnels delle nuove filosofìe politiche. Non son essi
cosi bestie da non vedere tutto ciò , per poco che vi riflettano, cosi
limpidamente come noi lo veggiamo... Ma essi han due lingue in bocca.
Una colla quale parlano al volgo; un’altra colla quale parlano a
noi. La prima delle due lingue favella alla faccia del popo- lo. —
Divisione de’ beni — Distruzione de' ricchi — Abolizione dell’ odierno
ordine di cose col ferro e col fuoco — Sovranità della moltitudine
proletaria.... senza comento , senza restri- zione. E la feccia del
popolo accetta con alacrità questo sim- bolo della sua fede politica nel
senso il più letterale , il più largo ; e vi crede ; e se ne infatua ogni
giorno più ; e affretta co’desiderii l’ istante , in che la legge agraria
sarà promul- gata; e odia intanto, e minaccia que’ che hanno,
consi- derandoli , come usurpatori del dovuto (!) a que’ che non
hanno ( e che non hanno fatto niente per avere ). Come potrebbe essere
diversamente? — La lingua, in questa vece, che parla con noi, rinega, o
piuttosto maschera sì fatte enormità. Va per giravolte. Sostituisce alle
idee trop- po urtanti, ch’esse enormità rappresentano, altre idee
che mostran meno quel che è celato sotto. Propone tempera- menti e
sistemi , che creeranno una civiltà nuova, capace d’ evitare, o
d’attenuare Uno ad una proporzione innocua i precedenti sconci. Utopie.
Le Icarie d’ un Cabet ( da an- dare a cercare in America , lontano
lontano dagli occhi di coloro, che potrebbero screditarne gl’ incunaboli
, e rife- rirne le miserie). I ComuniSmi sotto certe forme. I
socialismi de’Fourieristi e di Considerane diLouisBlanc, e di
Prudhon: sistemi confutati ogni giorno lecento volte da uomini sommi..
. da uomini i più grandi, i più competenti della Francia, e del- l’
altre nazioni d’Europa, e pur messi sempre innanzi colla stessa impavida
sfrontatezza , colla stessa subdola destrezza , fingendo, che
confutazioni nou vi siano. ..che le dispute ab- biano cessato , o non
meritino la pena ’d’ essere intraprese e siano state vinte ... che il
giudizio dell’ universale ( non quello delle proprie sette soltanto ) sia
già intervenuto , e sia stato favorevole : sistemi , uno de’quali è la
confutazione dell’altro: sistemi, non pertanto, ciascuno de’quali ,
cosi ancor controverso, cosi ancor contrastato tra le file stesse
degli odierni rinnovatori del mondo , non si è già contenti dell'ofirirlo
solo all’esame ed alla disputa de’ ginnasi, com’io pur altrove
considerava, ina, prima d’averne posto fuor d’ogni controversia la certa
utilità presso almeno il maggior numero degl’invitati a subirlo, si vuol
pervicacemente tra- durlo ad alto ; si vuole imporlo a tutti colla forza
, e gua- dagnargli la prevalenza del numero, colla seduzione, e con
arti di cospiratori ! Nè io, deviando troppo dall'argomento
principale e diretto di questo articolo , debbo qui imprendere d’
aggiungere una confutazione di più alle tante che corrono il mondo, e
che si rimangono senza adeguata risposta. A me, per l’oggetto, che
mi son proposto , basterà fare una dimanda (lasciato da parte il
trattare, se quello di si fatti sistemi, che ciascuno .ole de’
parliti nuovi preferisce, e che, ad ogni costo, vorrebbe sostituito,
senza dilazione, al presente ordine di cose, bada esser liberamente
consentito, o si vuol che sia una confisca violenta delle libertà di
troppi a profitto d’ una futura rior- dinazione degli uomini secondo la
prestabilita formola d'al- cuni, che non si vuol disputata , né
sottomessa ad arbitrio di rifiuto , ma si vuol accettata da chi non la
crede buona ed utile , come da chi la crede , ancorché chi non la
crede s’ostini invece a riputarla un esperimento eminentemente
dannoso ed assurdo, o per lo meno grandemente rischioso, e pieno di
pericolosa incertitudine). — Io farò la dimanda, che sola qui m’ imporla.
— 1 nuovi sistemi di congrega ci- vile ( si risponda con franchezza )
manterranno si o no , la diversità , più o meno , di specie e di grado
negl’interessi , anche materiali, de’ singoli, come in generale,
l'ordine della civiltà mostrammo, per sua natura leudere a produr-
re? — Se no: dunque ( levata pure ogni maschera ) tutti , ne’ materiali
profitti , avranno lo stesso ; tutti spereranno lo stesso, o presso a
poco lo stesso. Sparirà , o tenderà a sparire , la libertà del mio e del
tuo, almeno quanto alla misura. L’attività, la solerzia, per ciò che
spetta al ben es- sere fisico d'ognuno, non recheranno alcun maggiore
van- taggio, che l’infiugardia, l’inerzia. La perizia più grande
nello stesso genere sarà materialmente trattata come la minore. Nella comunità
nessuno avrà alcuno di quegli stimoli stali sempre, che più energicamente
e più universalmente ed infallibilmente son motori al fare, non che al
ben fare. — Vi sarà ( vorrà dircisi ) il premio della maggiore stima
che si godrà da chi la merita, oltre alla soddisfaziou gene- rosa dell’
animo proprio. Vi sarà il piacere di sentirsi loda- to j di vedersi
onorato, consultalo sopra gli altri. Ma que- sto é dimenticare, che si
fatto premio già c’é nell’ordine odierno, e pur non basta senza quegli
altri che oggi vi sono, anzi non basta nemmen con quegli altri. Questo é
dimenticare che noi siam composti d’anima e di corpo, 1' uno e l’altra co’
suoi speciali bisogni , e perciò cogl'interessi , e co’ diritti suoi (
purtroppo i secondi essendo , di più , meglio sentiti che i primi ). Questo è
il togliere de’ due ordini di molle, che natura ci ha dato per impulso al
progredire , uno de’ più efficaci; il più efficace de’due; il solo
efficace pel maggior numero de’viventi : i quali, se anche colla giunta
della potente azione di si fatta specie di molle, si spesso, tra color
pure che son meglio educati e disciplinati, si ri- stanno , c non
progrediscono , o vanno all’ indietro, può ben prevedersi quanto più si
ristaranno dal progredire , od andranno all’ indietro dopo la sottrazione che
lor si minaccia. Ma qui non si fermeranno gl’inconvenienti, poiché
biso- gnerà bene esser preparati al subire molti altresi di quelli
che già di sopra toccavamo, od analoghi a quelli. Tradotto a pratica, uno
od un altro di cotesti sistemi* per ipotesi, livellatori , senza bisogno
di speciali leggi suntuarie, il na- turale loro effetto sarà che
diverranno per tutti ugualmente interdetti certi innocenti , ma vivi,
piaceri della vita, a che pur ci ha preparato natura , e non ci è a
disgrado che ci educhi l’ arte ; cioè il magnifico vestire , la buona
tavola con una corona d’ amici del cuore, servita di costosi mani-
caretti , e di squisiti vini , e le altre , o simili cose ch’io di- ceva
; come dire argenterie , oreficerie , tappeti, arazzi, bei quadri , le
sontuosità de’ palagi , le scuderie popolate da bei palafreni , o da
generosi corsieri .... cocchi , cacce , viaggi , villeggiature , libero ed
ampio sfogo a’ propri generosi impulsi , e ad altri , che, per essere men
nobili, non ci son però men cari, nè men sono innocenti.. ; il poter
direasè stesso. Y’è qualche cosa... v’è molto , di cui son io pa-
drone... di che posso disporre a mio pien beneplacito, e di che posso,
con oneste arti, a me accrescere il godimento, quanto a farlo mi basti la
volontà e l’ ingegno, chiamandolo mio senza che altri me ne turbi, o me
ne coarti ad una data invidiosa misura, l’uso ed il possedimento. Questa
è la vera libertà del progresso. Questo è il progresso della
libertà. Libertà dell’ industria. Libertà piena «senza limitazioni. Libertà
, non della sola persona , ma di quello , che , com’ io notava altrove,
noi consideriamo qual parte , e connaturale contorno e complemento della
nostra persona terrestre, nel senso che già esponemmo. Or si ponga ben
mente alla con- traddizione. Si dice, che, ne’ sistemi presenti di
reggimento de’ popoli le libertà son troppo vincolate , e non hanno
il loro legittimo slancio, tiranneggiandole soverchiamente tutti
più o meno i governi. Si dice, che il diritto al progresso è inceppato ;
che è giunto finalmente il tempo d’ affrancar l’uomo dalle infami antiche
catene; ed intanto i nuovi siste- matici preparano al mondo forme di
schiavitù inaudite , e che non sono mai state. La vita comune è d’ alcuni
con- venti, e si sa quanta abnegazione del proprio volere ed istin-
to costa, e quanto pesa , e quanta virtù esige perchè si giun- ga a
patirla senza lamento. Altrettanto è dello stare a parte in mano , e del
vivere a misura quale che siasi , ed a spil- luzzico in ogni cosa ,
secondo che altri assegni o conceda. Quel dover più o manco, giusta la
diversità de’ sistemi, la- mentare tra sè e sè con queste voci : « La
famiglia me la « usurpa in gran parte lo stato. La rendita me la limita
lo « stato. La nobiltà me l’abolisce lo stato. La eredità me la «
sequestra e me la impedisce lo stato » ( parlo qui special- mente nella
supposizione sempre dalla quale son partito , cioè in quella de’
livellamenti , qualunque siane il metodo e la forma), non è egli un
costringere ad esclamare chi cosi considera « Io non son più meijuris ! —
Io mi son fatto servo dell’ associazione d’ uomini nella quale sono
entrato! Questo è ben altro che società sinaliagmatica di buona fede 1 — Questa
è una società leonina , o una società da « volpe ( ripeteranno ) , dove
il più poltrone, il più gaglioffo , il più stupido , il più disadatto, iLpiù
vivente a « peso degli altri è il più favorito o il più furbo, ed ha stipolato
in suo favore il monopolio del massimo vantaggio; « mentre il più attivo
, il più industrioso, il più ingegnoso, « il meglio animato a fatica,
quegli che del suo piu contri- « buisce , è quegli eh’ è sopraffatto ,
eh’ è derubato , eh’ è « vittima! Questo è il mondo alla rovescia!? Cosi
combinisi ogni cosa come lo si voglia, diasi d’ oro alla pil- lola meglio
che si sappia , cuoprasi con tutti i nastri che si voglia la trappola ,
mal s'ha fiducia del riuscire a ingannare altri che i più sciocchi. Da
che l’ effetto ultimo sai che ha da essere l’averti tirato dentro ad una
società a capitale mor- to, dove, nella liquidazione de’frutti , a te
principale azioni- sta , o dei principali , dee toccare un dividendo pari
al divi- dendo di chi non ha messo nulla, per poco che abbi saviez-
za, non si sarai gonzo da lasciarviti accalappiare. Dopo tutte le quali
considerazioni , per ultimo risultato , e per giunta alla derrata , a si
fatta conclusione non si sfugge , che l’al- zarsi al postutto degl’
infimi , e di essi stessi fino a un limite poco lontano e di piccola
elevazione , gioverà ben poco alla causa della civiltà e del progresso, e
rabbassarsi a precipi- zio, de’ nati per esser sommi, gioverà a questo
ancor meno; e perciò , che , contata ogni cosa , la conclusione finale
sarà il regresso sollecito degli uomini verso quella che sempre s’è
chiamata barbarie, non certo un’accelerazione di passo nel verso
opposto. Se poi.ne’nuovi ordinamenti politici, che si ci si
vantano, per salvar la legge di progresso, e di civiltà, e della
naturale libertà di sé e delle cose sue, che alla civiltà ed al progresso
è tanto incitamento , vogliansi conservate le diversità negli interessi
di vario nome, si quanto a specie, sì quanto a grado (ch’era la seconda parte
del mio dilemma), dunque co- stituirà ciò una terza categoria di
disuguaglianze , crescenti col grado del progresso e della civiltà ; e
ammessa la realtà di queste nuove disuguaglianze, come non dovranno generare
elle ancora una disuguaglianza ne'diritti in ragione delle disuguaglianze
suddette? Perchè , io non sarò di coloro , i quali esclusivamente le
convivenze umane risguardano sotto l’aspetto di quelle società
A’azionisli eh’ io poco là mentovava , dove i soli valori de’ puri interessi
materiali d’ognuno , tradotti nell’ idea del proprio tornaconto ,
rappresentino le azioni messe in comune, e quindi le correspettività de’
diritti politici da godersi. Certo v’è altro eziandio, a che gli
eterni principii della giustizia distributiva comandano che s’
abbia riguardo , e spesso un maggior riguardo; e alcune delle cose
dette di sopra mostrano in ciò la mia persuasione in questo senso. Ma non
son io nemmen di quegli altri, i quali la som- ma e l’importanza disi
fatti interessi non considerano affatto nella ripartizione de’ poteri e
de’ diritti a’ poteri ; e per que- sto lato, tanta voce vorrebber data al
mascalzone, il quale non ha interessi di possidenza, non d' industria...
non di famiglia (od ha interessi tutti negativi , cioè tutti in
opposizione co- gl’ interessi di coloro, i quali nell’ alveare sociale
sono Tapi operaie e produttive ; tutti interessi di far guerra alla
pro- duzione, alla possidenza, all'industria... alla famiglia... ;
tutti interessi di disordine per pescare nel torbido) , quanta agli
altri pe’ quali la società va prosperando, cresce in affluenza di beni,
ed è corpo, regolare, utile , e conducente al fine , per cui
principalmente le convivenze umane sono stabilite. ]si dato mano, e
solamente lo patiro- no , di che il bene susseguente è poida
ricompensa. ]mili , esso uomo abbia or buono avviamento od indirizzo
alla riuscita , or non l’abbia , e ciò , alle volte per colpa propria , o
rispettivamente per proprio merito , altre volte senza ciò, e contro a
ciò: cosicché l’impiego de’ mezzi aberra più o meno dal fine , e
radamente vi conduce ; e , quando vi conduce , lascia sempre molto e
moltissimo di desideralo e non conseguito. Dove le volte , che più o
men si riesce , servono a mantenere l’attività nostra , e la spe-
ranza, e il coraggio, e a preservarci dal precipitare nell’i- nerzia ; le
volte che non si riesce , servono a ricordarci , che un potere superiore
al nostro è dietro la tela , il quale regge le coso umane , e con occulta
sapienza, or ci dà i be- ni della terra , or ce li leva , o ce li nega ,
acciocché pensiamo che non son questi il fin proprio e sommo a noi pro-
posto. Ma poiché insonuna, concedo io pure , che al mal go-
verno l’ opporsi con onesti sforzi , invece di esser colpa , è anzi
spesso dovere , o quasi dovere (l’acquiescenza pura e semplice , e la
rassegnazione , quando fosse di tutti, poten- do in alcuni casi divenire
condannabile , rispetto almeno ad alcuni: perocché è alto , non di sola
virtù , ma di debi- to, per quelli che han di ciò competenza : 1.
l'illuminare, a il cercar d’ illuminare , i depositari del potere, in
quel che veramente abbiano errato , od errino , massime quandi l’errore
sia grave ed abituale : 2. l’adoperarsi a promuo- vere la medicina de’
vizi radicali con indefessi , opportuni , e convenienti mezzi) , come dee
procedersi iu questa dilli - cile e delicata faccenda? — 'fiuti is thè
qmstion — Ciò sia ma- teria d’un Di quello che al popolo non ispelta
, e spelta , in fatto di governo e di sovranità , e del modo e della misura in
che gli spetta. L’argomento io l’ho toccato qua e là più
volle , forse con un po’ di disordine , ma esprimendo con forza ogni
volta l’opinione della quale sono persuaso. Giova nondimeno
tornarvi sopra in quest’articolo , e dir con più grande asse- veranza
ancora , che in ogni altro luogo — la principal fon- te degli errori , i
quali sul proposito nostro si spacciano , e corrono oggi il mondo , stare
appunto in questo atto d’u- niversale superbia , per che , in cosa , la
quale tanto è legata a fatti providcnziali che si burlano, per cosi favellare
, di tutte le previdenze umane ; la quale tanto poco dipende dalla
volontà de’singoli ; la quale tanto è superiore alla intelligenza delle turbe ;
tanto è diffìcile ad essere trattata co- me lo si addice ; tanto è poco
alla a condursi per sole deliberazioni d’uomini quali che siano , a grado delle
passioni loro , e nel conflitto de’loro interessi perpetuamente fra
lo- ro lottanti : s’argomentano di credere tra tutti distribuita ,
ed a tulli appartenente la competenza del trattarla per Io meglio loro.
Don^c è poscia l’opinione si da noi combattuta , che la sovranità , in radice ,
è di tutto il popolo , inalie- nabile da esso , reversibile in esso , e
rivendicabile per esso , tutte le volte che lo vuole ; esercitarle da ciascuno
, individuatamente , ed individualmente , nella porzione più o men
coeguale che gli spetta ; residente di fatto , come po- tere attuale ed
accidentale nella maggiorità ( più o meno istabile di sua natura)
de’cittadini , che sendosi data la pe- na di concorrere ad esercitarla ,
convennero in un medesimo voto ; ma non ispettante di diritto normale ad essa;
perchè la parte non può equivalere al tutto ; perchè chi non ha parlato ,
non ha detto niente , e non s’è interdetto di poter parlare quando che
sia ; perchè il diritto delle minorità , tanto piccolo quanto più si voglia ,
può essere oppresso , ma non annullato, nè distrutto; perchè, infine, non
può non esser lecito a queste il cercar di farsi maggiorità la loro volta ,
acciocché il fatto della sovranità ad essi o passi , o ritorni. E ,
per vero, i fautori stessi delle anzidette sentenze, non osapo
analizzarle , od almen confessare , i naturali conseguenti loro, de’quali
conseguenti il principale è , che , cosi insegnando essi , vengono a
dire, insomma , che la sovranità, comunque affidata come potere esecutivo,
legisla- tivo , giudiziario , o quale altro potere che siasi o che
si chiami, obbliga in diritto i soli consenzienti: quanto agli
altri , li violenta , ma non può obbligarli; o , ciò che vale lo stesso ,
vengono a dire , che la sovranità è obbligatoria di diritto per nessuno ,
giacché que’che le obbediscono, in quanto sono consenzienti ,
evidentemente obbediscono a sè e non a quella , cioè obbediscono alla
propria volontà di obbedire, nou alla forza imperante della sovranità,
attinta, in massima parte, dagli eterni principii della ragione e
della giustizia ; ed obbediscono perchè son contenti di farlo , non
perchè si credano obbligati a farlo ; ed , in que’che obbedi- scono , in
quanto , a lor malgrado , vi sono costretti , non dall’autoriLà, ma dalla
forza materiale, in essi ancora l’obbedienza è un fatto sofferto , e non un
dovere adempito ; e un’ obbligazione estrinseca , e non un obbligo di
vero nome ; o , a dir meglio , è violazione di diritto , e non diritto ,
contro alla qual violazione si ba invece il diritto di mettersi in istato
d’ostilità , di cospirare, di muover guerra flagrante , in detto ed in
alto. Il che dire è negare la sovranità , e ennsiderarla come ud fallo pur
sempre , non come un diritto; Tatto di alcuni che soperchiano tutti , non
diritto di tutti contro a ciascuno ; tirannide , e non sovranità, pe’
dissenzienti ; cosa inutile , superflua , ed illusoria , o simulacro di
cosa pe' danti libero consentimento : ciocché bene inter- pretalo ,
significa poi , che la sovranità , in quanto è pote- re , pe’soli
dissenzienti esiste ; ma esiste per essi soli come una iniquità ed una
ingiustizia , non come cosa mai legit- tima e normale : verità si vera ,
che lo spirito logico d’ uno de’ più sinceri , e de’ più espliciti tra
gli antesignani del nuovo liberalismo (Prudhon) non ha dubitato di confessarla
e dichiararla ad alta voce , e per istampa. In si fatto
sistema , pertanto , gli attualmente investiti della sovrana potestà , e
d’ogni sua grande o piccola parte, quali e quanti pur siano , non sono
che semplici incaricati d’affari , privi di plenipotenza , e quasi
direbbesi ad referendum, o piuttosto godenti d’una plenipotenza frodolenta
di l'alto a tutto loro risico , e sotto la loro perpetua responsabilità ,
come i generali di Cartagine ; sempre revocabili , sempre soggetti al
sindacato di tutti e di ciascuno ; posti in una siugolar condizione
innanzi al popolo : perchè , ne’paesi dove tutto il popolo non è stalo chiamato
, e non è con- corso a farli (messo dietro le spalle ogni diritto di
prescrizione e d’usucapione) sono come se non fossero; usurpatori posti
fuori della legge ; nemici pubblici , e niente meno di ciò : ma , ne’
paesi stessi , dove il popolo è quegli che li elesse negli universali
suoi comizi , non hanno , per le ragioni esposte di sopra , solidità e realtà
alcuna di potere ; burattini da filo quanto a tutti , e tali burattini ,
il cui filo dev’essere spezzato il più presto , o quando il destro uc
vie- ne , quanto a’dissidenti. Che se tutto ciò è rispetto
alle persone, poco diversamente dee dirsi rispetto agli atti loro , il cui
valore intrinseco è subordinato sempre all’apprezzamento libero e
capriccioso d’ognuno. Ed altrettanto è ancora delle leggi ; o sian
pure quelle che si chiamano Costituzioni , Carle, Statuti , o simile. E
cosi dislruggesi allatto , e si demolisce l’idea di governo , e si sperperano
le convivenze civili, rimettendo ogni umana congrega nelle condizioni
primordiali del viver selvaggio , ricondotto a’suoi naturali e radicali
elementi d’indipendenza degl’individui , e di forza brutale del più
potente , o del numero maggiore , centra il più debole , o contra il
numero più piccolo. Io invece, per finirla , riduco a queste non
molte propo- sizioni i dettati della ragion pura in si fatta perplessa
materia, sottoposti nondimeno alcuni di essi, nell’applicazion loro, al
prudente apprezzamento delle circostanze. Iddio, a farci appunto conoscere,
nella presente im- perfezione ed ignoranza nostra , eh’ egli è il padrone
(domitius dominanlium ) , e che noi , per molto che immaginiamo di
esserlo , non lo siamo punto , o lo siamo assai poco , c sotto sempre la
legge della sua supremazia , dispose , c di- spone, colla sua direzione
occulta del mondo morale, come del tìsico , le cose in modo , che lo
stabilimento de’ gover- ni , nel materiale , e nel personale, è
(storicamente parlando , cioè nella pratica , cosi come dalla storia universale
e particolare de’ popoli ci è dichiarata) un mero previdenziale
fatto , dato o coadiuvalo , sempre , o quasi sempre , da for- za di
circostanze , indipendenti il più spesso da ogni preor- dinala volontà
delle turbe ; per le quali circostanze , o contrastato , o no che sia ne'suoi
cominciamenti , esso , da una esistenza precaria , e spesso irregolare ,
passa , a poco a poco , ad un'altra esistenza tacitamente consentita
dall’uni- versale , e pacifica , e con ciò legittimata ; rispetto alla
qua- le , l’azione indesinente de’ due principali fattori di
quest’or- dine di fatti (e voglio dire , 1. il reggimento divino
delle cose umane , 2. quella dose di politico senno, che giunge per
solito , da ultimo , a scaturire da qualche parte) , più o meri
laboriosamente, viene a galla , a traverso d’ogni difficoltà, in mezzo ai
popoli , come una manifestazione inevitabile alla lunga, dell’idea insita in
tutti , ed eterna , tutto- ché più o meno oscurata , di giustizia, di
verità, di dovere; ed allora quest’azione, or lenta, or sollecita , opera
in guisa, che l’intollerabile alla fine si fa tollerabile e tollerato,
l’ingiusto si fa giusto, o meno ingiusto , l’improvvido o provvido , o
meno improvvido ; e nascono sistemi e vie di compensazione , lenitivi ,
palliativi , rimedi ; e il male che c’è , o che resta , non può superare
una certa misura (tran- ne quando un decreto terribile di Provvidenza
vuol che le nazioni periscano , o si consumino , e decadano umiliate
e contrite) , nè può non avere un contrapposto di beni : co- sicché
di questo misto si componga quella dose d’ infelicità terrena , più o
meno temperata , che è necessariamente com- pagna di questa vita ,
punizione meritala agli uni ; scuola di virtù , e mezzo di merito agli
altri. 2. A vie meglio mostrarci la verità di questa dottrina
, la Divinità ha in tal forma ordinato il mondo morale , che in
que’ secoli di contumace superbia, o tra quelle superbe nazioni , in cui
la verità c la presunzione della propria sa- pienza più prevale tra gli
uomini, e li spinge a voler tutti fare e non lasciar fare , ognuno
mettendosi innanzi , e cer- cando d’esser primo, o de’ primi, ognuno
volendo esser dio a sé stesso , e governo , e governante ; ivi , ed
allora, è l’infelicità massima, il disordine massimo , lo sgovernamelo
massimo , la guerra civile imminente o flagrante , l’anarchia, lo stato
convulsivo, od epilettico , delle umane congreghe: disordine,
sgovernamenlo , guerra , anarchia, convulsione, epilessia , che seguitano
finché questo periodo di presunzione non passa, e finché principii migliori ,
e più giusti, non tornano a prevalere la loro volta. Intanto perù è
giusto confessare , che , se da un lato, il Creator delle cose, per le
ragioni che più volte adducemmo , non ha concesso agli uomini la perfezione in
nulla , e nè manco ne’governi , ed ha voluto tollerare , e permettere , a
volta a volta, l’imperfezione, anche condotta , in essi governi, fino
all'abituale imperizia , imprevidenza , inettitudine , ingiustizia , e
tirannide; da un altro lato , ei non ba voluto , in generale ,
abbandonare si fattamente la specie umana all’ impero del male, anche
sulla terra , che non abbiale concesso , nella sua benignità , mezzi
normali di riparo , di resistenza , di rimedio (renduti, egli è
vero, per suoi segreti disegni , ora più , or meno efficaci) , e
non abbia perciò inserito nelle ragioni, le meglio addottrinate,
de’ saggi in mezzo ai popoli il lume più o manco opportuno a conoscere in
ogni caso quel che è lecito , e conveniente , e necessario di fare per
tentar diuscire di pena , d’ingiusti- zia , e d’oppressione. Questa è
almeno la regola generale, sebbene , purtroppo , convien dire , che
talvolta , nel se- greto della sua sapienza , esso Creatore , permette e
tollera, come altrove notammo, che sì fatto lume in pochissimi
splen- da , e quasi in nessuno : di che poi la conseguenza è , che
il male del malgoverho , o dura , o quel che è peggio, per gli sforzi
inconsiderati di que’che non vogiion patirlo s’aggrava , o sia che conservi , o
non conservi le prime sue forme. Or quando a si fatto ultimo
flagello non si è condan- nati (pena , per solito , del lungo tralignare
d’una civil convivenza , confermata nel vizio, e nella cecità
d’intelletto) allora il rimedio , e il riparo, c’è , sol che tutti
facciano il dover loro ; e c’è senza le maledette rivoluzioni , senza
le illecite cospirazioni e sette. C’è per la forza pacifica ed infallibile
delle persone , e delle cose. Del quale riparo e ri- medio le massime io
le ho sostanzialmente , qui indietro dette , nell’articolo. E non è , che
, in si fatto ufficio non abbia ognuno la sua parte legittima. Solo
bisogna confessare, che la parte non può nè dev’ essere in tutti uguale,
e la stessa. La prima e principal condizione è il coraggio civile (giova
ripeterlo : il militare guasterebbe tutto, infondendovi dentro le sue
furie), coraggio prudente, ponderato, modesto, mantenuto sempre rigorosamente
dentro i limiti del permesso dalla legge, ma perseverante, istancabile,
non in alcuni , ma nel maggior numero. Le leggi in nessun luogo son
cosi cattive , che non aprano più di un adito a raddrizzare i torti,
e a far fare giustizia. Bisogna non perdersi d’animo. I forti debbono
aiutare i deboli , dirigerli , farsene avvocati. 1 savi debbon dar mente agl’
insipienti. Questi debbon ricorrere a coloro che la fama universale
indica in ogni luogo come sapienti ed uomini da bene , per cercar lume , e conoscere
se veramente ban ragione e diritto di lagnarsi , e dentro che misura. Gli
uomini da bene e sapienti non deb- bono negarsi agl’inferiori.Tutti
insistendo nelle vie consen- tite da ragione e da legge , e facendo
concerto perpetuo di sforzi , ciò, senza essere una cospirazione
illecita, e di setta , e d' armati , è impossibile che non produca il suo
frutto. Ma non bisogna che i primi , a’ quali questo coraggio sia
di qualche danno personale , faccia» perciò meno il debito loro, o che
l’esempio del loro danno distolga gli altri dali’imitarli. Ciò ha da essere,
come nella guerra. 1 feriti, non perchè feriti, finché possono, lasciano
il combattimento, se aspirano al titolo di bravi : e i non feriti non
fuggono per- ché altri al loro fianco son feriti od uccisi. Solamente
biso- gna ben guardarsi dall’ uscir dalle vie rigorose della
legali- tà , e del rispetto che è interesse di tutti il non
dimenticare; e dall’ immaginare , o pretender gravami e torti, dove
non sono. Cosi adoperando, colla metà della ostinazione che gli
odierni settarii pongono nelle loro inconsiderate e criminose mene ,
certo non è abuso di potestà , il quale non debba con [Ecco mio de'
vantaggi innegabili dell' aristocrazia. Dov’ella è in forza , e bene e
convenientemente stabilita , è 3i grande l' autorità sua , si connatura
to il coraggio civile , si spontaneo f intervento a tutela de deboli , che
difficilissimo riesce l'abuso del potere in cbi lo ha in mano, almeno condotto
sino a vizio abituale, ed a quell’eccesso ch'è tirannide intolieranda ,
od insipienza equivalente a tirannide.]più certezza essere corretto , die
tentando pazze congiure a moderna usanza. Nè nego, perfino , che
quando i’ abusare nasca da im- perfezione di legge , o di leggi, di
questa o queste non possa legittimamente chiedersi il mutamento, e il
raggiustamen- to a più equa forma. Quando veramente costi, per consenso
di tutti tsavi, che le leggi sono cattive , o talmente imperfette da rendere
necessario un cangiamento, niun può trovare men che giusto il desiderarne e il
chiederne la rettificazione. Il male non istà nel desiderare , e nel
chieder ciò , ma nel desiderarlo e nel chiederlo in modo illecito,
arrogante, e perturbatore. Sta nel volere a forza cattivo, quel che non lo
è manifestamen- te. Sta nel non andare a rilento in si fatti giudizi, e
nei non ben verificare ogni cosa a norma della sapienza scritta di
tutti i tempi , prima d'avventurarsi a pretendere che la cosa è come la
si pensa. Sta nel non aver occhio alle circostan- ze, agli effetti
probabili , agli scompigli possibili. Sta nel mancar infine di buone
bilance per non trascender mai la giusta misura in nessuna sua parte :
condizione più essen- ziale ancora, acciocché niuno possa imputare di
sedizione, di ribellione, di fellonia ciò che nel qui discorso senso
e modo va operandosi. Da tutte le quali cose vede ognuno che non
discende, nè l’obbligo assoluto di rassegnarsi al male , che evidentemente
è male, nè l’assoluta assenza di mezzi per medicarlo. Ma non discende
nemmeno la pazza politica massima degl’odierni , che per ultima panacea
propongono date forme di [Queste sono le teoriche. Ma torno a dire , se i
savi mancano, se mancan d’ accordo , se v’ è funesto li svolgimento negl’
intelletti di que’ che so» cre- duti tali ; se certi desiderii poco
ragionati, e poco ragionevoli, si confondo- no co’bisogni, solo perchè
sono alia moda, e perché sono intensissimi; se certe lagnanze son di
minimi che si giudican massimi , e che fatte suonar alto più disturbano
che non giovino; se? Allora come non tremare nell’avventurarsi alla pratica?
Iddio liberi i popoli dall’ esser condotti agli estremi qui sopra ricordati; e
dia loro la sapienza vera che li aiuti a scegliere il miglior partito.] governo
applicabili a tutti i casi , come uua calza a maglia. Delle
democrazie pure già dicemmo quanto basta a provare la loro imperfezione
essenziale. L’antica sapienza rappresen- tata da CICERONE sta per le
Monarchie temperate, dove i veri ottimati , cioè dove le capacità e gl’
interessi han voce preponderante, e tra gl’interessi , meno ancora i
fluttuanti e transitorii (sebbene questi eziandio) , che i permanenti
e più tenaci, d’un buono e lodevole patriziato. S’ è perciò
giustamente levata a cielo la timocrazia di Servio Tullio — la sapienza
del Senato romano e dell’ aristocrazia inglese , corroborata dalle
tradizioni di più secoli. Ma non tutti gli ordinamenti ( ridiciamolo )
convengono a tutti i popoli e a tutti i tempi: e chi non ne fosse
persuaso, più d’un esempio recente potrebbe addurne , fatto per
iscoraggiare assai del supposto valor pratico di certe teoriche, le quali
poi, quando si traducono in iscena, si risolvono in bliteri, e in
peggio che ciò, vale a dire in danno evidentissimo de’ popoli.
Grandissimo ( a miglior prova di ciò ) è il male che s’è detto , massime
nel tempo nostro, de’ governi assoluti ; e i governi assoluti eglino
stessi han poi per loro essenza e natura il grande ed intrinseco male, che con
tanta generalità oggi s’afferma? ( L’argomento loabbiam già toccato
alcune pagine indietro : pure importa tornarvi sopra un’ultima volta ).
Messi a bilancia con tutte le altre forme di governo, e contati , e
imparzialmente pesati, i vantaggi egli svantag- gi , traendoli dalla
verità storica d’ogni età e d’ogni con- trada, e non dalle menzogne
sistematiche di tale o tale al- tro declamatore odierno, io non so se un
uomo di delicata coscienza oserebbe giurare, che la parte degli svantaggi
pre- ponderi, sempre totale contro a totale, cioè somma intera di
fatti contro a somma di fatti , dal Iato delle monarchie pure, a quel
modo che s’ama asserirlo. Per Io meno questo conto, o vogliasi dirlo bilancio,
non è mai stato instituito colla debita accuratezza, e varrebbe la pena
dell' instituirlo: impresa tuttavia molto più difficile di quel che non
si pensa, e da più dotti , che non sono di gran lunga i giudici di
strada. Donde poi deduco, che , assai più alla leggiera di quel che si
dovrebbe , si pronunzia la sentenza assoluta di condanna , la qual suona
nelle bocche di tauti , più per mo- da, che in forza d’ una dimostrazion
rigorosa. Le ingiusti- zie, le improvidità , le tirannidi s’incontrano in
tutte le forme d’ ordinamenti politici ( cosi insegna la storia ) , e le
forme le più liberali n'ebbero, e possono averne all’ avve- nire, di non
minori che i più tristi degli assoluti governi. Quidleges sine
moribusvanae profitiunt (ridirò col poeta)? Uno o molti che siano gl’
investiti dell’ atto della potestà , possono del pari abusarne; e , se
gli abusatori son molti , sarà il danno più grave assai , che con un
abusatore unico, tranne se alcun si piaccia del paradosso che più tiranni
deb- bono men nuocere d’un tiranno solo. Le responsabilità ministeriali ,
o d'altri ( nome vano ) si dovrebbe ornai sapere da tutti quel che
valgono. Le supposte guarentigie sono sempre un preservativo, o un
rimedio, più illusorio, che vero. Cb’ buoni sono inutili, co’ cattivi
sono insufficienti , per grandi eh’ elle sembrino. Dove furono concesse
Ano ad ogni richiesta misura, gl’incontentabili odierni se ne contentarono
forse? Le probabilità del maggior senno, che parrebber più facili ad
incontrarsi nel consiglio di molti , di quello che in una mente unica ,
non sono assai spesso , in tempi di civiltà corrotta, e d’ambizioni
flagranti, che un vantaggio presunto , più che bilanciato, ed annullato
dall’altre probabilità delle discordie intestine tra senno e sen- no, e
delle lotte che quindi nascono. E sovente è più bisogno di guarentirai da
que’che sono scelti à guarentire, che ragionevolezza di speranze le quali
in questi ultimi si ripongano. Hannovi poi circostanze ( è giusto il
ricordarlo ) , nelle quali solo le pure monarchie valgono ad operare il
bene delle nazioni; e sonovi beni che soltanto dalle pure monar-
chie possono aspettarsi. Ad esse principalmente, se non unicamente, parche
abbia riservato la Provvidenza l'incarico de' grandi mutamenti da operarsi ne’
popoli colla de- bita rapidità, rovesciando i maggiori ostacoli : perchè
il modificare ampiamente, e radicalmente, con forza, prontezza e
conveniente efficacia, le sorti d’un popoloso dimoiti popoli a uu tempo,
è parte quasi esclusivamente concessa agli assolutismi de’ Sesostri,
degli Alessandri, de’ Cesari, degl’Augusti, de’ Carli Magni, de’
Federicbi, de’ Napoleoni, certo non alle disordinate e burascose
discussioni de’ senati, de’ parlamen li, de’tribunali, delle moltitudini
deliberan- ti. Sono sempre, o quasi sempre, gli assolutismi, che tagliano
ultimi il capo alle rivoluzioni, e creano ultimi la stabilità delle paci.
Sono essi una necessità pe’ popoli che vanno in bizzarrie pericolose e
distruttive. Sono essi a volta a volta, grandissimi benefattori della
umanità, piuttosto- cfaè i suoi principali flagelli. £ di questa
particolare virtù de’ governi assoluti, quanto a prevalenza d' efficacia
e di rapidità, tanto hanno persuasione , perfino i moderni perturbatori,
( torniamo a dirlo sebbene altrove l’abbiamo già detto), clic solamente
perciò hanno istituito, essi medesimi, la obbedienza passiva delle sette, e
l’assoggettamento senza discussione, e sotto pene terribili, a’capi di
esse. Tuttavia non voglio io qui farmi l’apologista esagerato de’governi
di si fatto genere, e dissimulare gl’inconvenienti a’quali vanno per
solito espósti. Non voglio dare il piacere a’ miei avversari, di poter
dire ch’io sono un assolutista sistematico, perchè abbia con ciò bella
occasione la rettorica di certa gente del gittarmi alla faccia questo
rimprovero seguitato da una mezza dozzina di punti ammirativi. Ho voluto
solamente dire che ancora essi governi possono avere ed hanno il loro
tempo, e la loro opportunità; ed in subiecla materia esaminino (dirò di
nuovo) i capi-setta sé stessi prima di rispondere se è vero o falso. Mi
basta avere indicato l’irragionevolezza della troppo universale condanna la
qual di essi governi è fatta, come di cosa assolutamente CONTRO A NATURA
(cf. H. P. Grice), e necessariamente riprovevole. Mi basta aver dato a
conoscere, die vale, anche rispetto ad essi, la regola gene- rale, che
non vi può essere una regola generale di proscri- zione. Le circostanze,
anche a loro riguardo , entrano per molto nel giudizio, come in ogni
altra maniera di governo. D’ altra parte , i governi veramente assoluti
dove più sono? Tutti il tempo li modifica. Addolcisce i più severi.
Modera i più dispotici, e viene più o meno accostandoli alle forme
di temperata monarchia. Siamo giusti. Dove son più i Busiridi, i Falaridi, i
Tarquini Superbi, i liberi , i Neroni ? Se si voglia trovar tiranni,
nell'antica significazione del vocabolo, bisogna andar a cercare nel campo
repubblicano ultraliberale i Marat, i Robespierre. I voti del vero
popolo, di giorno in giorno, son più ascoltati di quel che vuol
con- fessarsi; e , se si é di buona fede, non può esser negato ,
che le concessioni cominciate qua e là a farglisi, per tutta Europa, son
bastantemente grandi per far dire che nelle altissime regioni non si è
tanto sordi, quanto da alcuni si va spacciando. 1 bisogni reali
finiscono sempre coll’essere ascoltati, non per forza , ma per
ragio- ne. Gli esagerati e falsi può colla violenza costringersi a
sod- disfarli per un momento, ma vale allora il proverbio. Nil
wolentum durabile. Per chiudere a quel modo che meglio per me si può
l’ar- dua discussione nella quale sono entrato, io Unirò dunque
cosi dicendo a chi tanto si preoccupa del male dei governi più o meno
imperfetti (come se per necessità non dovessero a, diverso grado tutti
esserlo), e a chi perciò, venendo a conseguenze estreme, niente ha più a
cuore ed in mente , che farsi autore e cooperatore di riforme radicali ,
da otte- ner subito , quasi a tamburo battente, ed a qualunque gran
costo , giuste ch’elle sianolo non siano, purché tali paiano a quei che
le dimandano , avuto a sdegno , e messo in non cale il più prudente
desiderio e consiglio de’ miglioramenti graduati , bene studiali , ben
maturati , e solo predisposti e promossi ne' legittimi e tranquilli modi
che rispettan la pubblica pace, e servono ad assodarla, anziché a turbarla. Se
veramente ami tu il bene del tuo paese , fa senno , e pensa che qui non si
tratta d’un trastullo da gioventù , e d’un balocco da capi sventati, per
darsi dell’ aria e dell’importan- za, ma della somma delle cose pel
presente e per l’avvenire, od almeno per lunga successione d’anni. Fa senno ,
e dà prova d’averlo fatto, giudicando per anticipazione testesso , prima
d’assumere il terribile incarico di giudicare gl’imperi ed i regni.
Discendi, Gracco, nel tuo interno, e chiedi, con buona fede, a te
medesimo se t’è lecito di crederti tale da ben sapere quel che è mestieri
sapersi nell’astrusissimo argomento de’ governi, per islendervi sopra una
man temeraria; e se ti puoi , senza farti rosso nel viso, chiamare uomo di
stato, ose , in questa vece, non senti, nel tuo segreto, d’essere
niente altro che un misero pappagallo , il quale ripeti su ciò, senza
bene intenderlo, quel che t’ha insegnato la piazza, o la setta. Non ti lasciare
illudere dall'orgoglio, nè dall’assenso lusinghiero de’ niente maggiori e
migliori di le, ma metti l’amor proprio da parte, e dà sentenza su te, come
la daresti sopra un altro. Tastati addosso, e cerca imparzialmente se trovi
sotto il dito l’economista, il dotto nella filosofia delle leggi ,
l’intendente ne’ misteri dell’amministrazione e della finanza, il fino
conoscitore della storia umana, l’uomo freddo, ponderato, esperto, che
nel giudicare questioni si diffìcili , si recondite , si gravi , si
feconde di beni e di mali, come sono tutte queste delle quali stiam
parlando, sa, innanzi tratto, esaminare, prima del giudizio , gl’innumerabili
particolari; che concorrer debbono ad illuminare la mente; a spogliarsi
d’ogni passione e d’ogni opinione preconcetta; e, senza dar peso a
insinuazioni d’amici, o di confederati e compagni, discernere, e ben discernere
quel che il luogo, il tempo, le circostanze, gli uomini, gli antecedenti, i
comitanti, i conseguenti, oltre ai principii eterni di ragione e di
giustizia, suggeriscono e richiedono. Va intorno, e parla pettoruto alle genti
in questo linguaggio. Miratemi , e sentenziate voi. Son io veramente
l’uomo da rifare il mondo, e da insegnare agli altri il come? Son io Zaleuco,
Caronda, NUMA (si veda), Licurgo, Solone del secolo illustre ; o sono almeno
l’uomo da saper discernere, senza ingannarmi, que’ eh’ io possa e debba
seguitar come capitani in faccenda di si gran momento? O piuttosto la
risposta non l’odi aver già preceduto la dimanda? Povera mosca del carro
(tu dei sapere la favola), va a scuola , e fatti vecchia prima di toccar
solo col pensiero problemi di tanta astrusità. Solamente allora saprai
ridurre al genuino valor loro tanti spropositi di moderne teoriche
assolute , che, messe in prova da già dodici lustri, non han saputo
partorire ovunque che continuati scompigli , e ine- narrabili guai sempre
ripullulanti a doppio cornei capi tagliati dell’idra! Povera mosca, solo
buona ad esser tafano atto ad inquietare i cavalli che tirano il carro
dello stato, finché un colpo di frusta ti schiacci. Riguarda ( se non hai
le cataratte agli occhi ) nella Francia , prima maestra di sì fatte
novità, e spettacolo e scuoia delle lor conseguenze a ogni gente...
nella Francia già più volte rovinata, e data per queste a scom- piglio, e
le più volte, non da mani forestiere , ma dalie pro- prie. Riguarda a’
be’frutti delle agitazioni tedesche. Riguar- da a’ bei fruiti delle
agitazioni di questa misera Italia, qual ella è or fatta per colpa di
simili tuoi ! Gusta il Progresso che han generato i tuoi pari , la
ricchezza e la prosperità eh’ è opera loro! Basta ornai. Basta. La terra
ha bisogno di tranquillità , e , a tuo dispetto , saprà come
darsela. Cosi ti risponderà , e ti risponde il mondo : non
quello veramente nel quale tu vivi , ma quello in mezzo al quale
dovresti imparare a vivere , per tua istruzione , ed emen- dazione , e
per l’altrui pace. Ma ti risponderà, e ti risponde anche altro. Ti dirà, e
ti dice. O tu , che ti proponi niente meno che di metterti il
grembiule di Prometeo, cioè di rifare la gran famiglia umana in quella parte
che rende a lei possibile il viver socievole , cioè negli ordinamenti de’ suoi
governi , comincia col rifare te stesso. Volendo insegnare a’ tuoi
contemporanei l'arte del comando , insegna a te medesimo l’ arte dell’
ob- bedienza , che non sai , o non vuoi sapere. Con uomini quale tu
sei nessun arte di comando , e per conseguente di governo, è possibile ,
e l’ esperimento s’è visto. È forse giovato in più d’ un luogo darti
costituzioni, e rinnovarle? É forse giovato accordarti assemblee
deliberanti, libertà di stampa, libertà d’associazione ...tutte le
libertà? È bisognato finir col frenarle dal momento che i pari tuoi v’
han voluto metter mano. E cosi doveva essere ; perchè ogni
governo, anche larghissimo e mitissimo , è legge e dominazione ; e cbe
legge, oche dominazione può esservi per tali come tu sei? Tu ( quel
tu eh’ io m’ intendo ) di Dio non accetti che H nome. Tu sei di quegli
uomini, quorum Deus venler est ( riconosciti ). . ; degli uomini turbolenti,
sfrenati, ricalcitranti ... che chiamano ben pubblico il dar di naso
abitualmente ad ogni autorità , sotto colore di far la guerra agli abusi
suoi , colla presunzione di giudicarli in ultimo appello secondo il
privato tuo senno. . ; degli uomini che ban distratto ogni riverenza ,
ogni fede al senno antico , ai documenti de’ se- coli passati , alla
sapienza accumulata per gli studi comuni de’ migliori cbe in ogni età
vissero. . ; degli uomini che ner gano ogni efficacia d’ antica
esperienza , e che queste massi- me non si contentano di professarle per
sè , ma le promul- gano giornalmente d’ ogni intorno! Or con te, e con
tali quale tu sei, qual maggiore pubblico bisogno v’è, del bisogno di
mettersi in guardia , e tirare a sè le briglie ? É egli tempo d’allargar
la mano alle redini , quando il cavallo dà continuo cenno di rubarla, e
di mettersi alla scappata ver- so precipizi!? Pur troppo quando un paese
ha la disgrazia d'avere a ridondanza gente del tuo taglio, facilmente
arriva a quella condizione di tempi che o scusano, o rendono ine
vitabili gli assolutismi i più stretti e i più vessatori. Perchè , non
accade dissimularlo. Ecco la massima miseria della condizion nostra. È peggio
che al tempo de’ guelfi e de’ ghibellini. L’ira tien luogo di ragione.
Vendicarsi, ed esterminare sono ornai la parola di guerra. Sangue! San-gue!
Ammazza ammazza! Quel che non s’ osa fare aucora, si dice pubblicamente
che sarà fatto alla prima opportunità. Designane adcaedem unumquemque nostrum. Poveretti!
S’uccidono gl’individui, non s’uccide la verità e la giustizia. Ma anche
a’Principi d’Europa rivolgerò finalmente la rispettosa mia voce. Purtroppo
hanno essi bisogno d’una ri- vista severa del passato, e d'una
ponderazione accurata del presente a previsione del futuro. Quel che è
stato ed é ma- le, fa d’uopo mutarlo. Quel che è giusto e doveroso
in tanto mare di desiderii , di querele , di mescolate richieste,
bisogna farlo. Mai non ci fu maggior necessità, per chi sie- de ne’ sommi
scanni, d’esaminare gli antichi ordinamenti , e di recarvi miglioramenti
reali e legittimi. Mai non richie- sero i secoli che sono scorsi maggior
senno in chi regge i popoli, e per conseguenza più grande opportunità di
circondarsi di buoni, e probi , e saggi aiutatori, e subalterni. “Riforma!” è
la parola favorita del nostro tempo. Riforma non è in sé medesima parola
d’errore. Le riforme bisognano sempre alle congreghe umane , come agl’
individui. Riforma dunque anch’ essi dicano i re ma non ogni riforma
dimandata le riforme che la vera sapienza politica consiglia , e vuole.
Eruditami qui iudicalis terram. Imparino le genti col fatto , che amate
di cuore il ben pubblico , odiate il male, e vi studiate per quanto è da
voi d’affaticare alla pubblica felicità correggendo intorno a voi, per
aver più diritto , e più facilità a correggere intorno a quei che vi debbono
obbedire. Due parole a chi è per leggere Parere d’un Amico intorno a
questo saggio Risposta Prefazione Opuscolo De’ Fedecommessi e dell’
Aristocrazia Due parole al Lettore Lettera I Fedecommessi sono una istituzione
apparte- nente a più luoghi c a più genti e tempi , che non si
crede. Conseguenza di ciò Essi hanno una principale e giusta difesa
nell’interesse convenientemente inteso di famiglia Non sono applicabili ai
piccoli patrimoni, ma solo ai grandissimi ivi Perennando lo
splendore di tutta una linea principale po - tentemente soddisfatto a uno
de’ sentimenti connaturali all’ uomo Senza i Fedecommessi , le
grandi fortune, di necessità , tra breve, sminuzzandosi , periscono per V
intera fami- glia , e con ciò essa è condannata a rapido scadimento 1
Fedecommessi salvano , per quanto esser può , il patri- monio dalle
imprevidenze, dall'incuria, e da’ vizi dei temporanei suoi possessori, e
lo conservano a que’che debbono in avvenire possederlo Discussione delle
ragioni de’ cadetti. E maggiore il numero de'beneficali nel sistema che
qui si contempla di quello che nel sistema opposto pag. ivi
Infatti quei che nel i° sistema godono ( al contrario di ciò
che succede nel 2°) sonpiù numerosi de’ danneggiati I vantaggi
d’ognuno de' favoriti sono più grandi, che i vantaggi d’ognuno de’
favoriti nell' altro sistema Gli svantaggi de’ danneggiati nel secondo sistema
sono più grandi che quei de’ danneggiali nel primo Lettera Soluzione
d’ alcune difficoltà 35 Si risponde a chi oppone che il testatore
dee riguardare al bene massimo de’ prossimi ed esistenti , e non ,
collo scapito di questi , a quello de’ remoti , e non esistenti
ancora, o forse non destinati ad esistere giammai .Si prova che, oltre al vero
interesse delle famiglie , nel si stema de fedecommessi , meglio che nel
sistema con- trario , è provveduto anche all’interesse dello stato Risposta
alla obbiezione de’ supposti diritti degli altri figli, che si
dicon violali nel sistema da noi difeso Si torna a distinguere tra i
fedecommessi utili, e i danno- si , e si prova come ne’ primi i cadetti
non sono pre- giudicali in modo indebito 19 Risposta a chi
oppone l’ accusa di parzialità, e d’ eccitamento alle invidie, a’ disamori,
alle discordie tra pa - dre e figli e tra fratelli Esposizione de’
rapporti tra V erede preferito cogli altri posposti Convenienza del
preferire il primogenito ai nati poi . . M Di nuovo sull’ accusa
del supposto fomite somministrato alle invidie reciproche 45
Indirizzo da dare all’ educazione perchè queste temute in - vidie
non nascano Lettera Seguita la soluzione delle difficoltà Non è vero che i
fedecommessi , favorendo il celibato laicale , favoriscano i vizi che vi vanno
connessi 1 matrimoni son più incoraggiati nel sistema qtrì difeso, che in
quello della divisione dell’ eredità per capita, p. 49 È insussistente il
nocumento che la sottrazione di molti be- ni rustici , in virtù,
de’ vincoli fidecommissarii , alle speculazioni di compra e vendila
minaccia di recare al pubblico Un certo numero di latifondi legati a
fedecommesso , lungi dall’ essere un impedimento alla buona agricoltura
, ed alla pubblica prosperità , sono utili e necessari al-
l'unae all’ altra Risposta alla difficoltà tratta dai creditori
dell’eredità de- fraudali talvolta , quando essa ha il genere di
vincolo del quale qui si tratta Lettera Difesa dell’Aristocrazia Proposizione
premessa, che, distrutti i fedecommessi, è distrutto il patriziato I vizi
de’ nobili che sono da degenerata istituzione non vogliono esser contati soli ,
ma messi a confronto delle utilità , e delle virtù ivi
Essi vizi possono emendarsi , e le utilità e le virtù accre- scersi
: utilità e virtù le quali difficilmente possono trovarsi fuori del
ceto patrizio ivi È nella natura stessa della Nobiltà un seme di
miglioramento nella specie umana , che ne innalza la dignità e la
perfezione Caratteri propri del genuino patriziato La grandezza degli averi in
famiglie non patrizie non può dare i vantaggi eh’ essa dà o può dare
nelle famiglie patrizie Necessità politica in uno stalo dell’ esistenza
del ceto nobi- le , e particolari servigi , che ad esso
esclusivamente sono riservati ed appartengono Opuscolo Della libertà e
dell’eguaglianza civile Del governo e della sovranità in generale Della
così della sovranità del popolo , e della democrazia. Del voto universale. Delle
rivoluzioni e delle riforme de governi ec paff. Della libertà nel civile
consorzio , e decimiti , che necessariamente debbe avere. I più di
qne’ che la dimandano oggi, da ette negano nella loro filosofia il libero
arbitrio, e sono materialisti, fanno una dimanda assurda , cioè chiedono
quel che credono non potere esse r loro concesso Per chiedere la
libertà civile , bisogna essere spiritualista , e cogli spiritualisti non
è difficile giungere ad intendersi in tutte le altre questioni da noi trattate Que’
che chiedono la libertà, quale e quanta la dà natura, debbon concedere
gli usi buoni ed i cattivi della mede- sima , ed una legge interna che
comanda i primi , e vieta i secondi , e con ciò debbon concedere di fatto
e di diritto che la libertà è limitata per natura La convivenza civile
essendo ordinata a perfezionare l’uomo, e non a deteriorarlo , la miglior
convivenza civile necessariamente dee dirsi una convivenza ove la libertà
naturale incontra nella legge vincoli grandissimi e maggiori di que’ che
ordinariamente le si prescrivono È solo la difficoltà soverchia opposta dalla
corruttela umana allo stabilimento d’ una piena normalità nelle civili
convivenze, quella che impedisce il comandare oggi tulli i vincoli che
bisognerebbero: ciocché non toglie però che il vero progresso è quello il qual
favori- sce essi vincoli , e li promuove, anzi che produrre effetto
opposto ivi È per effetto di questa difficoltà che le umane
congreghe si ristringono per solilo quasi al solo governo di quelle
libertà , gli usi o abusi delle quali risguardano i rap- porti reciproci
de’ cittadini co’ cittadini , non che il loro scopo remolo non debba
esser quello d’ordinare a poco a poco le leggi a una sempre migliore
sistemazione, e per conseguenza a una sempre maggior limitazione, di
tutte le altre libertà col fine d’accostar f turno alla perfezione quanto più
puossi. Prime parole sulle leggi che legar debbono le libertà , e su’coloro che
debbono stabilirle; c sulla genesi dell’ odierno domma della sovranità del
popolo, e del patto sociale Dèli’ eguaglianza in generale , e
quanto poco esista essa nella specie umana Falsità della massima che al volgo
suole oggi insinuarsi che gl’uomini sono tutti uguali per natura. .Naturale
ineguaglianza fisica tra uomo ed uomo Naturale ineguaglianza morale Altre
cagioni artificiali ed accidentali d’ inegualità; e prima per parte
degli educatori Degli educandi D’altre accidentali cagioni E pel fine stesso
che l’arli educatrici si propongono , e possono non proporsi Si Per
ultimo l’ineguaglianza è la legge generale della natura, in tutto il creato Una
delle principali ragioni, per le quali il creatore volle questa
disuguaglianza Vergognoso abuso che si fa della religione per cercar di persuadere
la contraria dottrina Passaggio al provare che inutilmente si limitano alcuni
ed difendere soltanto l’eguaglianza ne’ fondamentali diritti della vita
di cittadino Dell’eguaglianza nel civile consorzio, e su giudi falsi
fondamenti si pretenda stabilirla Paralogismi con che, dato un quale che siasi
appoggio alla qui combattuta dottrina , cercasi di ricavarne la
dot- trina del palio sociale, della sovranità popolare e della
democrazia; e conseguenze che se ne deducono, ivi È falsa l'equipollenza
di condizioni pel cui supposto gli uomini liberamente entrando in una
civil convivenza acquistati pari diritto di fermarmi palli Nè lo stabilimento
di questi patti è puro atto di libertà, ma dee conformarsi a certe
massime generali di ragione e di giustizia che impediscono appunto
l’affermata egualità di diritti È non men falso , che gli umani
consorzi quali sono e furono debbano considerarsi come illegittimi e
spurii perchè non individualmente consentiti da tutti e da
ciascuno. Passaggio al provare l'assurdità e i peri- coli della dottrina
che quindi si suol trarre per voler sovvertire il passato e il presente a
vantaggio d' un futuro ipotetico Considerazioni contro al preteso
diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle proprie idee
preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad atto di questo
diritto Confutazione di quattro proposizioni, che corron oggi per le
bocche di molli, e prima, risposta alla i a proposizione, che il mondo ha
bisogno di riforma Che la riforma la qual bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano , e non altra Alla Che la riforma la cui necessità
si va predicando con parole si ha diritto di condurla
immediatamente ad atto; e che non è da lasciarsi trattenere da qua-
lunque ostacolo d’opposta ragione Che qualunque mezzo dee tenersi per buono e
lecito, se al fine conduce della universale riforma che vuol tentarsi Altre
considerazioni sulle riforme nel reggimento delle convivenze umane in
generale, e sul diritto ed il modo di tentarle Due casi che
rispetto a ciò possono darsi. E prima, del caso, in cui tutti
consentano Secondo , del caso in cui siano divisi i pareri, e sia lotta
de' medesimi. Solo e vero diritto che allora si ha Grave torlo dei
dilettanti di malcontento , e parole severe ad essi dirette quando tentano le
rivoluzioni Risposta a certi loro sofismi Danni delle rivolture politiche ,
quanto a interessi di ogni genere Incertezza de’ loro successi Difficoltà
del ben giudicare i molivi che spingono a rivolte, e poca fiducia da
aversi in coloro che per solito le tentano Vanità della querela che
alcuni fanno , come se tolta la libertà delle rivoluzioni, il migliore
strumento fosse tolto del ritorno a giustizia. Esame d’ alcuni esempi so-
lili ad addursi Rimedi più veri e più ragionevoli contro alle ingiustizie
anche abituali de' gox'emi Certi mali sono conseguenza d’imperfezione della
natura nostra , o decreti di provvidenza Essi sono il più spesso,
generalmente parlando , ineritali, ivi Doveri e diritti de’ cittadini
sottoposti a cattivo reggimento. De’ governi, e delle sovranità in generale Ignoranza
del popolo quanto alle idee di ciò che è sovra- nità , e di ciò che è
popolo. Esempio ivi Se un diritto, il quale anche realmente si
abbia , sia sempre perseguibile, e da perseguire Idee preliminari sulla
socievolezza , come una delle con- dizioni di natura date all’ uomo Il
bisogno d" un governo è uno de’ conseguenti della neces- sità d’
associarsi. Definizione del governo Distinzione fra governo normale, e governo
legittimo indicata Mentre il vivere in società è una necessità ingenita, la
for- mazione d’un governo è un bisogno accidentale, sopraggiunto, e
secondario Dottrina intorno a ciò che discende dalla Fede ivi
Distinzionedi tre stati nell’uomo, cosi come oggi lo conosciamo per sola
ragione. E prima dell’ uomo ine- ducato e selvaggio e delle conseguenze
di questa con - dizione quanto a governo Secondo, del? uomo
ipoteticamente perfetto, e di nuovo del governo del quale è
suscettivo Terzo , dell’ uomo nè selvaggio , nè perfetto , cosi come suol
essere , c delle innumerabili varietà delle sue condizioni , donde si
trae che il governo il quale gli conviene non ha nè può avere generali
regole , tran- ne il principio generico che dee possibilmente esser
giu- sto e ragionevole ivi Questo principio generico non
insegna però,nuUa d’assoluto guanto a necessità di determinale forme
nell’ applicar zione, e negli altri particolari a cui si suole applicarlo
Niente dunque v’ha di primitivamente fermo e comandalo intorno alle
costituzioni primitive de’ governi da applicarsi alle diverse genti Della
sovranità del popolo, consistente nella democrazia pura, e rappresentata dal
voto universale Ragionamenti che si fanno per provarla universalmente
fondata sopra giustizia e ragione ivi foro insussistenza. V’è
egli un popolo uno ? Tutto ragionevole? Tulio illuminalo? Tutto probo? Tutto unanime?
Conseguenze che discendono dalla risposta ne-galiva a si fatti quesiti Esame
della famosa dottrina circa le maggiorità , e circa il voto
universale Che cosa è il maggior numero ; come si compone , e che cosa
conseguila dai difetti della sua composizione. Se sia vero che col volo
universale si può almeno ottenere il massimo contentamento del CORPO
SOCIALE Fino a qual segno le maggiorità siano maggiorità reali La democrazia
de’ moderni non può convenire ad alcun popolo Essa twn conviene a un
popolo selvaggio Non a un piccolo popolo di pastori e d’ agricoltori Non a un
popolo piti o meno provetto in civiltà per cagione delle disuguaglianze , che
la civiltà tende sempre ad accrescere, e delle loro conseguenze per cagione
della lotta delle virtù co’ vizi delle altre ine-guaglianze che da ciò derivano
e delle necessità che ciò
crea per cagione di ciò che costringono a mettere a calcolo nella formazione
delle società le diversità enormi d’ inleressi tra cittadini e cittadini Conseguenze
funeste ed assurde del sistema tanto da deu-ni idolatrato della divisione de’
beni secondo le leggi della livellazione universale Differenza
sleale di linguaggio che usano i propagatori delle dottrine nuove quando
parlano col volgo, e quando colle persone educale a ragionamenti Dilemma ad
essi proposto. Vogliono essi o non vogliono rispettata la differenza di grado
negl’interessi, e tenulane ragione? Se no , conseguenze necessarie e lui-
(uose della neqativa Se si , dire conseguenze di ciò
diametralmente opìwsle a quel che pretendono e vanno spacciando Continuazione
dello stesso argomento. Traltazione d’ deune obbiezioni die quali si cerca
rispondere. Risposta die lagnanze di que’ che lamentano il vilipendio
e l’ oppressione del povero popolo, e agli eccitamenti che gli danno
a redimersi a ogni patto Leggierezza, e spesso insussistenza de’ giudizi
che su questo proposito s avventurano Mate usanze introdotte rispetto a ciò, e
perniciosi effetti di esse Diritti esorbitanti che si vorrebber dati alle
turbe a fine di prevenire gli abusi dell’ autorità imperarne, e di
farli efficacemente cessare, ed estirpare radicalmente. Catastrofi
inevitabili alle quali non potrebbe non condurre la riduzione a pratica di
tutto questo ordine (Videe. Parere intorno a ciò di CICERONE e di Platone ed
esempi moderni contraddizione con sè stessi de’ difensori delle dottrine
fin qui impugnate, i quali mentre affermano di combat - tere per la
libertà, impongono servitù inlolleranda ai loro proseliti, e cosi
mostrano che colla libertà da essi predicata il governare comunque le
volontà uma- ne è impossibile anche a lor giudizio Le stesse ragioni
colle quali lentan essi di scusare questa contraddizione provano
contro di loro Di nuovo delle ragioni, per le quali la formazione a priori d'
un ottimo governo , e lo stabilimento il più ragionevole della sovranità
non ha regole generali, e costituisce un problema di difficilissima e quasi
impossibile soluzione , massime quando la soluzione al popolo s’abbandoni Pochissimo,
e quasi titilla , rispetto a ciò, può attinger- si, ne’ particolari casi
, dalla sapienza generale , e quasi lutto esige in essi le deliberazioni
ad hoc d’uomini i più saggi Or Alcune volte quest’ uomini non sono presso il popolo
del quale si tratta Spesso non in sono in sufficiente numero, e tale da essere
facilmente trovati ed utilmente ascoltali Diffìcilissimo è distinguerli dai
cerretani che simulati sapienza ed esperienza, e tendono con male arti
a mettersi inmnzi e prevalere Non dirado, anche cotisultati, rendono
intralciatissima la deliberazione, non essendo tra loro accordo di pareri Spesso
ancora accresce la difficoltà il tnescolar che essi fanno all’ interesse
della causa pubblica, quello delle private loro cause, delle loro
passioni e simili, E tuttociò vale,
quando, a società non costituita an- cora in alcun modo, trattasi di
costituirla. Peggio è che il più spesso le società umane sono già
costituite, e v’ è la question preliminare , se sia giusto, conveniente,
e possibile il disfarle per rifarle Lotte per solito che in tal caso nascono
tra conservatori , e riformatori, e discussione de diritti degli uni e
degli altri e delle contitigenti conseguenze di esse lolle Del perchè e del
come il problema del governo e della sovranità è presso a poco insolubile
a priori por l’umana sapienza Cardine della questione. Doppia
natura dell'uomo Bisogni ed istinti numerosi della vita terrena, che non
son fatti per ottenere la soddisfazione loro durante essa vita Motivo
e fine occulto, e non troppo occulto, di ciò Applicazione di questa dottrina
anche al particolare problema qui discorso E nondimeno non può dirsi che un
qualche rimedio alla frequente imperfezione degli ordinamenti civili
non sia dato in terra all’ umana specie. Ritorno , rispetto a ciò ,
a una quislione già altrove trattata Di quello che’ al popolo non ispella , e
spelta, in fatto di governo e di sovranità, e del modo e della misura in che
gli spetta Principal fonte delle false opinioni che intorno a ciò corrono tra’
moderni Si torna all’esame della presunta distribuzione tra lutti del
diritto competente a trattare e risolvere sì falle questioni
ivi Una conseguenza ultima ed inevitabile di si falla
dottrina è che la sovranità non obbligherebbe dunque che t ~ soli
consenzienti , o piuttosto non obbligherebbe alcuno, e cesserebbe d’ esistere
in altro modo, che come una cosa da giuoco ed assurda li altrettanto
sarebbe di tutte le leggi Teoremi più veri eh’ io credo doversi sostituire alle
opinioni dominanti delle turbe male istrutte. Proposizione Due parole su i
governi assoluti Protesta Conclusione ed Epilogo Esortazione ai predicatori di
rivoluzioni e di novità politiche Poche parole a’ Principi Indice ragionato Lin. CORRIGE Urliamo Gridiamo fili le ristampa
con emendazioni edizione di lilosolia di buona
tilosofia collaterali collaterali almeno prossimi in quella società
in quel consorzio nipoti nostri nipoti nostri ,
e, se non di tulli almeno di (pianti più ci è lecito civil società civil
congrega all'opposto per all' opposto (almen quanto alla
linea privilegiala), tra pe’ fratelli poi-nati
lTl pe cadetti quello dico quello dico pur mentovalo contechè
alla breve ir società consociazioni son le
difficoltà son difficoltà le propensioni le agevolezze pii
uomini gli uomini senza rovinarsi Kit de'
Babilonesi degli Assiri c clic e che se CONSIGLIO
GENERALE DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli.Vista la dimanda del Tipografo Marotta
con che ha chiesto ristampare il primo volume dell’opera intitolata Opuscoli
politici d’O. Visto il parere del Regio Revisore Capone. Si permetta che la
suddetta opera si ristampi, però non si pubblichi senza un secondo
permesso che non si darà se prima lo stesso Regio Revisore non avrà
attestato di aver riconosciuto nel confronto essere 1’impressione
uniforme all’ originale approvato il Presidente interino: Saverio j4
puzzo, ìl Segretario interino : Piktrocola . Francesco Orioli.
Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Ornato: la ragione conversazionale o
dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino con Antonino –
filosofia piemontese -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Carmagna).
Filosofo italiano. Carmagna, Cuneo, Piemonte. Visse vita ritirata, modesta e
schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva le scienze
fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con singolare amore
le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove frequenta alcuni
esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più importanti
Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante di
matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria
dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la
Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa
Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a
Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è
frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia
e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana,
Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel
cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei
“Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone
Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, Becchio Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in
mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due
stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto,
ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico Antonino e stato preceduto da altri romani illustri del PORTICO. Il che
non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il
cuore soltanto del malvagio non è capace di essere ammollito. E però
il severissimo CATONE minore, già deliberato in quanto a sè di
morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e
concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per
non lasciarsi cogliere in UTICA da GIULIO (si veda) Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso CATONE minore al comando di una legione
in Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos
città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da
Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare
tempestosissimo, E GIUNTO IN ENOS TROVA IL FRATELLO GIA SPENTO (Plut., vita di
Catone). E pianse certamente TACITO, benché del PORTICO anch’egli,
quando, dopo aver narrato come e vissuto e morto, non senza sospetto
di veleno, Giulio AGRICOLA suo suocero, aggiunge queste patetiche
parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto. Quanto a te,
quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre
all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non
ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di
abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto. Avremmo pure raccolti
precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il
coltello al nostro cuore. Senza dubbio. o ottimo padre, per la presenza
della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le cose al
farti onore. Ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e pure
alcuna cosa desiderasti vedere al chiudere degl’occhi tuoi. Fra le varie
divisioni dei beni appo IL PORTICO, l’una è questa, che dei beni
altri sono finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed
efficienti. I beni finali sono parte della felicità e la
costituiscono. Gli efficienti solo la procurano. I finali ed efficienti
insieme e la procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono
la letizia, la libertà dell’animo, la tranquillità, ecc. Del secondo,
l’uom prudente ed amico. Del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è
un bene efficiente, perchè muove con la sua dispozione razionale la
tua diapoaizion razionale , cioè è occasione a te di buone azioni. E
nello stesso modo è un bene di quel secondo genere ogni cosa, o sia
pensiero o altro, che è occasione a te per camminare verso la
perfezione. Di questo bene parla ora ANTONINO (si veda). Il quale,
per l’esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere
accompagnato ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che
costituisce la felicità, non attrae invincibilmente il tuo volere;
ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si
sottragga da tutte le altre cose che ne lo possono sviare -- conferisci
quello che ne insegna la teologia intorno alla grazia. E quando ANTONINO
chiama questo bene razionale -- che è attributo generale del bene
appo IL PORTICO -- il fa per opposizione al preteso bene dell’ORTO, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo
bene – o OTTIMO --, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo
intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste
cose e necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la
maggior parte dei cementatori ed interpreti ha voluto cangiare la
parola efficiente in “civile” o vuoi “sociale” con manifesto danno
del senso e del pensiero di ANTONINO. Dispensazione,
in greco “eco-nomia”, vale generalmente governo della
casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della
casa, le quali da per sè sole non si farebbero -- come per esempio
il risparmiare certe spese perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al
mantenimento di quella -- quindi è stata applicata questa voce ad
ogni cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun
pregio in sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata
sovente IN QUESTO SENSO [O IMPLICATURA] dagli filosofi latini di tarda
età, e del PORTICO ed altri. È tra noi disusata perchè è DISUSATO IL
CONCETTO ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in
Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati
sotto essa voce nel V. della Crusca (Medicina del cuore). Per divina
dispensazione avviene che, per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione
ed infermitade arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che,
quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a
dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di
parere, IL SENSO (O IMPLICATURA) DI QUESTA ESPRESSIONE con libertà di parole dovrebbe essere
liberalmente cioè con liberalità di parole, o generosamente poiché così
anche lo Xilandro intende lo £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo
raccomandare la generosità nelle preghiere, ANTONINO intende di biasimare
le preghiere che non mirano che all’interesse proprio di chi lo fa.
E però loda quella preghiera degl’ateniesi, i quali, al dire di Pausania,
soleno pregare non solo per TUTTA L’ATTICA, ma anche per tutta
la Grecia. Auto nel senso peripatetico del Lizio e scolastico, è l’affezione
costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla
disposizione che è variabile. Appo IL PORTICO è la forza o virtù (andreia)
che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi
favellano, è spirito -- intendi aria -- che mantiene il corpo e il
contiene. Perchè l’ente ò corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice
Senone, penetra per tutte le cose particolari e le mantiene e governa: ma
non tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come
abito -- pietre, legni --; nelle altre come natura -- intendi
principio organico mero: piante, alberi --; nelle altre come anima -- principio
animrle mero: bruti --; nelle altre ancora come mente e+ ragione -- anima ragionevole
universale e sociale appo ANTONINO; uomini. Le cose governate dall’abito
sono adunque i corpi dove non è altro principio costituente che il
generale di corpo, dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che
quella affezione -- modo d’essere -- costante por cui sono il tal corpo
anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che
noi chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al
carattere generale di corpo v’ ha già il carattere d’organizzazione.
Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di cor poreità e di
organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le classi si
van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per carattere
la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo corrotto, e verìsimilmente
havvi anche qualche lacuna. Non potrei dire precisamente quali sieno
le emendazioni seguite o fatte da lui, perchè una sua lunghissima
nota sulle difficoltà di questo paragrafo, oltre che è piena di cancellature
e in gran parte non intelligibile, è anche manchevole, essendone stato
lacerato via, non so da chi (forse dall’O. medesimo per aver
mutato parere), un mezzo foglio. Nel voltare in italiano io mi sono
discostato il meno possibile dalle sue parole stesse e ho serbato
inalterato il senso della sua interpretazione. Questo paragrafo, essendo
corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e inutilmente tentata
finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia scritto al
principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto paragrafo non
so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii nel volgarizzamento
vuol dunque essere accettata con quella medesima riserva con che egli
la propose. La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche
mutilata. O. non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo quando
avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte
note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz,
non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non
seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi
corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora difendo la
vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla
quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il
paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut
transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker,
il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui
il granchio (fan pietà Dacier o Joly che seguono ciecamente
Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è la stessa pecora
sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme,
siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv e il ToO xóojjiou
’hys.u Qvixdv; quando anzi nella distinzione di queste duo cose è fondato
il senso di tutto il paragrafo. La toO SXou qjvlcjis è la potenza
creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza
governatrice, dipendente da quella prima, generata, o formata da quella
prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo
non meno che il corpo; e la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il
senso adunque di tutto il paragrafo è questo. La
natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il
mondo, dandogli, per così dire, un corpo ed una mente. Ora, o questa
mente, a cui è affidato il governo del mondo, segue la ragione
(perchè la mente nel senso dello ìf£|jiovixbv può anche talora essere
sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha
determinate generalmente dà principio la natura formatrice del
tutto, sono involute in quella prima determinazione, sono conseguenza
necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente non segue
sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere
che non solamente le cose di minor conto che ella fa, ma anche
le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che
nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere
sragionevole nè anche in quelle di minor conto; dunque tutte le cose
vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato
e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo
migliore se l’ autore avesse potuto ripulire e pubblicare egli
stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta
in essa è ingegnosissima, naturalissima e confermata da tutto quello
che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù óXov
(pdcjts), la potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il quale
trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta senza
distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane; la potenza
governatrice, la mente che governa il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou),
generata da quella prima, è all’incontro, nell’attuale diversità delle
cose,' nella nauìra naturata, nel mondo propriamente detto e
composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso
corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora da
aggiungersi Pierron. Ed è tanto più da stupire che il sig. Pierron
abbia egli pure sì mal compreso, in quanto che, avendo egli già
prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere suf-
ficientemente versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole
della Grecia. Quasi tutti i traduttori hanno franteso questo luogo,
pigliando l’iwoia per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne
intellectus hoc feraf.... il senso letterale, aggiungendo ciò che è
sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te stesso come uomo)
soffre cotesto, soifre cioè che tu dica esser nato a goder dei
piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio di tutti i suoi predecessori,
pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena
à le prétendre. Colia bontà delle singole azioni vuotai procacciare
di ben comporre la vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo
fedele alla lettera e studioso di conservare tutta la brevità dell’
origi- nale, avea tradotto: ai vuol comporre la vita mettendo
inaieme le azioni ad una ad una; poi comporre inaieme la vita
accozzando le azioni ad una ad una; poi allogando le azioni ad una ad’una.
Non credo che so avesse potuto ripu- lire e terminare egli stesso il suo
la- voro, si sarebbe contentato di alcuno di questi tre modi, che
tutti peccano di oscurità e di ambiguità. A costo dì essere men
breve, io ho creduto di dover essere piò chiaro non solo in questa
frase, ma in tutto questo paragrafo, svolgendo un poco il concetto dell’autore
siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti frantendono. Nel novero degli
interpreti che frantesero questo luogo comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che
sdgue docilmente- Gataker e Schultz. L’errore sta nel legare Io i^’oioy
ctv xoti up^rìae col ófUTw che precede; laddove si riferisce
all’azione alla quale l’animale ragionevole tendea e nella quale è
stato impedito. E ciò pare che abbia poi capito lo Schultz nella sua
seconda edizione del testo greco, avendo egli posto una virgola dopo il
óutù. Se tu vo/eafi ftema la debita ritterva, che da lei etesaa; cioè a
dire: se tu volesti assolutamente e non a condizione soltanto che la
cosa fosse possibile; questo atto della tua volontà fu veramente un
male, perchè, come è detto altrove, l’ animai ragionevole non dee
voler nulla che non sìa in poter suo, ed anche il bene relativo, non dee
volerlo se non se con- dizionalmente, cioè in quanto sia possibile;
rimpossibilità essendo per gli stoici sinonimo di non voluto dalla natura
e dal destino, al quale il savio non dee ripugnare. Che se poi la
cosa voluta da te fu una di quelle che non sono pur buone in senso
relativo, e quindi il volerla fu un appetito, pren- dendo il
vocabolo volere nel significato volgare, cioè un moto del senso,
piut- tosto che della volontà ragionevole; tu non ricevesti
nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì
mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo
la tua propria natura non puoi essere impedito da nissuna forza
esteriore. Così intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’
Ornato (assai diversamente dagli altri interpreti che io conosco,
Gataker, Schultz e Pierron, e questo senso ho procurato, di esprimere
traducendo. O. lascia una breve nota a questo luogo, ma in essa non
fa che avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la povertà
dell’italiano,comparativameute al greco, e scusare l’ oscurità e l’
ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo paragrafo fa quattro
tentativi diversi di traduzione, tutti laboriosissimi, come appare
dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od ultima
prova scrisse: Sta qui fermo, perche farai peggio se cangi. Non fu
quindi senza molto bilanciare che mi risolsi a fare io, come feci,
una quinta prova, essendomi sembrato che il miglior par- tito fosse
qui di tradurre letteralmente, e spiegare i sensi del testo nelle
note. Ad illustrazione del senso stoico di tutto il paragrafo
ricordiamoci priiniera- inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato
dal lato fisico, è la forza motrice della materia, è la natura generale,
e r anima vivificante del mondo; conside- rato dal lato morale, è
la ragione eterna che governa e penetra l’universo, è la
provvidenza benefica, è il principio della legge naturale che comanda il
bone e proibisce il male. Ricordiamoci ancora che l’aria, come uno
dei due elementi attivi e parte essa stessa della sostanza divina,
ò dagli stoici considerata come il principio della vita sensitiva.
Dice adunque Antonino: non contentarti ora- mai di essere unito con
Dio a quel modo solamente che sono uniti con lui gli esseri
solamente sensitivi, cioè per mezzo della respirazione; ma fa’
ancora di unirti con lui a quel modo che si appartiene agli esseri
intellettivi, cioè con cognizione e accettazione libera dello scopo
che Iddio ha proposto all’accettazione libera di quelli. E però, siccome
tu traggi dall’aria ambiento gli elementi della tua vita sensitiva,
traggi ancora dalla ragione ambiente gli elementi della tua vita
intellettiva. L’esistenza delle cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì
ocùrCg cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo- p^). Qui mi
pare che fosse il caso di dovere assolutamente abbandonare la
lettera e contentarci di esprimere il senso del testo, piuttosto che
cercar di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano.
L’Ornato avea detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu
stesso ti alteri continuamente, e peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non
era contento, come appare dall’usato segno. E in vero che significa
quel tutte le cose vanno soggette a mutazione f Significa, e non può
significare di più, che tutte le cose possono essere mutate e lo
saranno effettivamente quando che sia; ma ciò liou esprime quella
condizione delle cose, per cui non hanno stato, o modo di essere che
perduri pure un istante senza mutamento, che è la vera condizione
delle cose secondo la filosofia di ANTONINO e voluta esprimere da lui. Chi
dovesse tradurre questo luogo in tedesco, lo potrebbe fare, parmi,
benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem anclera-werden; come
si dice in werden non solo dai filosofi, ma anche nel linguaggio
famigliare, quando di una cosa che non è ancora, ma si sta incominciando
0 si va facendo, si suol dire: Die Saehc iat noch ini werden. Ma la
nostra lingua italiana non ha tutta la flessibilità del tedesco, uè sarebbe
chiaro, uè permesso il dire in italiano: tutte le coae sano in un
continuo mutarai. È una singolare coutradizione di Marco nostro e di altri
del PORTICO poateriori il venir cosi spesso parlando con tanto dispregio
della materia che aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, —
A"edi anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un
animale perfetto e bellissimo, il cui corpo è la materia, e
l’anima, Dio. Le rughe sul volto del vegliardo, le screpolature delle
ulive e del fico vicini ad infradiciare, la bava del cignale ed
altre sì fatte cose hanno pure una certa grazia e venustà, perchè il
mondo è perfetto, e nulla è nelle suo parti che non conferisca alla
bellezza del tutto. Perchè dunque ora tanto dispregio non solo per tale o
tale altra parte, ma universalmente per tutta , la materia che
sottosta, quando questa materia, che non è poi altro per gli stoici
se non se il suhstratum indeterminato di tutto il contingente sensibile,
è essa pure sostanza divina secondo la scuola? Intendi: « o tu voglia dire che il
mondo sia stato formato di atomi. ed abbia quindi origine dal caso; o
che sia stato formato di nature (essenze, entelechie, monadi), ed
abbia quindi per origino l’ intelligenza, o la natura, che qui è
sinonimo di intelligenza; que- sta cosa pongo io certa anzi tutto,
come tratta dalla mia osservazione immediata, che io sono
attualmente parte di un tutto governato da una natura. Con altre
parole: o tu faccia venire il
mondo dalla pluralità, o tu lo faccia venire dall’unità, ella è
cosa di fatto che io ci ravviso attualmente una pluralità governata
da una unità. Il qual metodo di filosofare, per cui, lasciata stare la
disputa intorno all’origine delle cose, si viene ad esaminare la realtà
attuale di esse; lasciato stare il lontano e mediato, si viene ad
osservare l’ imme- diato e prossimo; lasciata stare la cognizione
dedotta, si viene a far capo alla cognizione di fatto acquistata
per osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che
appo stoici mondo, tutto, natura, Dio sono V
sostanzialmente la stessa cosa, e però quelle che poco innanzi furono
chiamate parti del tutto, qui sono dette della natura. Dìo, natura,
mondo, tutto sono espressioni diverse che corrispondono a modi
diversi di considerare una stessa cosa, e questa diversità è relativa
alla mente finita dell’uomo che non può si- multaneamente
contemplare gli aspetti e momenti diversi delle cose, e non alla
realtà obbiettiva. Quindi ò che le espressioni soprascritte sono non di rado
usate runa per l’altra, poiché sostanzialmente significano la
medesima cosa. Il mondo KÓrfixog), dice Laerzio, er DAL PORTICO considerato:
1® come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le cose che sono
{natura nuturans, i; t£- Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la
quale, come artefice e informatrice di sé medesima, trae da sé
stessa e informa tutte le coso con suprema saviezza e divina
necessità, cioè secondo le sue leggi che sono quelle della ragione;
2" come la totalità delle cose informate e ordinate dalla
potenza informatrice immanente in esse e governatrice di esse (dotta
allora xòv Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera vivente, il vivente
organismo, o corpo organato da quella {natura naturata);
finalmente come l’unità dei due, cioè dell’ organismo vivente e
della forza or- ganatrice e governatrice, in quanto l’uno non si
distingue dall’altra se non se per la contemplazione della mente
finita deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione di Torino. Fa che tu
vi sottoponga col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole
della interpretazione dell’O., perchè non avrei saputo quali altre più
chiare sostituir loro; atteso che io non son sicuro di intendere
qui nè che cosa abbia voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea
faro a questo luogo una nota; ma non la fece, e non trovo altro,,
che si riferisca a questo luogo, ne’suoi manoscritti, se non se un cenno
pel quale è indicato che egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove
tutti gli altri, che io conosca, lessero &ti; e che egli intese
r Ù7TÓ0OU diversamente da tutti gli altri interpreti. Gataker e
Schultz che lo segue da vicino, non sono più chiari. Le quali tu
apprendi»,, considerazione del tutto. Così O. svolge ed illustra la
filosofia di ANTONINO espresso brevissimamente e, parmì anche, poco
chiaramente nel tosto. Non ho mutato quasi nulla alla versione di questo
paragrafo lasciata d’O., sia perchè ho motivo di credere che ne fosse già
poco meno che contento egli stesso, trovando io questo paragrafo
nettamente ricopiatom sia perchè non avrei voluto correr pericolo -- li
alterarne benché minimamente il senso, trattandosi di un luogo che
egli intese assai diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol
dire che non bastano le impressioni buone che noi riceviamo per
mezzo della sensibilità, le quali possono e sogliono venir cancellate da
impressioni contrarie, ma ci vuole anche il lavoro deir intelletto che riduca
quelle ad unità e le fermi cosi nel nostro spirito, formandone come
un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazione dello
spirito alle cose di circostanza, ma ci vuole ancora la
contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle cose permanenti,
al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a
generalità il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima,
la quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza
cui la semplicità del cuore dee far rimanere secreta naturalmente nel cuore, ma
non artatamente celata; ed allora è l’ani- ma veramente grave e
soda e come chi dicesse, veneranda. Sul fine del para- grafo fa la
enumerazione delle diverse categorie alle quali si dee riferire l’oggetto
osservato. Questa nota d’O. che per le troppe citazioni del testo greco
non può qui darsi che in parte, trovasi intera nell’edizione di Torino. Grecismo,
per suole accadere. Non era possibile il tradurre altrimenti. Del
resto vada a rilento chi per la sola ragione del non potersi
tradurre sempre colla stessa voce una stessa parola del testo,
accusa ANTONINO qui ed altrove di arguzia. IL PORTICO crede che, là dove
è una stessa parola, debbe essere anche una stessa idea. Ed anche
Platone (vedi il Cratilo) il credette; e il credette VICO (si veda): e tanti
j altri il credettero: e noi il crediamo. Se quella idea generalissima
che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più annessa al nostro
amare, ciò j non prova altro se non che il greco d’ANTONINO e l’italiano
sono due lingue diverse. E sap evadicelo. Il passo di Platone è nel
Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente educato, dice, udendo
egli lodare e magnificare un tiranno od un re, gli par di udire
lodato e magnificato un pastore, perchè egli munga di molto latte;
e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche più ritroso e
più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè men rozzo nè
meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando ad amhidue il
tempo per badare a sè, e vivendo il primo fra le mura della reggia
a quello stesso modo che l’altro nella capanna sul monte. Del resto, il
senso generale di tutto questo paragrafo, non bene inteso, secondo me,
dagli interpreti, mi pare che sia: Tu dèi farti capace sempre pih
cho tu puoi vivere da filosofo in questa tua corte come faresti in.
quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad ogni passo esempi di
quel che dice Platone: uomini che vivono nei palagi come farebbe un rozzo
pastore in sul monte: ingolfati cioè quelli e questo nelle cure materiali
del governo dell’armentoV E sottintende: se per costoro il palagio
non è altrimenti che una capanna, non può ella con più ragiono essere la
reggia per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui ANTONINO di
raccomandare a sè medesimo anche ' questo genere di contemplazione,
cioè a dire lo studio dei fenomeni, e delle maraviglie, come egli
dice sapientemente, dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo
massimamente: perchè non è altro studio il quale possa per via più
compendiosa e sicura condurre alla cognizione della infinita sapienza, e
provvidenza infinita della causa reggitrice del mondo. Nè l’uorao può
presumere di conoscere sè medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste
maraviglie, cioè come si formi, cresca, si conservi, si rinnovi e
deperisca il suo corpo, quale sia la natura e il modo di operare
della causa o principio a cui dehbonsi riferire questi fenomeni,
quali le relazioni di questa vita organica del suo corpo con quella del
principio che in lui sente, vuole, e pensa, e come possano questo due
vite modificarsi fra loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere
sè medesimo, per quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè
stesso, e non cura di conoscere un po’intimamente anche questa delle due parti
di che si compone l’esser suo, porta gran pericolo di errare nel vano, e
di prendere astrazioni por realtà, il che avvenne appunto ai
filosofi del PORTICO, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di
fisiologia. Perchè uno appunto degl’errori fondamentali della loro
filosofia, quello por cui mutilavano la natura umana escludendo da essa
la sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’
uomo propriamente, il quale per essi non e altro che ragione e
volontà; questo errore, dico, è in gran parte da attribuire alla
imperfezione delle loro cognizioni, ai loro errori circa la costituzione
fisica dell’uomo e le relazioni in che ella si trova colla sua
costituzione morale e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro
totale ignoranza dello leggi che governano i fenomeni dell’organismo
corporeo dell’uomo, delle relazioni intimissime della vita di esso organismo
corporeo con quella della mente, e della natura egualmente spirituale
di ambidue. Questi versi sono d’Omero e sono dei più famosi
nell’antichità, dei più spesso citati e ripetuti, imitati dai poeti
posteriori; o però ANTONINO non li scrive per intero, ma solo quei
brani che sono stampati in corsivo, bastando quelli a richiamare
alla memoria i versi interi, alle diverse sentenze contenuto in
essi alludendo egli poi nella parte seguente del paragrafo. Con questi versi GLAUCO,
(opo aver detto magnanimo Tidide a che mi chiedi il mio lignaggio?,
incomincia la sua risposta a Diomede, il quale, prima di accettare il
combattimento con lui, aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe. Io
li ho tradotti letteralmente, giovandomi in parte della traduzione di
Monti, la. quale, come nota a tutti i lettori, avrei volentieri
dato qui inalterata, se in essa fosse più fedelmente espresso, e
nell’ ultimo verso non interamente guasto il senso delle parole d’Omero. Il
qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom
nasce e così muor: il che fa fare un falso sillogismo a Glauco, il quale
secondo la traduzione del Monti, concludendo, affermerebbe dell’wo/
Ho ciò che dovea affermare delle schiatte umane, mutando, come
direbbero i loici, nella conclusione il piccolo termine, che nella
premessa minore- non era uomo ma schiatta o stirpe, come disse
Monti. E pure il verso d’Omero ò chiarissimo. Questo strafalcione
Monti non fa se, come quasi ignorante del greco, con tante altre
traduzioni avesse saputo consultare quella mirabilissima, non solo per
eleganza di stile ma ancora per fedeltà, precisione e chiarezza,
del Voss, il quale in cinque bellissimi esametri tedeschi traduce
letteralmente i cinque esametri greci. Anche Pope, sebbene i suoi
lavori sui poemi d’Omero, tutto die pregevolissimi per altri rispetti,
non meritino il nome di traduzione, non fa qui lo sproposito di Monti. Ed
altri ancora potrei nominare dei nostri che con nobilissimo
intendimento si diedero all’ardua impresa di recare nella nostra
lingua italiana chi l’una e chi l’altra di quelle poche reliquie che ci
rimangono della greca poesia -- dico poche rispetto a ciò che fu divorato
dal tempo --; i quali avrebbero meglio inteso e meglio tradotti
moltissimi luoghi se avessero potuto consultare, se non tutti gl’interpreti,
cementatori ed espositori, almeno i traduttori tedeschi. Ma basta che io
nomini il più valente, a parer mio, di tutti, Belletti, al quale,
tranne forse una più intima notizia del greco, nulla mancava, non
valor d’arte, non felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione
perfetta, o prossima alla perfezione, dei tragici greci. E in vero,
leggendo io le traduzioni di Bellotti e riscontrandolo diligentemente
cogli originali, ebbi in moltissimi luoghi ad ammirarne la eccellenza, anzi
direi quasi in tutti quei luoghi dov’egli capì abbastanza intimamente il
suo testo e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore.
Ma anche in molti altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure
non abbia saputo o potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni
fatte da* suoi predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che
anche considerato in sè stesso e non come parte di una grande e
sublime trilogia, è forse il più bel monumento della scena antica, e
certamente il più grande di tutti per sublimità tragica, recondita
filosofia, splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri,
quanti errori avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini
avrebbe fatto dire a quella grande anima e colossale ingegno d’Eschilo,
so egli avesse solo potuto profittare della traduzione e dei Prolegomeni di
Humboldt? Non dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo che
forse non era an- cora pubblicato quando Bellotti traducea l’Agamennone.
Ed è tanto più da lamentare che a Bellotti siano mancati questi
sussidi, quanto è meno da sperare che sia presto per sorgere un altro
ingegno italiano, il quale possa fare quello che avrebbe potuto
Bellotti. Ritornando al paragrafo di ANTONINO e al luogo citato d’Omero,
è da notare come siffatti pensieri intorno al poco o niun valore
della vita considerata in sè, e di tutte le cose umane e dell’ uomo
stesso, così frequenti nei poeti ebraici; frequentissimi in questo scritto
di Antonino e divenuti quasi abituali nei cristiani dei primi secoli, si
trovino pure non di rado anche nei poeti greci più antichi, voglio
dire in quelli delle prime e più splendide epoche della greca
letteratura, sebbene i greci fossero un popolo di allegra immaginazione.
Forse non dispiacerà al lettore il vederne qui raccolti alcuni
esempi: nell’ Odissea la terra non nutre nulla di più infermo che l’uomo.
Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che siatn noi dunque o che non
siamo f Leggiero veder d’ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte.
L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel Prometeo d’Eschilo e non vedevi l’imbecille natura a vano
sogno eguale onde è impedito il cieco umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,
perocché veggo non essere noi,
quanti viviamo, altro che larve ed ombra vana. Nel Filottete del .
medesimo Sofocle, Filottete chiama sè medesimo: ombra di un fumo.
Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare tutte le
cose umane come un' ombra, E vuoisi notare come appo i tragici ed
anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che
durano un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A
queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano
nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo, allude evidentemente ANTONINO
con quelle sue parole: il più breve detto, anche di quelli che sono
i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli d’Omero. Questa
nota e scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato, e mandato a
stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi e di lettere
(prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e ridottomi a
passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r esercizio di
un pubblico ufficio mi lascia, avea potuto, non saprei diro perchè,
immaginarmi che il valentissimo Bellotti fosse già del numero di quei felici
che più non vivono altrimenti sulla terra che per la memoria di opere
egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non cangio nulla
a quello che ho scritto di lui; ma aggiungo l’espressione di un
voto, che deve esser quello di tutti gli amatori delle buone
lettere desiderosi di vedere vie più chiara e più grande la rinomanza di
un nobilissimo ingegno: ed è che l’esimio sBellotti, come sta ora, da
quanto mi dissero, rivedendo o migliorando il suo volgarizzamento
di Sofocle, così possa egli poi rivedere ed emeudare quello ancora
di Eschilo, il quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello,
tranne forse alcune eccezioni, non pecca gravemente che nella parte
lirica; laddove in questo trovai, 0 parvemi certamente trovare,
molti luoghi da dover essere emendati non solo nella parte lirica troppo
spesso non traducibile in italiano (come è intraducibile Pindaro, secondo
che fu sentenziato anche da LEOPARDI non ismentito dal tentativo più
audace che felice di Borghi); ma eziandio nel dialogo. Ella comjyie
nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche nel senso,
interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero e
com- piuto quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè
il senso voluto esprimere d’O. non mi sembrava abbastanza chiaro; e
poi, e principal- mente perchè mi parve troppo grande licenza il
tradurre per quanto avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale
mi sembra qui usato nel senso il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”,
che è quello di proporre, e così l’ intende anche lo Schultz
contrariamente al’Gataker seguito d’O. Veggo bene le ra- gioni che
possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma non mi
persuadono. Il pensiero di An- tonino mi sembra chiaramente, l’anima
razionale, la quale non si propone altro che di operare sempre
secondo ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto
ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura, in qualunque
istante le sopravvenga la morte, compie sempre interamente il
compito che ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè stessa;
ella ha tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente esaurita la
sua parte come attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando
la natura lo vuole, è la conclusione, il compimento della parte a
lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma della vita
universale. Bone avverte qui Gataker aver già Socrate usato il medesimo
argomento per indurre Alcibiade a disprezzare la moltitudine, alla quale
peritavasi di farsi innanzi a concionare: qual è, diss’egli, di costoro
quegli che ti impaurisce? forse Micillo il ciabattieref Trigaió il
conciatore f Trochilo il ferravecchio? ora non sono costoro quelli dei
quali si compone l’adunanza del popolo? Che se non temi di
favellare a ciascuno di essi separatamente, che è dò.che ti fa
timido a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate era
giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe
anche potuto ricordare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi
conservatoci da Plutarco: preni ad uno ad uno »iete tante volpi; riuniti
insieme siete tanti allocchi. Ma il medesimo ragionamento applicato
allo cose di cui parla Marco nostro non ò molto concludente. E una
melodia, per es., come qui avverte opportunamente Pierron, è qualche cosa
di più che una semplice successione di suoni, e Antonino dimentica
di considerare ciò appunto per cui le note musicali hanno potenza
da commovere l’anima sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica
fondamentale ai poeti greci era la lotta infelice della volontà e
liberta morale dell’ uomo contro l’ inflessibile necessità; o per
dir più veramente, quella fatale retribuzione di giustizia che
risulta inevitabilmente alla vita umana dalle leggi necessarie
dell’ordine morale. Perchè quella necessità che non era punto upa cosa cieca
secondo gli stoici, apjio i quali il /«<o non era altro che la
concatenazione delle cause secondo le leggi della na- tura, cioè
della ragione e quindi della giustizia; quella necessità, dico, non
era punto una cosa cieca neppure nella mente dei poeti: sendo che a
Nemesi figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di
vendicare i delitti e rovesciare le troppo grandi e- immeritate
prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i
due concetti più puri fra tutte le divinità immaginate dall’ antico
politeismo, il semplice, ma sublime buon senso dei Greci riferiva
tutto ciò che risguarda il supremo governo del mondo. L’idea dunque
della giustizia era congiunta con quella della necessità sebbene in
modo diverso, anche nella mento dei poeti, come in quella degli stoici.
Cho se Antonino non fa qui esplicitamente alcuna allusione a quella
retribuzione di giustizia, che era l’elemento morale della tragedia
greca, ma solo allude alla inutilità della lotta contro alla necessità, e
sembra così impicciolire l’idea nobilissima dell’antica tragedia; egli è
perchè questa inutilità intendeano gli stoici e i poeti allo stesso modo,
e quasi esprimevano colle medesime parole; laddove intendeano in modo
diverso quella retribuzione: e non erano forse i poeti quelli clie la
intendeano in modo men vicino al vero. Benissimo Gataker ricorda
qui alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai
quali alludea probabilmente Antonino in questo luogo. Già condannato
a morte per giudizio iniquo de’ suoi cittadini, in proposito. di
uno che non ristava dal dirgli villanie, disse Focione: non sarà alcuno
che faccia costui cessare dal disonorar «è medesimo? E già vicino a
morire, questa sola ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il
fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco
nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser prese come,
espressione di nn sospetto nel caso particolare di Focione, ma bensì in
un senso generale, quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non
bastar sempre le parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle
disposizioni interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur
quando il fingere potesse giovare a bene edificare gli uomini. Da stólto
(à|*vu/jiov). Traduce inìquo, seguendo Schultz che tradusse iniquum. Ma
non e ben risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come
appare dal consueto segno. E veramente non parmi che lo ayvcofjLov
possa esser preso in questo senso, sebbene abbia quello ingrato,
disleale, disamorato. Il senso più ovvio di questo aggettivo è
privo di senno, stolto, inavveduto, e parmi che 41 1 reo Aurelio
questo senso quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia
quello di inìquo. Dopo aver detto ANTONINO essere da pazzoy cioè a dire
da stolto, il volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo
ammettere in tesi generale ed assoluta, poiché non si può fare
altrimenti, che essi debbano di neces- sità peccare, e il volere ad un
tempo che essi facciano una eccezione a favor tuo, è cosa non solo
às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo
caso non è possibile ai malvagi;.da tiranno perchè vuoi esser
distinto e che ti si abbia maggior rispetto che agli altri uomini. Anche
Gataker intende 1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo Schultz. Parole di
Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al
padre, quando deve essere riferito al figliuolo, corno fece O.,
seguendo Gataker e Schultz. La medesima sentenza si trova anche nel
Manuale del medesimo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta
dal Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie,
dirai teco stesso: io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il
lettore com- prenderà facilmente come il senso stoico di questa
frase, tante volte ripetuta da Marco nostro, è al tutto alieno da
quello della famosa sentenza del sofista Protagora: V uomo è misura di
tutte le cose. La sentenza del sofista si riferiva ad ogni cosa,
alla verità obbiettiva, alla moralità come alla sensibilità, e
tendea quindi a distruggere la possibilità' di ogni cognizione
teorica, la morale come la religione. La sentenza di Antonino al
contrario, il quale, per un errore direi quasi magnanimo, riduceva,
seguendo gli stoici anteriori, tutta l’essenza dell’ uo- mo alla
ragione e alla volontà ragionevele, non si riforisce ad altro che alla
sensibilità, cioè ai piaceri e ai dolori di cui essa sensibilità è
soggetto. Intendi raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del
sillogizzare, operazione propria dell’intelletto; e nota qui il carattere
esclusivo del Portico, il quale considerava e stimava un nulla, non
che la sensibilità ma l’in- telletto stesso, a paragone dei buon
uso della volontà, cioè della moralità della ragione. Traducendo ho usato
il vo- cabolo raziocinio piuttosto che intelletto, perchè in
italiano il senso della parola intelletto può essere troppo
facilmente confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non
essendo così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i due
corrispondenti tedeschi Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords:
implicatura, Antonino, ad seipsum, ricordi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Ornato” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oro: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Grice e Trissino – la difficoltà dei segni di Trissino non
favorì la diffusione della sua filosofia – filosofia veneta -- filosofia
italiana (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO
(Vicenza). Filosofo italiano. Vicenza,
Veneto. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura
rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il
modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò,
infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di
musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di
numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche
presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che
riguarda la cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva
rimodellare la poesia italiana. Fu anche un grande diplomatico e oratore
politico in contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali
Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico
Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila,
Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X,
Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per
conto del papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un
fedelissimo, come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse
l'architetto Andrea Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli,
vicino Vicenza, che venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato
al culto della bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O.
nacque da antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima
metà Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti
di Milano invase alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di
Trissino, feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello
al servizio della Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile
famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre
sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi,
ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice
insieme a Domicilla Thiene di San Silvestro. Targa marmorea che
Trissino fece realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in
S.Maria della Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida
del dotto bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi
filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore
per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita.
Alla morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della
Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Sposa Giovanna, figlia del
giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare,
Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come istituzione,
come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne
interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente
esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania,
l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato
"dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello
stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che
nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto
biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente
d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN
TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi
110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova",
privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Stemma di
Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da
Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna,
Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove
riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed
entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui
si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito,
Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri.
Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia
Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il
poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui suoi
sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il poemetto le
Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino, cfr. il
paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di Luigi
Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite
sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano
all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi,
le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere
anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino
moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In seguito si recò a
Roma, dove stampò la Sofonisba -- dedicandola papa Leone X -- la prima tragedia
regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua
italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva
l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per segnalare
alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole,
venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a
Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della cattedrale di
Vicenza. Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi fondamentali:
la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia,
Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a
quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime
quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di
Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma
letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso.
Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla. Queste opere
sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio:
orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato
finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare
l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni
e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè
poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi
libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A
Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano
Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente
VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della
Milizia Aurata. Secondo quanto riportato dallo storico Castellini,
Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei
successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio l'arcivescovado
di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia, in quanto
desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio avviato nella
gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia del giudice
Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di Bartolomeo O. Da
Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro come erede
universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo lottò in
tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di eresia
calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi rapporti con
Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia, dove morì. Trissino
manifestò il proprio fervente sostegno all'Impero dedicando, qualche anno prima
della morte, a Carlo V il suo poema in 27 canti L'Italia liberata dai Goti, il
primo poema regolare destinato, come si vede fin dal titolo, ad essere
importante per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Stampa anche la
commedia I Simillimi, anch'essa la prima commedia regolare. Villa O. di
Cricoli (VI) Intanto nella villa di Cricoli alle porte di Vicenza, già dei
Valmarana e dei Badoer e acquistata dal padre Gaspare, si radunava una delle
più prestigiose Accademie vicentine. Qui Trissino scoprì uno dei più grandi
talenti della storia dell'architettura, Andrea Palladio, di cui fu mentore e
mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé ed educò alla cultura greca e alle
regole architettoniche di Marco Vitruvio Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre
1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla
luce le ultime due parti della sua Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad
Antonio Perenoto, vescovo di Arras), che erano comunque già pronte, come si
evince dalla chiusura della quarta parte. Progetta e attua una imponente
riforma della lingua e della poesia italiane sui modelli classici, cioè la
Poetica di Aristotele da poco riscoperta, i poemi di Omero, e le teorie
linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare eloquenza” riscoperto da
lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi sia con la moda del
petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo cavalleresco incarnato
supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che allora
infuriavano. Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi
diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele
lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un
saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio),
due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un
manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie
quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da
rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune
consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono
clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua,
idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni. Questa intensa
speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte
molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare
della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le
norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e
l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il
primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima
commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato
a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli
Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal
Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate
ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se
si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta
Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza
rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione
destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi:
innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica,
traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del
linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi,
attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio
sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di
Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia
alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato
come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari
solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che
è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma
iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli
a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il
suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo
bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e
quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di
queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso
(padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.
Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date: Dà
alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti
Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue
opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non
con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare
eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le
Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai
Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere
poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo
apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della
letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il
modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che
imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima
apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni petrarchesche
mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui la loro prima
apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e poi ancora di
Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai classici
antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o biblico.
L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello stesso
posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede in
scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di
Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta
piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro
nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da
allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi
sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca,
modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti
da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella
siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del
Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le
ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi
neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente
quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche
del Petrarca (occhi di stelle e simili). Il Castellano è un dialogo sulla
lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a
Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il
castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone
per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari
eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto,
fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli
autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e
Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a
parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino
sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità dantesca
non era ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito sulla
lingua italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre
secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il
fiorentino Machiavelli al quale il Trissino aveva letto il De vulgari
eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni,
Baldassarre Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a questo
vasto programma vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per
il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere
modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il
continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di
resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto
e ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano linguistico
immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre,
che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una
collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo
del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si
mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre,
inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e
latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande
successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel
melodramma. Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga
teocritea e del poema omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni
genere vengono date ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le
unità di tempo e di luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative,
per il poema epico. Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo
cavalleresco e il poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda
fantastica costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle
quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla
conclusione generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà
essere di matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà
venire raccontata dall'inizio alla fine, e i pochi protagonisti dovranno
ruotare tutti attorno ad essa, tutti per un solo scopo, e le loro vicende
dovranno venire concluse entro l'arco del poema, non lasciando nulla in
sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una caratteristica che gli diventerà
propria, viene dal Trissino investito di un alto valore morale e politico,
profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasformano in un percorso
di formazione morale e culturale. Per questi tre generi nuovi, il poeta
propone l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno dell'esametro e del
trimetro giambico classici (vedi paragrafi sottostanti). Sul piano dello
stile e dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e
di Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello stile poetico
l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le parole le cose
di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e
Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro
registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione medievale e
bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri
stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio
dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a
reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario e
registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco l'insuccesso
di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in scena con
L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi sciolti in
27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo
poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare
un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione
medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con
Ariosto. L'idea che soggiace alla composizione dell'opera è illustrata
nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi
ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero
e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un
volgare illustre che contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o
anche latine e greche, come infatti nel poema avviene. Come detto più volte,
inoltre, lo scopo del poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso
dei modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura,
arte militare e via di seguito. Il poema è ligio, insomma, a quanto
stabilito nella Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico cioè la
guerra gotica tra l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che
occuparono l'Italia (per la quale il poeta segue lo storico bizantino Procopio
di Cesarea), che viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente)
pochi protagonisti ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno
specchio di altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che
sarebbe anche un percorso di formazione bellica e morale del suo lettore
ideale, cioè Carlo V stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti
italiani, fu uno dei più clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana,
come noto, anche se ebbe un impatto profondissimo. Critiche violente vennero da
Giambattista Giraldi Cinzio (che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco
Bolognetti, ma non solo. I quali derisero il poema per la sua imitazione
pedissequa dei valori dell'eroismo classico (grandezza e generosità d'animo,
nobiltà e gloria), per l'attenzione estrema alla corretta applicazione delle
regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un
rilievo psicologico ai personaggi, assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa
parola per parola del modello omerico (ma in generale di tutte le moltissime
fonti tradotte dal poeta) fu ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento
venne a scontrarsi con la prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza
rima costruito in maniera formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende
il dettato fiacco e stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui
il poeta si dilunga nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della
Roma medievale, di città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe
geografiche dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di
seguito, soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è
addirittura corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di
difficile lettura. Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia
un posto di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi
solenni e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione, tipicamente
aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della Controriforma. Sarà proprio alla fine del secolo, infatti,
che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma non solo. “I
simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli sono indicati da lui
stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia antica -- Menandro è
stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della quale il Trissino ha
fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte poetica di Orazio)
ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da Plauto (essenzialmente i
Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente, mentre i cori sono
costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere linguistiche
Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino, stampato con lettere
aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I suoi saggi di filosofia del
linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola, Castellano, Dubbi,
Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese discussioni suscita
il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare l'alfabeto classico
italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell' “Ɛpistola del Trissinω”
delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua italiana”, dove suggerisce
l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e consonanti della fonologia
greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi resi allora, e ancor oggi,
con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed “ω”) e chiuse, z sorda e
“z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione dell’“i” e dell’ “u” con
valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v). Ri-propone questa idea, sebbene
ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico della Crusca (cruschense)
Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei secoli a venire, invece, la
sua proposta di utilizzare la “z” al posto della “t” nelle vocaboli latini che
finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione” -- oratione >
orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal signo “v” (uita
> “vita”) I punti principali dell'abecedario
riformato sono i seguenti: carattere fonema Distinto da Pronuncia “Ɛ”,
“ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O chiusa [o] V v V
con valore di consonante [v] U u U con valore di vocale [u] J j con valore di
consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA” “ç” – Sperança --
Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee vengono confermate. Nel
Castellano, propone il modello di una lingua cortigiana-italiana formata dagli
elementi comuni a tutte le parlate dei letterati della penisola, non solo nel
lessico ma anche al livello della fonetica (visibile ormai grazie al suo
abecedario ri-formato). La sua teoria si appoggia ad Omero e soprattutto alla
sua traduzione del “De vulgari eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”,
in riferimento a tutti i generi letterari, ed e illustrata materialmente nella
sua Grammatichetta messa a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi
grammaticali. Alla sua tesi si dimostrano particolarmente ostili i toscani,
ovviamente, visto che Aligheri stesso asserisce nel trattato che il toscano non
è il volgare illustre. Tra di essi spicca il Machiavelli, come accennato, che
compose un “Dialogo sulla lingua” nel quale reclama la specificità del
fiorentino in opposizione a Bembo e anche a Trissino, che nella grammatica di
base parte sempre dalla lingua letteraria, anche perché l'unica in grado di
assicurare a livelli profondi una similarità fra i vari parlari italiani. Un
esempio: se nel toscano di Poliziano è normale usare “lui” in funzione di soggetto,
Bembo invece rispolvera “egli” e lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece,
difende l'uso di “lui”, normale a Firenze. La riforma trissiniana dei segni
dell’abecedario italiano, applicata sistematicamente da lui in tutti i suoi
saggi (anche negli appunti!), è un prezioso documento delle differenze di
pronuncia tra il tosco toscano e la lingua cortigiana, fra la lingua letteraria
e la corretta pronounia Nordica (e vicentino) perché applica i propri criteri
nel pubblicare i suoi saggi o nell'interpretare alcuni segni del toscano. La
conseguente maggior difficoltà non favoresce la diffusione della sua filosofia
e porta diverse critiche da parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene
sia noto come esegeta aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul
finire del Quattrocento e nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali
italiane sature di cultura neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli
anni a Milano presso il Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara
presso il Leoniceno, ma soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari
fiorentini e nella Roma di Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti
sono i due ritratti che ci vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il
quello di Giovanni di B. Rucellai, che
nel poemetto in versi sciolti Le api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e
della dottrina ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello
e sì alto pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli
umani ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii
d’Acheronte ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei
mortali». Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del
pensiero platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si
aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola
Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di
essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto
contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato
da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla
lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti,
), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse
in Germania. Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e
una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che
scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un
luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione
religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la
vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della
scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e
millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim,
Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata
prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la
sua morte e vi verrà coinvolto, invece,
il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione. Il suo
poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e
queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in
maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio,
Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà
umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o
Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e
nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai
critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto
la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione
risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era
demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può
capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della
costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la
protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo
diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli
cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel
suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui
e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della
città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i
canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso
totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S.
Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema
totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è
regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di
riferimento privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione
essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le
opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono
notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in
mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e
ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione
del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non
e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse
accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua
filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti
paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo
specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la
tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può
dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col
teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia
di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di
Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la
tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu
soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè
piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma),
riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una
linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in
pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.
Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato
infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede),
da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che
nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che
compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via
via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi
del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente
come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra
cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad
esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”,
infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”),
ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza
dell'opera tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i
critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo
cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso
sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le
ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla
fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o
nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato
rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera
(non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede,
animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi
letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti
importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non
bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di
Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna
anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte
le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e
con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu
l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una
delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba,
considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira
dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il
Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una
tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è
uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del
giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una
riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove
si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una
intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può
dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche
nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della
tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto,
alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino
(prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.
Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito
Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione
italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che,
meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione
poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo
storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il
secondo è Carducci che stronca il poema
ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin
che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un
letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si
assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino
trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in
generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai
latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza
della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è
nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici,
non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla
poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno
presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno
otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre
Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco
seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese,
poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che
amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica
più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda
la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel
Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo
alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe
possede una copia delle Rime trissiniane Opere: “Sofonisba, tragedia Ɛpistola
del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana; De
vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli;
Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema
epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini Gian Giorgio
Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio
Trissino, Miniatura di O.. Incisione da Castelli La vita di Giovangiorgio
Trissino, Targa a O., in piazza Gian Giorgio Trissino. Targa posta sulla
casa natale di Gian Giorgio Trissino, in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di
Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a
Firenze, raffigurante Giovan Giorgio Trissino, membro dell'Accademia
Neoplatonica che lì ebbe sede. Bernardo Morsolin O. o Monografia di un
letterato del secolo XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio
Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato
del secolo XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e
Giacomo a Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino,
Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato.
L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM
GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT JOANNES O. GASP. FILIUS
PRÆCEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La Vita
d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato;
Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Giambattista Nicolini,
Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον
ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si cerca, si può cogliere". Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio
Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio Magrini, Reminiscenze
Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia
di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o Monografia di un letterato, Silvestro
Castellini, Storia della città di Vicenza. Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin, O. o
Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion
ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare
cugini di altri rami della medesima famiglia.
La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni
drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile
intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i
discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più
prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la
denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero
Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti
a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre,
accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il
venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello
d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la
moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano
al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes,
la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette
affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni
ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col
patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi
Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il
tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion,
Justice civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana
et Cricoli au XVIe siècle,. Bernardo
Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,
voce O. nel sito Treccani L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino,
Giangiorgio, in L'Enciclopedia dell'Italiano.
"Palladio" è anche un riferimento indiretto alla mitologia
greca: Pallade Atena era la dea della sapienza, particolarmente della saggezza,
della tessitura, delle arti e, presumibilmente, degli aspetti più nobili della
guerra; Pallade, a sua volta, è un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio
talvolta femmina che, al di fuori della sua relazione con la dea, è citata
soltanto nell'Eneide di Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il
nome possa avere un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi
Paolo Portoghesi, La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della
mostra dedicata a O., in occasione dell’anniversario della promulgazione dello
Statuto del Comune, organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e
Pro Loco di Trissino. L. Cicognara,
Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova,
Giachetti, Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi
fondamentali: Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino,
oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti
del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri
Pozza, Sulla Sofonisba: E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino,
Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba
di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C.
Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle
Rime: A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella
tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto
delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di
letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa): F. Ermini,
L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia
dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico,
Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del
Trissino,Storia della Lett. italiana,Milano, Garzanti, Marcello Aurigemma,
Letteratura epica e didascalica, in Letteratura italiana, IV, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla
Controriforma, Bari, Laterza, Marcello Aurigemma, Lirica, poemi e trattati
civili del Cinquecento, Bari, Laterza, Guido Baldassarri. Il sonno di Zeus. Sperimentazione
narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, Renato
Bruscagli, Romanzo ed epos dall’Ariosto al Tasso, in Il Romanzo. Origine e
sviluppo delle strutture narrative nella cultura occidentale, Pisa, ETS, D.
Javitch, La politica dei generi letterari nel tardo Cinquecento, «Studi
italiani», David Quint, Epic and Empire. Politics and generic form from Virgil
to Milton, Princeton, Princeton University Press, Tateo, La letteratura epica e
didascalica, in Storia della letteratura italiana, IV, Il Primo Cinquecento, Roma, Salerno,
Sergio Zatti, L'imperialismo epico del Trissino, in Id., L'ombra del Tasso,
Milano, Bruno Mondadori, aRenato Barilli, Modernità del Trissino, «Studi
Italiani», A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema
epico-cavalleresco nel Rinascimento, Roma, Franco Angeli, D. Javitch, La nascita della teoria dei
generi letterari, «Italianistica», Gigante, «Azioni formidabili e
misericordiose». L'esperimento epico del Trissino, in «Filologia e Critica», Stefano
Jossa, Ordine e casualità: ideologizzazione del poema e difficoltà del racconto
fra Ariosto e Tasso, «Filologia e critica», S. Sberlati, Il genere e la
disputa, Roma, Bulzoni, Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra
Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, M. Pozzi, Dall’immaginario epico
all’immaginario cavalleresco, in L’Italia letteraria e l’Europa dal
Rinascimento all’Illuminismo, in Atti del Convegno di Aosta, N. Borsellino e B. Germano, Roma, Salerno, M.
De Masi, L'errore di Belisario, Corsamonte, Achille, «Studi italiani», Claudio
Gigante, Un'interpretazione dell'«Italia liberata dai Goti», in Id., Esperienze
di filologia cinquecentesca. Salviati, Mazzoni, Trissino, Costo, il Bargeo,
Tasso, Roma, Salerno Editrice, E. Musacchio, Il poema epico ad una svolta: O.
tra modello omerico e virgiliano, in «Italica»,
Valentina Gallo, Paradigmi etici dell'eroico e riuso mitologico nel V
libro dell'‘Italia' di Trissino, in «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», Alessandro Corrieri, Rivisitazioni cavalleresche nell'Italia
liberata da' Gotthi d’O., «Schifanoia», A. Corrieri, La guerra celeste
dell'Italia liberata da' Gotthi di Giangiorgio Trissino, «Schifanoia», Claudio
Gigante, Epica e romanzo in O., in La tradizione epica e cavalleresca in
Italia, C. Gigante e Palumbo, BruxellesI. E. Peter Lang, Corrieri, Lo scudo d’Achille e il pianto di
Didone: da L’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trìssino a Delle Guerre
de’ Goti di Gabriello Chiabrera, «Lettere italiane»,Alessandro Corrieri, I modelli
epici latini e il decoro eroico nel Rinascimento: il caso de L’Italia liberata
da’ Gotthi d’O., «Lettere italiane», Sul dibattito sui generi letterari e la
Poetica (in ordine di stampa): E. Proto, Sulla ‘Poetica’ di G. G.
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classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, Mazzacurati, Conflitti di culture
nel Cinquecento, Napoli, Liguori, A. Quondam, La poesia duplicata. Imitazione e
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del Moderni. La crisi culturale Professoree la negazione delle origini”
(Bologna, Il Mulino); M. Pozzi, Lingua, cultura, società. Saggi della
letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Dell’Orso, Per il rapporto
fra l’epica del T. e quella del Tasso (in ordine di stampa): E.
Williamson, Tasso’s annotations to Trissino’s Poetics, «Modern Language Notes»,
M. Clarini, Le postille del Tasso al Trissino, «Studi Italiani», G.
Baldassarri, «Inferno» e «Cielo». Tipologia e funzione del «meraviglioso» nella
«Liberata», Roma, Bulzoni, R. Bruscagli, L’errore di Goffredo, «Studi
tassiani», S. Zatti, Tasso lettore del Trissino, in Torquato Tasso e la cultura
estense, G. Venturi, Firenze, Olsckhi, Sulla lingua e il dibattito dei
contemporanei si vedano almeno (in ordine di stampa): B. Migliorini, Le
proposte trissiniane di riforma ortografica, «Lingua nostra» G. Nencioni, Fra
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Olsckhi, B. Migliorini, Note sulla grafia nel Rinascimento, in Id., Saggi
linguistici, Firenze, Le Monnier, B. Migliorini, Il Cinquecento, in Storia
della lingua italiana, Firenze, Sansoni [e ristampe]. E.Bonora, "La
questione della lingua", Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, C. Segre,
L’edonismo linguistico del Cinquecento, in Lingua, stile e società, Milano,
Feltrinelli, O. Castellani-Pollidori, Il
Cesano de la lingua toscana, Firenze, Olschki, O. Castellani-Pollidori, Niccolò
Machiavelli e il Dialogo intorno alla lingua. Con un’edizione critica del
testo, Firenze, Olschki, Franco Subri,
Gli scritti grammaticali inediti di Tolomei: le quattro lingue di toscana,
«Giornale storico della letteratura italiana», I. Paccagnella, Il fasto delle
lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Pozzi, Trattatisti del Cinquecento,
Milano-Napoli, Ricciardi, Richardson, Trattati sull’ortografia del volgare,
Exeter, University of Exeter, Pozzi, O.
e la letteratura italiana, in Id., Lingua, cultura e società. Saggi sulla
letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, A.
Cappagli, Gli scritti ortofonici di Claudio Tolomei, «Studi di grammatica
italiana», Maraschio, Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, presso
l’Accademia, C. Giovanardi, La teoria
cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M.
Vitale, L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua
dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla
traduzione di Dante e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno
(in ordine di stampa): M. Aurigemma, Dante nella poetica linguistica del
Trissino, «Ateneo veneto», foglio speciale,
C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, in
Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,Floriani,
Trissino: la «questione della lingua», la poetica, negli Atti del Convegno di
Studi su Giangiorgio Trissino, etc...(ora in Gentiluomini letterati. Studi sul
dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La
teoria linguistica di Dante, Napoli, Liguori,
C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri,
«Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari
eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del
codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di
Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia
(Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del
“De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di
studi della fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G.
Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi
intitolati Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non
riproducono però l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle
edizioni moderne: La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di
retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto
inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che
contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii
grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto
inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro,
Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è
dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari
eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I
classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino,
nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per
l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle
prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche.
Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul
Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento.
org/ cinquecento/trissino. pdf. A.
Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia.
Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. O. Opere di
Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Appleton.
Italica Rinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il COMERCIO
del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non dico
nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra tutte
le cose che sono SOLAMENTE ALL’UOMO E DATO IL PARLARE ,sendo a lui necessario
solo. CERTO NON A a gl’angeli non a GL’ANIMALI INFERIORI e necessario parlare.
Adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E
LA NATURA certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi
sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola] nostro, niun'altra
ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o quello CONCETTO della
mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e neffabile
sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi concetto, per la
qual sufficienza d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel fulgentissimo
specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui avidis simi
sispecchiano. Per tanto pare che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha mestieri. Ma chi
oppone a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal cielo; a tale
opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi trattiamo di
quelle cose, che sono che Q a bene esser , devemo essi lasciar da
3 parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare la divina
cura. Seconda risposta, e meglio è, che questi demoni a MANIFESTARE fra sè la
loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere se non qualche cosa di ciascuno,
perchè è, e quanto è 1 : il che certamente sanno; perciò che si conobbero l'un
l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non e bisogno
provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA sono guidati. E
poi, tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le medesime
azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le altrui
conoscere. Ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA
alla prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina
e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli
organi loro. E così d'indi la voce risulta distinta, COME vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che
fischiare. Il testo ha: non indigent, nisi ut sciant quilibetde quolibet,
quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio il tradurre cosi. Non hanno
bisogno di conoscere, se non ciascheduno di ciaschedun altro, che è,e quanto è:
ossia l'esistenza e il grado. Se alcuno poi argumentasse da quello, che OVIDIO
(si veda) dice nella Metamorfosi che LE PICHE parlarono, dico che dice questo FIGURATAMENTE,
intendendo altro. Ma se si dices che le piche al presente e altri uccelli
parlano, dico che è FALSO, perciò che tale atto NON è parlare, ma è certa
imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di imitare noi
in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO (cf. ‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in
tongues’). Tal che se quello che alcuno espressamente dice, ancora la pica ride,
questo non sarebbe se non rappresentazione , o vero imitazione del SUONO di
quello, che prima ho detto. E così appare agl’UOMINI SOLI e dato dalla NATURA il
PARLARE. Ma per qual cagione esso gli e NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente
trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini il COMERCIO, la CONVERSAZIONE. Ovendosi
adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI NATURA, ma per *ragione*. E essa ragione o
circa la separazione, o circa il giudidizio, o circa la elezione
diversificandosi in ciascuno; tal che quasi ogni uno de la sua pro [La voce del
testo, “discrezione”, sarebbe resa meglio dalla parola discernimento. del
parlare, pria specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per la sua
propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le bestie. Nè anche per speculazione
l'uno può intrar ne l'altro, come gl’angeli – JARMAN, La conversazione angelica
--, sendo per la grossezza e opacità del CORPO mortale la umana specie da ciò
ritenuta. E adunque bisogno che, volendo
la generazione umana fra sè COMUNICARE IL SUO CONCETTO, avesse qualche SEGNO
SENSUALE e *razionale*; per ciò che, dovendo prendere una cosa dalla ragione, e
nela ragione portarla, bisogna essere razionale. Ma non potendosi alcuna cosa
di una ragione in un'altra portare, SE NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE, e bisogno
essere sensuale, perciò che se 'l e *solamente* razionale, non puo trapassare.
Se *solo* sensuale, non puo prendere dalla ragione, nè nella ragione de porre.
E questo è SEGNO (SENNO) che il subietto di che parliamo, è nobile; perciò che
in quanto è suono, il SEGNO (SENNO) è per natura una cosa sensuale. E inquanto
che, secondo la *volontà* di ciascun, *significa* qualche cosa, egli è razionale
1. Iltestoha: Hoc equidem SIGNUM est,
ipsum subjectum nobile, dequo loquimur. Natura sensuale quidem,
in quantum sonus est, esse. Rationale vero, in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur
ad placitum. A noi pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo
segno, l'aliquod rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più
sopra, è per l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura,
in quanto è SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo e prima dato il
parlare, e che dice prima, et in che lingua L’UMO SOLO e dato dalla natura il
parlare. Ora istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo e prima dato dalla
natura il parlare, e che cosa prima dice, e a chi parlò, e dove e quando, e
eziandio in che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si
legge ne la prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del
principio del mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio
è lapre sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava , disse , ‘Dio
ci ha commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del
paradiso, e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo. Ma a
vegna che in scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno
è ragionevol cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè
cosa inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche
cosa. Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del
testo, che sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e
si collega meglio col senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già
dette , che a pensare, che così eccellente azione de la il generazione
umana prima da l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque
crediamo ad esso essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che
l’ebbe formato. Che voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana
mente può esser in pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè
Eli, o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa
veramente pare, e da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa
alcuna prima che Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo.
E siccome, dopo la prevaricazionedel'u m a n a generazione , ciascuno esordio
di parlare comincia da heu ; così è ragionevol cosa , che quello che fu davanti
, cominciasse da alle grezza, e conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma
tuttoinDio,& esso Dio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo
p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di
sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette
esser a Dio; e se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che
parrehbe contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio
risponderemo,che ben può l'uo mo averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per
questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA, che dicemo.Qual è colui, che
dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino secondo il voler di Dio,da
cuièfatta, governata, econservata , ciascuna cosa ? É conciò sia che
l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura in feriore si muova,
la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera che fa risuonare i tuoni,
fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine ;
non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare alcune parole le
quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse?e perchè no? Laon de
& a questa, & ad alcune altre cose credia mo tale risposta bastare.
Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le cose superiori,come da
le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo parlare primieramente
a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò s u bito,che fu da
la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo,che molto più cosa
umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito,e senta
come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio &
amatore ,inspirando il primo uomo con ogni perfezione compi , ragionevole cosa
mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che
'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni, 11
Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era bisogno che l'uomo
parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed
anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia , la quale devemo usare
ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo),dico,che avegna
che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto
del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parlasse; acciò
che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea do
nato,se ne gloriasse.E perciò devemo credere, che da Dio proceda , che ordinato
l'atto de i nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il
loco, nel quale fu mandata fuori la prima favella; perciò che se fu animato
l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori: se dentro , diremo che dentro fu
il loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozii umani si hanno ad esercitare
per molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non intesi da
molti, che se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare,
del quale si crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che
idioma prima l'uomo parld, e donde fu l'autore di quest'opera.
madre, e senza latte si nutri, e che nè pupil lare età vide,nè adulta.In
questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala è amplissima città, e patria de
la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però qualunque si ritrova essere di
cosi disonesta ragione, che creda, che il loco della sua nazione sia il più
delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui parimente sarà licito preporre
il suo proprio volgare, cioè la sua materna locuzione,a tutti gli altri; e
conse guentemente credere essa essere stata quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo
èpatria, sì come a'pesci il mare , quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno
avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto Fiorenza,che pe averla amata
patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la
ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro , o vero
secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di
Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i
quali il mondo universalmente e particularmente si descrive , e discorrendo fra
noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le abitudini loro tra l'uno e
l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente comprendo, e credo, molte regioni e
città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di
cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilette vole, e più
utile sermone , che gli Italiani. R ir tornando adunque al
proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie me con
l'anima prima ,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la
construzione de'vocaboli , e quanto al proferir de le con struzioni; la quale
forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione
umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di
par lare parlò Adamo , e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la
torre di Babel , la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma
di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti
Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore ,
il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la
grazia, e non di quella de la confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma
quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui
ex illis oriturus erat secundum humanitatem , non lingua confusionis, sed
gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità
, usasse della lingua della grazia , e non di quella della
confusione. Hi come gravemente mi
vergogno di rin 15 e per De la
divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non
possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e
l'animo la fugge , non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai
peccati , oh da principio , e che mai non finisce, piena di nequizia; non era
stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e
stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la
universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di
te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi
commesso , gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti ? Certo
assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo
anzi terza ; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che
l'uomo , o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo
gli occhi da le sferze, che erano rimase , venne la terza volta a le botte, per
la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu
rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di , superare con l'arte
sua non solamente la na tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò
ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione,
per la quale sperava di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non
solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore. Oh cle menzia senza
misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo?
Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna, & a battiture
assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione
castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ;
parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per ter
ra, parte per mare li conducevano. E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in
molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano
; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osserva che
in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole
intonacavano. istessa loquela attualmente rimase , come a tutti gli
architetti una , a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di
quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj
esercizj erano in quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la generazione umana
disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più
grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma
rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente
biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono
una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono , sì come io comprendo ,
del seme di Sem , il quale fu il terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il
popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua
dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin
gue non leggieramente giudichiamo , che allora primieramente gli uomini furono
sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso.
E conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione
nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta , là onde
primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di
tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o
pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre
idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa,
parte la settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci ,
parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo idioma:
ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi & altre
molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per
segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i predetti volendo
affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da
iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò.
Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e più oltra si
stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta , tenne un terzo idioma 1,
avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare,
altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli , Francesi &
Italiani .Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno
istesso idioma,è in pronto; perciò che molte cose chiamano per i medesimi
vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama ,& altri
molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che proferiscono oc
tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli
poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino
a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la
Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto
di questi ; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni ,
dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens
idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum
quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est protractum. Totum autem , quod in
Europa restat ab istis , tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A
cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un
altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa
, e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa
tenne un terzo idioma. 19 glese, e dai monti di Aragona terminati , dal
mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi
ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui
vale mettere alla prova, cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di
quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de
la variazione, che intervenne al parlare , che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada , però so
lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte ,
conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole , pare che eziandio abbia ad
esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto
di sopra) in tre parti diviso , perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri
oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che
primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti
vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare,
e come col tempo il medesimo parlare si muta , e de la invenzione de la grammatica.
A la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il
delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste
lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor.
Gerardo di Berneil , « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di
Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor , prima che
gentil core, Nè cor gentil,prima che amor, natura.» Investighiamo adunque ,
perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di
queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha
diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani ,
e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi
cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e
Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un
istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e
quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare
quelli che in una medesima città dimorano , come sono i Bolognesi del borgo di
san Felice , e i Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste
differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione
saranno manifeste. Dico adunque , che niuno effetto avanza la sua ca gione, in
quanto effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque
ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale , la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ;
m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi & abiti), simutano;cosìquesta,secondo
ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi. Però non è da dubitare
che nel modo che avemo detto,cioè,che con la distanzia del tempo il parlare non
si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo sottilmente
investigare le altre opere nostre, le troveremo molto più differenti da gli
antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, quantunque ci
siano molto lontani. Il perchè audacemente affermo che se gl’antiquissimi
Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora
parlano in Pavia. Nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso
che iI qualici siano molto lontani (magis....quam a coetaneis per longinquis). ci
parrebbe a vedere un giovane cresciuto il quale non avessimo veduto crescere. Perciò
che le cose che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto;
e quanto la variazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto
essa cosa è da noi più stabile esistimata. Adunque non ci ammiriamo se i
discorsi di quegli uomini che sono POCO DALLE BESTIE DIFFERENTI, pensano che
una stessa città ha sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la
variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo
a poco a poco sia divenuta , e sia la vita de gl’uomini di sua natura
brevissima. Se adunque il SERMONE nella stessa gente successivamente col tempo
si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il parlare di
coloro, che lontani e separati dimorano, sia VARIAMENTE VARIATO; sì come sono
ancora variamente variati i costumi e abiti loro, i quali nè da natura, nè da CONSORZIO
umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la convenienzia de i luoghi
nasciuti. Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luoghi. Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non
par suggetta al SINGULARE ARBITRIO di niuno – GRICE, Deutero-Esperanto,
High-Way Code --, e consequentemente non può essere variabile. Questa adunque
trovarono, acciò che per la variazionee del parlare, il quale DE LA
VOLGARE ELOQUENZIA. De la varietà del parlare in Italia dalla destra e sinistra
parte dell'Appennino. LA VITA
D I Gl OVAN GIORGIO O. LA VITA GlOVAN GIORGIO O.,
ORATORE, E POETA SCRÌTTA DA PIERFILIPPO CASTELLI
VICENTINO. IN VENEZIA, Per Giovanni Radici.Con Licenza
de’ Superiori , e Trtvììegio. sAlli Kob. Kob. Sigg. Co Co. PARMENIONE,
ED ALESSANDRO trissini, ^ier-Fuippo Castelli.
**t «1 & egli fu fempre le- cita non fo lamento ,
ma lodevol cojaa chiunque ha fatto penite- lo di mandar a luce un
qualche Juo componimento , lo fceglìero a alca-
Digitized by Googl alcuno illujlre e ragguardevole
perfonaggio , a cui intitolarlo ; non fola mente per acquijlargli
col nome di lui pregio e ornamen- to y ma ancora per poterlo col
favore di lui mede fimo dagl vi- vidi morti de' malevoli difende-
re , e ajfìcurare : mafiimamente di ciò fare a me fi conviene , il
quale avendo dìliberato di dare alle luce il già condotto a matu-
rità primaticcio frutto del poco e debile ingegno mio , voglio
dire la V ita del nobili fimo , e dottijfi- mo Poeta e Oratore Gì
ovan Giorgio T rissino, decoro e fple udore am- pli filmo di que fi
a no fi r a Città di Vicenda s a nobile e buona guida con pili di
ragione debbo accomandarlo , onde poffa fi cura- mente ufcir fuori
, Me migliore per tanto , nè piu fidata fo ritro- varne di quella
della molta Vo- fira Umanità , e Genti legga , Jllu-
* Digitìzed by Google I Illustrissimi , e
Nobilissimi Sigg. Conti-, concio [fi ache Voi Germe fiele di queir
amie hi filma , e fempre co- spicua Famigliai Voi alla tefifi-
iitra , e alla pubblicazione di quejì Opera ni avete piu volte
inanimito , e follecitato ; e Voi per fine dotati fiete di sì illu-
Jlri prerogative , le quali ( come- che un largo campo me fe ne pa-
ri davanti ) per lo timore di for- fè non offendere la fingolar Vo-
Jlra moaejlia ometterò. Non vo- glio tuttavia la f dar di accenna-
re V amor Vojlro alle lettere , e a chi le coltiva , il quale ficco
me dà a co no fiere quanto nobile fi a la Vofira indole , e quanto
colto il Vojlro ingegno , così Vi fu e fi- fere in Patria e fuori
fingo tar- me nt e chiari. In fatti e chi e tra per la bre- ' ' C
vita Digitized by Google vita, e per ?ion piu
fajlidirvi la f ciò di dire , io umilio e dedico a Voi,.
Nobilissimi* e Chiarissimi Cavalieri, quejia mia prima Operai la
quale y perciocché la V ita contiene del non mai ablct- Jlan^a
lodata Giovangiorgio Tr is- sino, fon ficuroy che da Voi , che con
lui comuni la patria , il cognome , e le virtù avete , beni-
gnamente e gratamente farà ac- cettata . E qui nella pregevol
grafia Vojlra r accomandandomi Vi faccia umilijftma riverenza ,
PREFAZIONE l A Vita di GIO V ANGIORGIO O.
, poeta e orator celebre , ficcome per alcuni: è Rata già fcrirta,
così parrà a prima vi- lla , che inutii cola ila Hata Io /crivella
.di nuovo ; ma perchè que- lli tali Scrittori han di Lui molte cole
dette, le , quali o non fono Rate per eflì .bene difeufle , o forfè
.anche furono dette a capriccio, perciò non Lenza ragione rilolvemmo .di
così fare . Tra efii uno fi fa eflere Rato il Signor ApoRolo Zeno,
di chiariffima memoria , il quale nella fine del le* colo paflfatodiede
jh luce la Vita d’O. inferita nella terza parte della Galleria di
Minerva in Venezia prejj'o Girolamo jilhrivjj 1 696. in fo- glio ;
ma ficcome gli uomini 'veramente dotti ed ingenui non fi vergognano di
ritrattar quegli er- rori , che nelle proprie Opere conofcono aver
commefiì , così non ifdegnò egli non pure di dirci a bocca , ma di farci
fàpere eziandìo per lettera , mandataci da Venezia addi iv. di
Giu- gno dell’anno 1749. , che nè quella Vita , nè ciò , che col
fuo nome fu Rampato e in quel tomo , e negli altri ancora della detta Galleria
di Minerva , riconofccva per cola fua : e quelle fono le fue parole . Sono
cinquanta e più anni , ch'io fcrijjì quella Vita dell' infigne
Giangiorgio T rijjìno , la quale fi legge nella Galleria di Miner-
va. Sappia però V. S. , ch’io prefentementc , an- zi da gran tempo in qua
non ricono feo per mio la- voro y ma per aborto della immatura mia età
tan- to . la medejima Vita , quanto tutto quello , che col mio nome
fi legge flampato in quel tomo della Gal- leria di Minerva , e in tutti i
Jeguenti , Ci fono qua e là V'arj punti effendi ali e importanti ,
che allora mi parvero con vero e fame difcujfy , e che ora per
migliori lumi fopr avvenuti ritratto , e con- danno . Di tutto ciò mi è
paruto avvi far la per fua regola , e mia giufìife azione .
Sebbene quali lo Hello avea egli fcritto affai prima al P. D.
Pier-Caterino Zeno, Somafco, fuo fratello , di fèmpre celebratiffima
ricordanza ; men- tre tra le fue Lettere , di frefeo fìampate in tre
volumi in 8. col titolo di Lettere di Apoftolo Xe- no ec. I n
Venezia , apprcjjo Pietro Valvafenfe ; nel z. Volume a car. 91. ve n’ha
una a lui di- retta, fegnata di Vienna 14. Dicembre 1719., in cui
in proposito della riftampa dell* Opere del Triffino allora ideata da’
Sigg. Volpi, così gli diC. fe : Vinti i fono , eh' io diedi fuori nel /.
Volume della Gallerìa la Vita di effo ( Triffino ) : ma Je orai
avejfi a ferriere, la riformerei tutta da capo a piedi : onde fe io ne fo
ora sì poco conto , av- vertite anche i Sigg. Volpi a non far fopr a
efja alcun fondamento . Allor- PREFAZIONE. in
Allorché in Verona preflò Jacopo Vallarli fi fece la ri Rampa delle Opere
del noflro TR ISSINO, proccurata dal chiariamo Sig. Marchelè MafFei ,
ma primieramente ideata da 1 rinominatiifimi Sigg.Vol. pi di
Padova, tanto delle Lettere benemeriti (co- me appare e dalle parole
della lettera furriferi- ta dei Sig. ApojRolo Zeno, e dal Giornale de’
Letterati d' Italia , . ) noi lappiamo edere Rato pregato il liiddetto
Signor ApoRolo, che vi lalciaflè premettere la detta Vi- ta ; ma
non avendo egli allora avuto tempo di r: correggerla , «Rendo occupato in
altro impiego , non volle acconientire . Ne fu tuttavia fatto un
breve Rjfìretto dal mentovato Signor Marchele , e fu alle Opere luddette
premeflo ; nel quale egli pur prele qualche sbaglio, eflendofì (come a
noi pare ) attenuto alla Vita inferita nella Galleria di Minerva, e
a MonEgnor Jacopo-Filippo Tomma- fini, che fu il primo a feri ver del TRI
SS INO a lungo , teifuto avendone un latino elogio Ram- pato in un
cogli altri fuoi Elogia Virorum literis , & f apienti a illuflrium :
Patavii , ex T ypographia Sebajtiani Sardi , 1644. in 8.
Datici per tanto con lollecito penfiere a racoorrc le cole fparfe
qua e là in varj libri , ed anche a cer. carne di nuove, trovammo a calo
in un Difcorfo intorno aìl'Opere del noRro Autore, del Sig. Cava-
liere Michelangelo Zorzi (Rampato nella Riaccol- ta dOpufcoli Scientifici
, e Filofojìci , toni. 3. a car. 398.) la quale cominciatali a pubblicare
per opera b del P. D, Angelo Calogero. M. Carnai, in VencTja
appreJJ 0 Crifioforo Zane in 1 z. leguitandoll tuttora a produrre
da'torchj di Sirnone Occhi è già arrivata alTomoXLVII.) citato a car.441.
una dia manulcritta Vita d’O. i per la qual cofa torto ricercatala
con molta diligenza , ci ven- ne fatto , per mezzo del Signor Abate Don
Bar- colommeo Zigiotti , non pure di ritrovarla , ma di averla
eziandìo cortefemente in noftra cala , Quella Vita rt conferva di
prelentc appiedò i Sigg. Conti Triflìni dal Vello di Oro,
dilcenden- ti del noftro Autore , ed ha quefto titolo : Rag-
guaglio Jftorico , e Letterario intorno alla Vita di GIOVA NG IO RG IO O.
Nob . Vicentino , Co., Cav ., Poeta, ed Oratore infìgne ; con un
Efame delle Opere da Lui fiampate , e col giudicio fatto delle medefme
dagli Uomini più cele- bri di quc' tetri pi , e con una ccnfura J opra il
fuo Poema Erpico intitolato L A ITALIA LIBERATA DA GOTI, eftratta da Critici
allora più famojì , e più intendenti della Poe- tica Difciplina .
Aggiuntovi un ,e fatto Catalogo del- le Opere tanto pubblicate , quanto
MS S. dello fìe f- fo O. , ed un Indice copio (0 d' Au- tori, che
parlano di Lui, e che fomminijlraron no - tifi e per compilare la Vita
prefente , Il Manofcrit- to è in 4., e comprende 653. facce.
Da quello titolo sì fpeciolo e pieno credeva- mo invero, che invano
ci foffimo medi all’opera, c che avedìmo perduta la fatica inutilmente ;
ma piu cuore ci facemmo a profeguirla, ed a com- pierla , allora che
letta e riletta la Vita fleflà trovammo ella poco piu in se contenere di
ciò,, che detto aveano i predetti Autori r oltreché o- gnuno
recherebbe!! a noja il leggerla a cagione delle parecchie lunghe
digreffioni , che F Autore vi frappofe , lontane affatto dalla materia ,
che e’ fi propofè di trattare ( vizio Colico nel Cava- liere Zorzi,
ma pure fcufabile in lui per la va- lla raccolta di letterarie
erudizioni, che egli, come in preziofà confèrva, nel teforo di fila mente
fer- bava ) , benché per altro cotali digreffioni in sé contengano
molte curiofe notizie . Non polliamo tuttavia non confeflàre, averci
quello Manufat- to varie cofè fommini firate , per cui vie più. ar-
ricchita abbiamo quella noilra fatica ;la quale ficcome cola nuova e
vera, fperar vogliamo , che non abbia ad eflère fèr non di diletto.
V'abbiamo per entro fparfe alcune notizie lette- rarie ed ifloriche
fpettand a varj perfonaggi, che fiorirono nell età del noflro O.,
oa qualche fatto notabile de! tempo fleffo , lenza però dilungarci
granfatto dal hlo principale dal racconto; le quali notizie vogliam
parimente cre- dale, che non faranno difeare. A non
oltrepafiare la brevità, che ci fiamo pre- fifla, abbiamo a bella polla
tra lafcia te alcune co- le di non tanto conto/ perchè altrimenti fé
avefà fimo voluto dir tutto ciò , che ad O. 1 può. appartenere, di
tanto fi farebbe quella Vita. b z afiim- Digitized by
Google VI prefazione. allungata, che, anzi che
diletto, noja e fafiidio apportato avrebbe . Quanto poi alle
Opere del noRro Autore , cre- diamo di non averne tralafciata pur una ,
come apparirà dal Catalogo , che fi pone in fine di que- lla Vita y
dove molte fé ne vedranno regiRrate , che non furono mai Rampate , ed al
Compilatore fopraccennato o non venute a cognizione, o dalui per
avventura non curate: e di molte eziandìo fi favellerà, che da qualche
Scrittore da fallace tra- dizione ingannato a GIOV AN GIORGIO fu-
rono attribuite . Tutti i Titoli per altro delie Opere fleffe non ci
fiamo curati di riferire ap- puntino , come Ranno ne’ Frontelpic) delie
edi- zioni , non ci parendo cofa di grande importan- za > e
fimilmente se fatto nell’ allegare , e cita- re qualche pafso di fue
fcritture: e abbiamo tra- lafciato eziandìo i Caratteri Greci dal noRro
Au- tore inventati , non avendogli giudicati quivi to- talmente
neceflàrj , e non già credendo di reìidcr così molto buon fcrvigio alla
memoria di quel grand’ uomoy come fi lafiiò ulcir della penna il per
altro tanto benemerito dottiilìmo editor della rifiam- pa delle
Opere dei Trillino fatta in Verona j im- perciocché tenghiamo per fermo,
che Te il Trif- lino folle vivo, figurerebbe a afare nelle proprie
fcritture quelle lettere da se con tanto Rudio ri- trovate , ulate, e
difcle. Dopo di avere così Icritto ci confoliamo , pa-
rendoci di elserci in quefio particolare uniti alla oppinio
vir ©ppìnione del fu
Signor Apollolo Zeno, che nel- la più fopra citata Lettera al P. D.
Pier-Caterino fuo fratello così Icrilse : Lodo /'edizione di tutte
/' Opere del T riflino . Ma fi farà ella con gli Orni - cron
, e cogli Omega , e con la foli t a ortografia di quel grand’ uomo?
Si farebbe potuto regiftrar anche il catalogo di quegli Autori'*,.
che di Lui fecer menzione ; ma liccome molti lì troveranno già citati per
entro quella Vita , e gli altri non ne parlarono più che tanto,
così noi ci lìamo dilpenlati da .quella forfè dilutile fatica . A quello
però può abbon- dantemente lupplire la Tavola delle cofe notabili ,
che alla fine del libro abbiamo aggiunta ; la qua- le altresì mette in un
tratto lotto l’occhio del let- rore tutte quelle notizie letterarie ed
illoriche , che, come lopra è detto, abbiamo fparfe qua e là:
Tavola che lenza quelli ragionevoli motivi , lì larebbe dovuta certamente
lalciare in un’Opera di pochi fogli, liccome lì è quella nollra.
Circa poi le correzioni ed ofservazioni critiche per noi fatte
lòpra gli errori d’ alcuni de’ detti Autori, lì vuol qui dire, che non
s’intende giam- mai d’olcurar punto la fama , che e£Iì godono più
che chiara tra’ Letterari, ma fola mente di far apparire il vero nella
lua luce; e le allo ’ncontro qualche errore lì troverà in quella Vita da
noi in- navvertenremente commefso , lì feulì la piccolezza della
nollra luffìcienza ; riflettendo maflìme , che rari lon quegli, i quali
vadano in tutto efenti da que’ Digitized by
Google vm PREFAZIONE.. que’ difetti,, che ( come dicea
l’Abate Anton Ma- ria Salvini ) fono patrimonio e retaggio di
nofircc fievole umanità. Finalmente fe vedremo y che quello
primo par- to del noftro rozzo ingegno lìa gratamente rice- vuto,.
come ci giova iperare , dagli uomini lavji ed eruditi ,. noi allora con
maggiore follecitudine attenderemo a profeguire la già da parecchi
anni incominciata faticolìllima Opera delle Notizie Let- terarie ed
I (loriche degli Scrittori Vicentini da altri pure , ma Tempre
infelicemente ternata (a ) ; nella quale ,. le non andiamo errati r
fperiarno di inoltrare ,. che ( come lalciò Icritto il nollro Ba~
flian Montecchio nel- fuo- Trattato; De Inventario’ tLeredis , & c .
Venetiis apud Fransi feum Zilettum 1 574. in 4. a car. 160. a tergo, num,
joz.- J Vi- ceda foecunda fuit JvLxter & jiltrix poetarum
philofopborum , or a forum ,, thcologorum ,. jurif con- fiti forum y ant
i queir iorum medicorum , atque in qualibet facultate eruditorum ;
e che per ciò elsa noa è. a verun altra città inferiore ..
KOI! Spcriarao prròdi vedere a luce rra fonazioni intorno all a forte
miilio- poeo tempo un’Opera ddl’cruditif»..! re della Storia
Ecclefiaftica r eSe~ Sig, Dr. D. Franccfco Fortunato Vi- J colare della
medefima noftra Patria,, gna, la quale conterrà V /fiorite Let- !
promclTe col dottifsimo fuo Preli- /er 4 r/ e ricca del pari di
facoltà» e di Sog- getti » che in ogni genere di profeffione
illuftri ella ha prodotti in ogni tempo . Ella è in parec- chie
linee divifa » e tra effe con particolar luftro fplendc quella , che
conofce per fuo gloriofiflimo afeendente quel Giovangiorgio, di cui
fcrivia- mo la Vita ; il quale alla nobiltà del legnaggio A avendo
accoppiate le più eminenti prerogative# che render pollano un perfonaggio
e’n rarità di dottrine, e’n cavallerelche virtù fplendentiflimo,
non fedamente tra’ Letterati, ma in una gran par- te del Mondo
celcbratiflìma, ed oltremodo chia- ra lafciò la fama del fuo nome.
Nacque adunque Giovangiorgìo Trissino' in Vicenza il fettimo, o, fecondo
altri , l’ottavo giorno di Luglio dell anno 1478. ( 1 ). Suo Padre
fu Gafpare Trillino, uomo d’armi, e colonnello di trecento fanti
alToldati col proprio danajo a fer- vigio della Repubblica di Venezia,
appo cui ac- quiftò (ingoiar merito; e fua madre fu Cecilia di
Guilielmo Bevilacqua, nobile di Verona. Non pure da un Epica- 1 luogo fi
favellerà) cioè) che P fio delle geftc del noftro Tms- anno 1487. per la
morte di fuo SINO , collocato in S. Lorenzo j Padre egli rimafe orfano di
fette di Vicenza, di cui a fuo luogo ' anni . Ma liccomc egli non
in diremo didimamente > ma da mohiflimi Scrittori appare
edere egli nato l'anno fuddetto, c fpczial mente da Monfignor
Ja- copo Filippo Tommafini nel fuo tuteli luoghi di fue feri
tture fida l’epoca del fuonafeimemo in un medefimo anno, fccondochè
lui bene tornava , e in utilità de* fuoi dcmeftici affari ( come ci
fe libro intitolato ; Elotia rirornm certi il Sig. Abate Don
Barto- Littris & ftpitntia illuftrium lommeo Zigiotti , che tutte
vi' &c. Patavii ex 7 ypo{rapkia Se- J de , e rivide le private
Scritture bacioni Sardi 1644. in 8. a dell’Archivio de’Sigg. Co.
Co. pag.48. Quello tuttavia potrebbe [ Tri dì ni di lui eredi); cosi ci
è non crederli, quando fode vero! paruto miglior cofa edere lo ac-
ciò, che il T r issino medefi- tenerci anzi alle autorità, e air irto
dica in una fua mirini* far- 1 unanime confentimento dei pre-
fic" come fu fuo maefiro quel Demetrio Calcondila
Ateniefe, la cui fama è sì chiara tra’ Letterati (5); al quale appreflb
fua morte erger fece il Trissino un bel Depofìto, ed Epitafio
Scolpi- to in marmo bianco nel facrario della Chiefa della Paffione
della Città Aefifa di Milano, co- me dicono Paolo Beni ( 6 ), c'1 P. D.
Francefco Rugeri Somafco (7), cd altri, il qual Epitaffio
non V’ha un’epiftola addet- to Giraldi in vedi Latini
del Sacco di Roma, polla nel 2. tomo delle fue Opere della
edi- zione di 8 Mfilt.it per T nomar» Guarinmn , 15I0.
infol.pag.624. che autorizza il noftro detto cosi dicendo;
tt Aec dttfet Bembus , q*o » nere pr e fi art hot alter
„ A«e q»cm Ntbilitar gene . tt rit, f ac media triplex
» Irejigreem fAcit , & viridi mihi notr s ab avo „ T r 1
* s t N U s , In fibra dum tt Grecai difeimm Urbe. Da una Lettera
aliai lunga del Trusino, fcritta da A-ii- lano li 26. Novembre
1507. all' txc cliente Medie» ( così Ha ferir- lo ) M. Uini tritio
da Afalgra- dt , fi ha, che egli non pure era fcolare del
Calcondila, ma che anche abitava in fua cafa. (6) Tratt .
dell' Origin. della Famiglia Trijf. lib. 2. a car.33. (7)
Nella Declamazione la- tina intitolata : Trutina JOelpb»- htdrki
Tabellariatui Traiani 1 Boc- Digitized by Google
del TRissino. 5 non pur fi conferva manufcritto con altre
fue compofizioni fin ora non date a luce, appretto i Sigg. Co. Co.
Fratelli T riflìni di lui eredi*, ma fu anche ftampato nella Biblioteca
degli Scrittori Milanefi pubblicata dal Sig. Filippo Argelati Bo-
lognefe (8), e poi riferito fulla fede di quefto autore da
Criftiano-Federigo Boernero nel libro de' Dotti Uomini Greci riftoratori
della Greca letteratura nell’ Italia (p); ed è quefto. p.
m. DEMETRIO CHALCONDYLyE ATHENIENSI IN STUDIIS L1TERARUM
GR^CARUM EMINENTISSIMO QUI VIXIT ANNOS LXXVII. MENS. V. ET OBIIT ANNO
CHRISTI MDXL JOANNES GEORGIUS TRISSINUS GASP. FILIUS PRAICEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMO
POSUIT. E di fiat cui ini ice. Alon.ìchii
fuisfor- mis, CTfumptibmt cuffie Nicola hs tìmricHs , t6aa. in 4.
pag.xxi 1 1. e xxiv. ove dice: „Hic ( JojGeor- u gius ) a viro
do&ìllìmo De- „ inetrio Cbalcondyla Athc- ,» nienti , tanca
ingenii foclici- „ tace, Gricci fcrmonis latices, » haufic ut....
Attici cognomen, „ paucorununenfium cuiriculo, „ ex fui prseceptoris
fententia, „ verius proineruit : Magiftro i) benemerenti
gratiflìmu, , cui », McdioJani vita fun&o , mo- »
numentum marmoreum in „ tempio Paffioni Servatoti, noftri facrum
excitavit. (8) Philip pi Arie lati Bono, nienfis Bibliotheca
Scriptorum Alcdiolancnjìnm , five Alla, & Elogia Virorum
omnigena or odi. tionc illuflrium , qui in Metro, foli Infubrie ,
Oppidifquc circum. jacentibut orti funi lice. Medio. Uni 174J. In
JLdibus Palatini t; Tom. ix. in fol. l’ Epitelio Chriftiani Frid. B temer
i De E di ciò non .contento Giovangiorgio volle j in
fegno di gratitudine maggiore allo fteflò Tuo grande maeftro, farne
altresì lodevole menzione nel predetto fuo Poema (io). Donde
fi deduce, che molto lontana è dal vero la opinione di Giovanni
Imperiali, Vicen- tino, il quale fcrifse eflere fiato il Tassino
af- fatto ignaro di lettere fino all’età di ventidue anni; e che
dipoi andato a Roma, al folo udì* re colà le aringhe de’ Letterati, tanto
fi accen. defle in lui la brama di fapere, che giugnefle in breve
tempo a quella letteratura , che lo rendette poi così celebre, e così
illuftre (11): il che difsero anche Paolo Beni (i z), ed un altro
autore (13). Allo De dotti* Hominibn i Gr tris Li- Il
Calcondilt , che farà, che t trarum Gracarum in Italia in-
ditene (taur attribuì Libtr. Làpfi* in Bi- Verrà ftco in Italia , t
pian- tliopolie Job. Frid . Sledijtchii terawi 1750. in
ii.gr. Qui l’ Epitaffio è II feme elette della lingua a car. 185.
Greta , (10I Ita!. Libtr. da' Goti , lib. fit ) Gio. Imperiali
Mufxum *4. nella fine con quelli verli . Hiftortcum óiC.Venetiù
apuajun- Vtlgett gli occhi a luti pre- ; ttai . 1640. in 4. pag.
43. dori ingegni ; ( li ) Tratt. dell' Orig. della
Quello è BeJJarion , quell' altro Famigl. Trzff. lib. 2. a carr.
33. i’I Gaxjt ; ( 13 ) Qiiclli fu un certo G»- . leazzo
Trillino in una Genea- QnelV altre t'I Gemijle col 1 logica
Narrazione della fu a fa- Trapeftnxj», ■ miglia, da effo iraslatata di
la- £ 'l C aleni’ dii e , f’I Lafcari, e[ tino involgare. Di quefto
vol- *1 Muffure, 1 garizzamento fi trovano parec- *
chic. Allo ftudio delle Greche lettere uni il noftro O.
quello delle feienze Matematiche} e tifiche (14), e quello ancora dell’
Architettura, in èhie copie, c una è appretto il
perfona del noftro Giovan- rnentovato Sig. Co: Parmcnione | G 1 o r gì o,
c che da edo ci fu- ‘Triflino, della quale ci fiamo rono pare con
umanilTima gcn- ferviti a fcrivere queftaf'it.», e tilezza trafmede a.
Vicenza. For- ciceremla col nome di Gemalo- I le che detta Raccolta di
Scric* già delia Cafii Triffino di Galeaz. • ture queUa era, che da Paolo
zj> Triffino . Quello autore di- Beni viene citata nel predetto ce nel
proemio di avere ac- {no Trattato Manufcricto della trefeiura eda Narr
Azione da (e Famigl. Trifs. a car. 26. Ann. tradotta a inchieda di parco»
1404. con quelle parole: Gic: chi fuoi amici e parenti , i qua- Giorgi o
Tr issino» il li voleano i che c’ia defle an- Poeta , di chì ragioneremo
, nelP che in luce. Orazione che fece nel green Con -
Un’altra copia nc ha il Sig. figlio di Tentila fer ricupera Abate
D. Bartolommeo Zigiotti Alone delle fue Decime nella Til- in tutto limile
alla predetta . Un Im di Tal d’ Agno , che fi legge Tello poi di
quell’opera era già fcritta a penna nelC Archivio appretto i p. P.
Somafchi della del Sig. Co. Bonifacio Triffino Salute in Venezia! e
queftonoi j nel libro , che ha per titolo Rimiamo, dite potefte ctTcrc
I'IPrisca Triisjne^ Fami- originale. Con ctTo era unita) ti .€
Monumenta.* & c.., la citata Aringa di G 1 o v a n- facendo egli
menzione delle Giorgio, c ’1 Trattato mano- Scritture defle anche a car.
29. fcritto della Famigl. Triff. di I del primo libro dello Aedo
fuo Paolo Beni, ed altre feri t tu re Trattato della Famigl. Triff .
, concernenti alla detta Famiglia: che è dampato, di cui più in-
tutto in un libroin foglio, fui nanzi faremo menzione. Dilli, cui cartone
al di fuori lì legge- j che era nella Libreria de’ P.P. del- Vano quelle
parole: P r i se a t la Salute in Venezia, perchè og- Trusinea
Familismo-! gidi certamente ivi o non vi fono hu menta. Le quali Scrittu-
j ìe dette fcritture, o difficilmen- te prima erano appredo il P.D. te fi
podono ritrovare : conciof* Pier-Catcrino Zeno Cher. Rcg. fiachè io col
mezzo anche del Somafco, di gloriofa memoria} | P. D. Jacopo Maria
Paltoni, che come ci dide il Sig. Apoftolo j con tutta bontà mi favorì di
di- Zeno, fuo fratello, che di ede ligentemente cercarle, non abbia
tutte nc eflraflc quelle notizie, mai quivi potuto ritrovarla, che
credette più fpettami alla) (14) Che il Tr issino fof- — - - , fc in
cui molto fece di profitto, come ne fa fede non pure un piccolo ir aitato
in cotal materia da lui comporto (15)» ma la fabbrica del fuo
Palazzo nella Villa di Cricoli a mezzo miglio lontana da Vicenza, che è
tutto di fuo difegno fulle regole di Vitruvio (i Quia 1 ri* del nome
loro. Non fi può * ,, Parthenius multaruni (cien-' veramente farne altro
gìudicio, >» tiarum homo, diù literas ibi i confederata con la
prontezza di „ docuit, erudivitquc canqu 3 m j cotefii ingegni , che voi
harete », in Lyceo Juvcnes nobiles Vi- da e fer citare , la finezza
delle », cetinos maximè, ac Vcnctos. veftre lettere, e la gentil
manie- ri) Queita lettera, che fi ra, propria di voi filo nel di-
lcgge tra la Lettere di xiu. mojtrarle . Entrate pure, Sig.Com - Uomini
illuftri ec. In Venezia pare con franco animo in quefia per Comin da T
rino di Alonfer - eroica imprefa , e commutile at e rato, 1561. in 8,, a
car. 180. e altrui i tefiri della vera dol- che fu anche inferita nella
terza trina , parte con la voce , e parie del V Idea del Segretario di
parte, ancora con la penna, che Bartolommeo Zucthi, In Vene- non ho
dubbio, che nell’ ameni- z.ia prcjfo la compagnia minima tà di quella
vaga fan zia non vi léso, in 4. a car. 8 1. ; Quella let- fi defti
defiderio di qualche bel - tera, dico, vogliamo qui rife- la poefìat al
che doveri fifpi- CÙe; cd £ quella.. ( [ gntrvi la rimembranti , che
ogni trat- Digitized by Google ti L
A Vita S’era già ammogliato il noitro Tassino a Giovanna
Tiene, nobile Vicentina, da cui avea avuti due figliuoli, l’uno
chiamato Francefco, che morì giovane, e l'altro Giulio (25), il quale fu
poi Arciprete della Chiefa Cattedrale di Vicenza (26)$ ed eflfendo
effa morta, di tanto egli fi ram- tratto il luogo vi
darà del dot - tijfimo Trisjino; in cui a giudicio mio chiiirijftmo
efempio ha veduto Reta noftra delle tre più pregiate lingue,
cc» Di Venetia olii xx. dì Maggio MDLV, Compari e fratello
Paolo Mariano . Ciò» clic della Villa (addet- ta di Cricoli
lafciò fcritto il Sabellico nel Poemetto intitola- to Crater
yiccntinus, porto nel to- mo iv. delle fue Opere, a car.550. (
nominato dal P. Rugcri nella ìua Declamazione a car. xxv.) fu molto
prima che ella fofsc ridotta alla perfezione, c va- ghezza, che
oggi fi vede; la qual cofa fu osservata ezian- dio dal Beni nel
luogo citato. Nel Palazzo iftcfso di Crico- li ebbe diletto
di foggiornare parecchie volte 1 ’ Arcivcfcovo di Rofsano Monti?,
nor Giovam- batirta Cartagna » nobile Roma- no, Genovefc di origine
, nel tempo , che era Nunzio di Gre- gorio .irti, in Venezia;
come dicono il P. Rugeri Trutina&c. pag. xxv., c Paolo Beni
Tratt. dell' Orig. della Famigl. Trift. rtampato, a car. jj., e’lTom-{
I mafini Elogia &c. pag. 49. e 50., ed altri; U qual Prelato
fu poi [addi li. del Dicembre dell’anno 1583. creato Cardinale, e
poi a’ 15. di Settembre 1590. fatto Papa col nome di Urbano
vii. | Onde in memoria di ciò fu la I cornice d’una porta
d’una Ca- | mera del mcdeìimo Palagio vi tu incifaquertaifcrizionc;
B E a- t issi m 1 Urbani VII. Hos- pitium ; e fovrappoftovi
il Bufto dello ftefso Pontefice. (14) Nel Ri/fretto della
Vi- ta dei T r 1 s s 1 n o prcmcfso al- le fue Opere dell^ rirtampa
di Verona, quella fua prima mo- glie è chiamata erroneamente
Giovanna T r 1 ss 1 n a, quando ella fu veramente (come conila
dagli Arbori) della Famiglia de k Cor Co: Tiene. Di quello Giulio
avre- mo occaGonc di fare pcculiar menzione , a cagione de’ fuoi
lun- ghi litigj contro al Padre. (26) Che due figliuoli
avefsc il Tr issino della detta fua moglie» lo dice ilTommafini
negli Elogi pag. 30., cd altri; ma il Tr issi- no irtclfo nella
citata lettera al Reve - Digitized by Google
del TR-Issino. 13 rammaricò, che non volle più dimorare nella
Patria 5 ma partitofcne tornò a Roma , dove già era ftato effe ndo
giovane; e quivi col cuore ingombrato da quello fanello penliero fi
diede a telfere la celebre -Tragedia della Sofonisba, della quale
innanzi parleremo minutamente. Frattanto eflendo morto il Pontefice
Giulio 11 . gli fuccedette Tanno a
dì xi. di Marzo, o fecondo altri addì xv. , il gran Cardinale
Giovanni de’ Medici» che fi fece chiamare Leo- ne X., il quale, ficcome
quegli che era princi- pal protettore de’ Letterati , avendo
conofciuto il Tris sino, s'innamorò ardentemente del fuo raro
ingegno, e poi lo amò fempre quanto ciaf- cuno illuftrc Perfonaggio del
fuo tempo, c l’ono- rò fommamente, impiegandolo eziandio in varj
uffizj affai riguardevoli. Godea egli pertanto in quella Corte tutti gli
agi, e gli onori tutti, che a un Perfonaggio diletto al Pontefice fi
conve- nivano; quando venutogli nella mente il già go- duto rìpofo
nella fua Villa di Cricoli, deliberò di Reverendo
Prete Francefco di j ra poi del medefimo, che non Gragnuola, che fu fuo
macftro , c fra le (lampare, fcritta da Aiu- dandogli ragguaglio delle
cofe ' ratto al detto Giulio addì iS. della fua cafa, d’altri non par-
M*rz,o 1542., fi ha, che elio la, fuorché dell’ Arciprete con Giulio fu
primamente Cameriere quelle parole: Hebbì della yri- di Papa Clemente
vii. > c clic ma moglie un figliuolo , il qua- da lui fu poi fatto
Arciprete del. le è fatto-, ed è Arciprete di la Cattcdtale della Cittì
no- quefia Città. Da un’altra lette- j ftra di rimpatriarli : laonde
prefo commiato dal Pa» pa, tornò a Venezia, dove fuori di rutto il
fuo penfamento trovò materia, per la quale e’ dovet- te per lungo
fpazio di tempo anzi inquieta, che ripofata menar fua vita. Ciò
fu una per altro temeraria infolenza di alcune Comunità di certe Ville
del Territoria Vicentino, fpecialmcnte di Recoaro, e di Val d Agno,
che prefa l’occafione delle turbolenze e rivoluzioni , che travagliavano
in que'tempi non pure la noftra Patria, ma tutta la Lombardia, aveano
fupplicata la Sereniffima Signo-
ria di Venezia fotto palliato colore di one- ftà, che volefle (gravarle
dellobbligo, che aveano di dare le Decime delle loro ricolte a'CorC.o:
Trif- fmi della linea del noftro Giovangior.gi.o , i quali n erano
i foli Proprietarj e Padroni, co- me quelli, che dalla Signoria ilefsa ne
erano (la- ti invertiti a di 3. di
Settembre. E benché addì 6 . di Ottobre dell'anno 1512. le dette
Comunità avefsero avuta fopra ciò con- traria fentenza in foro civile,
non però di me* no tentarono , fe favorevole giudicio ottener po-
tefsero io foro ecclefiallico: e perchè ne furono molto
Della Repubblica di Ve- nezia fi gloria d’ cfscrc volonta- ria
prima fuddita la Città di Vicenza - , la quale anche però è
chiamata dagli Scrittoci Primogenita d’cfs a Repubblica , perche la Piuma
fu, che fra tut- te le Città fudditc le fi donifse fpontancamcnte:
il clic fu molto torto impediti (28), però efli per forza dal fuddetto
obbligo fi efentarono. Ma in que- llo mezzo per giurto motivo quefte
Decime ap- plicate furono al Fifco Pubblico. Tornato adunque
Giovanciorcio in Patria, co- me dicemmo (il che fu o verfo la fine
dell’an- no 1514., o nel principio deiranno) e trovati sì fatti
difordini, de’ quali dicea egli di non averne avuta, dimorante in Roma,
veruna •relazione (so)-, pensò di ricorrere alla Signoria medefima,
perchè almeno gli fofle redimita del" le fuddette Decime la fua
propria porzione- Se poi egli efFettuaffe perfonalmente quello fuo
pen- famento, o fe altri in fuo nome facefse la fup- plica, noi noi
fappiamo di certo: comunque ciò fofse, fatto ila, che cfsendo Hata
conofciuta la fua innocenza, e a riguardo fpecialmente di Pa- pa
Leone , il quale la iatercertìon fua in ciò frap- Ottennero i
Co; Co;Trif- flniaddi ia.di Novembre Lettere Ducali proibitive del
non do- verli trattare in foro ecdefiaBi- co quella lite. Tommafini
negli E- legi pag. 51. dice, clic furono confricati i fuoi Beni ita
urgen- te belli fortuna : c poco appref- fo parlando della
refiituzionel fattagli de’ Beni Beffi dai Vene-! ziani, accenna la
cagione d’cf-| fa confifcazione, dicendo: fai , cognita
ifjìut innteentìa , Veneti Bona ab / enti jujìa confanguinto- rum
culpa ob defetHoncm erepra, benigni reflituerunt . Noi vera- mente
fappiamo qual folle cotal colpa} maonefii rifpetti, e ne- cefsarj
giuBi motivi non ci per- mettono di riferirla. Tanto egli
afferma nel- la fua siringa-, di cui diremo più datatamente a fuo
luo- go. Irappofe, gli fu Tanno fuddetto 1515.
re- flituita ogni cofa. In quello tempo medefimo fu egli
dallo ftef- fo Pontefice in aliai importanti affari impiega- to; e
primieramente finché folfe palfato il verno di quell’anno, (dopo cui gli
ordinò medefima- mente, che, prendendo la volta di Dacia, fe n*
andafsc Nuncio a quel Re (32)), lo mandò fuo Ambafciadore all’ Imperator
Maffimiliano ; nel quale impiegò fi portò con tale prudenza, che e
da ognuno in molta llima tenuto fu, e all* Imperatore caro sì, che ne
riportò grandilfimi onori (35): anzi è fama, che da lui conceduto
gli fofse, che nell’Arme gentilizia Tlmprefa del Fello d'oro inferir
potefìc, e che altresì Tri ss ino • dal •( 31 ) Che
Papa Leone frappo- nt(Tc in quello fatto la Tua in- tercezione ,
non folamente lo dice Monfignor TommaGni ne- gli Elogi , pag. 51.,
ove regiftra un frammento di una fua lette- ra al Conte di Cantati,
con cui gli raccomandava quefto affare; ma lo accenna
Giovangior. Gto fieffo nella già citata fua lettera al Revtr. Prete
di Gra- gnuola con quefte parole: Io fo- no flato per varj cafl:
prima per qitcfle guerre fletti ot Panni exu- le, e privato di
tutte le tuie fa- cult à, che per la benignità de la felice ricsr
dazione di P.P.... (il nome non è quivi cfprelfo, ma fu Leone) mi
fu reflituito ogni cofa, nel tempo, che if ero Legato di Sua
Beatitudine a Maxìmiliano Imperatore ; e nel- la fua Aringa dice,
che ciò fu de l' anno 15 1 5., che erano tre anni a ponto dopo che
li Commu- ni aveano occupate le Decime. La Dacia, dove il
Tris- sino dovea andare, quella non è, che anticamente era
unagran- diflìma e vada Provincia dell’ Europa, c che oggidì c
laTran- fil vania; ma quella, che oggi sì appella Dania, o
Danimarca, la quale giace a fetrenttionc dell, a Germania.
(33) Tanto afferma egli (Icf- fo nella Dedicatoria del fuo
Poe- ma dell’ Italia Liberata eia'Goti.] dal vello d,' oro potefse
denominarli .. Ma per- chè alcuni dicono eSsergli flato conceduto
ciò anche da Carlo V.» pero ci riferbiamo a par- larne altrove a
minuto. Di tutto ciò, che Giovan Giorgio operava nel tempo di
detta legazione, avvisò il Pontefice -con una lettera inclufa in un’altra
diretta a Gio- vanni Rucellai, Tuo grande amico, e confidente, il
quale poi addi 8. di Novembre del Suddetto anno 15-15^ gli riSpoSe da
Viterbo, che avea con- gegnata al Papa la fila lettera; che elfo l'avea
■letta molto 'volentieri ,5 e che non pur dai motti e gefti fatti nel
leggerla conofciuto avea effergli -molto piaciuta, ma più affai da quelle
fue pre- xile parole: egli hi fino a qui proceduto bene y & non
poteva meglio exequire li mia volontà dì quello Jl * Soggiungendo
appreffo aver dal mede- lìmo commiffione di Scrivergli , che
feguitaffe P ure , come avea fatto, a conferir col Vefcovo FeU
trenje gli affari che maneggiava; Siccome il Papa fleffo gliel’ ordina-va
col Brieve , che gli tras- metteva in un con quella Sua lettera di
rifpofta (34)* Dalla qual lettera appare ancora avere avuto il
Trissino ordine dal Pontefice di trat- tare la pace universale, e
l’impreSa contra degl* Infedeli; poiché il Rucellai gli Scrive così:
Per C li pie e Quella lettera del Ru- celiai fu
ftampata a car. xv. del- la citata Prefazione alle Opere del
Trissino. U pace univerfale , e l* impre fa c intra Infedeli vi ha-
•ucte a d «per are totis v/ribut , perché Sua Santi ita t ba mi In 4
cuore , come fapete , e crediate certo , che ne/funa altra caufa
particolare non lo muove , fi non la unione della Crifianitì 3 £ t/uefta
fan ti firn a Impre- C*> benché fi, che vi ricordate la COMMISSIONE
fua y e con che affezione vi PARLÒ di t/ue/la cofa (35).
Ettèndo già intanto pattato il verno del pre- detto anno 1 5 1 5»
volea Giovamgiorgio profe- rire il Tuo viaggio verfo la Dacia , giufta
la committionc dei Pontefice; ma ne -fu impedito dalflmperadore, il
quale volle, che invece al Papa ritornatte, come Tuo proprio
ambafeiatore, e lo pregafle in Tuo nome, che volette fermare una
nuova lega tra sè, el Re d’Inghilterra, e’1 Re di Spagna contro
a'Franzefi, i quali dittimu- lando la brama di vendicarli, voleano
pattare in Italia; giacche la confederazione altra volta con-
chiufa tra sè, e’1 Re cT Aragona, s*cra fciolta per la morte di quello
Re; mandandogli anche per Giovan gidroio medefimo una ben lunga
Jette- Rucellai finifee detta j de’ Medici, cugino di Papa
Leo- lcttcra con quefte patolc: Credo ine; il quale poi anch’egli
fu haremo pre/t 0 il Cardinal de' Medi- '.(aito Pontefice col nome di
Cle- ri, il quale è tanto vo/fro , quanto | mente VII.; abbiamo però
rife- dir fi pojfa ,pcr qualche lettera ,rér|rite le parole fuddette del
Ru- ha /cripto qui , dimojìra , che molto celiai , perchè avremo
occaftonc v ama perchè ha fallo fempre ho- ', di dire gli onori da quello
Papa rtorevtle menzione di voi. I fatti al Tr issi no nel tempo
Quello Cardinale era Giulio | del fuo Pontificato. . lettera,
pregandolo primamente, che Lui fcuCaf- fe, fé invece d’andare in Dacia,
come era Tua mente, alla Santità £ua ritornava* perchè ne 1* avea
egli coftretto; lignificandogli pofeia il pe- ricolo imminente, e la
necefiìtà dell’affare G z Rice- Contenendo quella let-
tera dell’ Imperatore al Papa alcune curiofe particolarità ,
fpczialmente intorno al noftro Tr issi n Oj abbiamo (limato bene di
qui traferivcrne buona parte; tralafciando di dire ciò, Che punto o
poco fa al noftro propofito. La qual Lettera ci fu comunicata dal
Sign. Apoftolo Zeno, di Tempre cara memoria. >,
Maximiliamus Di vi- « na favente Clementi^ Roma. „ norum Imperator
S. A. &c >, Io. G e o r g 1 u s de T m s- „ sino
San&itatis fu. e apud ,» Nos Nuncius , Se Orator . », &c.
... In primis idem
Ora- ,, tor cxhibitis Litcris noftris >, credentialibus Beat. Pònti fi- ,» ci, cum omni filiali
reveren- ,, tia. & obfcquiolàlutabitSan- ,, «Sitarmi fuam , Se
commcn- », dabit Nos , Screnifs. Caro- », lum Regem Hifpaniarum ,
Se „ alios Filios noiiros ad Suam ,, Beatitudinem. Deinde
deda* „ rabit banditati Sua: , quod „ licet idem Orator
ftatuiffet » iter fuum continuare juxta », mandata Beat. Ponti
ficis ad „ Screnifs. Regem Dacia:, fra- „ trem , Se gcncrum Noftrum
,, cariftimum nihilominus Nos „ confidcrantes longè plus ex-
,, pedirc rebus Sux Sancfcitatis ,, „ Se fuis, ac univerfx Reipub.
„ Chriftiana* redirc propter oc- „ currenda* ad S. San&itatem ,
,, quàm profequi iter emptum, „ ob fingularem
obfervantiam, „ Se affeàum , quem No* habe- „ mus ad
San&ic. Pontificis, „ Se )us , quod prxfumimus „ in
omnibus miniftris, Se fer- „ vitoribus S. Beatitudinis , ,, ipfum
Oratorem cùm venia „ noftra defeendentem ab itinere „ retraximus,
& ad S. E. redi- » re computi mus, quo clarius». „ Se apertius
rerum omnium ,, Sancitati Sux per Creaturam „ fuam tàm Ei
affe&am deda» „ ramus. Ideo Bcatitudo Ponti- „ ficis hxc sequo
animo accipiat, „ Se fi in errore erracunv fit , quod
tamcnnonciedimus, id „ Nobis imputet. „ Caufaautcm
hujufmodieft „ quod cum jam Ser. Rex An- „ glia: fratcr nofter
cariffimus „ per Litcras , Se Oratorem fuum: „ apud Nos degentem ,
Se Or a- „ torem Noftrum apud Se ref- „ fidentem dcclaraverit
Beat. „ Pontificis, cognito periculo, ,, quod imminer, nedum
Ita- ,, lise, fed univerfx. Reipublicf m> Chri- Ricevette
volentieri il Papa quefte (cute, e ac- colfe il noftro T rissino colla
folita benignità» e ( omettendo di riferire ciò, che Tulle richie-
fte dell’ Imperatore egli riiòivefse , come cofa poco Cbriftian*
ex magnitudine , », Se infoientia Gallorum forc », optimè contentimi,
& idem „ maxime defiderare , quod ,» iidem Galli hunjilientur ,
Se n rebus fuis contcntcntur : qux „ quidem fentcntia
Sandlitatis », Su*,cùm Nobis fempernedum „ opti ma, fed valdè
neceflaria „ vifa eli, ex periculo, quod „ omnibus imminet , Se
prxfer- » tim Beau Pontificis, & fu* „ Patri*, Se Familix, cùm
il- ,, lud antiquum odium, quem » Galli babucrunt ad Eum , »,
quùm fecerint ipfum extor- », rem, & per xviil. annos.cr- »,
rare à Patria, cùm maxime », calamitates compulcrint, nul- „
latenus remiferint, td omni- „. nò auxerint, licei imprxfen- „
tiarurn negant , & compri- „ mane , cxpedtantes tempus . „
vindidlx: Itaque cogiraverit », SandlirasSua comprimere eos,
» Se ad illum terminum redige- ,» re, quod non liceat plus
eis „ inSandlitat.Suam,quàmfiui-| » timos fuos, Se quam juftum fit
. | >, Et cùm Nos, & Scr. Rex j n Angli*, & Ci. mcm.
olimj n Rex Arngonumid apertd pcr-l « fpiceremus , fapienter
cogita- j „ vimus de una confxderatio- ' », ne ad inumani
defenfionem ! », ad inviccm, Se etiam offèa-J ,3 fionem
cantra eofdem Gallos, ,, etiam crat Lex imer Nos , Se », ipfos
conclufa : fed morte ,3 ipfius clar. mera. Regis Ara- „ gonum
dilata. Se interrupta I ,» eft •, fed tamen cùm ex hoc „ pcticulum
> ncc fublatum » ,3 ncc diminutura» immò nia- „ ximcaudtum fit,
vidccurNo- „ bis omnino in eadem dclibc- „ tatione perfiftendum, Se
ro- », gamus Beat. Pontificis ut , confiderata nccdlitate
hujus> 3, rei, vclit fpfà quidem intra. 3 , re foedus hoc,. Se
tranfmitte- 3 , re mandatum fuum apud Scr. Regfm Angli* » ut
ibidem ». contradletur» Se conciudatuu » Efficiamus autem , quod
in. „ locum Clar. mcm. Regjs dc- ,» fundìi fuccedar Se r.
Carolus ,, Rex Hifpaniarum , Se qui „ quidem in ca te
proficerc poterir, idem Orator admo- „ ncbit Nos. Agct autem
di- ,» dus Orator, tee. „ Dar. iu Civitare noftr* „
Tridentina die odiava ,, Menfis Marti] MDXVI. „ Regni noflri
Romani „ triccfimo ptimex. ,, Locus 4 . Sigilli . Ad
Mandatum Ccfa- „ re* Majcflatis prò. „ prium ]o. de
B&- », KL'ljjS- i n O. 12 poco alla preferite materia
confacente) pensò in- di a poco tempo di occuparlo in altri impieghi
• In fatti l’anno ftefso, che fu il lo inviò fuo Nunzio alla
Repubblica di Venezia per maneggiar forfè 1 affare della Crociata contro
a Selim Gran-Signor de Turchi , la quale gli flava molto in fui
cuore. Nel tempo di quella lua ambafeeria trovò il Tr issino?
che le Comunità, di cui s’è fatta men- zione, pagata aveano 3I Fifco
Pubblico la rendita della fua porzione delle Decime fopraddette;
ne- gando in oltre coftoro di riconofccrne lui per Si- gnore:
laonde egli ebbe novamente ricorfo alla Si- gnoria di Venezia, la quale
fubito con fue lettere in data de’xvu f. Dicembre 15 itf. commife ai
Ret- tori di Vicenza ( che in quel tempo erano Er- molao Donato,
Podeftà , e Girolamo Pefaro > Capitano') che nel pofsefso dello Decime
flefse lo riponefsero, come lo era innanzi la pafsata guerra (39).
Dalle quali lettere ebbe poi co- mincia- Lo dice il Tri
ss imo Hello nella Tua Aringa, d me- glio nella lettera al Prete
di Cragmtol a con quelle parole : Sua Beatitudine mi mandò
.... Legato a Venezia, ovt fui molto ben veduto da quella Jlluflr :
f. Signoria . Al Papa quello affare premeva si, che perciò
maneg-j giòj c tlabilì una lega tra mol- j | ti Principi
Crifliani ; ma por ■ per la morte di Maffimiliano li difciolfc, e
di sì alta e pia im- presi fvant 1’ effetto defidera* to.
MTr issino in pro- pofito di ciò nella fua Aringa dice cosi :
Per effer abfente la mia facoltà fu tolta nel Fifcho ; & detti
Comuni però , quantunque ritmtjfero tutte le farti di que-
fic D. 2.J tro Bembo, fuo Segretario, la quale
opportuno crediamo di qui trafcrivere. JO: GEORGIO
TRISS1NO y I C 1 H X I 11 o. ,, Cationi am opera, &
diligentia tua , atquc „ virtute certis in meis, & Reip. rebus uri
quam- „ plurimum volo, quarum rerum caufa, te ut » alloquar,
magnoperè oportet: mando tibi, ut quod tuo comodo fiet, Leonardo
Lauredano „ Principe Venetiarum falutato , ad me confe- „
ftim revertare. ,, Dat. Non. Januarii M. D. XVII. Anno „
quarto. Roma. Andovvi egli prettamente, niente penfando, che
perciò iettar dovette in pendente l’efito del- la Tua lite. Non lappiamo
precifamente a che il Papa lo aveffe richiamato a Roma: del retto
non molto egli quivi dimorò, perciocché nello ftef-' io anno 1517.
ritornò a Venezia-, e fé fi vuol dar fede a Paolo Beni, xitornovvi anche
a que- lla volta come Nuncio Apoftolico per trattare di ftabilire
una lega contra 1 Imperio de’ Tur- chi (41) . Vero è tuttavia', che il
Papa in tale • ; occafio- (40) Quella lettera fi legge '
Simonìe Vinctntii fin fine ) Dù- ncl libro intitolato : Ferri Bembi ,
niftus ab Harfioexrndebat Lugdu • EfiftoUrnm Ltonis Decimi Ton- j ni. ! r
I 11 . in 8 ed è tif. Max. nomine fcriptarum Li- ! la 35. del lib. xlll.
pag. bri xvi. Ledimi apud Hercdts \ Paolo Beni nel T ratent. L a
Vita occafione inviò per lofteflò Tr issino una let- tera al
Doge Leonardo Loredano, dalla quale appare, che egli avea a trattare col
Doge a no- me della -Santità Sua cofe di fomma importanza: la qual
lettera non vogliamo lafciare parimente di qui traferivere, ed è la
feguente (42). Leonardo lauredano Principi
Venetiarum. ,, IP Roficifcenti Venetias Jo:Georgio
TrissinoVì* 5, centino; quem quidem propter bonarum artium „
do&rinam , & politiores literas , excellentem- >, que virtutem
unicè diligo; mandavi, ut tibi „ falutem nuntiaret mcis verbis; tecumque
cer- tis de rebus ageret, quae cùm mihi cordi flint, „ tùm noftra
utriufque intereft ea confieri : tibi „ vero edam hone fiati,
atquegloriae funt futura- „ Dat. prid. Non. Septemb. Anno quarto .
■jj Ronitif Non oftante che in tanti e si diverfi
negozj notò del titolo di Legato ApoA (4») Quella lettera fi
legge Jlolico inviandolo a Adajpmilia-ìahicsì nel citato libro delle
Lct- no Cefare. Ritiratofi alla Pa- 1 tere fcrittc a nome di
PapaLio- tria, fa di nuovo chiamato a &>-I nc dal Bembo, lib. XI
II. ma nel principio dell' anno IJ17. ; 16. pag. jiy. Ciovangiorgio
occupato forte, avea condotta* a fine la fbprammentovata Tua Tragedia
della So- fonìsbti y cui ( dopo eflere flato lungamente in for- fè
y come dice egli fteflo nella Dedicatoria) in- dirizzò al luddetto
Pontefice con lettera , che in poi flampata colla ftefla Tragedia l'anno
152^ in Roma. Leone gradì fommamente qucfto com- ponimento r e
ficcomc egli era giudiciofiflìmo e. fapientiflìmo letterato , ne fece
tanta. Rima, che volle forte con reale magnificenza, e con tutto lo
sfoggio degno di se rapprefentata (43 K Non può negarli, che il Tr issi
no non ab- bia comporta quella Tragedia con tutto lo sfor- zo
dell’ingegno fuo; perchè quanto al Suggct- to, fcelto avendo l’
avvenimento funefto di So- fonisba Regina di Cartagine r fi fece
conokcrc giudiciofo sì, che per teftimonianza di Nic- D
colò Di ciò veramente altra !»» mationibus adjudicarus fuit.-
ficura pruova addurre non pof- j Benché dalle infraferitre pa- camo, fuor
folamente la fama role , che Giovanni Rucellai ag- c la tradizione, che
fe ne hn; | giunfc in fine della fopraccitata e in oltre l’ aurorità ( fe
pur va- j fua lettera al Trmsino fogna- le) dclTommafini, il quale ne. |
ta addi 8. Novembre 1515. di gli Elogi, pag. 50., cosi lafci b- yiterbo ,
fi potrebbe ancora con- ferino :■ » Summa duksdine , I ghietturar quello
fatto. Abbiate „ Se majeftatis pondero calami - 1 a mente ( dice egli )
Sophonitb. 1 „ rofum Sophonisbi Regine voflra , che forfè Phalijco
fari evtntum drnmatc exprcfiit .'ratto fuo in qutfla venuta del „
Quod cùtn Leone X- li cera.- j Papa a Fiorenza . ,, rum Moecenatc
benignifiìmo I Difcorfi intorno
alla „ in Scenam magno apparata T rag* dì a . /n P’icenz.a ,
appreffo „ eficc projuitum, primus illc Giorgio Greco. in 8 . c.
14» „ Italia: puòiicis lauree accia, [a tergo che (non oftante che ad
alcuni quefto compo- nimento non -fia perfettamente piaciuto, come
vedremo) elfo fu ftimatiflìmo, e non fidamente vivente il fuo Autore, ma
appreffo fua morte, e d’ogni tempo r e i noftri Accademici Olimpi-
ci elfo feelfero a rapprefentare l’anno 1562. nel- la Sala del Palazzo
della Ragione in occafione di provare il modello del famofo Teatro
Olim- pico di Andrea Palladio ( 45 ); e ciò fecero con sì ricca
magnificenza , che, fecondo che dice Jacopo Marzari 1 , vi ccncorft quafi tutta la
Nobil m (45) Il Sig. Marchefe Maffci',» rem Siphaci». filiam
Afdru- nei preambolo a quella Trage-j„ bali», captam Satina adama-
dia riftampnea uri primo tomo „ vie, & nuptiis fa&is nxorerrt del
Tuo T entro Italiano, che d-|„ babuit ; caftigatufque a Scr- 1 tremo a
fuo luogo, dice intorno J „ pione » venenum tranfmific* al Soggetto di
dia, che chi leg- „ quo quidem baufto illa de- gerà il trtnttjìmo libro
di T . Li- [ ,, ceflir . vio , ravviferà y come ninna fe\ ( 46 ) Di
quella notizia ci con- n' è fatta mai , che fervafft fi* ( fediamo
unicamente debitori al fide all' iftoria , e che jì nel S ig. Abate D.
Bartolommeo Zi- tnttoy come nelle farti fi* infi- grotti , femprc intento
a cercali fiejfe in effa : aggiugnendo, che nuove cofc, onde ampliare
la le fcgucnci foche farole dell ’ . fua bell’ Opera delle Memorie
antico Efitomatore fremevo ne , del detto Teatro. ffiegano i' argomento a
ba]l alila : ( 47 ) Jft orla di Pie enza CC. u Macinili.»
Sophooiibam , uxo- | In Piceni,* > affreffo Giorgio Qn-
Nobiltà dell* Lombardia , e delU Marca Trevigiana . E da
Manofcritti dell’Accademia Olimpica fi viene anche in chiaro, non
(blamente effere fiata ella Tragedia l’anno fuddetto 15 61.
magnificamente rapprefentata» ma tale e tanta efsere fiata la ma.
gnificema , che alcuni Accademici penfarono non doverfi mai più fare tali
fontuofe rapprc- fentazioni, temendo, che l’Accademia non fof- fe
per riportarne mai più lode e ftima si univer- fale. Ma gli altri più
giudiciofi Accademici a sì fatto penfamento non aflfendrono; laonde
meglio penfata quefta faccenda, e gravemente pondera- ta, tutti in
fine conchiufero, (e ciò fu l’anno I57P-) che moderata in buona parte la
fpefa, fi dovettero pure dall’Accademia fare tali pubbliche
i-apprefentanze . E’n fatti a’X. d'Agofto dello fletto anno fu ordinato ,
doverfi fare feelta d* Lina Favola PajìoraU da recitarli pubblicamente
nel Carnovale dell'anno appretto 1580. (48): ben- ché per altro
fotte differito il recitarla ad altro tempo. Di Ma ri-
Greco , 1604. in 8. lib. 1. a ferratori delle Leggi, Contradi -
Cai. 160. c 161. 'centi. A: adertici, & Secretar j Per ripruova
di ciò G deli' Ac adorni* delti Olimpici , vuol qui traferivere intero
in- \& delle Parti prefe nel Configli» tero l’atto deli’ Accademia ,
che di ejfa Academia. Qual inco - fi legge \m un Litro manoferit- ,
mincia adi 3. Maigio 1 579. An- ta pteJTo di me, Legnato » c no terno
della fejfa Olimpiade intitolato; Libro delle Crtatio- 'fino 7. Aprile
1581. L’Atto è r-tdc Prencipi,Confalicri t Con- \ quello . j> Adi X.
Agofto 1 5 79. In Cou- Ma ripigliando il lafciato filo,
eflendo morto l'anno 152,1. addì 2. di Dicembre il lodato Pon-
tefice Leone X.., il quale? come s'è veduto, Sommamente amo il Tris si
no, e ne fece moltif- fima ftima ( anzi fu detto per alcuni , come
ri- ferisce , Coniglio , dove inrervencro » il Sign.
Prencipe , Conlìglic- •99 ri doi , cioè il Sign Hicroni- >, mo
Schio follituto per il Sign. ,, Marco Brogia, & ilSign. Fau-
>9 fio Macchiavelli, il Teforic- 9, ro contraddente foflituco,
il „ Cavalicr CriHoforo Barbaran per nome del Co. Leonardo M
Tiene, & il Sign. Antonio Ca- „ mozza confervator delle Lcg- gì
foftituito per il Sign. Antp- nio Maria Angiolcllo , con ,, aie
Secretano; in tutti al nu- mero di 14. ,, Par che, la
rapprefentazio- ,, ne della Sofonisba Tragedia .*, dell’ Eccellerli
ifT. Sign. Ciò: ,9 Giorgio Trjssino già no- ,, flro Patricio.
„ pel Palazzo publico per la rip- „ feita Tua non purcon fodisfa- „
tione, ma con meraviglia di 9, chi ne furono fpettatori, hab- .9,
bia caufato fin fiora in quell’ Accademia un quali continuo 9,
filentio a fpcitacoli publici, „ come che potendoli diflficilmente
fperare più da lei im- „ prete tanto illuBri,fofire meglio 9, per
non declinare non rcetterfi » più a veruna anione tale peri’
avvenire . Ma certamente cf- 99 fendo l’Acadcmia noflra fon-
9, data fopra i continui cfercizf ,9 virtuofi, &c dalFclperienza
di ,9 molti anni, elfendo già co- ,, nofeiuta tale, che può fpcra-
9, re fempre d’ operare fe non ,9 cqfc uguali 9 almeno degne di 99
fe mede lima, & della Patria j 99 non deve da quello .troppo ,9
fevero rifpctto lafciarfi impe- 99 dir quel sì lodevol corto, a 99
cui dal genio > dallo (limolo 9, virtuofo, dal debito della pro-
,t feflìone, dal defiderio, & dall’ « afpettatione altrui lì
fenteee- „ citata. Laonde andari Parte* „ che quello
proffitnocarnafcia- le venturo lia recitata publi- „ camente a Cafa
dell’ Acadc- 9, mia con quella minor fpefa, ,9 clic fia poflìbilc,
atccfa Isde- 9, gnità, una Favola Ptjlor ale , „ come cofa nuova
& non più „ fatta fin’ ora da quell’ Acad. „ quelii cioè 9 che
farà eletta „ dal Sign. Prencipe nolìro, & da „ 4. Acadcmici ,
che per quello „ CanGglio faranno a tal cari- ,9 co deputati, i
quali habbiano „ ancoinfieme cura d’informar- » lì da perfone
perite della fpefa , 9, che vi potrà andare, acciochè ,, fi porta
f.\r la provi (ione dei den». ferifce Ciò vanni Imperiali (4 9 ),
che efso volea conferirgli il -Cardinalato-» ma che da lui fu ri-
cufato per poter nuovamente prender moglie ) a cui fuccedette Adriano VI.
; il noftro G10- •vangiorgjo fece da Roma a Vicenza ritor- no •
Quivi attendendo à’fuoi ftudj , e fpecial- mentc alla Poefia, compofe tra
le altre cofe una Canzone in loda d’ Ifabella Marchefa di Man- tova
, a cui mandolla, ed ella poi ne lo -a» denaro io
tempo, & dar prin- ” cjpio ad imprcfa cosi hono- ,, rata ,
rifervata poi la elettio- •'»» nc di Accademici , coni’ », è
detto di /òpra , la qual paf- » sò di tutti i voti. »>
l'or ballottati i fottoferitti. »> 11 Sign. Paulo-Cihiapino
. • -• • • « . . prò 1 1. 3. »9 -II Sign. Criftofano
Darbaran .Cavai ier .... prò p. 4. »» 11 Co. Leonardo Thiene
. prò 8. 5. » Il Sign. Hicronimo Schio prò io.
3. -9, Il Sign. Antonio Maria 9» Angiolello . . prò ri.
1. »» 11 Sign. Alfonfo Ragona ■ * • • ..... j>ro 16.
Rimate il Sign. Paulo Chi*- », pino, il Cavalier Barbarano, „ il
Sign. Hieronimo Schio, & „ il Sign. Antonio Maria An- ,,
giolcUo » come fuperiori di ,, voti. Mufeum Hifloricum
8cc. pag. 43.,, Munito libi ad Leo- „ nis X. gratiamaditu,
infplcn- „ didiflìmo Mularum & virtù» ,, tum atrio fic vixit,
ut Non- „ nulli delatum fibi purpurar ho- „ norem prolis gratia
rejc&utn ,, ab ipfo prodiderint. Da alcune Lettere man
uteri t« te del Tris si no appare vera- mente, avergli voluto il
Papa varie ecclefiadiche Dignità con- ferire, che ivi non fi
fpecifica- no, e che tutte da lui furono ricuf.ite. (jo
) Quella Principefla fu fi- gliuola d’ Eccole I. Duca di Fer- rara,
cd è quella ideila , cui tanto efalta il nodro Autore nc’ Ritratti
- lo ringraziò con Tua lettera in data di Mantova del dì ics.; e
l'anno ap- preso 1522. addì 1 9. di Luglio gli fcriflc pur da
Mantova un* altra Lettera (52) , pregandolo, che volefle a fuo agio colà
andare dov ella era, perchè diGderava fornai amente di vederlo non
tanto per godere e gufi gre U amenità dell’ ingegni , e dottrina
fu* y ma perchè volea, che nelle fcienze e nelle lettere ammaetìxafle
Ercole fuo figliuo- lo» da che fegno dava di buona docilità, e di
buon ingegno, e d’eflere allo Audio letterario mirabilmente inclinato i
pregandolo in fine, che pel mcfso a polla mandatogli volefse farla
av- viata del tempo della fua andata, acciocché lo poteJGfe
afpettare; noi per altro non abbiamo fi- cura contezza, s’egii v’andafse.
Sappiamo ben- sì» che l’anno apprefso 1523. addì 20. di Mag- gio
efsendo flato eletto a Doge di Venezia Andrea Grilli, di glori ofiflìma
memoria (53)» ( 5 1 ) Quella Lettera c Rampata San Francefco della
Vigna di nella citata Prefazione alle Opere , Venezia entro un fuperbo
depo- dcl noftro Autore a car.xvm. fito, fopra cui fu fcolpitoquc-
( ji) Anche quella Lettera Ito .Epitafio: • Ha nella fuddetta
Prefazione, a Andre* dritto , Duci Opti - car. in. | mo , & Reipub.
Amantijfimo , pa- ( 53 ) Non folanicnve nelle (ij terra, mari^hepart*
A*&*- ftorie di Venezia, ma in altre ri, ac Veneti terejìris
imperli ancora fi poflono leggere le ge- Vindici, & Conferva! ori,
Ha- fte di sì invitto e gloriofo Pria- rcdtt pientiffmi . Vixit A»,
cipe, che mori dcì 1538. in eràLXxxui. Mtnf. vili. Dici xt, di anni 83.,
e fu feppcllito in; Lecejpt V Cai. 3
r ed efscndo cortume di que* tempi, che le Città fuddite mandafsero
Oratori a congratularli col Principe eletto , fu dalla noftra Patria a
ta- le uffizio feelto il T rissino, unitamente con due altri
ragguardevoli Cittadini (54^ il quale avendo comporta perciò una elegante
Orazione jn lingua Italiana, in pien Collegio allo ftefso Doge la
recitò \ della quale orazione , che fi leg* ge tra quelte raccolte dal
Sanfovino (55}, e che fu anche più volte rift. rapata, favelleremo
afuo luogo. Nell'anno medefimo 1523. a dì 19. di No-
vembre efscndo flato afsunto al Pontificato il Cardinale Giulio de’
Medici, col nome di Cle- mente VII., il quale (come già fi è detto)
ama- va grandemente il noftro Trissinov quertri una lettera gli
fcrifse di congratulazione (e forfè al- lora medefimo gl'inviò la Canzone
(56), che fece in fua lode ) facendogliela confegnare in proprie
mani pel Cardinale Giovanni Salviati , fuo ( J 4 )
Quefti furono Aurelio dai!’ Acqua, e Piero Valmarana amendue
gentiluomini Vienici- j ni. Oraziani di Divtrfi
Huotnini Jlluftri raccolte da Franctfca Sanfovino , in Pene- zia
per AltobeUa S alleato . . in 4. Pait. 1. a car. 1 jy. ! Qucfta
C tenzone ( che fu j {Unipara da prima in Penezja j per T
olomeo Janicolo da Bref~ fa, in 4., fenz’anno; c poi it- Rampata
più volte come in fi. ne fi dirà) comincia cosi. SIGNOR , che
fofii eterna- mente elette Nel Conjìglio Divi n per il
governa De la fua fianca e trava- sata nave ; Or
thè novellamente ec. fuo amici filmo , a cui mandolla con
altra Tua letrcra. Aggradì Clemente la officiofità di Gio- va n
giorni o sì fattamente, che, dopo aver let- ta con molta giocondità
d’animo la pillola di lui ordinò- allo ftefso Cardinale , che gli
fpedifsc tolto un fuo Breve, col quale lo chiamava a Roma ( 57)
Tenendo egli lo invito del Papa r fi partì lubito , di confenfo eziandio
della Si- gnoria. Affinchè meglio appa-j ja la verità' di
quante s’è ora detto, vogliamo qui traferi vere la Lettera del
fuddetto Cardi- nale ferina al Trksino, entro cui tirandogli il
Brtve del. Pontefice } cd è quella. „ Magnifice Aniice, &
tan* quam Frater Garifllme. „ Io era ctrtiffimo della „
molta allegrezza di V. S. pei „ la felice affunpuone della „
Santità di Nollro Signore, ,, come fe preferite mi fulTì „ che
mi Benderei molto più,. „ fe- non fuffi certillìmo, che „ la S.V.
per fc medefima lo - „ cognofce. Del bene, & fc- ,» licita mia
non le voglio di- ,, re altro , fenonchè quanto* »> più farà ,
di tanto più qucl- » la potrà a-ogni fuo benepla- „ cito difporre;
& quanto nc ,, difporrà più , farò io tanto 1 „ più contento .
La Lettera- » fua detti in mano propria » di fua Santità, là quale
con >, fornirlo piacere la lede : &c „ flato, come quello,
che al- j » più mi diflcndOrci intorno ,, cuno non cognofccvo, clic'»»
aqucllo» che amortvolmen» ,, più meritamente fe ne do-j», tc mi rifpofe ,
fe Sua Beati* „ vedi rallegrare; perchè la-'» tudine con uno Breve
( il „ feiamo Bare lo univerfal be* [ ,» quale con quella fari)
non- „ ne, che tutta la Criftianità | ,, avelie ordinato di
rifponde- „ ne afpetta, &: quali mani fe- », te- alla S.V. , la quale
cec- ,, (lamento ne vede » il che », tifico , che fetnpre che ver-tutti
e buoni & virtuofi , 1 », rà, farà vcdutadaSua-Bea- „ come è V. S.
debbono fom- ■„ titudine come dolciilimo; ,, mamente deftderarc; chi più
j»- amico; & da me come dol- ,, di G-i anc! orcio è da ,, ci (Timo
fratello; &• a quella» „ fua Beatitudine amato ? ! « mi offero. Se
raccomando.. „ Chi più di lui fc ne può , Roma XI. Decembris
Mdxxiii. „ ogni cofa promettere ì In j ,, lo. Cardin.dc Salviate ,,
Quc- gnoria di Venezia (58 ); e giunto a Roma fu da
Clemente accolto con fegni di ftraordinario affetto , e apprefso anche fu
deftinato a rag- guardevoli impieghi, come diremo più fotto.
Ma avendo egli intanto fatto pubblicare nel Luglio dell’anno 1524.
colle ftampe di Roma la fua Tragedia, pensò di dar fuora nuove cofe
a -utilità della noftra favella; e però fcarfo paren- dogli
l’Italiano alfabeto di caratteri atti a figni- fìcare tutti i varj fuoni
delle voci , inventonne di nuovi , o a dir di più vero , ne tolfe
alcuni dall’alfabeto Greco , e all’ Italiano proccurò di
aggiungerli. Ma non tenendofi pago di aver ciò nelle propie fcritture
ufato , diftefe nel Dicem- .bre dello fteffo anno 1524. cotale fuo
penfa- mento in una lettera al predetto Pontefice inti- tolata
^59). Circa il principio del Secolo XVI. vi fu ve- ramente
nell’ Accademia di Siena chi avvisò di aggiugnere all’alfabeto Tofcano
alcuni Elemcn* E ti per Quella lettera fu flampata a
\fubito mi fcrifft uno Brieve , ri- car. xv ir. deila Prefazione alle j
cercandomi che io dovtfft andar Opere del Tr issi no più voi- a Berna-,
& io con il confenfo , te citata . I (he d'Jft fuori
fìmil pcnfìcro. Gli venne non per tanto fallita in buona parte quella fua
bella intenzione (come chiamolla l'Abate Anton Maria Salvini di
chiariflìma ricordanza): imperocché ol- tre allo avere egli fteflo a
rovefeio, e non nel- la dovuta maniera, ufate da prima le nuove
let- tere, e così per lo modo del linguaggio Lom- bardo indicando
falfa pronunzia , ebbe più loda- tori, che feguaci, come accenna Giovanni
Im- periali y del quale errore
avvedutotene poi egli Hello n € Dubbj Grama ricali , ftampati
appref* fo a difefa del fuo ritrovamento? fe ne amrnen* dò
U3), Da Corr.ment. all' ]ftoria\ della Polgar
Poefìa-, Vol.i.Lib.vi. ; a car. 408. della ediz. di Venezia . j Fra
l’ altre Lettere dal Tris- sino tolte dal Greco alfabeto , ! due
fono più offervabili, cioè Fi, ci’ a, Pro/e Tofane, Par.
1, Lcz.xxxi. a car.i9i. dcH’cdizio- ne di Firenze, apprejfo
O'infep- pe Manni , 1735. in 4. (Mufaum Hi/ioric. pag.
4Z.„ Rem paritcr molitus per- „ arduam, charaftercs Graecos „
noflris immifeendi litetis ad i » varios fonos aptius fignifi-j
candos, ut repente multosad » fui vel laudem , vel iurgi*
„ traxit Reclamante Do- „ ètorum ccetu , quod in tan-
»> tis dodtrinarum momcntis, ,, monftruofa elemcntorum no- „
vitate animos haudquaquam „ turbandos putaverint. (63)
Protelìa egli in quefti Dubbi d’avere aggiunte le det- te Lettere
al noftro alfabeto a fine folamcntc di giovare agli ftudiofi della
noftra lingua; c foggiugne, che non tralafcerà^ fuo potere coti
bello , e coti no- bile injlituto : ringraziando i fuoi riprenfori
, come quelli , che per lo avergli fcritto contro d’O.. Da alcuni
Scrittori fu il noftro Autore per tal sua invenzione rigidamente
appuntato; e prima da Lodovico Martelli? Fiorentino, il quale manda fuori
una Rìspofta all’Epì fi ola d’O. delle Lettere nuovamente aggiunte alla
Lìngua volga - te Fiorentina (64); nella quale s' ingegnò di ino-
ltrare, che vana era Hata, ed inutile la di lui invenzione , allegando
fpezialmente , che non doveaA punto alterare la maniera dell'antico
fcri- vere Tofcano. Indi comparve Agnolo Firenzuo- la, Monaco
Vallombrofano, il quale oppofe ad O. tra l’ altre cofe, che poco lodevole tra
, e poco ncieffario , e infofficiente lo aggingnìmtnto del- le
nuove Lettere al fcmpliciffimo alfabeto Tofcano , per- ette con effe gli
fi toglieva la fua naturai femplicità. In quella fua opera il
Firenzuola trapafsò per verità i limiti di quella moddtia , con cui
fi vantò nel principio di voler riprendere la inven- zione del
Trissino, perchè fì moftrò nel fuo dire alquanto appallìonato , non
curandofi di ap- parir tale ancora nel frontifpizio, taccian-
E i . dolo tro furon cagione» che fi fa- 1 nell’ Eloquenza
Italiana ec..... ce (Te paltfe la natura, t la uti- \ In Venezia appreffo
Criftofor » lità di effe lettere. Zane . c.ir. 27J. Nell' Non
dille il Tu 1 s s r- Operetta del Martelli, chcè in 4. no d’aggiugner le
nuove Let - 1 non v’ha il fuo nome, nèqucl- tere alla lingua volgare
Fioren- lo dello ftamparore , nè l’anno; tina, come avvisò il Martelli; 1
nel fine però fi legge pompata in ma alla lingua Italiana r il che Fierenzji
. fu notato anche dal Montanini ! (Quell’ Opera c così in-
filo- Ddolo in fine d’ufurpatore degli altrui
ritrovamen- ti, con dire, che prima d’efia e l’Accademia Sanefe
aveva avuti limili penfieri, e alcuni gio- vani Fiorentini pi» per e fcr
citare i loro ingegni , che per metterla in Optra della medefima imprefa
par- lato aveano ; i ragionamenti de’ quali efsendo fiati naf cefi
amente uditi dal T rissino, da eflo poi co- me ftto proprio trovato fenza
far di loro alcuna men- zione , furono meli! in luce ( ) .
Finalmente Claudio Tolomei, fiotto nome di Adriano Tranci ,
ftampò egli ancora un libro l’opra quella mate- ria, e lo intitolò U
volito, Rifpofe il Tr issino a’ Tuoi Oppòfitori colla
fuddetta opera de’ Dubbj Gramatìcali j ed anche col Dialogo intitolato il
c aftcllano , e molto bene fi difefe -, ma non fu fiolo in ciò, che anche
Vin- cenzio titolata : Difcacciamento delle nuove
Lettere inutilmente ag- giunte nella Lingua Tofana ; fenza
efprcflìone di luogo , c di ftampatorc. Trovali anche tra le Prtfe
del Firenzuola ifteflo a car. 306. della edizione di Fio- renza ,
apprejfo Lorenzo Tor- rentino, mdlii. in 8. Fu poi al- tre volte
riftampata, ed ezian- dio nel Tom. 2. delle Opere dei Tr issino
della edizione di Verona. Non può negarfi » che l’Accademia di
Siena non avvi- litile ella prima, che O. pubblicane la fua Lettera , di
aggiugncrc ( come già dicemmo ) nuovi elementi al noftro alfabeto;
ma che egli fi valeflc interamente di quello di lei penfiero, come
dille il Fi- renzuola, non è da credere , che troppa ingiuria fi
farebbe al fuo gran nome. E ’n fatti il Varchi nell’ Ercolano dell’
ulti- ma edizione di Padova , apprej- fo il Cornino, 1744. in 8. a
car. 468., dice avere il Firenzuola ferino contra il T
rissino piuttofto in burla , e per giuoco , che gravemente , e da
dover 0. La (lampa di quell’ O- pera fu fatta in Roma , per
Lo- dovico Digitized by Google DEI Trissino.
37 cenzio Oreadino da Perugia flampar volle a di fefa del di lui
ritrovamento un dotto latino opufculo, il quale eflendo flato per lungo
tem- po fmarrito, fu ritrovato per diligenza del Sig. Marchefe
Maffei, che Io fece ritlampare nel to- mo fecondo delle Opere del
medefimo noftro Autore per lui raccolte (tf8). Che
dovico Vicentino i j 30. in 4. Ve- vifato dall' Accademia Sane/e *
di fopra di ciò il Foncanini nel- per quel che fcrive il Firenzuo- la
Eloquenza Italiana , a car. la nel Trattateli del Difcac- . ciamento delle
Lettere , impref- 11 Crefcimbeni nc’ Commenta- fo tra le fue Profe.
Tutto ciò rj al! Jffor. della Volg.Poef. Tom. abbiamo noi voluto riferire
, r. lib. vi. a car. 408. dice, che acciocché (ì vegga quanto po-
pcrché andò r Accademia indù- co a ragione fia (lato il Tris- giando di
pubblicare lì fatto av- sino dal Firenzuola tacciato di vifo,
Giovanciorgio Trissiwo ufurpatore. La qual cofa più fu il primo che de ff
e fuori un fi- evidentemente appare in riflcc- mil penfiero : indi regiftra
FAI- tendo, che O. avea fabeto Italiano coi caratteri dal già medi in
opera i Tuoi carat- Tr issino aggiunti , che è ceri anche prima di dar
fuori quefto; abcdtfgche gh j quello fuo penfamento ; cioè
kiljmnopqrustfu nella Sofonitba , fcritta , e far. z v q x 7 th ph h: e
poi dice I ta leggere, come dicemmo, fot- cosi: In quel medefimo torno ,
0 to il Pontificato di Leone X.lad- poco dopo, M. Claudio T olotr.ei dove
folamente nel principio del non gli parendo, tra l’ altre co - Secolo
XVI., come dice ilcita- fe , buono il penfier del Tris- to Crefcimbeni ,
1 ’ Accademia sino, ritrovò un'altra manie- diSiena avvisò lo
aggiugnimcn- ra, togliendo la forma de'Ca- \ to di nuovi caratteri.
rat ieri, che avevano a duppli- ( 68 ) Il fuddetto Opufcolo carfi, dagli
fi effi caratteri del no- dell’ Oreadino in detta riftampa fico alfabeto
, Cime appare dall' è cosi intitolato : Vincentii Orca- alfabeto , che fiegue
: a (T c d dini Perufini Oprfeulum , in ecf^gh lilmneopqr 1 quo agit
utrum adjcìtio no va rum sftv-t/uz z . E quefio | litter aratri Italica
Lingua all- (foggiugne il Crefcimbeni) noi quam utilitatem peperit :
Ad crediamo, che fia l’ alfabeto av-^Thomam Severum de Alphamt
Vi- Che alquanti dementi di greco alfabeto prendere egli per
aggiungerli al nostro italiano, non era certamente per mio avvifo quella
fconvcne- lezza, che gli antidetti Scrittori (69) credetter- fi>
condolila cola (come già notò il foprammen- tovato Abate Salvini che
l’Italiano alfa- beto fia ftato altresì di parecchi altri caratteri
Greci formato. Tuttavia non riufcì affatto inu- tile il di lui
penfamentoi perchè due delle nuo- ve Lettere da lui propofte, cioè H, e
Kv con- fonanti, veggonfì oggidì univerfalmente abbrac- ciate dagli
Scrittori, anche Fiorentini, come ne- celfarie a torre ogni equivoco
delle voci: onde a ragione diflc il predetto Signor Marchefe Maf-
fei (70j che * Luì » han» obligo’ le Jlampe dì tut- ta C Italia , che le
u fatto perpetuamente . Laonde non bene fi appofe il celebre Signor
Domenico Ma- ria Manni , Letterato per altro eruditismo , e
dìgniflì- Virum eruditijpmum , & Cenci- I la noftra
lingua habbia bi fogno/ vcm Optimum . Girolamo Ru- 1 delle Lettere
aggiunte dal DRts- ccllai nelle fue note all’ Orlon- sino, & dal
Tolomei cc. doFuriofo dell’Ariofto della cdi-| Cioè il Tolomei, e
zionc di Penez.ia > aM re J[° ] Firenzuola nelle Opere loprac- Eredi
di rinccnz.io Talgrìfio , ' cerniate.. . a car. il. facendo! (7°) Profe
Tofcane , In Ft- un’ ofT.rvazionc gramaxicale fo - rence , nella
Stamperia diS.f. pra la voce corrò ( accorciato A. -per I Guiduecit e
Franchi » dal verbo coglierò) con cui l’A- 17 2 5 « 4 * P ar * P 1 * 012
Acz. liofto comincia la danza 5 8.
del ; a car. 523. primo canto*, dice cosi : Et in j lucila Prefaz. alle
Ope- qutjtt tai voti Ji cottofee quanto , re del noftro Autore a
car.xxx. dignifTimo Accademico Fiorentino > in dicendo nelle ,
fue Lezioni di Lingua T ofeana j che 1 ’ / confonante i cioè quello , che
j lungo fi appella , conte trovato dal T RISSINO , e da Daniello Bar t
olì po/lo in ufo , non è ricevuto da per tutto : e pure egli ftefio
Io usò nelle medefime Tue Lezioni (73)* Mon- fignor Fontaninij da
cui fu UTrlssino chiama- to (72) In Firenze 1737. nella]
sintonie Muratori , legnata dì Stamperia di Pietro Gaetano ,
Venezia li 12. Marzo 1701; fì- Viviani. in8. a car. 43. 1 gnificandogli
la allora frefea e- Bene è vero, che l’ufo I dizione delle Poche degli
anti- di quello j lungo , o fia con - 1 detti d*ue poeti Vicentini,
dif- fonance , ritrovato dal T r i s- 1 fc , avere quelli in dette
loro sino, fcfu abbracciato univcr. poefic pretefo di ravvivare l’
or- falmente nel plurale de’ nomi , I 1 agrafia fcrupolofa del
vecchio che nel numero del meno fini- Lr Trijftno , ftnza però
quelli f cono in io di due fillabe , in epfilon , e quegli omega , co'
qua- cui Vi non lìa gravato dall’ ac- li voleva imbrogliare iinejlro
al- enato, come vizio t vario , eli- fabeto Italiano. Colle quali
pa- mili, i quali nel maggior nu- ! cole troppo veramente difprez-
mcro più rettamente il ferivo- jzòe quelli poeti, e la buona vo- no col
detto j lungo in ifcam-llontà del Trillino, la quale, co- bio de’ due ir,
come a dir vime è delio, non riufeì affatto zj , varj ; fu rifiutato l’
ufario do- I inutile , vcggendoli abbraccia- po l’L in luogo del G c
dell* E | te dall' Accademia medefim* nella voce EGLI, c in luogo del |
della Grufca le due fopraddettc G nell’articolo GLI, feri vendo ; Lettere
J, e F* confonanti , come LJI, come fece fempre il Trissi- ' fi può
vedere nel fuo Focabola- no. La qual maniera di fcrivere fu I rio alla
lettera I. §. xi.j e alla poifeguitata, ma con poca lode, j Lettera F. La
lettera poi delZe- da Andrea Marana, e da Antonio no è Hata ultimamente
pubbli- Bergamini, amendue di Vicen- cara in un coU’ altre lue
erudi- za, uomini per altro di lette- 1 udirne lettere in tre Volumi,
ed ratura Italiana, Latina, e Gre-| è a car. 44. del primo , che ha
ca molto intendenti. Il Sign. I quello titolo : Lettere di jìpo- Apoflolo
Zeno, di Tempre glo- fole Zeno , Cittadino Fcnezia- riofa, e a me cara
memoria in ! no , Iftorico e Poeta Cefareo. ec. una fua lettera al Sign.
Lodovico I Folumt primo in Fenezia tO (74) Novello Cadmo , C Cadmo
Italiano , fu di oppinione, edere ftata altresì invenzione del
medefimo noftro Letterato 1* ufare la z j n cam- bio del t dopo vocale ,
e innanzi all’ /, cui fegue altra vocale, come nelle voci vìzio , malizia
, e fomiglianti. Ma, per pigliare il filo principale del
noftro racconto, l'anno 1525 . ( nel quale il Re France- sco I. di
Francia eflendo ritornato in Italia, don- de l’anno avanti era ftato
cacciato , e avendo già prefo Milano , attediava la Città di Pavia,
la quale fu appreflò liberata dall’ efercito di Car- lo V- > che mife
in Sconfitta 1* ofte Franzefe , e fece affrtff» Pietro
Falvafenfe . i Nella Eloquenza Italia- na a car. 36. e 339.
(75) In proposto delle Let- tere aggiunte « Valerio Ccntan-
nio. Medico Vicentino, di cui parla lodevolmente il Marzari nella
tua Jftoria di licenza, a car. 183. fcriffe al Trissino il feguente
curiofo Sonetto , che ci fu comunicato dal più volte men- tovato
Sign. sportolo Zeno . ì’O grande A» tji Urici nominato. A
dijfertnlia Ai quel, cb‘ i tu ir. a rii VE difl' ignudo i 1 di
pie» valo- ri, A luta ai Alph' al Giet" accorti
pugnato i Ch* nel fcnvir Tofcan ha ritrova • to
Voflr’ alt’ ingegno i facindo maggiori Numcr di Lettre : eh’ in
vano ti- no’i Si anno a chi nin ha 'l cervi ! fia catoi
1 Verrei faptr t Si noi Urica Scrittu- ra
Leggenda > dtbben ritener* il futi-, no, Che nel
Uggir Tofcan Kiara fi fin- ti. Ri ff tendete Signore che la cenfura.
Et gran judicio vofira , a mt tal fono, Qual Sol ad g
orno : a nette fio- co ardiate. Andar mi vi in a minte
D' addimandar 1 fi l' Ita Gri't » timi La voce t eh' a
V E Taf co fi ceti « m». Et forfè dicttn bini
Quelli, che voljan pir ditti d' Hv miro L' Ita fuonar s
cimi il Taf cu E pri- miera . Bramo faper il vero.
Adunque fa- fi l' O Tofcan antico Terrà ’l fuun d' il Grt co
0 :cht mi- nor dico. Il Servo di Veflra Magn.
Valido Cintannio- fece prigione il Re fte{fo(7
Papa Clemente impiegò in varj negozj il notlro Giova n gì orcio. e
intra gli altri lo mandò una volta Oratore al- la Repubblica di Venezia C
77)» e ' [ferma per la concordia degli Ma quel [degnato ,
horntil-vente fiero * Scrittori , c per lo Elogio, che Con Pungine,
ri rofiroil batti , elo '^tfU Chiefa di San Loren- dìmtna Si
fai lamenti , eh' ci fuggendo a fina Hcrfer lo [campo f ho trova fenderò
. Tal che aebaffata in lui fi» con gran fretta ,
Et forfè affatto fjenra l'arroganza , Che tutta Europa già
foft in itlanza: ! dal Papa folte O. Ottd'io tengo nel cor ferma fgtranza
, mandato Nunzio prima alla Rc- Che il Citi farà dei torti afpra ve »•
pubblica di Ve.'CZÌa, e poi all’ detta | Imperatore: ecco le fue
parole: ACriflo fatti ,§ a tuttala fua fetta .1 >} Clemcr.tis
Septimi acerrimi Cosi afferma il
Tris-',, teftimatoris nutu ex Romana sino medefimo nella fua Ari».',,
Curia ad Carolum Carfircnt ga, dicendo: Papa Clemente fu' „ Nuncius cfl
elc&us : inde ad eletto al Pontificato,.,. S. Santità ,,
SapicntifTìmum Vcnetorum fubito mi fcriffe uno P, rieve , ri- „ Scnatum .
« In ciò fu egli cercandomi , ch'io dove/fi andar (e guicato dal Signor
Marchefe a Roma , & io col confenfo, CT I Maffciìad Ri fretto deila
P'ita del I zo di Vicenza allato all’altare idi
detto Santo fi legge, e die I di fotto tra feri veremo . Gio-
ivano! Imperiali nel Afufeo Jflo - \rico a car. 44. lafciò fcritto,
che Digitized by Google 42 La Vita
gno dì parttcolar menzione fi è un altro pubbli- co contralfegno
deiramore , che gli portava. Ciò fu l’anno 1530. in occafìonc che dovea
corona- re folennemcnte in Bologna l’Imperatore fud- detto (79)1
imperciocché, fecondo che affer- mano alcuni Scrittori (80), e appare chiaro
da una d’O., e da altri : ma ficcome quelli
Scrittori non ci daono il tempo di corali Lega- zioni , cosi noi
non ci facemmo fcrupolo in notarne pri ma una che l’altra; e tanto
più, quan- to che può edere veramente , clic andafle egli Nunzio a
Sua MaclU Cefarea molto tempo dopo di edere dato Oratore a
Venezia , cioè dopo il Sacco di Roma fatto dagl’ Imperiali nel
IJZ7. , in cui effendo dato di- tenuto Io Bello Pontefice, e poi
liberato per commillìonc dell’ Imperatore, edo lo mandò a ringraziare
per un fuo Nunzio, accennato folamente in una Let- tera di
congratulazione, che Io Redo Imperadore al Papa riferir- le in data
di Burgos addi xxn. di Novembre di detto annoi 517.; la qual
lettera Ci legge nei to- mo primo delle Lettere di Pria- dpi » ecv
raccolte da Girolamo Rufcclii , Ja Veneti a appre/fo Giordano
Ziletti, 1564. in 4. a car. no. a tergo; fe pure ciò non fu l’anno
1529., cioè do- po la pace tra loro fatta in Bar- cellona, di cui
parla, tra gli al- tri , il Guicciardini nel terzo degli ultimi
quattro litri della fua Ifi$ria\ avendovi una lettera di Sua
Madia al Papa in data di Genova addi xxix. di slgo/lo ., che fi
legge nel citato tomo delle fuddette Lettere di Prinnpi a car.
123.» nella qua- le fa menzione di un fuo Nunzio con quelle parole
: Ha- vendo intefo dal detto Duca ,- & da' Reverendijfmi
Cardinali . fuoi Legati ...., & dal SUO NUNZIO ,. &
Zmbafiiatore , cc.....; il quale può perle fud- dette cofc
fondatamente creder- li , foflTe Giovangiorgio. Carlo V. fu
coronato da- Clemente il giorno di San- to Mattia Apoftolo, cioè a
dì 24. di Febbrajo: ed è JlTervabi- le, che nei mede^mo*
giomcr egli e Ila nato , ed abbia prefo i fegni e gli ornamenti d’
Im- - peratore. Si vegga Alfonfo Ul- loa nella Vita di Lui molto
eru- ditamente feri tra- ( 80 ) Gio: Imperiali , Mh-
faum Hi/l or. a car. 44. Toirmia- fini Elogiaste, a car. 53. e Pao-
lo Beni Trattato dell' Orig. del- la Famigl. Trijf. lib. 2- manu-
fcritto, a car. 34., ove nota anche di malevolo il Giovio, che
riferendo paratamente tale folcn- una lettera manufcritta del
noftro Autore mede- fimo (81), da tanti Principi e Cavalieri, che a
tale folennità fi trovavano , Clemente tralcel- fe il TiussiNoa portargli
lo ftrafcico Pontificio; .onore» che per innanzi era /olito farli a
Perfo- naggi di nobililfima Schiatta, e molto qualificati. Si
trova fcritto apprelTo qualche Autore (Si), che Carlo V. facefie conte e
cavaliere fi noftro Giovangiorgio» e lui co’ Tuoi difendenti
privile- giaffe, che potefse mettere nd/arme dellaFamiglia la Imprefa
del Tofone , c fi potefle in oltre dinorni- nare dal vello d'oro. Noi non
vogliamo ora di- làminare, fe ciò fia vero, anzi il crediamo; che
conte e cavaliere egli fteflò in qualche Tua lette- ra s intitolò (83), e
alzò la detta Imprefa» con foprapporvi il mòtto Greco to zhtotme.
;non aax2ton (84), prefo dall’ Edipo di Sofo- F 1 eie
folennkà , nulla facefle del Tri jliN o menzione. JvQucfta
lettera di prò. prio pugno* del noftro Autore | c tra le altre lue
manuferirte, cd è 'quella, che diramino più d’una volta in quefta
Vita , fcritta da Marano all’Arcipre- te Giulio fuo figliuolo,
fegnata 18. A/arz.0 IJ42. In effa egli parla cfprcffamentcdi quefto
ét- to , ricordandolo al figliuolo qual /ingoiar h*neficiodal
Pon- tefice a fe ufato. ( 8a_) Cioè approdo il Tom-
mafjni, Elogia cc.-, a car. 54. c ’1 P. Rugeri , T ratina ec. a
car. xxxin. ( 83 ) Veggafi la lettera di lui al
Reverendo Prete Francefco di Grugnitola già fopracciiata, all’
annotazion. 3.C 26. Il Fontanini nell’£/tf- quentLa Italiana
a car. 380. rife- rire e fvariatamctwequAlo motto, rcrivendo in
quefta guifa T o 2HTOTMENON A A ftTON* diche fu appuntato dal
Signor Marchcfe Ma fife i a car. 8j. dell’ Fiume d’ elio libro del
Fontani- eie (85)} che lignifica conftguir chi cerca ma
nsn chi trafeura ; ed anche ftamparc la fece o ne’ frontefpizj, o
in fine delle fue Opere. Si vuole bensì avvifare, che fe egli ebbe
dall’Imperatore Maflìmiliano primieramente» come abbiamo ac-
cennato al di fopra, e poi ancora da Carlo V. il privilegio di potere
l’arme gentilizia adorna- re di detta Imprefaj come tengono alcuni,
e come forfè volle dire il Signor Marchefe Maf- ie i, quando difle, che
il Trissino imperaci ere Maffìmilian » riporto il Tofon d’ Or o\ e
fe ; egli fu ni, che approdo citeremo, trat- to delle
fue OffervaiÀoni Lette- rarie , fn Serena nella Stampe- rìa del
Seminario per Jacopo Sal- tar fi in la. Articolo VII. a c.vr.
103. Verfo 110. (86) Nel fopraccinnaro Elo- gio,
che è in San Lorenzo di Vicenza, fi legge: Aurei fuci- lerie
infìgnibui , & Corniti* di- gnitate prò fe, & Pojlerit ab
iifdem Impp. ( MaKimiliano , & Carolo) decorato . Il Padre
Rugcri nella Trotina &c. a car. 33. pare che affermi , avere il
T rissino avuto il fuddetto privilegio da Carlo V. , poiché gli t
cbbc niarfdatoa donare (co- me diremo ) pel fuo figliuolo . Ciro il
Poema dell'Italia Li- berata da' Coti. Quelle fono le fue parole :
T itm vero P o s T- Q.U A m ledi 1T1 mai cjtjitm fiiius
Cyrus , poema iliaci eidem Caro- lo V. patrie nomine donariam
confccrauit , Aurei Velie- ri s Agalma dimidiato in Umbone fui
Aviti Stemmati! , Imperai or is auttoritate , & con- cezione
appingi voluìt , quo fa. cilius hac velati tejjcra, è fuo Pipite
dedali a Sobolet, ab aliis & Laude, & Vice ti * , f amili*
nobilijfm*, & numcro/tjfimafur- culit dignofeerentur .
Contutco- ciò noi troviamo* erteti* Gio- va» Giorgio denominato
dal Vello d' Oro ^rima che Ciro prc- feniaffc il detto Poema
all’Im- peratore. Può effere bensì, che avendo egli avuto da
Maflimi- liano il detto privilegio, con- fermato poi gli forte da
Car- lo V. Nel Riflretto della Vita del noffro Autor ,
preme fl o la rirtìmpa delle fuc Opere. egli fu veramente da’ Monarchi
medefimi fatto Cavaliere; non dee perciò dirfi, che forte egli da
efli fatto Cavali er del Tofo» d'oro: concioflìac»- fache non fia mai
fiato il T rissino arrolato in quell’ordine (88). Le
fa- f88) Che ciò fia vero, ba- Trissino, che non era
da fievolmente è provato dal Fon- trafeurarfi , quando veramente
canini nella Eloquenza Italia- vi [offe fiato; e ciò tanto meno, va , ove
a car. 380. dopo regi- che in quefio affare ci entrano Arata la primiera
edizione del anche gli Araldi, 0 Re £ Armi , Poema dell’ Italia Liberata
da' per ajfegnare a ciafcun Cavalie- Goti, così lafciò fcritto. Qui re lo
Scudo, e /’ Infegne , tutte in fine, e in altri fuoi libri fi le quali Ji
leggono efprejfe dal vede la pelle, 0 vello d'oro del C biffi elio . E a
car. 474. dopo Montone di Friffo , da lui fof- j aver regi fi rato i
Difcorfi ini or - pefo a un Elee in Coleo, e cu- f no alla Tragedia, di
Niccolò fi adito dal Drago Volendo | Rolli., tornò a dire, come
fc- il T R 1 ss 1 n o con quefia fua 1 guc ; Effendofi già mofirato
non Imprefa alzata all'ufo di que' \fujfi fiere, che il T rissino,
tempi alludere alle fue lettera - 1 comecnè talvolta fi dicejfe oAr. rie
fatiche , e da fe ancora in- \ Vello d’oro, e meritaffe per - titolanàofi
dal Vello d’Oro . j altro ogni onore, foffe perciò Ca- .Ala non per
quefio egli intefe di valier del Tofone , perchè meri - far fi Cavaliere
dell'Ordine del 'tare non vuol dir confeguire , qui T ofone - E poco
apprelTo ; L'\fi può aggiugnere , che quefio Su- • Ordine del Tofone fu conferma-
premo Ordine , detto in latino to dai Sommi Pontifici Eugenio Vclleris
Aurei , nelle lingue voi - IV. e Leone X. ; e Gianjacopo gari fi chiamò
del Tofone . ... Chifflezio ha data la ferie de' Nè può effere inutile il
ridurfi Cavalieri » e de' Uro fupremi a memoria, come ne’ tempi del
Capi dalla prima fua ifiitud-o- Trissino fiorì /’ Accademia aie fino a
Filippo I v. Re di Spa - degli Argonauti conquifiat ori del gna, erede
àe’ Duchi di Borgo- Vello d’Oro, poco fipra acc ca- gna: e ne ba fcritto
ancora un , nata* Se poi egli fi diffe Co- temo in foglio Giambatifia
A/au-j me; & Equcs , ciò nulla impor- rizio e altri pure han- ita,
petchè non fu foto a chia- na pubblicati gli Statuti dell' ' mar fi in
tal guifa . 11 Mar- C'rdine, e gli Elogi de' Cavalle - 1 cii'eje
Maffci nell’ E fame del ri: ma fenza alcun merlo del [ (udektto. Libro
del Fontanini , Digitized by Google 4 fìccome
l’altra volta, la fentenza incon- tro. Tuttavolta collo ro infiftendo,
agli Auditore Vecchi appellarono di ella fentenza, dai quali fu poi
rimeffa la Caufa al Configli dì xl, civìl-Nuo- vo. Ma quella volta Gì
ovan Giorgio delibero di orare elio pubblicamente , e dire in
Configlio le fue ragioni : per la qual cofa comporta in comunal
dialetto Lombardo una forte Aringa (pi)» sì bene, e con tale efficacia
davanti ai Giudici la recitò, che all’ultimo (pi), con gran- de
feorno e rabbia degl’ incaparbiti Comuni, egli fentenziarono a di lui
favore (p$). Sera egli ammogliato la feconda volta a Bianca
(P4). figliuola di Niccolò Trillino, e di Cateri- na Ver-
Quella è l'Aringa da noi citata sì fpctfo nella prefen- tc Vita-, e
Cc nc conferva copia nella Libreria de’Cherici Re- golari Soraafchi
della nolìra Città di Vicenza. Avvitatamente s r è det- to
all' ultimo , perciocché non tappiamo, che il Tri ss ino per la
narrata cagione piatile più colle dette Comunità : ben è vero, che
i di lui Poderi ap- po fua morte ebbcro«a foffrir da colloro per lo
ftctTo motivo nuo- vi difturbi . Crediamo ciò fofle o' nel
principio dell’anno x 5 3 1. ? 'o nella fine del precedente;
e | lo argomentiamo da ciò che e* 'dice nella citau Lettera al
Pre~ ! re di Grugnitola , ed è; Le cofe | della [acuità mia
dopo molti tra- | valji fono quaji tutte rajfcttate, e trovami
manco povero ch'io ' fojft nati, I « ♦ quella .ftponda
fua | moglie fa il T r iss 1 no ono- ratole njènzione nc‘
fuoi Ritrat- ti > Citila» Re (fa fi parla altresì con lo.Je’nel
libro intirolaro:7" at- te U Dgnne maritate , Vedove,, è’
I)ongeil/ \ ptr Lugrezio Bec- candoli Bologne fé *»/ magnanimo’ Ai,
Fr ance [co elei Scolari , Eresiano , na Verlati (p?), e già vedova
di Alvife Tri Ar- no (ptf): la quale partorì a Giovangiorgio u n
figliuol [ciano, [no Signore . in 4» fcn- za efprcffione di
luogo» anno, e ftampatore. (9 5 ) Se il Tommafini negli
Elogi, a car. 53. dicendo:,, De- ,, funóto Leone X. in Pacriam rc-
„ diic.... Anno mdxxiii. fe- » cundas cum Bianca fui Sxcu- 3, li
Helena , Nicolai Triffini », Vidua nuptias contraxit volle dire , che
Bianca, quan- do fi fposò a Giovangior- g 1 o foffe vedova
di Niccoli Trillino» prefe certamente uno sbaglio , come lo prefe
il Sigi Apollolo Zeno nella Galleria, e gli altri , che ciò
affermano apertamente. Imperciocché Bian- ca non fu vedova , ma
figliuola di Niccolo Tuffino, come dalli fc- guenti Alberi dal
Sig.Co: Anco» nioTriffino del Sig.Co:Piero, corr umaniflìma
gentilezza fommini- llratici, evidentemente appare» 1. i Birtolommeo
Trillino. NICCOLO' Tullio©» Cafparc Trillino» in in in Chiara
Mirtinengbi. Caterina Verlati» Cecilia Bevilacqua. 1 L 1
ALVISE BIANCA. CIOVANGIOR.GIOPoet.ec» in in in
BIANCA di Niccoli 1. ALVISE di Battolar»- BIANCA di Niccoli
Trillino ; da cui la li- mio Trillino . Trillino , da cui li Nob»
nei del Nob- Sig.Co: a. GIOVANGIORGIO Nob. Sigg. Co. Co. Ci- Piero.
Tuffino Poeta ee. r® , e Nepoti Trillino •Senza di che Paolo Beni ncljwe/rfe,
figlio unico (cioè di Ma- Trattato dell' Ori*. della Fa ! fchi ) ec. In
oltre dalla Scrittu- migl. Triff. lib. 2. Manofcritto, ! ra nuziali d’
effa Bianca , fe- dove parla delle Donne illufiri | gnata addì 18. di
Febbrajo.... della detea Famiglia, venendo | fatta col fuddetto Alvife
Trif- a Bianca, dice; Bianca peri fino, fi ha non pure che effo la
fuafingolare belletta merita-' fu il primo fuo marito, madie mente
chiamata l' Helena della j il valore della fua Dote fu di Du- fua età,
hebbe due mariti dell’ | cali tremillccinqucccnto , cioè ifteffa
famiglia: fu il primo . di lire Vi niziane 21700. ; Dote Luigi figliodi
SartoiomeoTrif-' affli Cofpicua 3 quc’tcmpi. EJ fino , & di Chiara
Martine ri ] anclie di q-uefta notizia ci con» ga, a cui partorì 6. figli
mafihi, fediamo debitori al predato Si- ti' 2. fenmine : fu il fecondo
gnor Conte Antonio Trillino. Giovangiorgio, Poetaf (96) Alvif: Triflino
fe te» Gr Oratore, & hebbe Ciro-Cl>- \ ttamento del ijìi, , c poco
di poi t I del Trissi.no.
4P figliuol mafchio, appellato Ciro, ed una fem- mina . Ora
dopo qualche tempo nacquero dif- fenfioni tra Bianca, e l’Arciprete
Giulio, fi- gliuolo della prima moglie d’effo Giovangior- gio:
delle quali principal cagione fi fu , che amando ella teneramente,
ficcome è naturai co- ti , il fuo proprio figliuolo Ciro , s’ adoprò
in guifa , che il marito Umilmente facefle, e fee- mando
l’affezione fua verfo Giulio, lui più cor- dialmente inchinalfe ad amare
. Le quali cofe diedero apprelfo motivo all* Arciprete di piatire
lungamente col padre, da cui prctefe* e in fine poi confeguì non poca
parte di fua facoltà. In quello mezzo la Patria impiegollo in
un affare molto importante . Ciò fu fpedirlo fuo Oratore (in uno
con Aurelio dall’Acqua e Pie- ro Valmarana, Gentiluomini Vicentini,) a
Vene- zia per contrapporre ad una troppo altiera ri- chieda degli
Uomini della Terra di Schio, Di- llretto di Vicenza. Volevano coftoro non
iftar più foggetti al Gentiluomo Vicentino, che reg- gevagli, e
regge ancora con titolo di Vicario; e però nel principio dell’anno 1534.
ardirono di chiedere al Senato Veneziano, che rimolfò quel- lo, un
fuo Nobile Patrizio defse loro a Retto- re . Ma sì giulle furono le
ragioni da’ Vicentini G Ora- poi fopravviffe; ficcome
colla \o in quell’ anno, o l’anno ap- iolita gentilezza mi fc certo il
preffo Bianca fi farà a G iovan- Sig. Co: Antonio Trillino fud- ciorcio
rimaritata, detto, fuo difendente; laonde Digitized by
Google 50 L A Vita Oratori addotte in prò della Patria
, che non ottante che Baftian Veniero, gentiluomo Vene- ziano,
incontra nringifse, i Giudici conferma- rono la giurifdizione della Città
noftra, e con- dannarono gli avverfarj a rimborfarla delle fpele
dovute fare pel detto motivo: loro davvantag- gio vietando penalmente di
più contravvenire a tale deliberazione. E per dire di altri
onori , a cui fu egli dallaPa- tria elevato, troviamo, che nel 1536. addì
27. di Maggio era uno dei Deputati alle cofc utili della Città (p 3
>; ficcome nel mefe fufleguente era Confervatore dette Leggi ( 99 ) :
e pochi anni appretto, fu ricevuto nel numero di que’ Nobili, che
formar doveano il Configlio centumvirale > detto anche Graviffìmo
, dcll^ Città , allora allora riformato.. Morì in que’ tempi
il celebre Poeta Giovanni Rucettaii tanto amico delnoftroTiussiNoi il
qua- le fin dall’anno 1524. (nel qual tempo era Cartel- lano di
Caftel Sant’Angelo in Roma) avendo com- Veggafi io
Statuto no-| ( 9 8) Statuto noftro fuddet- firo lib. 4. pag. 176. a
tergo . to, Lib. Novm Partium , pag. Noi ci fiamo ferviti dcli’cdizio- :
197. a tergo. Qui il Trissino nc fattane l’anno 1567. con ! è schiantato
Dottor , &£qnes. quello titolo ^ Jhs À/nnicipale \ (99) "Statuto
noftro, ivi » l'iccntinum , cum sìddit ione Par- png. 19H. a
tergo.. tium Jlluftrijfimi Dominii . Vt - 1 (loo)Statuto cc.. Ivi,
pag. nttiit , Motxvii. ad infiantiam I 185. c 186. a tergo, cdanchcqui
BartMomei Centrini. infoi. | il Trissjno è detto Cavaliere. 1
compiuto il belliflìmo luo Poema delle /#/>/, non volle
pubblicarlo infinoattantochè il Tassino da Venczia> ove era Legato di
Papa Clemente, non foffe ritornato, perchè volea farglielo rive-
dere.. Ma non avendo' potuto ciò effettuare fo- praggiunto dalla morte ,
al fratello Palla , nel raccomandargli prima di morire tra gli altri
Tuoi componimenti il detto Poema, notificò tale Ilio penfamento :
onde quelli poi fauna 1 5 39. mandan- dolo alla luce, al Tm ss ino lo
intitolò (101). Intanto effendo la fopraddetta feconda fua
moglie Bianca pallata di quella vita l’anno 1540.. C102), le liti già
incominciate tra fe e’1. figliuol’ G 2. Giu.- La
Dedicatoria di Pai- 1 Antonio Volpi , il quale poi lai ta Rucellai al Tr
issi no è . fece pubblicate in un col Poc- fegnata *li Firtnzj addi li.
di ma ftdlbdelle Api, ecollaC*/- Gennajo 1539.5.6 in e(Ta affer- ]
tivazione di Luigi Alamanni „ ma di efeguite in Dirar ai templi di
Ciprigna , e Marte Le mie vittoriofe , e chiare palme
, ( l0 5 ) Cosìdiceegli nella De- dicatoria del Poema fletto
a Carlo V.; ma in una Lettera al Cardinal Madrucci , che ap-
pretto allegheremo, accenna d" averne glieli, per efsere anch’efso
malato di quartana;- accomandando con fua lettera al Cardinal Cri-
ftofano Madrucci, Vefcovo e Principe di Tren- to, il Dottore medcfimoi e
pregandolo, che ali' Imperatore lo facefse introdurre- Quelli sì
fece; el dono fu fommamente gra- dito alla Maellà Sua, che moftrò nello
flefso- tempo gran delìderio d’ averne: ancora il rcftan- te.. La
qual cofa da Giov angiorgio intefa, ritornò prettamente a. Venezia, e
gli. ultimi di- ciotto libri, colla maggior, follecitudine: a
perfe- zionar fi diede; e poi fattigli ttampare l’anno^ 1548., a
quella volta pel figliuol Ciro gliel’in- viò; elfo altresì al. lùddetto
Cardinale raccoman-- dando con maggiore affetto-,, dicendogli, che
per la fua giovanezza egli più abbifognava di con- liglio, e di
ajuto (106): i quali libri da fua. Maellà. Vegganfi le
Lettere \ fiche fùe cTAnhi Venticinque*. dall' Autor noltro fcritte a Sua
! che le avea dedicate c manda- Macftà , e al predetto Cardina- te, grate
le foffero Hate, e ac- le in propoli to di ciò, inferite ! citte .■
foggiuogendo*. che nont nella, già citata Prefazione del | a vendo ardi
mento a chiedere co- Sig. Marchefe Maffei alle Opere j fa alcuna , al
perfetto giudici» di lui a car.xxt. xxn.. xxit 1 . 1 della Maefià Sua,
come fapien-' c xxiv.; in una delle quali , I tiflìma , c liberali/fma
che era,, che è a car. xxwi. al Cardina* | fi rimetteva . le indiri
eca * fegnata di Venezia I Qui vuol novamente notar- Giovcdì, addì x.. di
Dicembre fi ,. che dalPcHferfi il Trissino 1548., dice , che dcfiderava
,! in quelle Lettere foferitto. Dal che da Sua Maefià fojfe noti fi- ; Ve
ilo d’OKo, chiaro» appare, cato ai Móndo per qualche ma- ! non aver egli
avuto da Carlo nifeflo fegno , che le vigilie e fa- [ V. per la
Dedicazione del det- to Maeftà furono ricevuti collo itefso
.gradimento , che i primi. Ma per pafsare ad altre cofe, fu
il noftro T r issino familiare eziandio del Pontefice Pao- lo III.,
a cui nel .1541. efsendo per andare (come in fatti vandò) ad abboccarli
la fecon- da volta con Carlo V. a Lucca, indirizzò «un fuo Sonetto:
e altra volta certo vino mandoglf ,3 donare ; del qual dono, e
deH’efser- fi ricordato di fe , il Papa Io fece ringraziare pel
Cardinale Rannuccio Farnefe (108), grande amico del Trissino (iop).
Nel tempo, che il noftro Autore era lontano dalla Patria, ed
infaccendato nel mandar a lu- ce i proprj componimenti, l'Arciprete
Giulio, che pure continuava la fiera lite contro a lui -, •tutte le
fue rendite fece ftaggire: il perchè in fran- to Poema
la conceflfìonc di co- si denominarli , comcpare, che voIeOTc il P.
Rugeri nella citata ' Declamazione; ma fc pur da lui ! l’cbbe, come
dicefi anche nell’ Elogio dianzi mentovato, che in San Lorenzo di
Vicenza fi legge, certamente molto rem», po avanti la ebbe, cioè
quan- do in Bologna alla Coronazio- ne dell' Imperatore medcfimo
fi trovò prefente. Quello Sonetto, che
incomincia: Padre , fot to' l citi Scettro al- to rifofa,
cc. | e che non è tra le fue Rime dcllà prima edizione ,
eflcndo j Hate molto tempo avanti ftam- pare^ fi legge nella Raccolta
dell' Atanagi , par. pr. a car 89, a icrgo \ e nella edizione di
Ve- ronaTom.i.a car. 3La Lettera di quello Prelato al T rissino
(cricca d’ordine del Papa, c in data di Roma. Nella citata
Raccolta dell’ Atanagi a car. 90. fi vede un Sonetto d’O. al
predetto Cardinale indirizzato. granditfima ira montato egli, fe
tc-ftamento, e in tutto e per tutto Giulio difereditando , Ciro
inftitui erede d’ ogni Tuo avere; aggiungendo, che moren- do quelli
fenza dipendenza, gli fuccedelfero nell’ eredità del Palazzo di Cricoli i
Dogi di Vene- zia, e nel rimanente de’fuoi beni i Procuratori di
San Marco con ugual porzione . Dichiarò CommelTarj del detto Tellamento
il Cardinal Niccolò Ridolfi , allora Vefcovo di Vicenza ,
Marcantonio da Mula, e Girolamo Molino; or- dinando, che appreffo la
morte di fe, folle il fuo corpo feppellito fui campo di Santa Maria
.degli Angeli di Murano in un avello di pietra ijiriana: la quale volontà
mutò dappoi in un co- dicillo, ordinando invece, che volea cfsere
fe- polto nella Chicfa di San Baftiano di Comedo * territorio di
Vicenza, ce» ornamento di rofe , e lidia fepoltura 'vi fofsc polla quella
fempliee breve iscrizione; £uì giace ciò : G io AG io t ris- sino .
(iio) Pur finalmente anche quello piato ebbe; fine ma
Giovangiorgio fuori di tutto il fuo penfie- ro n’ebbe la fentenza
incontro, e dal figlio fi vide fpo- (llo) Si può
credere fonda- \Janiculo, 1548. in 8., introdu- t. -urente, che per aver
egli do- ì cede il perfonaggio nominato vuto (offerire tante c si fiere ;
Sìmitlimo Rabbatti a così fda- liù , avvifatamentc nella fualmare contra
gli Avvocati ; c Commedia de' Simulimi* contro a ogni forte di Im-
para in Venezia , per T olmmeo j gio . O rra-
fpogliato d’una gran parte de' propri beni. Del- la qual cofa sì fi
crucciò} e difpettò che rifol- vette di abbandonare affatto la Patria* e
lafciati prima fcritti due molto rifentiti componimenti in fegno di
fua indignazione (ni) , andofsenc H dirit- O maledette fian
tutte le liti » JT uni i garbugli , e tutti gli Avvocati,
Nati a ruina de f umane Senti, Che fi nutrifeon degli
altrui dif canài * Difendendo i ribaldi con gran
cura'. Et opprimendo i buoni ; che i feelefii •
Gli fon più cari , e di mag- gior guadagno: Nè cofa alcuna è
federata tanto , *Che non ardifean ricoprirla , e
farla Rimanere impunita da le Leggi , Di cui fono
la pefie , e la ruina . Sono rapaci , e fraudolenti , e
pieni ~D' in fidie , di perjuri , e di bugie , S
end alcuna vergogna , e fen- z.a fede , Servi de l'avarizia ,
e del denaro . Mentre che fiato fon f, opra 7
Palaz.zo Quafi tutt' oggi in una lite lunga D' un
mio Parente , l' Avvo- cato awerfo : Tanto ha ciarlato
tc. Da quelle ultime parole fi può dedurre , aver egli in
ciò avuta la mira alle proprie liti. I Componimenti die c’
fece avanti la fua ultima par- tenza dalla Patria, fono primie-
ramente il feguente Epigramma latino , che fi legge eziandio
llampatO' negli Elogi di Monlìg. Tommafini pag. j 6., ed anche tra
le OpcTe del noftro Auto- re della riftampa di Verona Tom. 1 . in
fine. „ Quatramus terras alio fub 1 , cardine Mundi, f „ Quando
mihieripitur frau- „ de paterna T)omus. „ Et fovet hanc
fraudem Ve- netum fententia dura Qux Nati in patrem com- probat
infidias: >» Qux Natum voluit confe- &um xtate
Parcntem, „ Acque xgrum antiquis pel- lcre limitibus.
„ CharaDomus,
valea*, dulcef- „ que valete Pcnates, „ Nam rnifer ignotos
cogor adire Larcs. Indi
un Sonetto, che fu inferito nella Biblioteca Potante del Cinclli, Scansìa
xxn. ag- giun- dirittamente all’Imperator Carlo V. , al quale
cariflìmo era* da cui apprefso licenziatofi , da Trento, fenza purpafsare
per Vicenza, fe n’andò a Mantova r e quindi da capo, tuttoché
vecchio fofse, e molto gottofo , fi ritorno a Roma, dove era Rato tanto
onorato, ed amato. Ma poco quivi fopravvifse, concioflìachè. tra per lo
cruccio, e passa di quella vita. Non fi fa veramente ove fia di
prefen- giunta da Gilafco Eut elide» fc, Pafiore
àrcade , ( cioè dal P.Ma- nano Rude Carmelitano cc. In Roveredo
frego Pierantonio Per- no , 1736. in 8.: a car. 82. e 83. il qual
Sonetto fu comunicato all' autore di quella S con zia dal !
Cavaliere Micbelagnolo Zorzi , | di cuifeperciòa car. 8+. lodevol
menzione, E' notabile l’errore cotnmef- fo da Luigi Groto ,
fopranno- minato Cieco d’sldria, in pro- poli to di quello Sonetto
nelle tue Lettere familiari. In Vene- zia , preffo Gioì sintonia
Giulia- ni , 1616. in8.a car. 124.; per- che quivi parlando del Tr
is- si no lo chiama Brlsci ano, e Padre deir Jtalia
Illustrata. (na) In alcune manoferitte memorie intorno al
noltro Au- tore, comunicateci cortefcrr.cn- te dalla gentilezza del
lodato Sig. Apoftolo Zeno , dopo 1 ' Epigramma e Sonetto fuddetti
, ili legge come fcguc. M. Zan- ! zorzi fece ciò per una
lite, che \ veniva tra ejjo , & P Arciprete | M. Giulio fuo
figliuolo di la Ca - \fa di licenza , ove dillo M. Zanzorzi hebbe
una fententia centra in Quarantia , & con queftà opinione andò
a P Impera- tore, e ritornato in Trento fen- za venir di qua per la
via di Mantova, Ticchio , pien di got- ta Il rimanente non s’
intende per edere rofo il foglio. Che il Trissino moridc
l’anno 15 jo. conila non folamente dal concorde confcn- fo degli
Scrittori, ma da una Lettera di Giulio Savorgnano , fcritta a Marco
Tiene, gentil- uomo Vicentino , fegnata di Belgrado addì 29. di
Dicembre 1150.: della notizia della qua- le al già mentovato Signor
Aba- te Don Bartolommco Zigiotti ci confefflamo unicamente
de- bitori. preferite
il fuo monimento } ma Autóri parecchi hanno fcritto, eflergli ftata data
fepoltura in Roma medcfimo nella Chicfa di Sant’Agata entro lo ftefso
Depofito, in cui era ftato fepolto molto tempo innanzi il famofo
gramatico Giovanni Lafcari (114); e Jacopo- Augufto Tuano nelle lue
Morie) facendo di Giovangior.gio molto onorata menzione) accenna) che gli
fofse ftata anche fatta una lapida» poiché dicc 5 che efsen-
H. 2 do Tra gli altri
Scritto - 1 della Città coltra, di cui il P, ri , che addurre li
potrebbono, Rugcri avea fatta menzione avvi Paolo Beni , che nel T rat-
nella detta fua Opera a car. xxvr. tato àell'OrigMlla P amigl.Triff. |
dice come fegue . ,, Quoniam lib. 2. manoferitto, a car. 34.
cosi dice : Partitofi ( il noftro Autore) nell' A. 72. della fua et
4 per di f gufi 0 dalia Patria-, il che egli efpreffe con alcuni
verfi latini & volgari ( cioè l’ Epi- gramma, c*l Sonetto
predetti) li quali ferini a penna nella li- breria Ambroftana di
Alitano con altre molte fue compojìtioni non ancora fiampate fi
conferva . no , andò in Germania a ritro- vare l' Imp. Carlo r.,
& ritor- nato in Italia per la via di Trento , e Mantova pafsb
a Ro- ma , ove morì , & fu il fuo Ca- davere poflo in Depofito
nella fe- poltura del Lafcari. E Olindro Trillino in
fine della DeclamazJone latina del P. Rugeti, citata di fopra,
da elfo fatta (lampare, traferi ven- do il già mentovato
epitaffio, che fi legge in San Lorenzo meminit Au&or Epitaphii
, „ Cenotaphio loann. Georg. •„ Trifiini Vice ti* infculpto „
(Relliquum cnim tanti Vi- ,, ri, quod Claudi poterat, Ro- ,, M.C in
Tempio S. Agatb* in „ Suburra Conditu.m Fuit) il- lud hic &c.“
E finalmente an- che lo Beffo Rugeri nel citato luogo afferma , che
Eius offa-, ( di G 1 o V A N G IORG I o ) , Roma cum Jo. Lafcari
cineribut affervantur . Comunque lia di ciò, fatto fta che al
prefentc in S. Agata di Roma tuttoché fuf- fiffa il fepolcro del
Lafcari , non fuffifte più veruna memoria del Tr issino; come ci fe
certi il P. Girolamo Lombardi della Compagnia di Gesù con fua
lettera fcrittaci da Roma addi 11. di Novembre di queft’ an- no 17}
2. do diroccato il monimento nella
reftaura2ione‘ del Tempio (non ifpecifica quale^, ove era Ila*- to
feppellito, gli eredi Tuoi un altro gliene pofe- ro in San Lorenzo di
Vicenza nell’avello de’ fuoi Antenati ( 1 1 5 ) - In fatti in
San Lorenzo fi vede l’infrafcntto e- pitafio, opiuttofto elògio, tante
volte in queft3 VitA citato, da Pompeo Trillino , e da’ fuoi
affini' fatto ivi fcolpire , non veramente fa 1’ avello' degli
antenati fuoi , come erroneamente ha la- rdato fcritto ilTuano, ma allato
all’altare dr detto Santo , a perpetua decorofà memoria di; un sì
grande uomo.- IOAN- lllujhis Viri J m obi Au~ Xufii T hunni
Hiftoritrum fui tem. pori s Ab Anno Domini i J43. nfque Ad annum
1607. libricxxxvt 1 I. Gcnev* apud Heredet Pctri de U Roviere Lite. D. „ Obli c & hoc anno « I.
Georgius Triflinus peran- » tiqua, nobiliquc Vicetise fa. » milia,
ad virtuccm, Se lite- „ ra* natus , linguarum periti f-
j> fimus» Se omni Scienciarum ,, genere exercitatiffimus
»> Roma laboriofz virar finem „ impofuic anno xtaris
lxxii. >» Diruto Monumento» dum „ Templum inftauratur , in
quo „ conditus fuerac , Hacrcdes al iud i» ei ad S. Laurentii in
Majo- „ rum Scpulchro Vicctia pò- » fuerunt. Digilized
by Googli 61 IO' ANNI GEORGIO TRISSINO
Putriti o Vicent. tAtn nobilitate , quarti dottrina , (fi
integt itato Leoni Decimo , & Clementi VII. p 0 „t. Max. necnon
Alaximil. (fi Car. V. Impp. aliifique Pfincipibus acceptijfimo ,
Legationibus prò Cbrifiiana Repub. temporibus difficillimit fattici
cum oxitu apud eofdem per alì is : Dacia inde Regi desinato .
Jn Coronai ione Caroli Imperatorie ad Sacra Palla Pontificia
nitentis ferendi Syrmatis Munus , infignioribus Principibus ad hoc
ipfum afpirantibut pofi habitis , Bononia eletto .
Aurei Ve Iter ij Infignibus » (fi Comitis dignitate prò fi »
& Pofieris ab eifdem Imperatori b. decorato. Apud Ser. Remp.
Venetam fapixs Legati nomine de Clodianis Satin ù , de Ve. rona
refi itut ione , De Pace , Deq\ aliis negotiis gravibus re ad
votum tran fatta. Sublimiori gradu Sobelis ergo r confato. Operibut
plurimi e cum antiquitate ceri antibus elucubrati s. Rebus finis*
& Pofieris eidem Inclyta Reipublìca Ven. ex tefi amento
commendatis . Vitaq; religiofijfimì funtto Anno Aitai is
Sua LXXII. Virgìnei vero Partus A4. D. L. P ompejus
Cyri Comitis , & Eq. fil. unicus Superfies, Nepes, (fi Hares ,
AJfinefq; T anti Antecefioris Memores pii, gratiq; animi A4.
P.P. An. Salu. A4. DC. XV. Non (116) Di ciò
non facemmo [nc abbiamo trovate tipruovc più fpecial menzione, perchè
nonjficure. Non dee tralafciarfi di qui trafcrivere
altresì l’ Oda latina da Giufeppe Maria Ciria fatta in lau- de del
noftro Trissino ( 117) - j) FAma centenis animata linguis »
Aureo pergat refonare cornu 3> Trissini Busto fuper 5 &
jaccntés 33 Excitet umbras. 33 Fas ubi trilli gemuere lu e
Lamino Perugino nel MDXXjy in 4. . e C^enza luogo >
anno> e ftampatore ) in i e (Cón la SofonUba , i Ritratti , e
l'Orazione al Principe Oritti ) In renezJat per Girolamo Penzio da
Le. che, C Venezia per Agoftino Sindoni e
finalmente in rerona coll’ altre Tue Opere ( 1*1 )• li.
EPISTOLA de le Lettere nuovamente aggiunte ne la 1 2 >
Lin- Nel Catalogo della Libreria Capponi, 0 Jta de' Libri
del fa Afarchcfe Alejf andrò (ire. gor io Capponi, Patrizio Roma-\
no ec. C on Annotazioni in di- j verfi luoghi cc.. .. i n R oma ap-
preso il Bernabb, e Lazza. : rmi 1747. in 4. a car. 377 .| vedcfi
regillrata tale edizione;) ma farà forfè quella fleila, che fic fu
fatta unitamente co’ Ri- ! tratti, e colla Sofonisba , cd al- ‘
tro, da noi per altro non ve-| duta, che ha quelle note in fi-|
j ne P. Alex. Benacenses F. Be- na. V. V.; fecondo che dice
il j Cavaliere Zorzi nel Ragguaglio ! JJlor. della rita del T r 1 s
s 1 n o manoferitto, in fine> cd anche nel Difcorfo fopra le
Opere di lui , llampato nel tomo 5. della Rac colta A'Opufcoli ec.
in Venezia apprcjfo Crijtoforo Zane, i 7 jo. in la. car. jp8. Di
quella Rac- colta ne è benemerito Autore il celebre P. D. Angelo
Calogerà. ( Tom. a. a car. 2 7 p. . Digitized by
Googlc -. rugino e m Venezia ( Tenz’ anno , e
ftampatorc in 8. e ( COn la Sofonisba , l'Epiflola de la Vita
ec. , ed al- (*27) Tom. 3. a car. 993. (
ia8 ) Tom. 2. a car. 201. Il
Fontanini nel regi- ftrare nella tua Eloqu. hai. a car. * 75 - la
fudJetta edizione, prete uno fbaglio, notando Venezia in vece di
Vicenza. Tom. 2. a car. 243. ( l ì*J Nella Prefazione
alle I Opere del rioftró Autore a car. xxx. ( 1
3 2 ) Si legga il Difcorfo del I Cavaliere Zqizì {opra C Opere j
del noftro Autore a car. 440. Nel Catalogo della Libreria Cap-
[poni, a car. 377. Ih regiftrata [un’edizione di qucft’Opcra in j
8. lenza nota di ftampa, ma quella ed altro ) In Venezia per
Girolamo Pernio da Ischi mdxxx. in 8. e V* net. per
Ago/lino Bindoni e finalmente in Verona colle altre Tue Ope- re
Il T rissino fcrifle quell:’ Opera a mòdo di Dialogo , e in ella
lodò parecchie Donne rag- guardevoli del fuo tempo i facendo tra le
altre menzione )come fopra è già detto) di Bianca fua feconda
moglie, chiamandola beiuffima giovinetta . Vi. Il Castellano, Dialogo ,
nei quale jì trae. ta de la lingua Italiana . In Vicenza ( fenza
nome dello ftampatorc, nè anno della ftampaj ma ter Tolomeo
Janiculo . ) in foglio. e ( colla Volgar Eloquenza di Dante) in
Ferrara per Domenico Alammarelli 1 1 K in 8. Fu riita mpato anche
tra gli Autori del ben parlare, e in Verona coll’altre fue Opere. O. manda
quello suo Dialogo a lo ili ufi re Signor Cefare Trivulzio , fottO il
nome di Arrigo Dori a ; e iperfonaggi, che v’introdulfe a
favellare, sono Giovanni Ruceiiai col nome di Ca/iciiano, il quale
di- fende l’Autore da quanto gli fu fcritto contro circa le nuove
lettere } Filippo Strozzi , che lo Cdlfura, e gli
quella forfè farà, che abbiamo] (133) Tom. 1. a car. accennata al di fopra
nell’anno- . Tom. r. a car. 41. (azione ITom. 2. a car. c gii oppone le parole
medcfime de’fuoi avver- sari ; e Jacopo sannazx.aro y che difende le
ragioni del Trissino. Della Poetica; Divisone i. n. m.*iv,
Jfu riceva perT olomeo Janiculo da Bretfa MDXXIX. di Aprile.
in foglio . Monfignor Fontanini regiftrò nell’ Eloquenza
ita. liana quelle quattro prime
Divijìoni in tal guifa : Dalla Poetica di Gìangiorgio Trijfmo ,
Divijìoni iy. in Vicenda per Tolommeo Janicolo. in foglio: ma
flc- come noi non abbiami vedute altre edizioni , che la
fuddetta del 152 p. , e quella di Verona ; e di altre non facendo menzione
nè il Fontanini medefimo, nè l’Autore del Caia - lego della
Libreria Capponi , nè ’1 Cavaliere Zorzi in nefliina delle due fue
Opere intorno al Traino, (138), nè finalmente chi compilò la
Biblioteca italiana; così crediamo agevolmente , che egli in ciò fi
fia ingannato . Lo Hello diciamo parimente della feguente impresone delle
altre due Divijìoni , da lui notata i 140) fotto il
1564. A car. 354. j 1718. in 4. a'car. Coll’ altre fue
Opere, e 17. e nell’Indice: Il Com- Tom. a. a car. 1- ! pilatore di
quella Biblioteca fu Cioè nel Difcorfo /o-jNiccoIa Franccfco Haym
Ro- pra le Opere di lui, e nella Vita mano. del medefimo
manuferitta. ! Neil’ Eloqnjtal. a car, { li9) Biblioteca Italiana
cc. In 354. Venezia prejfo Angelo Geremia . 5 che pure non farebbe
il folo errore conv meflfo dal Fontanini in quella fua Opera.
Della POETICA; Divifione . In Ve . - per Andrea. Arrivatene , Sono
fiate tutte ultimamente riftampate ì* a?»»* coll’ altre fue Opere.
Quelle ultime due Divìfioni furono dedicate dall* Autore ad Antonio
Perepoto Vefcovo di Aras ? con dirgli > non aver loro data 1' ultima
mano per effere fiato in quel tempo grandemente occupato nella
teffi.- tura del fuo Poema dell’ Itali * Liberata da Goti , Nelle
prime quattro Divìfioni tratta egli de’ Ver- fi , delle Rime , e delle
varie maniere de’ Li- rici Componimenti volgari : e dice in princi-
pio » che fé bene da molti Poeti tra fiato pot tic amen* te Jcrittoy e
con arte , pure nefiùno fin al fuo tempo avea deir^r/ a voffra
Reve- Furono più volte flant-j rtndìffìm a Paternità molto ,
& pata. V. fopra car.31. annor 55. | molto mi raccomando. ove
s’c favellato di quefta Ora- i Da Cric oli-, di luni, cin- cone . V‘t di
Marza del mille cinque - Tom. 2. a car. 28?. cento trenta/ette, il
tutto di In fine di quefta Let- \ Fopra RevcrenditfmaTatermta. tcra
fa il Tris sino menzio - 1 Giovanceougio Trissino. ile fuccinta eziandio
di certi al - 1 Quefta lettera non (apremmo tri Villaggi del Territorio
di perchè non fi a (lata inferita nel- Viectiza ; c poi termina con | la
edizione di Verona , quefte parole: A 1 on faro più I (^ P inrgia
appreffo lungo , perciocché effondo Monf,-\ Pietro dei Nicolini da
Sabbio gnore Brevio noftre lo apporta- \ mdm. in 4 * * Car> 3 ^ 1, a
tcr S 0, tare di quefta, egli fupplirà a I (iji) Ivi» ed anche a
car. bocca a quello , che io bavero. in fine. Digitized by
Google DEL T RISSINO. 75 GRAMMATICES introduci ionie
Libcr Primus. Verona afkd jintonium Putellettum Fu rijtempato quello
Trattatello in Verona unitamente coll’altre fue Opere dove si premette un breve
avvilo al Lettore , dicendo in eflb, che la detta Operetta forfè è
quella, che fittone. me di Grammatica fi cip* da quelli , C hanno
fatto U Catalogo dell'onere del *oJItq T*is«no, e forfè ancora nella
prima edi. itone fi è dallo Stampatore coti nominata > Libro Primo 5
per rifletto 4' altro giceiolo Libretto » che contiene le
inflituzioni della Grammatica del celebre Guari» Veronefi , e che
figuitando- gli immediatamente , fui far le veci di Secondo diquejfa
materia. Non fi fa in fatti che il Tri ss ino altri ne fa-
cefle i e certamente altri non ne avrà compofti , concioffiacofachè nulla
manchi alla perfezione dell’Operetta medefima* in cui egli
attenendoli alla Italiana Grammatùhetta, tratta compiutamente delle
otto parti dell’ Orazione . K i OPE- Tota. i.acar.197.
OPERE i DEL TRIS SI NO >. In Verlì
Stampate. LA SOFONflSBA ( in fine } Jfampata in I v Rama per
Lodovico Scrittore , & Lautitio Pe- rugino intagliatore nel MDXXllU-
del Me fé di Luglio con p rohibitione , che nefsuno poffa Jfampare queft
opera per anni die- ce t - come appare nel Brieve concedo al prefato
Lodovico dal San . tifiimo Noflro Signore Papa Clemente VII. per tutte le
Opere nuove che 'Iftampa. in 8. Laltefià. Jn Vicenzjt per T
olomeoj articolo e In Venezia ( con li Aitratti I* Epiftola a
Margherita Pia Sanlevenna y f Orazione ai Doge Gritdj e la
Canzone a Clemente VII.) per Girolamo Pernio da Lecbo. in 8»
e ivi ( lenza la Canzone ) per Agoflino Bìndoni Ivi ancora
(reparatamente) prejfo u Gioliti mdliii. in 12. c Ivi
per Francefco Lerenzini MDLX, in 8# * e Ivi P” u Gioliti ( tratta
dal fuo primo efemplare) mdlxii. in n. - *' £ Jn
Gntovrfapprtffo Antonio Bellone * e Venezia per Ginfeppe Guglielmo ,
>s T UO- Nuovamente ** Venezia prejfo Altobello Salica-
io Poi In Vicenza prejfo Perin Librar o t e Giorgio
Greco compagni in 12. e in V me zia prejjo li Gioliti
mdlxxxv. e mdlxxvi- in n. e Ivi per Domenico Cavale
«lupo. ili 8. e Ivi preffo Michel Bocobello " Poi
ancora inVicenzA appreffo il Brefcia e in V inezia per Gherardo Jmbcrti . Fu riftampara eziandio
unitamente con la Dpijtola de la Vita ec. (con li Ritratti , e X
Orazione al Doge Gritti) fenza nota di ftampa, con cer- te
note in fine, in 8. (15?) Finalmente fu impreffà tre volte , in
re. rena prej/b Jacopo raiUrji, F una . nel primo tomo del 7 Wr»
italiano (154), l’altra nel 1729, colle altre Opere del noftro Autore,
e la ter- V. fopra annotazione l2c. a car.
67. ( >54 J Di quell’ Opera ne dob- biamo laper gradoni
Signor Mar- chefe Maffei, il quale v' ha pre- mevo ancora una dotta
Prefa- zione , da noi altrove accenna- ta, in cui difeorre molto
eru- ditamente della Sofonisba, che occupa il primo luogo.
Quell’ Opera è cosi intitolata t Tea-\ tro Italiano , o Jìa
Scelta di Tra- j gedie per ufo della frena ; ec. i in reron a
prefso Jacopo Vallar fi 171S. in 8. Tom. 1. a car. .
Tralafciando di riferire le vcr- fiotti fatte di quello
Tragico Componimento in altre lingue, fedamente vuol di rii ,
efTere cf- fo fiato tradotto in metro Jam- bico latino da Giulèppe
Trilli- no la terza nel prima toma del fuddetto Teatro
ita- liano ultimamente rillampato- Qui dovremmo ftenderci a
defcrivere a minu- nuto le bellezze di quella Tragedia, aia per non
dilungarci troppo, ci riftringeremo (blamente a riferire ( come di fopra
prometto abbiamo ) le oppenioni di parecchi illuflri e chiari
Scrittori fopra la fletta , £ primieramente Niccolò Rotti, tanta
ftima ne fece* che non pure ditte ( 1 5 . che ella tra tutte le Tragedie
de’ Tuoi tempi te- neva il primo luogo? ma la fcelfe di più per
materia de’ Tuoi Dimorfi intorno alia t rogo dia. Angelo Ingegneri?
Veneziano, laido lcricto, non efler troppo agtvol cofa P arrivar P
Arìoflo nella Commedia , atrissimo nella Tragedia r del qual fentimentO
fu pure Giovambatilla Giraldi da Ferrara , per al- tro rigido
appuntatore del Trissino, dicendo, che tra’ noftri Comici è recito p
Ariofio eccellentijfmo , & il TrHsino nelle Tragedie ha
riportato, & ragionevolmente grandijfmo honort . Benedetto
Varchi poi, uomo di molta erudizione fornito, non dubitò di dire nelle
fue Leudoni > là dove trattò dei no, Cherico
Regolare Soma- 1 meffaa* fuoi Difeorfi intorno alla (cor la qual
traduzione fta ma- j Tragedia . V.’car. 1j.aonot.44. nufcritta nella
Libreria de' P. P. I Della Poefia Rappre- Somafchi di Vicenza con que- 1
fentativa , & del modo di rap - fta femplice ifcrizione: Sopho- I
prefentarr le Favole Sceniche cc. NUB/t Tragedia metrico-latina 1 In
Ferrara per littorio Baldini Paraphra/ìt . IJ98. in 4. a car. a.
Lettera a’ Lettori pre -1 Ne' fuoi Difeorfi in- torno dei
Traici Tofani (159), edere ftato il noftro CjIOVANGIORGIO il P R 1 AIO »
che fcrivejfe Tragedie in queJU lingua degne del nome loro. E flOIl pure
il Vàrchi gli diede quella lode* ma eziandio il fopraddet-
toGiraldi, il quale nel fine della Tua Orbecche in- troducendo la
Tragedia a favellare a chi legge, le fece dire cosi: £’l Tr
ISSINO gtWtH , che col fno canto Prima d Ognhn dd Tebro , e dall UH f
so Già trajje la Tragedia all’ end e et Arno . E a tralafciar
altri autori , non fu minore la ftimaj che d’efia fe il Signor Marchefe
Maffei , il quale nella fua raccolta di tragedie date a lu- ce Col
titolo di Teatro Italiano , dando all 1 Sofonisba nel primo tomo il
primo luogo, dille, che ella il primo luogo altresì occupa fra
tutte quelle Tragedie, che dopo il rinafeere delle bell' arti in
mo- derne lingue apparsero ( 161 ); foggiungendo cfler mira.
HI terno al comporre dei Romanzi,] (160) Nel principio
della delle Commedie , e delle Trage-i Prefazione, o Difcorfo, che
vi dte , cc. in Vinezia appejfo Ga - premette . briei Giolito de'
Ferrari , &\ Avverte qui
dottameli. Fratelli , . acar.14jr.Jtc il Signor Matchefe, che
ben- Legioni di A 4 . Bene- j che vero fia, clic avanti la So-
detto Varchi Fiorentino lette da' fonisba il nome di Tragedia in lui
pubicamente nell' Ac ademia J Italia fia ftato a’ componimenti
Fiorentina, ec. in Fiorenza per | volgari impofto , poiché, die’ Filippo
Giunti 1590. in 4. a car.J-egli, con queji' ijtejjo belliffmo 681 • ,
argomento una Tragedia abbia- ' mo , è il ctfa,
come la [rim a Tragedia riufcifle cui eccellente: C po- CO
apprell'o a fieri , che chiunque no n abbia » come in molti accade , il
gufo del tutto guafto da certe Romanzate ftra- mere, non [otrà certamente
non fentir/ì maravigliosamente com. muovere dalle belle vue di
queftaTragedia, e da' p a fi tenerijfimi, c Singolari , che in ejfa
fono. E finalmente in un altro luogo lafciò fcrittOj'che vera e regolata
Tra- gtdia in quefla , o in altra volgar lingua non fi vide avanti
la Sofonisba del T R i s s i N o » a cui il bell' onore non dee invi
- diarfi d'aver innalzate le nofir.e /cene fino a emulare i fiamofi
efemplari de' Greci* Ma degno di (ingoiar lode 5 e d’eterna
memo- ria fi rendette il noftro Giovangiorgio per aver ufata in
quefta Tragedia una nuova ma- niera di verfi, e da veruno non prima
ufata, dico i verfi fciolti , cioè non legati dalla rima*, di che e
il Giraldi e per la condotta tanto fi allontanano dal
regolato ufo del Teatro , e dalla furia degli antichi Mae- flri ,
che non hanno fatto confc- guir luogo agli slutori loro fra ^ Poeti
Tragici; onde la gloriaci' aver data al Mondo la Prima !
Tragedia , dopo il riforgiment» 1 delle lettere , e delle bell'
arti, è rimafia al T r 1 s s 1 n o . i A car. iv. della fud*
j detta Prefazione , o Difcorfo p.renjeflfo al detto T entro Italia
* no . I Difccrfi cc.
a car. 23 6. ! Di f par crebbe non altrimenti ap* 1
preffo noi una Tragedia fe di ver- 1 fifo tutti rotti , 0 mefcolati
cogl’ ! intieri , o co gl' intieri foli c'h.u j veffero le rime,
fifle tutta compì- fi a , che havtrebbe fatto appreflo i Greci ,
& i Latini , fefujfeft at a 1 ccm . Digitized-by Google
del T Ri s s i n o; . ‘ Si
Ivlaffei (154) afsai lodatilo, e dicono, che per- ciò gli debbe fentir
molto grado la noftra lin- gua. Ben’è vero, che vi fu chi a Luigi
Alatnanui., famofiilimo Poeta Fiorentino , attribuì la gloria d’aver
prima d’ognuno pofto in ufo co- .tal Torta di verfii e ciò perchè egli
-nella Dedi- catoria delle lue opere To/cane dille d aver mejfi in ufo
i .ver fi fenza le rime non ufati ancor mai da' noftri migliori.
,Ma come notò molto giudiciofamente l’eruditif- fimo Signor , Conte
Giovammaria Maz 2 uchelli [166) , o che l' Alamanni contezza non
ebbe della Tragedia del Trissinoj e però fi pensò d‘ efsere il
primo a fcrivere in detti verfi , o che accennar volle colla voce
migliori qué’foli anti- chi fcrittorij .che fon venerati per primi
Maeftri L della é compofia di Dimetri , di
Adonii,\ Fiorenti* 15S 9. in 4. a car. 7. di Jindec afill ahi , ovtro di
éjfa- come pure il Bocchi nc’ fuoi E Io- metri, perchè le fi leverebbe
con' gj a car. 68., ed altri allegati la gravità il verifimile ; le qua-
\ dal Sig. Co.'Giovammaria Maz- li due cof* levatele , firimarreb-\ne
ucheìli nella Pira dell’Ala- re ella fenz.a pregio. Et però manni per
etto dottamente ferie— debbono aver molto grazia gli' ta , e (lampara •
in Verona per huomini della nqfira lingua al ! Pierantonio Berno , 174 j.
in 4. T R 1 s s ino , eh' egli quefli ver- j unitamente colla Coltivaz.icne
Ji fcielti lor dejje, ne' quali la j dello ftcflfo Alamanni, c colle
Tragedia pigliale la fede della \ Api di Giovanni Rucellai , fu* Maefià
con vera fembianzut amendue gentiluomini Fioren- atl parlar communi* I
tini . (164) Nella Prefazione al j A car. 47. della pcc’
Teatro italiano. I anzi citata Tita di Luigi Ala- Il Poccianti nel
Cata-j manni. logo Scriptcr, Florentitiorum della Poefia. Fatto fta
però avere il T rissi no» come già è detto» la Tua Tragedia comporta
vi* ventc Leone X. a cui la dedicò » cioè a dire prima che l’
Alamanni fcrivefle le Tue Opere» che furono ftampate nel in 2 *
(*^7)* E perchè v'ha una Commedia di Jacopo Nar* di, Fiorentino,
intitolata amicizia (j e dell' ortografia antica della predetta
Commedia , e fu Taverla il Nardi chiamata nel Prologo fabula nuova , c
primo frutto di Ytvovo autore in Idioma Tofco , decife francamente >
ef- fcr la piti antica , e la prima di tutte le Commedie, che fi vedeffe
feruta in 1/crf, Italiane: aggiungendo, che dal- le quattro stante
ftampate in fine di efla Com- media ( 172), appar chiaro efier efifa
finta compo- L 2 fila * I. " L - - u j , j
Il Crefcimbejoi nella [che egli verarnente prete yno Star, della
l^olg. Poef. dell’ edi- 1 sbaglio, perchè il Varchi dille zione di
Venezia* tom. r. lib. folamcnre, che il Nardi usi in lib. J. a car. 1 1 V
parlando del ! una fua commedia i verfi fciolti. verfo fciolto j dice,
cheiIVar| A car. 4J5. e fcg. chi, lafciando indubbio, fe il J Quelle
Stanze fono le Tris e dì guerre accefe in Tofcana, e per tutta l'
Italia : il che (dice egli) pienamente corriffondt all' annoi 494.
in congiuntura del. la venuta del Re Carlo Vili, in Italia-, e della
cacciata de' Me- dici da Firenze . Ma quanto egli favellale a
capriccio? ognuno-, che fiore abbia di letteraria erudizione , può
agevolmente chiarirfene. Conciolfiacofachè quan- tunque Da
quel-, da cui ogni falute pende Letitia & paco: a cui
fitto- il tuo fogno Si pofa : & lieto ogni tuo be-
ne attende: j Et ceffi il Martial furore & /degno:
Cbe fa tremare H Mondo : Italia incende , Chel clanger
delle tube , & il fuon dettarmi Non laffa modulare i
dolci carmi. Ma quello Dio , che olii alti in- gegni
afiira: Et ogni opera dif prezza abie- tta dr vile:
Tanto- favor benigno oggi ne fint- eti pur la fronte
extollt il ficco umile. Ma fi lodore antiquo non re-
fi™ Stufate lo idioma : & baffo fHle. Et
fcujt il tempo Ihuom fag. gio & difereto Che molto importa
il tempo fri fio 0 lieto . ]_ Quando farà che in porto al
| ficco lido Salva (Fiorenza mia ) tua barca
vegna Secura in tulio homai dal mare infido: T
efio : Se il Sacro -Apollo il ver minfegna Segua pure il
Nvcchkr ac- corto & fido : Et viva, & regni pur
Chi vive & regna-, -Allhor (fé alcun difir dal
Citi' s impetra) Diro le laude tua con altra Cetra
. -Allhor mutato il Cielo in altro afielìo
Renoverà nel Mondo il Secol dauro-.- si libar farai
degni virtù re- cepto : Cipta felice: & di mirto,
& di Lauro Coronerai chi honore ha per
obietto. Et nota ti farai dallo Indo al Mauro. Ma
hor eh' il ferro & il fico it Mondo a in preda Convita eh' a
Marte ancor Minerva ceda 8$ tunque di ciò, che il Nardi dice in
principio delle fud dette Stanze , (cioè che elle fi cantarono
falla lira davanti alla Signoria» Quando fi recitò la predetta Conr
media) racC ogli e r fi poflìi e (Ter efsa fiata rapprefen- tata in
tempo che Firenze non avea cefsato ancora d efsere Repubblica ; nientedimanco
nè da quefte parole > nè dalle stanze fiefse può dedurli che il
tempo della recita d’efsa Commedia cor . rifa onde Piènamente
all'anno 1494 . in congiuntura de- gli avvenimenti fuddetti. E fe egli in
dette stanze fe menzione di guerre moleftillime a tutto il Mondo,
non che all'Italia, non ne fpecifica pe- rò il tempo j anzi le accenna in
maniera che fi potrebbe più verifimilmente conghietturare aver egli
voluto in efse indicare le guerre in cui dall’ armi ddl’Imperator Car- f
lo V. Roma fu prefa, e Taccheggiata, il Papa (che era Clemente Vii.
di cafa Medici) fatto pri- v gione , l’Italia molto travagliata , e tutto
il Mondo , dirò così, afflitto da gravilfime turbolenze.
Oltreché non è probabile, che la signoria in tem- po di guerre e di
turbolenze inteftine fi fofse data bel tempo, e fe la fofse pafsata
(comefuoi dirli) in allegrie, e in divertimenti di Gomme* die.
Laonde con migliore probabilità fi può dire, che la Commedia del Nardi
fofse rapprefentata nell’anno 1530. giacché in queft'anno e
Clemente , Vii. ritornò a Roma dopo la pace fatta col fud.
detto detto Imperatore, e dopo averlo anche
folenne-^ mente coronato nella Città di Bologna; c Aleflan- dro de
Medici fu fatto Duca di Firenze dal mede- fimo Imperatore; fotto il
Dominio del quale la Città non lafciò in certo modo d’eflere tuttavia
Re- pubblica. E verifimilmente un de’ due accennar volle il Nardi
nella voce Nocchiero , ufata nel quinto verfo della terza ftanza, e ad
uno de’ due pari* mente, o fors’ancbc a tutti e due pregò egli PitA
t Rtgn? nel fedo verfo della ftanza medeilma r E viva > &
regni pur Chi vive & regna. Se poi egli chia- mo la Commedia fabula
nuova i e primo frutto di nuovo uè ut or e in idioma t ofeo , volle
con ciò indicare la novità dell’Argomento, ma non mai la novità del
verfo, come pretefe di farci credere il Fontani- ni nel citato luogo : c
perciò fu giuftamente cen- furato dal Dottore Giovannandrea Barotti
nella fila JOifefa delti Scrittori Ferrar e fi A quel che fi è detto fi può ancora
aggiungere * che non fi troverà certamente , che lo Zucchetta, per
cui fi crede, che fofle anche fiata fatta la pri- ma edizione della
predetta Commedia * libro al- cuno ftampato abbia avanti! 1517.» 0 al più
al più avanti > quando il
Trissino avea già com- Parte feconda A car.n j. I tutori /
opra P Eloquenza Italia- Queft’ Opera del Sig. Bacotei faina del F
anfanivi , Roveredo[ ma Campata tra gli Ejfami di Tarj veramente Venezia)
comporta là fua sofonhba (174) . Ma per- chè più chiaro appaia l’errore
del Fontanini ? e del Guidetti altresì nella fua relazione al Var-
chi, e come a torto vuol toglierli al Tr issino da alcuni moderni la
gloria della invenzione dei Verfi fcioltij vogliamo qui riferire ciò ?
che al medefimo noftro Autore dille Palla Rucellai nella lettera ?
colla quale gl’ intitolò il Poema delle Api di Giovanni Rucellai ? Ilio
fratello? che che è fegnata di Firenze Voi fofte il Primo (gli dille) che
quejio modo di fcrivere in •verfi materni liberi dalle rime ponefte in
luce , il q»al modo fa Voi da mio fratello in Rojmunda primieramente, e
poi nell' ji- pi » 0 nell' Orefie abbracciato , ed ufato: e apprellò
chia- mò f Opere dello fteflo fuo fratello Primi frutti della
Invenzione del Trissino. Per le quali cofe tutte forza è, che
conchiudiamo? che a gran ra- gione non pure dagli antidetti Scrittori? ma
dal Tuano e da altri ( ìycr ) fu il noftro Au- tore . Veggafi
la foprallega- ! FHJlor. &c. Toni.
1. lib, ta lettera di Giovanni Rucellai vi. Ann. 1550. pag. 200.
lctt. ai Trissino fegnata di Fi - \ D.„ Jo: G e or g i U s Tbis>
terboaddt 8. di Novembre mdsv. j », sihi's .... P ri m u s genu $
ftampata nella Prefaz. alle Ope-',> canninis foluti foelicitcr ufur-
re dello fteflo Trissino a car. ‘ „ pavit, cum a temporibus Fr. xv.} e a
car. xvm. v’ha una „ pcirarchae Itali Kythniis ute- Lettera della
Marchcfa Ifabclla ,, rcntur. di Mantova al nollro Autore; ( 176 ) Filippo
Pigafctta, Vi- de* di 24. di Maggio 1514. in ccntino, nel Difccrfo
mandata cui gli dice, che avea ricevutola Celio Malafpina in
materia una fua Lettera , Ferfi , & Ope- ‘ dei due Titoli del Poema
di retta, la quale fi può crede- Torquato Tallo , premeflò al re,
folTc la Sofonìsba, Poema fteflo delia edizione di Fette-
Digitized by Googl SS •' La Vita torc chiamato
Primo inventore di qucfti verfi . Ma per tornare alle
opinioni degli Scrittori fopra la Tragedia del Tassino» non fu ella
efen- te da’fuoi critici, rare eflfendo quell’ Opere, in cui non
fia ftato notato qualche difetto. Il Var- chi nel citato luogo volendo
darne giu- dizio, la oenfurò fpezialmente per la locuzione ,
dicendo COSÌ: Io per me quanto alla favola , e ancora in molte cofe
dell'arte non faperrei fe non lodarla -, ma in molte al* tre parti , e
fpezialmente d’ intorno alla locuzione non faperrei, volendola lodare, da
qual parte incominciar mi dovejfi . E nell* JErcolano ( 1 78 )
diflfc: La La Sofonijba del Tr isslno, c la Rofmunda di mefier Giovanni
Rucellai , le quali fono loda - tijftme, mi piacciono sì , ma non
pia quanto a molti altri. 17 al C k Venezia per
Francefco de' Fran- j che come fi avea d aver grazia, cefchi. in 4.,
dice, che \\\al Tr 1 s j i N o, c'havejfe dati T r 1 s s 1 n o fu il
Primiero; que verfi ( fciolti ) alla Scena , che in italiano abbia ofato,
e | così cc. Finalmente il Giti di faputo ..., camminare per fen - 1
medefimo in una delle fueLet- tiero erto, non più calcato da terc.tra
quelle di Bernardo l af- ' vernn altro dal tempo antico in fo. In / 'a
dova . , apprefi quà , faivendo in Verso dal- fo il Cornino-, in 8.;
toni. a. a la rima Sciolto , con avvefttu- | car. 198. apertamente chiamo
1 rato ardimento, la Sofor.isba Tra - ITr.ssino Inventore di tali
tedia ce.. HGiraldi poi ne* Di fi ! verfi : la qual cofa fu olTervata cor
fi cc. a car. 92. favellando dei anche dal predetto Sig. Co: Maz- Verft
Sciolti , chiama il noftro ! zuchelli , a car. 47. annotaz. Gì
ovangiorgio loro in- j 1 22. della fuddetta l'ita di Lui- ventore-, e
approdo dice qucdc' gi Alamanni, parole: Veramente mi pare , che | Lezjzioni
ec. a car. 68 r,. Monfignor il Bembo, giudiciofo A car. 393. e 394
del- Scrittore ..... il vero dice fio, | la ciraw edizione di
Padove quando a Bologna mi diffe, che I 7 -H - ,n X» "E L T RI S S,I N O.
Giraldi poi fu appuntato il nollro Autore; per eflcrfi in quella
Tragedia più dato (come £ dlfle) a fcrivtre i co fimi , e- le m
Anitre de i Greci, che nonfi conveniva ad uomo, che firiveffe cofa
Romano, nella quale tn. traffe la maejlà. delle perfine, ch'entra nella
Sofinisba, Alla quale obbiezione veramente potrebbe nlpondcr-
fi colle parole del fuddetto Signor Marchefe Maffei (180), cioè che
certe azioni, 0 detti, che ci pa - jonoJn Per finali grandi aver talvolta
troppo del famigliare > .non danno dif gufi 0 a. chi . ha cognizione de'
Tragici Greci, egra* ttìca de' co fi unti antichi * E sì .
parimente altri difetti furono appuntati an erta Tragedia, che per dir
breve fi ommet> tonoi ma con tutto quello farà elfa da tutti i
dotti Tempre in grandilfimo pregio tenuta: per- chè quantunque lì creda
lontana da quella per- fezione, a cui fi può condurre un
componimen- to teatrale! (oltreché Tiftelfo potrebbe forfè dir- li
delle Greche Tragedie ancora, come dice il predetto Signor Marchefe egli
è per al- tro certo, no» molte prelfo chi ben intende an- noverarli
Tragedie in lingue volgari, che porta- no gareggiar con la Sofinuha, la
quale fola fareb- be ballante a tener tempre viva gloriofamcnte
M appreC- f 179) Difiorfi del Giraldi e. liane luog.
cir, car. 179. in fine, e a car. Prcfaz. alle Opere de ( lio) PreCaz. al
Teatre Jta.\ Trissino a car. xxvii. Dìgitized by Coogle
5>S 'La Vita apprcfso i letterati la memoria del Tuo
Autore- A ciò che abbiam detto fi può aggiugnere an- cora il
giudicio del mentovato Signor Cavaliere Zorzi, il qual dille, che la
Sofonùba ì u n Tragico Poemetto, migliare de’ Greci, e /nitriere ai
Latini , Ita- liani » e Franzefi Scrittori. LA ITALIA
liberata tia i Goti. Stampata in Roma per Valerio , e Luigi Dorici a
petizione di plutonio A/aero Vicen- tino MDXLV1I. di Maggio, con
Privilegio di N. S. Papa Paulo Jll, di altri Potentati. -
Rarif- Difcorfo fopra l’ Opere \ al Clcmentijfimo ed Invit
tijfimo del Trissino a car. 415. 11 ^Imperatore Quinto CARLO
Quadrio nella Storia e Ragione > Maffimo : e quelli primi nove d' ogni
Poefia Voi. 3. libi 1. Dift. ì libri fono di carte 175 I fc- I. cap. iv.
Particcl 2. a car. 65. condì nove, che contengono regimando quella
Tragedia, ac- carte 181, furono Rampati l’an- Cenna i difetti fuddetti in
clfa no approdo nel Mcfe di Novem - notati dai predetti Varchi cGi- bre ,
come appare da quelle pa- llidi ; ma apprelTo foggiugne , fole , che in
fine fi leggono : che efla ciò non cjtantc ha fem- Stampata In Pene zia
per T 0- pre avuta ejiimazJone non poca: torneo Janiculo da Brejfa nell'
an- nominando anche la traduzio- no MDXLV 111 . di Novembre . ne
Iranzcfc di detta Tragedia Con le grazie del Sommo Fon- fatta per Claudio
Mcrmctto, c tifico , e de la JlluHriJfima Si- imprcfla in Lione l’anno
1583. gnoria di Venezia , e de lo Illu- ( Quello Poema fa dal Jlrìjfimo
Duca di Fiorenza, che Trissino, come è detto di ninno non la poffa
riftamparc lopra, mandato in luce in più per anni X. fot za efprejfa
licen - tempi. 1 primi nove Libri » i za de l’Autore. Gli ultimi
no- quali hanno il titolo fuddctto,;ve finalmente furono llampati ma
co’fuoi nuovi caratteri, fu- janch* effi in Venezia P anno rono llampati
l’anno 1547. nel Hello MDXLVII . per Io Redo Mcfe di Maggio ; attorno il
qual Janicolo, ma di Ottobre (cioè titolo v’ ha eziandio il motto un mcfe
innanzi a'Scconai no. della, imprcla da lui alzata TO ve) collo Hello
privilegio. E / HTOTvevon A auto >1 i e tutti quelli XXV II. Litui
(che dopo fegue la fua Dedicatoriafono, non già. come Ov
pi Rariflìma è quefta edizione } e due fole copie n’abbiamo noi
vedute in Venezia y una nella ce- lebre Libreria Pifani? e l’altra nella
preziofa Li- breria del fu Signor Apoftolo Zeno (184) 5 ap- prefso
cui Vera anche un efcmplare dell’ im- presone feguente. — — J
tali a &c. riveduta e corretta per /’ Abate Antonini ec. in Parigi
nella Stamperia di Ciovanfrancefco Rteapen . Tom. 3- in 8.
Fu anche riftampata unitamente colle altre Ope- re del noftro
Autore nell’edizione tante volte da noi citata j (ma fenza i caratteri da
efso in- inventati) in Verona preffo Jacopo PalUrfi 1729. i n
e tiene il primo luogo nel tomo primo • Ma Anche
ionie diflero erroneamente il Fonranini nell’ Eloquenza ita- liana
à car. 580. . e 1 Autor del Catalogo della Libreria Cappo- ni a
car. 377.) fono uniti in un volume in 8. Il Cavaliere Zor- zi nel
fuo Dif offa intorno alle Opere del Tkissino a car. 4 y). sbaglio
prefe in dicendo, che i primi libri furono ìmprtfft in Roma , e gli
airi IX. in Venezia . Dal Signor Apoftolo Zeno fu la
detta fua Libreria donata con teftamento a P. P. Domenicani della
flrctta offer- vanz.a di Venezia nel mefe di Settembre dell’anno
i7jo.» nel quale poi addì xt. di Novembre placidamente p.ifsò di
quefta vi- ta. Della cui perdita li dorran- no mai Tempre i
Letterati , ed tifa da noi non pure in quel tempo, in cui appunto
eravamo in Venezia, ma continuamente farà compianta. Cinqui
abbiam voluto dire., per Iafciare un pub- blico arredato, della
noftra gra- titudine alle molte cortcfie ufj- tcci dal meiefimo.
Per altro un elogio alla memoria di sì grand’ uomo col Catalogo
delle fuc Opere ha pubblicato l’erudito Autore della Storia
Letteraria d'Italia (il P. Francefco Anto- nio Zaccaria Gcfuira )
nel Voi. 3. lib. 3. cap. V. num. 1. c fegg. pubblicata in Venezia
nella Stamperia Polttiv 1752. In 8. Anche quefto Poema fu da varj
letterati ITomi-^ ni e Iodato? e cenfurato in molte cofe. E quanto
alle cenfure, il Titolo primieramente non è affat- to piaciuto ad alcuni,
giudicandolo dii troppo lungo, e ravvolto, diròcosì* dicendo, non
bene diftinguerfi, fe i Goti, o pure altri da' Goti ab- biano
liberata f Italia (18*) . Scipione Erriccy Poi nelle fue Rivolte di
Parnafo Criticò 1 - AtJ- tore noftro, che fece fare fenza necelfità
veru- na ai Perfonaggi del Poema lunghi ragionari, e che introduce
la gente nella Zuffa, parlante a- guifa di Dialogo, facendo che l’uno
ricominci dove l’altro terminai il che è lontano affatto dal
verifimile j concioffiacofachè nelle guerre non s’odano che poche voci, e
folamente fi fenta, il fragore delTarmi : e in altro luogo ky
criticò, perchè troppo alto cominciamento die. de alla guerra i dicendo ,
che meglio avrebbe fatto', fe avefse porto Belifario o dentro a Roma, o
per lo meno in Italia v e tacciando in ol- tre gli amori di Giuftiniano
di troppo goffi c lafcivi, c d’indegni del fuggetto, a cui furono-
appropriati (188): delle quali cenfure dell’Erri-- CO fi
(185 ) Veggafi Udcno Nificli tic' Proginnafmi ec.
Rivolte di Parnafo di Scipione Errico . In Me finn per gli
Eredi di Pietro Urea 164.1. in iz. acar. 63. Rivolte
di Pam a fe a car. 64. ( 188 ) Rivolte ec. a car. .
pj to fi dolfe poi non poco Gafpare Trillino colla Lettera a lui
indiritta ? la quale fi legge nelfè efse Rivolte di Pimi/,, (i8p). Attché
il Fontanirri nella Eloquenza Italiana ( jpo ) notò qnefto fallo
commefso dal Tr issino, foggiugnendo, che egli Poi ravvedutoli, ne fece
l’ammenda, riftampan- do le carte, e mutando i verfi già fcritti (ip r ;
s pafiando appreffo a riprendere chi riftampò le Opere di lui,
perchè avendo tralafciata l’ortogra- fia dal Tri ss ino fieflb inventata,
v’ avelie poi inferite le cofe ** M medefmo volontariamente ritrai
- utt (ipi). Da S * ÌV r ° lte J C - * car -
«o-. | eolie parole, e le parole io' ben- (iyo) A cai. 581. 1 fieri: le
quali fofto perciò fem- so^Aelìa Ubr^'r ^ C * ! * lo \t lici e
P«re, e di quando in quan. go della Libreria Capponi a car. | do con
virgìnal modeffia trasfe &Y.T„“fT ''jT'I’t'v" 4 CanonTo G
fZt d I Rissino, die*; nelle An- : ni Checozzi nella fùa dotta Ltt-
TZntL C alcll q0Cl1 ’ \ *»* di,enfiva ’ «tata al di fopra
An!dli r q '"'"^ont all 1 annotazione 101. , dice che
{jù 1 ; isst { ;j:zz:iu f :rr ir ™ s - ìz o ìvT cho t
bcmì ! 2 *’ 119 J. \ io ’ » ,iche > àoveglifcherzi qualche
e 1 31. , che fi e tentato di leva - 1 volta p affano aver Inaio ma
UaVitìc *‘ r l ÌC l n ?*** }"**•{ molto pia nelle ferie, & ed
ora- Ma Vincenzio Gravina nella fua tcrie. * Opera intitolata
Della Ragion Poetica libri due cc. Jn Venezia frejfo
singioio Geremia 1731. in 4. lib. a. a car. 106. non dubitò
di lafciarc fcrirtó non foiamen- Le parole delFontanini nel
luogo citato fono quelle z Reca gran maraviglia (dic’egli j che
ojjendendofi la memoria , e riputazione dd Tritino nel ri- fi
n 1. ^ te chela Qifd. -r riputazione del J njf.no nel ri -
te che lojhle del Tassino \fiamparfi le fue Opere ( non pe- e
caffo e frugale; ma ancora che] ri con l'ortografìa da lui fi tifo tatti ifitoi
penfien fon mi furati j inventata ) fiafi voluto in onta fua
» .Vita' Da Gio: Mario Crefcimbeni nella Stiletta
dil- la Fdgar Totfm { ipj), fu il Tr issino cenfurato di troppo
efatto nella deferizione delle parti ,• e particolarmente del veftire
dell’Imperatore Giu- ftiniano; concioflìacofachè gli abbia fatto
metter prima la camicia, e poi 1* altre robe di mano in mano fino
alli calzari; foggiungendo, che l’efem- pio d’Omero inventore di cotali
foverchio dili- genti narrazioni, non lo dee in ciò feufare. In
fatti l’avere Giovangiorgio troppo efattamente imitato quello Greco
Poeta, fu la cofa princi- paliflìma, che. gli ha nociuto. Di che
eziandio Giovambatiila Giraldi ? Cintio , Ferrarefe , ap- puntollo,
dicendo (194)5 che £ energia non iftà ì co- me il noftro Autore fi
credette, nel minutamente feri, ■vere ogni copicela , qualunque volta il
Poeta fcrive eroicamente; ma nel- fla, e non fenza
contumelia del- la Chrefa Romana fargli l' oltrag- gio di preferire
alia giufta fua correzione le cofe , volontaria- mente da lui
meclefimo ritratta- te , cantra le quali da onorato gentiluomo-, e
da buon Crifiiano altamente fi fdcg -crebbe , Je foffe in vita. Con
quelle parole ac- cennò il Fontanini la rillaihpa» che delle Opere
del T n i s‘s i n o fi fece in Verona ; del che il Marchefc Maffci
fe ne rifenri nell’ E fame fopraccirato, a car. 73., dove dice, che
il detto Boema fi è ristampato a Verona | fecondo /’
impresone con Privi- legio di Papa Paolo Terzo ufii- I ta . lo
certamente non ho vo- ; Juro darmi la briga di con- frontare la
primiera edizione ; colla riftampa' del Poema fief- fo, per
chiarirmi» fe vere ric- ino quelle mutazioni predicate dal
Fontanini . Bellezza della Volgar ' Poefia di Gio: Mario
Crtfcim- j beni ; In Venezia , preffo Loren- \zo Bafeggio, in 4. Dialog. Vili, a car. 157. Ne’
Di f cor fi ec . a car. 6 a. ■ma nelle cofe, che fono degne
della grandezza della materia* if'ha il. Poeta per le mani: e prima
( 195 ) dille quelle parole: Come l'età di Omero e i collumi di
que' tempi, e le fingo lari virtù, che fi trovano in queflo divino Poeta
, fecero to- ler abili quelle- cof e in lui', così l'averle il Trijsino
in ciò imitato ne/r Italia, .altro non fece , che ffiegliere dall'oro
del componimento di quel poeta lo fi creo , (il quale non per fuo
vi- zio , ma dell età ci fi trapofe ),.e imitare i viz,j , ( parendogli
di avere affai fatto , fe bene gli efprimeva ) , e accogliere tutto
quel- lo, che i buoni giudicii vollero trai affiate, moftrandofi in
ciò foco grave. Oltreciò lo Hello Giraldi (i 96 ) notò in
quello Poema, vìziofe eflere le invocazioni; e la favola di Farlo e di
Lìgridonia elTervi introdot- ta, e fuori dì ogni bifogno, e fuori d'ogni
dependenza ; aggiun- gendo, quell’allegoria efler tolta da altri, e in
parte dall' Ar lofio nella favola et Ale in a, e di Logifiill * * C finalmente
in una. Lettera a Bernardo Tallo (198) dille , chele il Tr ISSINO
fiecome era dottiamo , così foffe fiato giudiciofo in eleggere cofa degna
delle fatica di venti anni , avrebbe veduto , che così fcrivere ,
com'egli ha fatto , era uno fcrivere Smorti ] inferir volendole il
Poema non era letto. Ma chi dogni appuntatura de'Critici a
quello Poema parlar volette , llucchevole forfè e nojo- fo
riufeirebbe ; elfendo già flato fatto que- flo dal Difcorfi ec. a
car. 33 .[quelle d’effo Taffo , ( Voi. a. t 9f> \ ^r 0T r cc ‘ 3 car ' 49
- a Car. 196. e fegg. ) (lampare
— l J cor fi cc e fopra i Poemi di alcuni più chiari Epici non
dubitò d’, innalzarlo. Nè minor conto ne fece Benedetto Varchi,
poiché in una deile fue Leeoni (20 6) dille , che 1 Italia Liberata
da Goti fe bene era lodata da pochijfimi meno che mezzanamente , e da
molti in finii amen. t e biafimata ,.e quafi derifa , pareva a fe
nondimeno , che -Quanto a quello , che è prof rio del poeta , ella
mcrìtdffc tanta lode, anzi tanta ammirazione , quanta altra potft*
, che JSj fia dogo fico , ed a teffer lavoro
Somiglian- te a quei di Virgilio , a d' Ome- ro, e di quejlo
fpezialmente eh' egli prefe a imitar del tutto. Lettere , Voi. 2. acar. 416. Il T
rissino > la cui dottrina nella noftra età fu de- gna di
maraviglia, il cui Poe- ma non farà alcun» addito di negare che non
fia dijpojlo fe- condo i Canoni delle leggi d' lArift utile, e con
la intera imi- tazione d' Omero , che non fia fieno d erudizione
atto a infe- gnar di molte belle cofe ec. 11 O. medefimo nel 1.
libro di quefto fuo Poema, a car.22.dcl- l’cdizione di Roma così
dice ; „ Ma voi beate Vergini, che „ fofte „
Nutrici , e figlie del divi - 1 a> no Homcro, [ „ Ch’i
ammiro tanto , e vo feguendo Torme „ Al me’, ch’io fo, de i
fui „ veftigi eterni; Reggete il faticofo mio
viaggio: „ Ch’ io mi fon pofto per „ novella ftrada,
„ Non più calcata da terrc- .^nc piante . E in quefti
ultimi verfi po- trebbe crederfi , che avefle egli voluto indicare
non pure d’eflere flato il primo a comporre Poe- mi a imitazione
d’Omero, ma d’effere anche flato il primo in- ventore del verfo
fciolto » in cui il Poema è dettato. Lib. 2. acar. ioj.
I Lezzioni di M. Bcnedetto Varchi a car. f‘* dopo Omero
fiata firitta, e dopo Virgilio: foggiungcnclo appreflo, che deve molti fi
ridono del T n. i ss i n ® > che confi fio d'aver penato XX. anni a
comporla » a luì pareva, che ciò a gerle giudizio porre , e attribuire fi
gli doVcHè > Finalmente ( a tralafciare il fentimento di
altri Scrittori circa quello Poema, e fpecialmente del Tommafini, e
dell’Imperiali Salvini, che fu uno de’
più be- gli ornamenti, che abbia avuto in quelli ultimi tempi la
Città di Firenze, così fcrille (2op) in torno al Poema Hello, e al fuo
Autore: 11 nofiro leggiadrijfimo Rutilai tefii in verfi fiiolti il
fuo poemetto dell' Api dedicandolo al Trissino, che nello fiejfo tempo
del- lo Alamanni » che la celebratifiima f u a Coltivazione mife in
verfi fiiolti > compofe alla gran guifa Omerica I'Itau a Liberata dai
Goti, il qual Poema fu tanto da un drappello diPaftori Ar- cadi confidar
ato ripieno di bellezza, e virtù poetiche , che ave a- no a varj /oggetti
dato un Canto per uno , per metterlo in otta- va rima , per farlo più
leggibile con quefio lenocinlo alle fihiz,. zìnafiy per dir , coti ,
orecchia Italiane ( 2 to) • ed in Un e nel primo tomo
delle fue opere della riftampa di Ve- rona j e con altre fue poefie nella
prima Parte della Scelta di Sonetti e Canzoni de' pi* eccellenti
Rimatori d'ogni fecolo (alj). XV. RI- Jm
^214) Mi pare, che qui da tralafciar non fia il Sonetto
da Benedetto Varchi mandato al noftro Giovangiorgio j giacché
con dio non pare lui lodò, ma avendo forfè la mi- ra alle altrui
critiche fopra il di lui Poema, inanimillo a?pro- feguire gl’incominciati
fuoi Au- di . 11 Sonetto è qticfio, e fi è traforino dal
libro intitolato: J Sonetti di M. Benedetto Var- chi , ec. In
Venezia per Plinio Pietra Santa , 155-5. in S.acar. 109.:
O. altero , che con chia- ri inchiojtri T e ’nvoli a
morte , e 7 fo- co l noftro bonari , Rendendo Italia a' fuoi
pajfa- ti honori. Di man de' fin crucici barba- ri
moftri Tu con nuovo cantar l'antico' moftri
Sentier di gire al Cielo , e tra'migliori Le tempie
ornarfi dì honorat i allori Pi* cari a cor non vii ,
ohe gemme & oftri. Per te l' Adria , la Brenta, e
’t Bacchillone Al dolce fuori de tuoi graditi accenti
Vanno al par di Pento , del T tbro , e d'Arno . Deh, fe
'i gran nome tuo ftnt- pre alto fuone, £ faccia ogni gentil
pallido 1 e fcarno , Tuo corfo l'altrui dir nulla
rallenti. Scelta di Sonetti e Canzoni de’piìt eccellenti
Rima- tori dì ogni Secolo ec. DEL TRI'SsrN'O- roi XV. RIME.
In Vicenza per Tolomeo lanicc- io MDXXiX. in 4. Diccfi j che
l’anno medefimo fofler ivi riftampa- tc per lo Hello janicoia in 8>;
ma quella edizio- noi non l’abbiamo veduta. Furono bensì riftam-
pate 1» Verona coll’ altre lue Opere. Il Tris si no dedicò quelle
Rime al Cardinale Niccolò Ridolfi, Velcovo di Vicenza in quel tempo
( non a Leone X. , come fcrifle erro* nearnente il Signor Canonico Conte
Giovam- batifta Cafottì, che fu perciò ne[ Giornale de' letterati £
Italia, modcllarrrente cor- retto) e nella Dedicatoria, la quale non ha
da- La, egli dice, che gli mandava w'ft* Tuoi giovanili
componimenti per ubbidire alle fue molte infianze . Di quelle Urne, non
meno che del loro Autore , favellò con molta lode il Quadrio nella più
volte ci- tata Opera fua della Storia e Ragione di ogni Ree* : c
Federigo Menini lafciò fcritto et* fere W4, che
contiene i Rimatori an- Tom. prim.acar.349i fichi del 1400. e del
1500. fino j Nella Prefazione. In Venezia r Vrofe e Rime de'due
Buonaccor- preffo Lorenzo Rafcggio . in 12. 1 fi « Rampate In Firenze
nella Voi. iv. La Canzone è a car. ! Stamperia di Giufeppe A/anni
303. del Vol.i.e di efla se fatta 1 1717. menzione al di fopra
all’annot. ! Tom. xxxvl. Arde* 56. Olitila Scelta , che era fiata
ix. a car. 224. in 12. prima in Bologna Rampata, fu poi j Voi. 2. lib. I.
Difi» riprodotta in Venezia inpiùVo-’i. Cnp. 8. Parriccl» s. a car»
lumi. IOÌ L A V i f A fere i Sonetti del" noftro Autore e
buri , fentenzàoft, e' patetici Sette Tuoi sonetti , i quali mancano
nelle fud- dette Rime , furono ftampati nella già citata Rac- colta
delle Rime di diverfi nobili PeetiTofeani fatta dall* Atanagi: il
primo de’quali fu da Giovan* Giorgio indirizzato al Pontefice Paolo Terzo
> e l’abbiamo accennato altrove; il fecondo a Ottavio Farnefe,
allora Duca di Camerino} e poi di Parma c Piacenza* il terzo a
Margherita dAuftria* il quarto al Cardinal Farnefe foprammentovato; il
quinto a Girolamo Verità, gentiluomo Veronefej il fefto a Paolo
Giovio» Vefcovo di Nocera, e Storico di chiaro nome» il fettimo
finalmente è il fopraferitto, da eflo fatto poiché terminato ebbe il fuo
Poema dell 5 Italia Liberata da Goti. Ancora Un fuO Sonetto,
fcrittO al Cardinal Pietro Bembo (224;, fi legge tra le Rime
di quefto Autore il quale un altro Sonetto Nel
Ritratto del So- j cenza fua Patria. Sono chiarii netto 1 e della Canzone
In Vene- \ fent trizio ft , e patetici, zia apprejfo il Bertoni >
1678.' A car. 8?. a tergo, e in il. , a car. io?. Ecco le fuc ,
feguemi. parole Giovan - Giorgio! V* fopra & car. 55. al. T rissino,
nobile Vicentino , l annotazione 1 07. oltre alla Tragedia delta Soft- j V.
ivi. nisba e oltre all'Italia' Quefto Sonetto C0-
Liberata , Poema Eroico , che \ inincia : fu il primo ad
ejfer dettato fe- j Bembo , voi ftet e a qne bei condo It regole
d'^driftotele , e ftadj intento . fatto ad, eferr.pio di Omero 1 fe
J Rime di M. Pietro molti Sonetti ftampati in Vi- Bembo: In Bergamo
appretto Pie- tro DEL, TRI5SIN Q. j ^ .Sonato nelle
medefime definenze gli mandò in ril- pofta. Altre lue Rime
poi dono fparfe nelle Raccol- te del Varchi» del Rufcelli, e d’ altri: ma
dal Signor Marchefe Maffei tutte adunate furono, e poi fatte
Rampare in un colle altre di lui opere, colla giunta ancora di altre poefie
del mcdefimo (ma non di tutte), non prima date in luce, e di alcuni
Sonetti da altri Poeti a lui fc ritti. Ma perchè alcune
poefie , che fono tra quel- le del noftro Autore, veggonfi altresì tra le
ri- me o de Buonaccorfi, o di qualche altro Poetai però egli è
ragione, che diciamo intorno a ciò qualche cofa, avendone già
diffufamente parla- to altri Scrittori , e fpezialmente il
Cavaliere Zorzi. Tra le Rime adunque de’ Buonac- corfi Ieggonfi
quattro Sonetti interi, e cinque foli verfi di un altro Sonetto (11
fuddetto Signor w tro Lanccllom 174 J. > in 8 . a car. Quello
Sonetto comin- eia: Così mi rentU il cor page , e
contente . e fi legge in dette Rime a car. 94 -Tom. l. a car.Difcorfo
/opra l Opere'. del T r 1 $ $ t n o , a car. 404. e ! feguenti 11
-primo ^i queftiSo- nerti , che a car. 1. delle Rime del noftro
Autore fi legge; ed a càr. 2 96. di quelle dc'JBuonac. 1
corfi , della mentovata edizione di Firenze 1718. in 12., co-
mincia coste La bella donna, che in vir- tù d" Amore
. il fecondo che principia: Li occhi foavi , al cui
gover- no Amore ; nelle Rime de’ Buonaccorfi c a
car. 4 Digitized by Google io4 La
vita Signor Conte Cafotti incaricando (2jo) mode- fìamente il
noftro Trissino , favoreggia i due Poeti: e nel domale de' letterati tf
/taiu fi accen- na folamente, ma non fi feioglie cotal viluppo » Il
Cavaliere Zorzi dice, che perciò fare converrebbe andare a Firenze, ed
ofservare fc Antico, o no, fia il carattere, onde fono fcritte le
poefie de’ poeti fuddetti •, concioffiacofachè pofsaefsere, che
da'copifti, (le copie fono)> o come a car. . , cd
in quelle del ine allenirne de’ Buonaccorfi a Trissino a car. 4. Il
terzo , car. lvi. che ha quello principio: j Tom. xxxvr.
Artic. Qando 'l piacer, che’l defia- to bene; \ b o>
he 1 Sonetti^/ I ; non fieno del piovane Buonaccor- ,è a car. 4. a
tergo delle Rime fi , offendo firitti a Palla di del noftro Autore, cd a
car. Noffcri Strozza, ea'fioi figliuo- li quelle de’ Buonaccorfi . 11 li
> tutti fuoi coni empcr enei - I quarto finalmente, clic fi leg- '.y
chc| DelLi edizione di Ve- ti legge tra quelli di qucfto \nez.ia 1546. in
8. a car. 7..; la Autore dell’edizione di Firenze * qual Canzone, che
nelle Rime e comincia: (del Trissino è a car.' 5. Quanto più
mi dijlrugge il ( principia.- mio pen fiero-, . Amor, da eh' e' ti
piace nelle Rime del Trissino cl -Chela mia lingua parli-, cc
a car, . j IOJ La Vita
con vcrfi di Tette, e di undici fillabe, tutti Tciol- ti, e ufolla
in una Cantone indiritta al Cardinal Ridolfi : il qual modo ftravagante e fcon-
figliata cofa parve al Crelcimbeni (i* ma, come dille Maffei Tu
bizzarria d’un iblo componimento. XVL I Simulimi (Commedia in verfo
fcioi- to) In P rnezja per Tolomeo J unitola da Breffa ne
tanno MDXLVIII. di Ottobre in 8. Quella Commedia ( dì cui non
Tappiamo eflerci altra riilampa , Tuorchè quella Tatta in Perona
unita- mente coll' altre Tue Opere) Tu da lui compoftaa imitazione
dei Mtnemmì di Plauto, aggiungendovi il coro-, e varie coTe mutando-,
Teguitando in effe altresì le tracce degli Antichi, ed accoftandofi
Tpezialmente ad Arifto/ane . Nella Dedicatoria al Cardinal Farnefe dice,
che avendo in quefia lingua Italiana compoJ} 0 e l 4 Tragedia, e lo
Eroicoy gli ' t* rut ° oU tra futili di abbracciare ancora qaefb' altra
farle di $“fia , cioè la Com . Quella Canzone end
nd primo tomo ddla riftampa di Verona,. a car. 371. cola.., c
comincia; Paghi , fu feriti , * venerandi Colli i cc.
( ma non Tragedia, fi il
TafTo, che non compofe Commedia, fua non eflendo quella, che fu imprefla
col nome di lui (23P). A che volendo noi alludere abbia- mo fatto
di quattro differenti poetiche corone adornare il Ritratto del noflro
Autore , che in fronte di quella Vita fi vede. Nella Prcfaz. alla
ri- | Rampa di Verona a car. Xxv. Tra’ lodatori della' Commedia
del noftro Autore , j uno fi fu il P. Rugcri , cosi parlandone
nella citata Decla- mazione a car. xxiiù ,1 Hic fior Georgivs)
anti- „ quorum poetarum , qui Co— n mie® Poefis lauream
adepti,! » Slori® termino* pofteris cir. j cumfcripfifle videbamur,
Rre- ,» nui adeò coocertationc inge- j„ nii adarquavir ,
eruditiflìmo !» PoCmatc , metro jfcripto quod Sim itL r mos
infcripfit ut quonefeumque >» Comicum illuci Carmen
le- ftionc parcarro , ipfa fe mihi » antiqure Poefis facies
verert- ,, do, gravique afpc&u referar ,» contemplanda.
Digìtized by Google jo8 La V r t a XVIL Egloga
fafitrAie (in verfo Italiano) nel- la quale Tìrfe pallore invitato da
Bauo capraro» piange la Morte di cefAre Trivuiào fotto nome di DAfm
bifolco. Quello componimento fu inferito coll’ altre fue
ogere nella riftartipa di Verona Altra Egloga (parimente in verlo
Ita- liano), in cui parla Batto Capraro folo. E quella
altresì fu llampata coll’ altre fue Opere - Pharmaceutria U4* )• De
mtTU Anche quella Compofizione , che è di clxxvil.
verlì Latini, fu unita alle altre fue Opere nella riftampa di Verona
(244): e perchè nel Codice v’era- Tom. I. a car. \ffripfft , quifquis ille fiat , qm
Tom. I. a car 375. \titulum aididit, non ertim ei,m À Gli eruditici
ini Signo- arbitror effe a manu Io. Gìor- rì Volpi di Padova, i
quali fic- gii Trissini , quei» come aveano ideata Una edizio- ÌGracas
litteras egregie caUuìJ- ne delle Opere del Th iss l»o|/f. apud The
ocn- ( comc è detto nella Prefazione) J tum che ineptì hanc
E- Fracaftoro. tlogam
PiiAUM aceutri am in- (T Tom. U a car. IOS V’ erano alcuni vani? perciò dal
foprammentova- to Gafpare Tri ss ino eruditamente furono em- piuti
> e quivi fi veggono contraflegnati con ca- rattere diverfo. Encomium
MAximUiàni ctfarit . Sta quefto al- tresì coll’altre fue Opere della
detta riftampa. Due Epigrammi latini. 11 primo di quelli
Epigrammi (i quali furono dati a luce parimente in detta riftampa (245);
fu fatto dal Trissino in morte di Pulifena Attenda, Ce- lcnate,
piagnendo egli in perfona del Marito* Quefto fu tratto da un libretto
ftampaco in Ve- nezia» in cui fi legge anche un’Orazione di Jo-
vita Rapicioj da Rrefcia, detta in Vicen- za in morte della ftefla.
L’altro Epìgramm* è quel- lo, che s’è riferito al di fopra, fatto
da lui prima della ultima fua partita dalla Patria. Tom. 1 . a car. più nella Seconda Parte, a car. Qucùo
Encomio è di CHI. Vcrfi 63.efeg.91.eieg. 192. c fcg. dello eroici latini
, e comincia Cosi. Specimen Paria Ut ceratura, &c. Heor.rn Jì fatta
mihi , laudcfvo Btixia 173 9. 4. pubblicato dal -Dei-rum non meno per
dignità, che per Quandoq; ut ctlebrem permit - virtù inorali , cd
intellettuali tii carmini Phàebe , Eminentiffimo Cardinal Qui.
En tempus , ncque fallar , a- fini : e nella Libreria Ere - defi}
&c. feiana di Lion ardo C o^z^ando , Tom. 1. a car. 398. \in Brefciu\ 6 vq. per
Gio: Maria Di Jovità Rapicio ' Rizxxrdi in S. a car.. ove fi
trova latta menzione neli , £’r-|è chiamato Raviz.zat, c fr dice, colano
del Varchi a car o che fu lcctore di umanità in Vi- li ella Scan zia xx 1
1. della Biblio- j ccnza . tcca Polamcz car.120.121. mal all’ annotazione
m. Digitized by Google tio L a Vita Alcune
poetiche Latine Compofizioni del Tr issi no non inferite nella fuddetta
riftam- pa di Verona, furono ftampate nella Scambia XXIL della
Biblioteca Volante- di Giovanni Cinelli ( MW • Quelle fono primieramente
due ode; dopo cuifeguitano due evitati in morte dì Vincenzio Magre,
fuo caro amico j e appreflfo feguita un epi- gramma ad fonticuium /: e
finalmente una Compofizione intitolata leges conviva les . L’Autore
di efia scam.i a nel luogo citato dice» che quefie Poefie ad
intelligenti, che le hanno vedute , fembrano cofe fatte dal TnissiNO ne'fuoi
pii* giovanili anni: ag>» giungendo, che il il Codice, onde le trajfe
, benché fia ferie to net 1500;, mofira che già inclinava al fine il
fecole , ed in confcgutnz.a molto tempo dopo l A di lui morte. DÌCC
1U oltre, che U Copifia era poco intendenti del Latine -, per. che
vi fi trovano > alcuni errori, che mai fi poffono ’ attribuire a
n illufire Autore. xxxrn.' A car. 76. 77. 78 .
79- 80. c 81. E‘ mentovata da noi all’ annotazione in.
{ ajo) La prima di quelle O- de comincia: Du&urus
aurum nobile per Mare Carafve gemmai n avita
fluttibus Non ante fe cautus mari . nis
Crederet , & rapidi s pro- cella 8 cc. L'altra' ha
quello principio: Pulcher o Sol, qui nitido s dies &'
Das , & idem fubtrahis , a eque ter rie Humidam noSlem *.
& pla- cidam quietone Riddi: avarie Sic. Quello
Epigramma è diverfo da un altro dal noftro i Aurore Grecamente
compollo fopra il mcdcGmo fuo Fonti- cello di Cricoli , il quale
di fotto regiftriamo tra le fuePoe- fie non ancora date a luce 1-
VOLGARIZZAMENTO .dì alcune Ode MQrazio* Quelle noi non le vedemmo»
ma follmente ci atteniamo .all’autorità del Fontanini {252), e del
•Quadrio )1 il primo de'quali dopo avere regiftrato un libro intitolato:
Odi diverfe d' Orario volganzjzate da Memi nobilitimi ingegni , e
raccolte per Giovan- ni Nar ducei da Perugia : fy Venezia , per Girolamo
Polo, 1605. in 40 foggiugne fubito come fegue. Q*tJH vdga-
■ fi datori fora XIJ. ai le f andrò Cofanzo , Annibal Caro Co
fimo Mortili , Curzio Gonzaga , Domenico Ve- nitro, Francefco Veranda,
Francefeo Crìftiani , GiovangIOr- ■ cio Tri «ino, Giulio Cavalcanti,,
Marcantonio T ile fio. Sir . Jorio ELOQUENZA
ITALIANA, a alleai»»? di luì ftampate in 5er- ‘ Car * 5 35 * falla fola
autorità del gemo per Pietro Dance dotti I7JX quale viene riferito quello
libro in 8. a car. xxtv. tra le opere anche nella Biblioteca degliauto- del
Vcniero regiftrando anche la ri Greci e Latini volgarizzati traduzione di
alcuneOde dtO- «nferita nel tomo jcxii. c fegg. hrazio da lui fatta,
taluna dice, » della Raccolta Calogeriana alla di quefte fi trova
fiammata in un yoceOrazio, dovr ai tomoxxiv. I libro, che io mai
non ho potuta 3 ° 7 * f' sggiange ; libro avere, e che ha penitelo :
Odi rari fimo , che non ancora abbi*. .diverfe ec. che è il libro da
noi mo avuto incontro di vedere . ; fopraeckato, E pure
grande Tappiamo cffcrc 1 ( 25+ ) Veramente il Signor ìiata la diligenza
del P. Paico- j Anton.Fcdcrigo Seghezzi , di m, autore di detta
Biblioteca, 'chiara memoria, nella Vita del per ritrovar un tal libro.
[Caro per lui dottamente ferir* V 2 J 3 ) Storia e Ragione dì ta, e
premcfTa alle lettere delio ogni Poefia-, tom. 2. lib. t, Dift ! ftcflfo
dell’ultima edizione di I. cap. vili. Particcl.iv. a car. I Padova,
apprejjo Giufeppe Comi* 394. e falla autorità di lui il|m> 1742. in 3.
tomo primo, benemerito delle lettere Sig. Ab. niente dice , che il Caro
tra- 1 icr-Antonio Serrani nella Virai dotte aveffe Odi eli Orazio,
di Domenico Venterò , premeffa I uà La Vita torio Quattr
ornarti, e Tiùerio Tarfia. L'altro pòi riferì' fee medefimamente quefta
Traduzione, cd edi- zione, e i nomi degli fteftì Volgarizzatori.
OPERE In Profa non iftampate. YV IV T\ UE
ORAZIONI di Sereniffidee Mente di re. JL) mrje, ter ifirevere le Ci, ed
dir*"™ *>“• imgoftn riedificazione delle J*e Mora.. ORAZIONE
, ovvero ARINGA ( dettata in lingua Lombarda) de, e. 2
M*U, ter ridare U D„m‘ * rei d ‘ ^ V,.ni,d di de,,. Terre. Di
quella Orazione s e già favellato a baftanza per entro quella r „.
. Breve Trattato ài Architettura, coirai cune Piante di
Edifizj fecondo le regole di Vi- travio.. Di quelloTrattateli, abbiamo
fatta meu- zione nel principio di quefta r,ta IMD* TRATTATO intorno ‘1 Mero Arbitrio. Due
lettere latine a Monlignore Jacopo Sadoleto. . fopra paj- 8. annot.
IJ. :I7$ XXIX. Un Volume di lettere , fcritte a
mol- ti ragguardevoli Perfonaggi del fuo tempo , tra le quali molte
ve n’ha da Soggetti cofpicui, e da dottiflìmi Letterati fcritte al T
RrssINO ; ficco- me altresì ve ne fono di Principcfle, e di Da- me
illuftri di quel fecoio . Da quello Volume fono -Hate eftratte dal Signor
'Marchefe Maflfei quelle , che leggonfi inferite nella iu a
Prefazione alla riftampa delle Opere di Giovangiorgio» nella •quale
egli nomina anche alcuni di que’Soggetti* 2e Lettere de’quali indiritte
al T RlS jrN© tro- vanfi nello ftelfo Volume* e di quelle Lettere-,
tanto llampate, quanto manuferitte , ci fiamo noi fpezialmente ferviti
per compilare quella vita . Gli Originali di tutte le fuddette opere in
Prof a manuferitte (fuori de\Y Aringa) > e delle feguenti pur
manoferitte in Verfo, fi confervano di prefen- te apprelfo i mentovati
Signori Conti Trilfini dai vello d'Oro , difeendenti dal nollro Letterato
1 le quali tutte fono Hate con molthTima diligen- za raccolte, cd
unite in due volumi in foglio dai Signor Abate Don Bartolommeo Zigiot-ti
, che colla Lolita gentilezza* e benignità -ce ne •ha data
contezza* e ci ha proccurato la como- dità di vederle. Due LETTERE
Volgari al molto Reverende Mejfer Hieronymo di Gualdo Canonico .
L’Originale di quelle Lettere , (le quali purcnon fono tra le fud-
dette)* fi conferva prefentemente nella Libreria P de
u 4 LA VITA tfc’PP, Somafchi della Salute in Venezia, in
una raccolta di lettere di diverfi fcritte ai Co: Co: Gualdi ;
donde anche furono eftratte quelle che fono ftate pubblicate col titolo
di Lettere dPUomini Jlluflri del Setolo decimo fettimp non fin fiampate
L’ una di quefte due Lettere è fegnata di Roma; l'altra è fenza data OPERE
he Venezia, nella li della Madre di Dio a canili. Stamperia
Baglieni, della Prefazione al fuo S. Pier edizione p roccarata , e di
note Grafologo ltampato Venetiis a- corredata dal più volte nomi- pud
Thomam Bettinelli 17$** nato P. Paitoni. fol. „Ne... ingratiffìmis
quibuf- La notizia di quefte «quevidearaccenfcndus, illau. due
Lettere ci fu comunicata «datura iri non panar ci. & dal fuddetto P.
Paitoni, a cui „do ut dr eorum fibi gratiam cónci- liarit y &
magnani apud omnet auiloritatem . Digitized by Google
del Trissino; 117 Ìli Italiano ) In Vicenza per T olomeo
Janiculo da Brejjfa > mdxxix. in foglio. e ( col
Dialogo del CafielUno ) In Ferrara ter Domenico Mammartlli in 8. e (nella Galleria di Minerva
, parte fecon- da , a car. 3 5 *) InVi inezia preffo Girolamo
Albrix.z& > 16 $6. in foglio; e finalmente coll*
altre fue Opere in j 5 ? tona H Libro è dedicato da
Giovambatifta Dona a l Cardinal de’ Medici. Si dubitò per
lungo tempo ^ fe Dantè fia ve* ramente fiato autore del tefto Latino di
queft* Opera, di cui a tempi del Tr. issino niuno v’ era, che ne a
vette contezza. Egli fu il primo a pubblicarla in Firenze, allora quando
vi fu con la Corte di Leone X., come dice il Fontanini, il quale
anche lungamente favella di molte let- terarie contcfe , alle quali die
motivo la pubbli- cazione del Libro fteflb (252), che finalmente fu
riconofciuto per vera fattura di Dante . Ma cosi non poniamo noi dice del
Volgarizzamen- to, di cui e fi dubitò, e fi dubita tuttavia, f e
fia del Taissinq: e non oftante che tra le fue Opere
(a6i) Tom. 2. a car. 141. 1 ( 262 ) V. il Fontanini nell’
Eloquenza lui. dalle car jjy. I tino alle car. 246. e ndl'Amin-\
ta di Torquato Tajfo difefo ec. In Venezia 1730. per Stbaftia
• noColeti , in 8. a car. r*8 LA VITA Opere d annoveri
, molti letterati vi Tono , i quali affermano non effere di lui . Tra
quefti fpezialmente v’ha il Cavaliere' Zora, il quale nel Difcorfo
/ofra r- opere del noftro Autore {26$ )> dopo aver regiftrate le Opere
di lui in Profé) dice di ommetter la verfione de’ libri de vvlgari
ELOQUENTI A di Dante, torchi non li giudica tra- dotti dal Tri ss
ino, nté fatalmente da Lui fatti /lampare', aggiugnendo, provar
egli ciò con buone ragioni nella «m del me defimo Tjussino da lui
fcritta A car. xj>o. a tergo
» ciò riferito il titolo nella Prefa- ,c feguenti» .
Jljj ;altro ci fcmbra affai frivola, perciocché moke altre
opere del noftro Autore han tralafciato di regiftrare quefti Scrittori.)
Oltre a ciò dice, che effendo detta -verfione malamente dettata in
Ita- liana favella, farebbe!! perciò «* affronto patente ai.
la fempre verter abil m (moria d’O. , aggravando , . e sfregiando
ing'mfiamente la fua reeognizione , col? attribuirgli un lavoro male
intefo, t malamente tradotto-, facendo anche offervazione , che non
d’O., ma da Giovambatifta Doria, Genovefe, è ftata quella
Traduzione dedicata al Cardinale Ippolito de' Medici, con dirgli nella
Dedicato- ria, che Dante Jiccome ave a ferino f Opera fieffa in
Latino idioma , cosi la trafportaffe nell'Italiano (2 65). Soggjll-
gne di più lo fteffo Signor Cavaliere , che fe Giova NG ioRGio
foffe flato l’Autore di quella ver- fione, e’ non l’avrebbe poi allegata
nel fuo dia- logo del Gabellano a fua difefa, come fe foffe fia- ta
Opera di penna altrui Que- * . - • X B , .
.1 M Fontanini neH’£/e- quenza Italiana a car. 10A. dif- fc ,
eflere ftata la detta veriio- nc pubblicata dal Trjssino ; c ’l
Muratori nella Prefetta Poe- fta Italiana tom. prim. a car. 2 3.
della edizione di Modena Il T r 1 ss 1 ho nell’ accennato
Dialogo fa , che Gio. vanni Rucellai lotto nome di Caffettano dica
ad Arrigo Do- ria quelle parole: Deh per vo - fra gentilezza M.
irrigo guar- date un poco nel mio ftudio , e 1706. in 4.
fende, che il libro portate qui il Libro della Vol- De Volgari Eloquenti*
trafporta-\gar Eloquenza di Dante tradot- to in Italiano , fu dato alla
Ite- J to in Italiano . et dal Trissimo. ! no L A VITA
Quelle, ed altre rimili ragioni adduce Cavaliere a provare» che il Tlissi
no non fia {lato l’Autore di tale Volgarizzamento i alle quali
aggiugner fé ne può un’altra piò torte, cioè, che fé egli non ebbe alcun
riguardo a pubblicare, come è detto, in Firenze il tefto Latino di
queft' Opera col nome di Dante, Tuo vero autore, molto meno l’avrebbe
avuto a iar fapere? che fua propria era la traduzione Italiana*, e
manco avrebbe comportato , che il Doria nella Dedicatoria al fuddetto
Cardinale dieeffe, che Dante (il quale, fecondo il Tuo dire, l’Opera
ftef- fa in Latino compofe , affinchè intefa [offe dagli Spagniuoì
li, Provenzali, e Pranzo fi) la TRASPORTASSE ancora nel r.oftro
Idioma. Anche il Fontanini U, con aggiugnere, che il noftro G
io va n Giorgio net pubblicare quella ver bone; fi f* r ì fervùo de\
fuoìcarat. t tri Greci, perchè da lui creduti migliori per Pefprejfione
perfet- ta di noftra Italiana favella . Con quelle ragioni, e
con altre, che ommet- tiamo a motivo di brevità, foltengono i
predet- ti Scrittori, non elfer del nollro Autore la fud- detta
verdone; e ’1 Signor Marcitele Maflfei fe la fece (lampare, come abbiam
detto, tra l’ altre lue Opere, non però di meno non dice» elfer
cflà fattura di lui. Comunque fi fia, abbiamo giudicato miglior cofa
elfere e non porla tra le Opere da lui fenza dubbio compolle, e non
tralafciare affatto di regillrarla , sì perchè va at- torno col nome di
lui» e sì ancora perchè avvi qualche fcrittore> che la cita come di
lui fattura. R ERUM ricent irtarnm Compendiane a Io. Georgio Trusjno
confcriptum . In fine leggonfi quelle parole : Ha* fìrhfi t*fi
dtpepulationtmUrUt Rome, dum Le. lattee tram apud Remp. renet am prò
Clemente rii. P.M. Que- llo Componimento non è mai flato Rampato 5
cd una ( rita del Tr I s* 1 n o fima» ed utilidìma
Stor. e Re. manuferìt. a car. 294. a tergo, gion. d'ognì Paef. Tom. I.
lib. VeggaG il Qua dr nè da niuno certamente fi sa,
dove effe fi tro- vino di prefentev e non oftante che abbiano detto
i predetti Tommafini, e Beni, che allora fi con- (*76)
V. fopra a car. jr. f { 179 ) Trattar, dell' Orig. Prefazione alle Opere
* ec. tib. a. manoferitto a car. tc. z ar. xxxi. jj. Elegia &c.
a car. (180 ) Difcorfo ec. a car. 44»» DEL TRISSINO. ;i2,y fi
conferva vano preflfo i fuoi credi (28O? pure quivi certamente non fono.
Anche il Doni vera- mente ne regiftrò il titolo fenza più nella seconda
lì. ireria ( 2.8ì )* ma con quella differenza? che T ultima d’efle
Opere fu da lui chiamata Frontefpi- xio delle clone. E benché nel principio
di quella fua Opera ^284) dica il Doni di aver mejfo infie- mt
tutti i Cicalai tri da sé veduti a ferma, de’quali 11 C aveva avuta
notizia j e benché foggiunga? che di tali litri etmfofii (e regiftrati in
detta fua Libre- ria, fochi c’credeva fodero per elfere ftampati»
con con ciò fofle colachè erano libri rari , e inma. no di per fané
, thè non li voleane dar fuori , mapiuttofio ardergli : nondimeno
ci accordiamo volentieriflìmo colla opinione del Sig* Marchefe Maffei intorno
a tali Opere? cioè che non fi fono vedute mai ; ma che iono Hate
alcune per equivoco , altre ridicolmente intitolate. E crediamo
parimente, che lo fteflfo fi debba dire d’un altra Opera dal medefimo
Doni, e dal Tommafin. loog. eie- ! Nella Lettera , die
egli ■jQfud Comitcs T rijfnos iffius i' colla fua lolita bizzarria
intito- Fi are ics affervantur : La Bafe la A coloro che non leggono ,
a del Chrifiianoì ec.Beni Trattar. car. io. eli. fc. lQ0g.cit.L4
Bafe del Chri- 1 {'184) Prefazione alle Opere Jtianoec.con altre
Operette ferie. 1 ec. a car. xxx 1. te in prò fa, fono in Caf a de’ fuoi'
(285) In un’ altra Opera, io Utrcdi. cui regiftra le Opere
ftampatc La Seconda Libreria ài Autori Volgari , intitolata.' del
Doni ec. Jn Vincgia 5 jj. La Libreria del Doni Fiorenti. in 8. a car. 91.
i no , nella quale fono ferini cut - ti ili Digitized
by Google I2 c dove ftampata 47 -»-? 4 - Meliini
( Giovanni) pittor cele- bre non fece il Ritratto del Trillino. 64.
effo Ritratto premefTo a quella noftra Ope- ra perchè adornato di
quat- tro differenti corone poetiche 107. fua morte 6J.
Bembo (Pietro Cardinale,) lo- dato 4. ». 4. fue EpiftoU do-
ve Rampate 23. ».40. citate 24. «.41 due di effe fcritte a nome di
Leone X. riferite a 3. e feg. fcrivc regole di noftra lingua 69. fa
autore il Trifsino del verfo fciolto 88.». 17 6. fue Rime
pubblicate per opera del Sig. Ab.Sertaf- fi citate 102. ». 225.
rifponde nellemedefimedefinenzea un 5onerto del Trifsino. Beni ( Paolo ) fi crede autore di
certo libro. 3. ». 2. filo Trat- Favola delle Cofie Notabili.
12.9 T ruttata del? Origine della Famiglia T rijfino dove
Ram- pato . ivi. iua erronea opi- nione incorno al Trillino 6.
e intorno all’ ifcrizione dclfuo palazzo nella villa di
Cticoli io. nora di malevolo ilGio- vio 4*. n. So. fa il
Trillino autore di «ree opere . 51. ». xoi. 1 1 J.a fegg. fina al
fine . lo fa fepolto pel Depofuo del L afe ari 59. n. 114.
parla con lode di Bianca feconda moglie del Trillino 48. ».
95. citato 4. ia. ». 23. 23. w.41. Benrivoglio( Ippolita ) a
lei c indirizzata un’ Ode latina dal Trillino 115.
Bergamini imitò .con poca lode la manieradi Ceri vere tifata
dal Trillino • Bragia ( Marco ) , Con Agli e dell’ Accademia
Olimpica vi mette un SoRituto ». 28.48. Buonaccorfi . Vedi
Montemagna. c C Arco trote, a ( Demetrio ) fu
macftro del Trillino nel- la Greca letteratura. 4. dopo morte gli è
dal medefimo e- retto un Depofico con Epita- fio in Milano ivi.
lodato dal- lo RefTo nel fuo poema dell* Italia Liberata . 6. ».
io. Calogeri ( P. D. Angelo ) lodato per la fua
Raccoltad'Opufcoli Scientifici , cc.lll.e / allog. già nel Palazzo
del Tri di no nella Villa di Cricoli * e quando . 12. ». 23.
fatto Cardinale * e poi Papa col nome di Ufbano VII. ivi .
Suo Bullo in pierra colloca- to in detto palazzo con ifcri- zione,
e quale, ivi. Cartellano , uno degli interlo- cutori del
Caflellano del Tuf- fino , chi Ha ? t perche così detto 70. • ‘ Cavalcanti
fu® Giudizio /opra la C anace cc. dove ftampato (fuo volga- rizzamento d' alcune
Ode d* Orazio, tu. Centanni/) ( Valerio ) fuo curio- fo
Sonetto al Trinino , rife- rito 40. ». 7J. Checozzi (Canonico
Giovanni) illuftta un luogo- del Poema delle Api di Giovanni
Ru* celiai, a difefa del Trillino - 51. rat 01. chiama pio e
ca/ti- gato il Trinino 93. ». I9T. Chiapino Vedi Bar-
bar ano . C biffi ezio l GiovanjaCopo ) (nell* Infatti*
&c. Antuerpix ex officina Plantinian* 1632. in 4. ) -non mette
tra’Cavalieri del Tofon d Oro il Trinino 4J. e fegg. ». 88.
Cindli Vedi Raf- ie. Ciria{ Gìufeppe Maria) Tua
Ode latina in lode del Tuffino , ri- Digitized by
Googl I Tavola delle Cofe Notabili .
•*.#**■* -H CUt^ntt vi' Papa . Vedi &A D y 0 'J?%tfix
doic^ftLpata ledici antt t ,cn .' - f :i te _ CoRoza,
Villaggio deiscenti- , arre poetica - J »* « £lo , ' A m famo'o
Covolo vie- Ilo latino de c.^1uon a «I"f |i 11-1
breria Brtffiann love Rampa- »o. * 4- da cbi .Btoccurateiw. «•»**•
Coment* j dove Rampati }4-| e /^' , . pentiluomo ir. 6o. fa
il T tiffino il primo, Dw-tfo ( Ermolao U Martbcfa di ! Mantova ringrazia
il TrifTi- 1 no per certa Canzone man datale . 29. e feg. lo
invita a fe , e perchè . ivi. efaltata nei Ritratti del Trillino.
39. » 50. lettera a lei fcritta dallo ftclTo , citata F arnese a
lui viene indirizzato un Sonetto dal Tuffino, c dóve fi legga.
102. * — ( Rannuccio Cardinale ) grande amico del Tuffino, j
j. icrive allo fieflb una lettera d’ ordine di Paolo HI. ivi
». 108. dal Tuffino gli è dedi- cata la Commedia de’ Simu-
limi. io 6. Sonetto dal Trif-i no a lui dove fi legga fioretti (Benedetto) V. Nifieli
(Udcno). Firenzuola ( Agnolo ) fuo Dif- (acciamente cc. dove
Rampa- ! to 35. e feg. feri ve contro a! Tuffino . ivi. e
37. ». lo taccia di ufurpatore . 36. e fg. n.6j. quanto falfamcntc
. ivi. fcriffe piuttofto per giuo- co, che daddovero. è
citato nell’ Ercolano del Varchi ivi . citato 68* Fontane
delia Villa di Cricoli lodate dal Triffino con lati- na poefia.
ito. e con un c- pigr .mma Greco ivi ». 251. Fontattini (
Monfignor Giulio) fuo libro dell' Eloquenza Ita- liana dove,
Rampato 35.» 64- Efami fopra d'effa ftampati cenfurato giuftamentc
dal Si g. Marchcfe Mattici. 43. »j 84. difefo da ccnfura dello
lìdio 46. ». 88. chiama Novell 10 Cadmo, e Cadmo Italiano •
11 Trillino 39. giudica in- venzione di lui 1’ ufare la Z, in
vece del T. ivi. fuoi sba- gli. 69. ». 129. 71. e feg. 83. e f e
ii- . critica V Da- lia Liberata 93. non viene confermata la fua
ccnfura dal Catalogo della Libreria Cap- poni ivi. ». i9i. riprende
il Marchefe Ma Aci 94. « 1s2.il quale gli rifponde ivi. Vol-
garizzamento d’ Orazio da lui riferito , dubbiofatnente da noi
riportato . ni. Aminta del 7 affo da lui difefo ion le
Offervazietti d' un Accademi- co Fiorentino dove Rampato li luogo
ambiguo di quell' Opera lai. ». z6g. fua oppimene circa il
iraduc- tor del Libro de Volgari Elo. quentia di Dante. 120. e
feg. Fortunio (Francefco) feri ve re- gole di nollta lingua.
69. Fracafioro ( Girolamo) amicif- fimo
Digitized by Google 1 Tavola delle Cofe
Notabili. 1$; fimo di Giovambatifta della loda la Sofonùba ivi . la
bi*. Torre. 10S. ».. fimaS9. come gli rifpondail
Francefco I. Re di Francia , è Malici ivi. critica/’ balia li-
fatto prigione dell’armi dell* berata 94. nell’ Orbecchc la au-
Imperator Carlo V. e ’1 fuo torc il Trillino delle Trage-
cfcrcito feonfitto. 40. gedic ferine in Italiano 7 9.
Erancefì, feonfitti dall’ armi di come pure del verfo fciolto
Carlo V. Imperatore , c cac. 88. ». 17 6. fua lettera dove
ciati d’Italia, ivi. fi legga ivi , citato 90. ». Franti (
Adriano) V. T t tornei. 182. ( Lilio-Gregorio ) fu con-
G difcepolo del Trillino nel- lo Audio delie lettere
Greche. G aza (Teodoro ) nominato 4* ne fa menzione in certo
con lode nell* Italia lite- \ fuo Latino poema . ivi. ». 4. rata 6.
». io. ! Giulio II. Pontefice , fua mor- Gemi/lb ( Giorgio)
nominato al- ! te quando fucceduta 13. tresi con lode nella
Refluivi. 1 G abbi ( Agoftino ) fua Scelta Ghilini ( Girolamo ) (nel fuo'
ài Sonetti cc. dove publicji- Teatro d'Uomini letterati. Ve-\ t» 100. ».
aij. nezJa perii G aerigli; Gonzaga ( Curzio ) fua tradu- non
regiftra tra le Opere deli zione d’alcuncOde d’Orazio, Trillino il
Volgarizzamento j citata ni. di Dante de Fulgori Eloqucn~ j ti Gragnuola
(Prete Francefco) tia. 118. j fu il primo maeftro del Tril-
Gilafco Eutelidenfe . Vedi Lue- j fino. 3. lettera a lui fcritto
le. , | dalTriffino ove fi legga ivi. Giorgi ( Monfig. Gio: Domcni-
{ citata 13. ». 26. ai. ». 37.43 co ) Compilator del Calalo- 1 ». .
go della Libreria- Capponi . Gravina ( Vicenzio ) fua Ka >
Vedi Capponi. , ' ' I adone Poetica dove ftampata Giorgio
(Gio: Lorenzo) Noda-| 93* »• 191. in efla loda il ro Veneziano 52.
» 101. Trillino itti, fa grande ftima Giornale de’ Letterati
d’Italia del di lui poema dell’ Ita- ccnfura il Cafoni 101. «.228. 1 Un
Liberata. 97. non decide fc alcuni Soneui Gritti ( Andrea ) Doge di
Ve- fieno del Triffinoio4. 9.231.) nezia , quando vi tulle elcr- lo
fa bensì autore dell' in- 1 to . 30. gli è recitata in tal venzionc del
verfo fciolto occaltone un’Orazione con- 82. n. 167. gratulatoria dal
Trilfino a Gìovio (Paolo) tacciato di ma- nome della città di
Vicenza, levolo da Paolo Beni, c per- 31. citata 67 . 73 e feg.76.
fua che . 42- ». 80 gli è fcritto morte quando feguita 30. un
Sonetto dal Triffino. 102. »-JJ. dove fepolto , e con Giraldi (Gio:
Battila ) fuoi Dif- qual Epitafio ivi. cerji dove Campati 7S. ». tj8-
Grato (Luigi) fuprannominat» i Cie. Digitized by
Google 1 3 Tavoli, delle Cieco. £ Adria , filo
grotto sbaglio . 58. ». in. Gualdo (.Girolamo) due
lettere dal Tuffino aldi' fcriue » ove. liano - 11 3. e
feg..- - ( Paolo ) fua Vita- di Andrea Palladio dove fi
leg- ga 9. Lettere Originali a’ Guai* di dove fi. confcrvino-
IV}- e feg. Guarirti ( Guarino ) Vcronefc 5 fcriflc colè
gramaricali io lin- gua Latina. 7J. Guicciardini- ( Franccfco
) fuoi Quattro libri della fua Storia ( nott pia fiammati..
Venezia ftr Gabriel Giolito 1 ciati 41. ». 78.
Guidetti. ( Franccfco ) fua rcla- zioae a Benedetto. Varchi ,
. ccnfurata. H I ! . H a y m (-• Nicola-
Franccfco ) fua Biblioteca Italiana do- vei Rampata I liingo
, o fia confonante , trovato dal Trillino > e ab- bracciato
dagli Scrittori an. che Fiorentini. 39. ». 73 Jjenicol» ( Tolommeo
) folito Rampato» del Trinino .lai. Imperiali ( Giovanni )'■ fuo
Mu- faum Hifioricum dove Ram- pato . 6 . ». 11. dove il fuo
Mufaum Phyficum 8. ». 17- fua erronea opinione intorno ai primi
Rudj. del Triffino.6. e intorno ad Andrea Palla, dio . 8., loda
il’. Tuffino . éj. ». lift. c il di lui poema Co fé
Notabili. deli’ Italia Liberata citato- Ingegneri fua Opera della
Poe fia Rapprefentativa ec. dove Rampata 78.». 157- loda la
Sofonùba. del Tuf- fino.. *»»• licrizione al Sepolcro del
Cal- condila 5* — dell’Accademia Triffina attorno alla
porta del Pa- lazzo del Tuffino inCri- coli io., a che fine vi.
fotte collocala . . al BuRo di Vrbano Vil- la.
»•»?•• — «1 sepolcro di Andrea Gritti Doge. 30. ».
J3- — ■ al Sepolcro del T tifiino da lui fòrmatafi , ma
non. metta in ufo» e perchè. 56.. , altra, in forma
diElogioéi- IL L ascari ( Giovanni) nominar- lo
con lode nell Italia /*- barata ». io. ove fia. fqr- polto. 59. »•
114- àttere di XIII - Uomini illit~- ftri dove Rampate n. ».
23. d' Uomini Illuftri dei Se. colo XVII. dove» per cui
ope. ra pubblicate» c donde cavan- te XM* »• Z S 6,
Libreria Arobrofiana 52^ ». io».- 108. »• 14*- iij. - Bertoliana
di Vicenza 3. ». a. chi nc è. Bibliotecario ivi . — — •
dei Nobili Uomini Pi- fanj in Venezia ; conferva la prima edizione
rariffima della Italia liberata da’ Goti - PI.. de’
Digitized by Google T avola delle Co/e Notabili. 13
' de’PP.Somafchi della Sa* I Maffei ( MarChefe Scipione )
>b* Iute di Venezia, confervava un MS.-de'Trifftni, ed
uno del Beni originale7. ». 1 5. con • fervagli originali di .
olcilfi- • me Lettere fcrittc a’Gualdi .114. '• j
- dei detti PP. di SS. Fi- lippo , e Jacop > di Vicenza
conferva 1” Aringa MS. del Triffino 47. n.91. e una era- dazione in
latino . MS. del- la Sofoniiba78. «.157. Vedi C Apponi . Colando .
Plutoni . Rude. Zeno ( Apportelo ). Lombardelli (t'razio ) lettera
di Torquato Taffo a lui fcritra • dove fi legga 96. n
101 Lombardi (P.Giroiamo ) Gefui- ta, citato 59. n.
114. Loredana \ Leonardo ) Doge di Venezia. Lettera del
Ponrefi- . ce Leone X. a lui ferina , -e prefen taragli dal
Trifòrio, rife- rita. 24. Leone X. Papa. Vedi de' Medi,
ci (Giovanni). M M acchiaveui (Faufto) Ac-
cademico Olimpico , in. xerviehc a un Configlio. della fua
Accademia . 28. ». 48. Madrucci ( Criftofano ) Card ni. Vcfcovo ,
Principe di Trento, introduce a Carlo V. un mef- fo dei Triffino.
54. lettere a lui feriteci citate ivi 1 06. al lui c raccomandato
Ciro 1 Triffino da 'Gioan.Giorgio fuo Padre. 54. Mairi
(Vicentino^ due Epi- grammi latini fatti dal Ttif- 1 fino, per la
mòrte di lai do-, • ve fi leggano no. dizione delle Opere
del Trif. fino da lui procurata, pre- mefiòvi un Riftretto
della Vita dello fteffo, citata foftiene, che il Trillino valeffc
nella Filo- fofia Platonica e Pitagorica 8. ». i^enore nel fuddetto
Ri- ftrettodi luicommcflb 12. ». 24. fuo Teatro Italiano ci.
tato 26 . ». 45. 79» c feg. n. 161.89.». 180. più volte ftam. paro
77. loda la Sofonisba. la difende dalle altrui cenlure 89-
loda la Gramat iebetta del Triffi- no 69. e la Italia liberata
96. ». 203. e la invenzione dc’nuo. vi caratteri 38, fua falla
cp- pinionc intorno 1’ ufo che ne avrebbe fatto il Triffino . VI.
la fa autore del verfo fciòL to8l. lo difende dalCrefcim- beni per
una nuova maniera di Canzoni da lui ufata 106. interpreta fi ni
Riamente un dettodcl Fontanini 46. ». 88. lo ccnfura giufiamente
43. ». 84. cenfurato da lui fc ne Tifcnte 94. fuo E fame
fatto all* Eloquenza Italiana dello fteflo dove Rampato fue
Offer. vazMtni letterarie dose ftam* pare 44. ». 84. lodato 77.
». 154. afferma non efierdi Tor- qua~ i
I J/j Tavola delle Co fe Notabili. quato Taflb certa
Commedia che è ftampata col nome di lui 107. Vedi 7 'ajfo
(Torqua- to ) . prova non effer del Triflìno certa opera
Latina 123. nè certe altre ridicole compolmoni 125. dn
Malgrado (Vincenzio) a lui fcrive il Trillino una lettera 4. ». 5.
Mattiti ( Domenico Maria ) fuo detto cenfurato 39. lue
Lezioni dove (lampare, ivi. n.72. Mattux.it} ( Paolo ) fua
lettera a Bernardino Parremo riferirà. 11. ». 13.
Marana( Andrea) imita con po ca lode la maniera dì fcrive. re
ufata dalTriffino. 3». ». 73 - Martelli ( Lodovica )
fcrive contro al Trillino in propo- sto de Tuoi nuovi
caratteri. 35. fuo deteo coytrctto. ivi. ». «4. Martintngo
(Chiara) madre di Luigi Trillino primo marito di Bianca feconda
moglie di Giovan-Giorgio. 48. «.95. Martiri ( Jacopo ) fua
Jfioria di ricetta, dove ftampata z6. ». 4".
Maj]tmiiiatto , Imperatore, ono- ra il TrifGiro. 16. fi crede
, gli abbia conceduto il Vello ef Oro . ivi . non gli falcia
pro- fdguir Certo viaggio 18. lo rimanda fuo amb afe Latore a
Papa Leone X. ivi . fua let- tera latina al detto Pontefi- ce . 1
9'.»?-»47._fuo Specimen varia litttrattcra dó- ve ftampato.
ivi. ' R R aoona ( Alfonfo) Accade- mico Olimpie
o. Vedi An- gioiello . • Rapido (Jovita) fua Orazione
accennata 109. menzionato da più autori . iviy ». 24.7. fu Lettore
di Umanità in Vi- cenza ivi. vicn chiamato Ra Cofe
Notabili. vizza dal Cozzando . ivi . Rccoaro, villaggio
del Viccnti- no.Vedi Comuni diRccoaro ec. Ridolfi ( Cardinal
Niccolò ) , Vcfcovo di Vicenza, eletto dal Trillino per uno
de'Com- miffari del fuo teftamenco . J6. gli fono dedicate
dallo Aedo le fuc Rime 101. Can- zone del Trillino in di lui
lode, accennata . 106. Roma, Taccheggiata a’ tempi del
Trifsino. 42. ». 78. 85. Rojp ( Niccolò ) fuoi Difcorfi
interno alla Tragedia dove ftampati 2j. ». 44. citati 45. »• 88.
loda la Sofonisba del Trifsino. 2J. 7S. Rucellai ^Giovanni)
fuo Poema dell ' sìpi quando ftampato 51. ». 101* io elfo loda il
Trif- fino. 8. ». 14. volea fotte ri- veduto da lui prima di darlo
in luce. 51. e 124. cosi le fuc tragedie dell' Ore/?*, e
della Rofmunda 123. e feg. luogo ofeuro di detto Poema dell'
Api illuftrato dal Signor Ca- nonico Giovanni Checozzi è grande amico del Trifsino 17. rifponde
a una lettera di lui ivi. dove efta rifpofta fi legga ivi . ».
34. f*i. è Caftellanodi Caftel S- Angelo 50. * e con
que- llo nome c uno degl’ inter- locutori dell’ Opera del Tuf-
fino , che per ciò s’ intitola il Cafiellano. 70. a lui è in-
titolato il Poema dell’ Api. V. Rucellai ( Palla ). la fua Rau
fmunda non piace affatto al Varchi 88. corretta dal Trif- sino 123.
e feg. fua morte jo. lodato dal Salvini 98. citato 2J. ». 43. 87.
». 174. $ % ( Pai- .
V 140 1“ avola delle Cefe Notabili» — — ( Palla)
dedica al Trillino li | poema delle Api di Giovanni 1 S
filo fratello, c quando 51.». ' 101. 87. lo fa autore del
ver- qabellico ( Marc’Antonio) lo- fio fciolto 87. O dò in un fuo
poemetto la £uele (P. Mariano) Carmclita- Villa Cricoli , c quale
12. no, fua Stanzia aggiunta al- 23. la Biblioteca Colante di
Gio Sadoleto ( Jacopo ) gli fono vanni Cinclli, dove Rampata fcritte due
lettere latine dal $7' c f e t' n ' in. regiftra alcune Trifsino.
iti. compofizioni dei Trifsino non Salviati ( Cardinale Giovanni )
più Rampate ivi . e 1 1 o. fa meta- prefenta al Papa una Canzo- zione di
J ovita Rapido 109. ne del Trifsino 31. fua lette. ». 247. ra al Trifsino
, riferita. 32. Ruderi ( P. D. Francefco ) Soma- n. 57. gli manda
un Breve dà feo . Sua 7 'ratina cc. dove Clemente VII. ivi .
Rampata 4. rt.’j. da chi fatta Salvini ( Anton-Maria) citato
Rampare 59. ». 114. accenna Vili. 38. loda il Poema dell’ T
alloggio d’Vrbano VII. nel Italia liberata 98. e feg. e P Palazzo
di Crico/i 12. ». 23. Api del Kucellai, e la Col- vuole che Carlo
V. f»cefle tivazione dell* Alamanni ivi. Conte, e Cavaliere il Tri
fsi- fu c Profs To/cane dove ftanv no 43. e quando 44. ». 86. paté
34. ». 61. 38. «.70. quanto in quello egli s’ in- Sannazzaro
(Jacopo ) uno de- ganni 55. ». 106. loda il gl lnterlocutori del
CaJleUa- Trifsino 6 J. e la fua Poeti. no del Trifsino 71. ca 73.
«.145. e la fua Coni- Sanfevcrina ( Margherita Pia) a media Ì07. ». 239.
accenna lei è dedicata un’Opera del aver il Trifsino icritti Infe-
Trifsino 67. gnamenti Rettorici 116. ». Sanfovino ( Francefco )
edizio- 260. come debba!! intendere ne della fua raccolta di Orat-
ivi. zioni di diverfi Uomini Ulte- Bufcelli loda P /tri divifa in
due parti, cita- invenzione de’nuov! caratte- ta 31. ». J$. fa
volte più ri del Trinino , c del Tolo- volte pubblicata 74. ».
147. mci.38. «.68. fua raccolradi in e da ha luogo un’Orazio-
Lettere di Principi , ec. cita- ne d’O., e quale ivi . ta . 42. ». 78.
nelle Rime Sajp (Giufeppc Antonio) loda- pcr lui raccolte lì trovano to
108. Je. 243. delle compofizioni del Trif- Savorgrtano (Giulio).
una lette- fino . 103. fuc note al Fu. radilui a Marco Tiene ftabi-
riofii dcH’Arioflo, citate ivi. | lifcc l’anno della morte del
Trifsino. j8. «.113. Scaligeri (Mattino, e Antonio) in qual
tempo vi veliero. 71. Scamozzi (Vincenzio) chiarif- fimo
Digitized by Google 4 Tavola
delle fimo Architetto . io. ». «. difcepolo del Palladio ivi
. di che non ne fa menzione nei Tuoi libri ivi. Schio (
Girolamo ) Configliere dell’ Accademia Olimpica, a chi foftituito
28. ». 48. . Ve- di Angiolello . — — Terra del del Vicentino,
manda Oratori a Venezia a a chiedere un fattizio Ve- neziano in
Rettore in vece del Vicario Vicentino . 49, difefo da Baftian
Venicro Gen- tiluomo Veneziano. 50. per. de in tutto, e per tutto,
ivi. degli Scolari ( Franccfco). Ve- di Bcccanuoli .
Scotto nd fuo hi. nerarium ec. parla dtlh Acca-
demiaTriflìna. m. ». 22. Ve- di da Cap ugnano. Stghezii (
Anton-Federico ) fcri- ve la Vita di Annibai Caro in. ». 274. dove
flampata ivi. non regiftra tra le Òpe- re di lui alcuna
traduzione dell’ Odi d’ Orazio . ivi. fu a edizione delle lettere
diBcrnar- do Taffo, citata 88. «.178. Serra# (
PìcriAmoqiQjjpubbli. ca le Rime del Bembo io». ». 21J. e quelle de’
Venie» ledendo la Vita di Domeni- co, HI. ». 2 JJ. Co
fé Notabili . I4I Speroni ( Sperone ) Sue Opere dove
ftampatc.. 52. ». 103. Giudizio fopra la fra Canate da chi comporto
, vedi Cavai, canti ( Bartolotnmeo ) . da Somacampagna (
Gidino ) primo Scrittoredc 11 ’ arte Poe- tica, in Italiano. 72.
inqual tempo viveffe. ivi. Statuto Vicentino citato ' feSS- Strozzi (Filippo) uno
degli In- terlocutori nel Cartellano . 70. Sub a f ano . Vedi
degli Aroma- tari. T T Asso ( Bernardo )
edizione delle Tue lettere ( proccurara da Anton-Federico Seghezzi
) citata 88. ». 176. 95. ». 198. 99. ». aia. loda 1 ’ Italia
li- berata. fue Lettere dove ftampate . 73.». 144. 96. ».
200. lodala Poetica del T tif. fino 7j. edizione della Aia Gerufrlemme
citata 87. e frg. ». 176. edizione di altre fuc Opere ». aot. loda i’ Ita. ,, Ha liberata .
96. non è Au- rore ( feconde il Sign. Mar- ohefe Maffci (a) ) della
Com- media ("intitolata gl' Jtrichid' -S } Amo-
(a.) Facendo però il Taffo menzione di certa Commedia, che andava lavo-
rande in, Tua Lettera a Giovambaiti'fta T.icinio, la quale fi legge a
car. iff. del Libro intitolato: Lettere del Sig. Torquato Tuffo, non più
ftam . fate ec. Bologna. por Bartelomto Cocchi 1616. 4. quand’anche non
fia egli l'autore della Commedia degl' Intrichi d" Amore , di che
per forti ragioni (e ne moftra.anzi dubb>ofo, che no, l’autore della
Prefazione alla nobiiillìma edizione dell’-Qprrr di Torquato Tuffo in
Firenze per li Tariini e Franehi 1714. iti VI. Volumi m fol. viene a
renderli affai vacillante la decisiva temenza del Signor Marcitele , cioè
non avere il Taffo compofte Commedie. Tavola delle Cofe
Notabili. Amore) febbene porta il fuo ne X. H. n. 31. vuole che
il nome 107. fno Amine» da • Tri /Tino foffe fatto- Conte , chi
difcfo, vedi Font /mìni. t Cavaliere da Carlo V. T»rji» (Tiberio) fuo
volgnrìz- 43. fua cfpreflìone dubbio- zamento d’ alcune Ode d'Ora- fa.
48.». 95. riferifce unepì. zio citato uà. gramtna del Triffìno. 57.
». di Ttmfo (Antonio) fcrifle in rii. non fa menzione del
ItalianodcH’ Arte Poetica. 7a. Volgarizzamento dell’ Elo. c quando
ivi. quenza di Dante fatto dal T ibride » ( Antonio ) fua Lettera
Trillino 118. attribuifee al dìfcnfìvAi citata ( della qua*
Trillino molte Opere non le fi tiene eflcre Autore il mai vedute.
124. loda laSo- Sig. Arciprete Girolamo Ba- fonisba 98. afferma effere
fta- ruffaldì ) 98. ». 1 io. ta rapprefentata con grande
Tiene ( Giovanna) prima mo. apparato per comandamento glie del
Trillino . 12. fua di Leone X. 25. ». 47. «itato morte ivi . 12. ».
Accademico 80. 98. Olimpico * foflnuifcc ano » della Torri che
intervenga a fuo no- fua mone pianta dal Tri/fì- me a un configlio
dell’ Ac- no . 108. ». 243. fu amico di cademia. 28.0.48. citato
29. Girolamo Fracaftoro. ivi. 0. ifteffa. ; j T rape futi z.io
(Giorgio ) noroina- Vedi Saver- 1 to con lode nell’ Italia libe-
&»»no* ! rata. 6. ». io. Tilefio fuo voi- Triffina Famiglia.
Sua antichi- garizzamento d' alcune Ode tà, e nobiltà. 1. divifa in
più d’ Orazio citato ni. linee. ivi. Autori, chen’han-
Tolomci (Claudio) fcrive con- no fcritto . 3; ». 2. Alberi tra il
Trillino in- propofito tre di quella Famiglia alle» dei nuovi
caratteri fotto no- g«*i . 48. ». 9 J. i difecndenti me di ^idriono
-f ranci fuo della linea di GioVan-Giorgio alfabeto > e
caratteri da lui inveititi delle Decime di ai- trovati . 37. ». 67.
citato 38. cune Ville del Vicentino. 14. »• 69. 1 fan lite per
rifcuotetle con- Tomafini ( Monfig. Jacopo Fi- tro ai Comuni d’effe
Ville., lippo) fuoi E log. yirar. Lit - ivi. vengono loro confifca-
ter. t ir fafitnt. Jlluftr. do- te effe Decime , e perchè . 1 j..
ve ftampati . 1 1 J. ». ». 1. fu pofledono l’ Opere manofcric- il
primo a parlar a lungo te del detto GiotGiorgio.nj. del Trinino . 111 .
lo fa ftu- Trijftno ( Co: Aleffandro) lodato, diofiffìmo dell’ Architettura
. Vedi la noftra Dedicatoria . 8 .». 16. accenna l’alloggio di — — .
(Alvifej primo mari. Urbano VII. nei Palazzo di to di Bianca Triflino .
48. Cricoli. ta. ». 23. regiftra un quando abbia fatto il fuo
Te. franamento di lettera di Leo» fomento , Co: An.
Digitized by Google ] 7 avola delle Ceft Nut abili. Iodato 48. ». 9 j. e 96. Padre
di Alvife, primo marito di Bian- ca feconda moglie di Giovan-
J Giorgio. 48. ». 9j. feconda Moglie di Giovan Giorgio, fuoi
ge- nitori 47. e 48. ». 9 fua dote . ivi . fuo primo Marito
chi folle ivi. di fomma bel- lezza. ivi. detta V Eleva del- la fua
età. ivi. di lei parla il Beccanuoli , e dove. 47.». 194- f“o
Teftamento. da chi rogato 52.». 102. lodata da Giovan-Giorgio confervava
on MS. appartenente alla Fa- miglia Triflina. j. n.tj.figliuolo di
Gio- van Giorgio Trillino . 49. ammalato. 53. , e feg. porta
allTmpcrator Carlo V. gli ul- timi diciotto libri dell’Italia
liberata di fuo Padre.raccomandato da Gio- van-Giorgio al Cardinal
Ma- drucci. ivi. figliuolo di Gì ovan-Giofgto^aaoti^io
va- ne. za. , fuo sbaglio intorno a Giovan-Giorgio O. 6
. ». zj. fuo trac-) tato della fua Famiglia, cita- to. ivi. e h.
18. ( Gafpare ) padre di Gio- van Giorgio O.. 2. mi-
lita a fue fpefe per la Repub- blica di Venezia . ivi. fua mor- te.
3. — traduce in metro latino
la j Sofonisba di Giovan-Giorgio ! O.. 77. h.ijj. dove fi
cenfervi. ivi. fi lamenta con Scipione Errico, per aver que-
lli criticato l 'Italia liberata 93. una lettera di lui dove fi
legga . ivi . riempie alcuni vani d’ un’ Egloga latina di effo Giovan
Giorgio non llabilifce fempre nello fteffo anno la fua nafeita. 2.
». 1. nominato nell’ ulpi del Ru. celiai. 8. ». 14. fuo
Sonetto riferito, e in qual occafione fatto. 41. ». 7 6. fu
creato da Mafsimiliano, c daCarlo V. Conte, e Cavaliere , ma
non del Tofon d’ Oro con altri privilegj. quando. altro fiso
Sonetto riferito quanti anni abbia fpc- fi nell' Italia liberata .
53. e feg. ». 106. Suo Epi- gramma latino riferito 5 7. ».
in. fatto Brcfciano erronea- mente dal Cieco d’ Adria. 58. ».
ilteffa. La fua Italia libe- rata è chiamata erroneamen- te dallo
Hello Italia il latra- ta. ivi . da una iferizionc Sepolcrale
riferita, appare ef- fe re flato Nunzio per le iali- ne di Chiazza,
e per la refti- tuzione di Verona, diche in altri luoghi non ne
abbiamo trovata memoria. 6 1. ». 116. Catalogo delle fue Opere ftam.
paté, e MS. tanto in Profa, quanto in Vc.tlo.67 . , e fegg. la fua
Italia liberata, come e quando Rampata. 53. e feg. 90. ». 183. di
quanti libri compofta. ivi . errori in que- llo dclFontaniai , e
del Com- pilatore del Catalogo della Li- breria Capponi, ivi. ia
pri- mi Digitized by Google 14 4 Tavola
delle ma volta ftampata per Privi- legio di Papa Paolo IV.
94. w. 192. fi tentò vetfione del- la fiefia in ottava rima. 98.
». 210. le lue Rime dedicate non al Cardinal Ridotti , ma a
Leo- ne X. 101. lue Opere ad altri attribuite, cioè lette
Sonetti a' BuonaccorfiJ. 101. -e feg. uno a Guittone d'
Arezzo ioj. ed una Canzone all’ Ariofto ivi . fuo Ritratto
in- tagliato dal Sign. Franccfco Zucchi perchè adornato 'di
quattro CoroncPoetiche 107. fila Opera imperfetta da chi compiuta.
108. e feg. — ( Giulio ) figliuolo di Giovan-Giorgio
-natogli dal- la prima moglie. 12. lette- ra di fuo Padre a lui ,
citata. gì. ja. »Cameriere di Clemente Vii. poi Arciprete della
Cattedrale di Vicenza litiga contra il
Padre, e per- chè 49. cui fa ftaggire le rendite viene da lui di-
fendalo vince la lite con tro di lui. ivi. Padre di Bianca, moglie
di Giovan-Giorgio pubblica un' Opera del P. Rugeri, c qua-
le. }.«.ii. dove facciafc- polto Giovan-Giorgio ( Co: ParmcMiotie ) Bibliotecario
delia Bere oliana di Vicenza confcrva copia del Volgarizzamento di
certa Genealogia di fua Famiglia 7. n.i 3. Vedi la Dedicatoria Nipote di Gio-
Cose Notabili. van-Giorgio fece in un cogli alrri fuoi affini
fcolpirc un Elogio allo Zio, e dove . lo Beffo Elogio riferito
Trinizio a lui manda O, il fuo Cartellano forco il nome di Dona fua
morte pianta in un’ Egloga da Giov.n-Gior- gio^ xo8- Consonante
, invenzione del Trillino , abbracciata dalla Crufca Faccari
avea traf- pottato in . ottava rima un Canto dell’ Italia liberata io. Val d.’Agno. Vedi Comuni
di Recoaro cc. Fate» ararla (Piero) va con O. a Venezia
Orator per la Patria Farchi edizione del suo Ercolano citata. afferma
c!- e il Firenzuola fende contro O. per giuoco loda la Sofonisba la
biafima fue Legioni) dove stampate loda l’ Italia liberata. . no»
decide la quertione circa l’ inventore del verso stiolto. mal inteso
da Fontanini edizione de’ fuoi Sonet. ti , citata «.a Sonetto ad O. riferito ivi. loda Jovita
Rapido citato F'ewimi Nobile Veneziano , avvoca in Venezia a favor della
Comunità di Schio con Tavola delle Cofe Notabili contro Vicenza , e perde
( Domenico ) tuo Vol- garizzamento
di alcune Ode rvr In cambio del T da chi, di Orazio citato ut. fue Ri- j
/ j e come fi comincia ad ufa- da chi pubblicate. n. 1 re . ZaccariaVerità
Sonetto ai nio)Gefuira, fua StoriaLet- lui foriero d’O., ove) teraria,
dove ftampata. si legga roi. I. fa 1 Elogio di Apposto-
Verlati, madre di; lo Zeno ivi. Bianca , feconda moglie del '
Zeno ( Apposolo ) ritratta la O. sua Vita d’O. inferi. Vicenza,
perchè detta Primoge- ta nella Galleria di Miner vita della Repubblica di Veva
I. e feg. fue Lettere dove nczia quando fi fia Rampate citate
donata alla flefla ivi. manda c fegfquarci Oratori di
congratulazione al j di lettere ferine all’Autore Doge Andrea
Gritti , e chi j di quella vita c ne invia contrai munica all’ Autore varie
noti- la Comunità di Schio dozie per telTtrc quella Vita ve manda un
Vicario a governarla ivi . è fatta piena WI12. donde l’abbia giuftizia
alle fue pretefe. J eflratte fuo sbaglio conlerifce al Trillino
varie lodato dignità, e quali . ivi sua Vigna fue | Libreria a chi donata
ivi. Differì azioni promeffe Vili. | fua morte quando
feguitam. fuo Preliminare dove lodato dal P. Zaccaria con
Rampato ivi. I lungo elogio, ivi . non tcn- Volpi lettera)
ne, che O. folle piti a loi fctitja dal Sign. Cano- j per ufare i
caratteri da lui nico Checozzì iir-tèifcfa del' inventati non tenne
per O,, dove fi legga fattura del Trillino certa operi. ioi. | ra latina citato
(il fo j Vedi Giornale de’ Let- praccennato)eGaetano fratelli) I
rerati d’Italia, (del quale cf. furono i primi a idear una edi- clfedone
egli il principale unzione di rottele Opere delTrif- tore con ragione a lui fi
at- fino U. u Io- 1 ttibuifee
tuttociò, che inef- xo ( Ifcrvazionc erudita fopra j fo fi
contiene). il titolo d’ un’ Egloga del Trif- ; ( P. D. Pier.
Caterino So, fino m. lodato Vrbano Vedi Cafiagna. j Zigiof ti 1
cfamina P Archivio de’ Co: Trilfini conferva co- Tavola delle
pia del volgarizzamento di certa Genealogia della famiglia d’O. lede
un’ Opera delle Memorie del Teatra Olimpico di Vicenza citato rac. coglie tutte le Opere MS. D’O. lodato ZorzÀ fuo Ragguaglio Jjlonco
intorno ad O. MS. ci- tato IV. fuo Discorso intorno alle Opere
dello Kctfo , do. ve fi fcgga . tao. citato nominato con lode
del P. Ruelc, c dove in. fuoi sbagli difende O. per l’invenzione de' nuovi
caratteri loda la Sofonisba numera le cen-. fare fatte alle opere d’O. e
dove - at- Cose Notabili rribuilce certa Opera ad O. ufi-fua opinione
circa alcuni Sonetti, at- tribuiti a’ Iluonaccorfi non vuole O. Autore del Volgarizzamento dell’eloquenza
volgare di Dame nò d’ un’ altra Opera latina lo crede bensì
Autore di certe Opere , che mai non fi fono vedute ivi Zucchetta ftampatore
quando cominciò a pubblicare Opere dai fuoi torch) Zucchi fua Idea
del Segretario ,ec. dove ftamta intaglia il Ritratto d’O. premeffo a
quella Vita il Fine della Tavola. Gian Giorgio Trissino
dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua italiana, filosofia del
linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di comunicazione, il parlare
umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la parlata dei genovesi, la
filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la filosofia del linguagio,
only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trissino” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Orrontio: la
ragione conversazionale e la scuola di Roma – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino – cited by
Porfirio.
Grice ed Orsi: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia fascista –
filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palma di Montechiaro). Filosofo italiano. Palma di
Montechiaro,Girgenti, Sicilia. Grice: “Orsi uses ‘psicologia speculativa’
where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes to
prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella
sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione
dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” –
e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come
atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o
cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica”
“Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a Domenico D’Orsi,
back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi is associated with
“Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many and varied – but
most notably philosophical psychology, which the Italians call ‘psicologia
speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have the great
Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning the old
Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s psychological
behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has philosophized on democracy. I
democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has also ‘cured’
the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to study Napoli!”
Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa. As most
Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a book
that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia speculativa. I
can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing Lotze’s ‘seele’ as
‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa, are elementary
enough – but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo
animato, corpo inanimate) is interesting. But far more interesting is Orsi’s
unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be confused with
LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of reflections. But
mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as discovered by
Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’ and ‘sentito’
and more generally, between the ‘sentire’ as a processo fisiologico – Spaventa
goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ – the first is the
processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as unearthed by Orsi,
calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is the ‘unita
reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold, there’s
cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated bodies
cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive from
say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a
‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or
represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore,
Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ortensio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A philosopher.
Grice ed Ortes – la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del verso – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza -- (Venezia). Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “Being
English, I was often confronted with that very ‘silly’ song by Cleese and Idle,
but then they were never the first! Which is good, since they are Cambridge and
Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”.
Considerato uno dei più dotati tra i filosofi veneti settecenteschi, precursore
nell'analizzare dal punto di vista della produzione complessiva alcuni aspetti
come popolazione e consumo. La sua impostazione filosofica si fonda su un
rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo vide far gran confusione fra moneta e
ricchezza. Fu un sostenitore del libero scambio pur con alcune restrizioni
della proprietà che interessavano il clero, anche se appartenevano al passato ed
è considerato per questo un anticipatore di Malthus, ma con qualche contraddizione.
Malthus prevede l'aumento della popolazione, in trenta anni, in modo
esponenziale, quindi molto di più dell'aumento delle sussistenze. Altre saggi:
“Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Pasquali,
“ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla religione e sul governo dei
popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli antichi” -- esposto in versi
per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia, “Riflessioni
sulla popolazione delle nazioni per rapporto all'economia nazionale: errori
popolari intorno all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano,
Ricciardi), Donati (Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario
Letterario Bompiani. Milano, Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto
i suoi studi matematici influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente,
come in fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle
opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni
e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato
dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero
determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa
qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli.
Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o
dallaprofessione,come la milizia, le lettere ecc.,o da qualche prerogativa,
come dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste
qualità gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si
studia di determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un
esempio. Se si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della
stessa, O. ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie
nobili sia 20,000, quella che proviene da cariche, magistrature, commende ecc. 3,300,
quella che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti,
e colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i
nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300
+ 700 = 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser
pretesto la virtù, ma vero fine l’interesse proprio, poichè, dipendendo il
valore delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si
deve prima d'ogni altra cosa cercare l'utile proprio. Avverte che v'ha sempre
un'opinione predominante che varia col variare dei secoli: ai tempi di ROMA
libera e la conquista; sotto OTTAVIANO illusso; il platonismo ai tempi di
Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII; le lettere sotto Leon X ; finalmente
l’ozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione, PIACERI E
DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire
di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia
figlio di vana alterigia. L'uomo che dee servire a molte di queste opinioni sarà
più civile, ma più timido e finto; chiapoche; sarà più rozzo, ma anche più
sicuro e più libero. E come O. si studia di ridurre a calcolo le opinioni, così
parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è O. in questo saggio.
Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la dottrina che tutto
ciòche è conforme alla conservazione e sviluppo del nostro essere, genera
piacere; il contrario, dolore. Parla dei dolori e piaceri del senso, dei dolori
e piaceri dell'opinione. Mostra l'uomo naturalmente soggetto al dolore, e che
il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento curioso studiasi
mostrare che il piacere non può mai superare il dolore, perchè il piacere
essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia, tutto quel di
più di piacere che si volesse applicare generera dolore contrario -- come
l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc. Il
calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre
onde alcuno è fornito, e, quanto ai piaceri e dolori d'opinione, dalla stima
che ciascuno fa degli stessi. L'autore non pretende a novità di dottrina,
professa di avere scritto secondo la propria esperienza, con un temperamento
indolente é coi suoi sensi in un'età di mezzo.Vedrem poi com’egli stesso ne
abbia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.:
un ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per
rapporto alla felicità umana; — e riflessioni
sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto
alle lingue. Ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a
dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio
delle umane facoltà nella scienza e nelle arti belle, anche queste
intitolandole scienze ma dilettevoli, in contrapposto delle altre che chiama
scienze utili. Nelle scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle
l'imaginazione. Quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste il vero ma
elaborato dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia concesso il
lavoro dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe: Sol la scienza
del ver giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dalla traduzione di Pope,
perchè volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta
in mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a
sè. In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli
oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a
discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso della
parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era
partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità
apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli
animi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo
autore, esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si
può negare che osservazioni argute si tro vino spesso in O. anche in queste
riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane
per rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura
assai noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua
prediletta in economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica
persuasione, non già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente
dice, che allora un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in America, come un tempo un romito potea
condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e avean voluto così.
Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche sentenza netta e
perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI, COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto
all'indolee ai pregi della propria lingua.
Chi volesse calcare l'autore straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un
ritratto con soprapporvi isuoi colori, coprendone così e confondendone
letinte,ecangiando il quadro in un mascherone o in un empiastro. necessità
invece che gli scrittori s'accordino sempre col carattere nazionale de'lettori;
e qui O. osserva, che il miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea
bensi starsene in Francia per passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai
perchè il suo talento comico fosse così ben rilevato nella lingua francese a
Parigi, come il e già in Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta
sembrerebbe anche gaio,come quando si lagna che, temendosi la fatica dello
studio, si trascurassero le cognizioni vere, contentandosi di dizionari,
giornali, compendi o altri repertori per dilettare, divertire, o come diceano, per
amuseare! È USO DELLA PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo
governisi da chi più ciarla , non da chi più sa, egli conclude: se chi pretende
governar altri senza render ragione del suo governo, e uomo assai vano; il sarebbe
non men certamente chi pretende governarli per sola copia ed eleganza di voci.
Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. Qui
cade a proposito, così egli, d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di
richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune, cioè gli interessi
comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali)
perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni
a'tempi de'loro bisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e
la ragione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi
trasandati fosse stata più riconosciuta per sè stessa in quei costumi, di quel
che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario di
sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i
tempi. Ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando
tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una miseria
di mente, per cui si creda la natura non più capace d'invenzioni in sua natura,
di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in sua rece.
Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in troducendo, e deplora gli
usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gl’usati che a
quelli dan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della
comun ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se
ciò fosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto
innocente, tanto inevitabile e necessaria, e potendo, anzi dovendo, quella
comun ragione, per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo
suo artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in
sembianze ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè
medesima. Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non
esercitarsi che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la
verità, la ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni
esterne di tempi molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed
interno di queste virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle
materiali loro modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor
senso e significato. Si pigli intanto O. in parola, poichè avrem campo di
trovarlo in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel
desso. Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso
libro, che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi,
da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora
queste meditazioni di filosofia. Errori popolari intorno all'economia
nazionale considerati sulle presenti controversie fra i laici e i chierici in
ordine al possedimento dei beni; Della Economia nazionale, parte prima,
libri sei; Lettere concernenti la stessa (oltre quelle che si hanno
nel • Custodi, quelle publicatesi in questo libro); Dei
fedecommessi a famiglie, a chiese e luoghi pii, in proposito del termine di
manimorte introdotto a questi ultimi tempi nella econ. naz.; Lettere in
proposito;Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto alla econ.
naz.; Dell' ingerenza del governo nell'econ. naz., publicato da G.
Fovel. Venezia, tip. del Commercio; Della eguaglianza delle ricchezze e
della povertà nel comune delle nazioni, publicato dal Cicogna.
Portogruaro; Riflessioni sulle rendite del Principato e sulle rendite
publiche in proposito di economia nazionale; Discorso sull' economia nazionale;
Popolazione perchè non cresca per l'agricoltura, per le arti e pel commercio;
Vari pensieri economici sull' interesse del denaro, etc. Tra gli scritti
d'Ortes nella Marciana. LETTERARI. Traduzione del saggio di Pope
sull'uomo; Saggio della filosofia degl’antichi esposto in versi per
musica; Riflessioni sopra i drammi per musica e l'azione drammatica,
Calisso spergiura, sonetti; nelodrammi; traduzione dei treni di Geremia, nella
Marciana; dei sonetti, ve n'ha anche di publicati in raccolte; FILOSOFICI.
Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla FELICITÀ [cf. H. P.
Grice, “Notes on ends and happiness”] umana; Calcolò sopra il valore
delle opinioni, e sopra i piaceri – EDONISMO -- e i dolori della vita umana, Riflessioni
sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto
alle LINGUE, alla LINGUA; Lettere relative; Calcolo de’ vizi e delle virtù,
nella Marciana). ATTINENTI A MATEMATICA E FISICA. Vita del P.
Grandl, Calcolo sopra i giuochi della bassetta e del faraone, con un estratto
di lettera sul lotto publico in Venezia, Calcolo sopra la verità della Storia; Venezia;
Sulla probabilità di vincite o perdite nel giuoco delle carte; Problemi
geometrico-matematici; ed altri di matematica e fisica, nella Marciana. Parmi
che molte sien cose scolastiche; in ogni modo, non da trascurarsi per gli
storici delle scienze fisiche e matematiche nel secolo scorso. RELIGIOSI.
Della religione e del governo dei popoli per rapporto agli spiriti bizzarri e
increduli de' tempi presenti, Lettere di estratto; Della confessione fra
i cattolici; Delle differenze della Religione cattolica da tutte le altre
(nella Marciana). POLITICI. Dell'autorità di persuasione e di forza
fra loro divise; Della scienza e dell'arte politica; tutti due publicati
dal Cicogna. Portogruaro. Inoltre lettere, in parte stampate, in
parte inedite presso il Cicogna, e le memorie autobiografiche, publicatesi dal
Cicogna. Ometto gli scritti, che il Cicogna indica solo come accennati da
altri; e ometto pure alcuni scritti, che il Cicogna indica nella Marciana, ma che
in parte sono manifestamente cose scolastiche, in parte mi sembrano ricordi
sceltisi dall' Ortes per suo studio, senza che si possano sicuramente dir cose
sue, in parte son cose del momento. L'anno che ho aggiunto qui sopra dei
vari scritti, è l'anno della prima publicazione. Del resto non importa
aggiungere se non l'osservazione, che volendosi ripublicare scritti dell'Ortes,
converrebbe far collazione delle edizioni coi manoscritti, che servirebbero a
correggerle e completarle. • %■ / RIFLESSIONI ■ •
■ *5' 'G
JL. I - ^ ^ ^ ^ *t j.- « *1 X OGGETTI APPRENSIBILI., • • •
• • ■ ' > I «r . »r , I • - ' r • • y
SUICOSTUMI, E SULLE COGNIZIONI UMANE, PER
RAPPORTO ALLE LINGUE. Digitized by Google
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^«.^ieKHot .i^rtfi|/j^»jmnaj;o , Digitìzed by Google
C1 AVVISO AL LETTORE. L e frefentì
rìfle$ont innò origine da una prefa^ zsonCy cb' io volea premenere a un
Opufcoto fi- lofofito , da me tradotto pili' anni innanzi dalla
lingua e poejia ìnglefe nella italiana; nella qual tra- duzione efiendomì
allontanato dalle maniere [olite ufar- fi dagli altri in fimili
cafi, credea di dover di ciè render conto al lettore . Queflo non poteva
io fare^ fenza entrare a ragionare della divergiti degli og- getti
^ de' cofiumi , e delle cognizioni , quali pili corrono nelle diverfe
nazioni , e della attiviti e /pi- rito delle lingue diverfe per e/primere
tutto quefioy fia con precifione ^ fia con eleganza ■ ciò che non mi riufciva mai ben di fare , ne' brevi
limiti eh' io m' era prefiPfo (f una Refezione , per
quante volte in piU modi la volgefil e rivolgevi in
mente ■.
Depofto per- tanto ogni penfiero per ejfa^ ò giudicato piu facile , anzi che jerivere una prefazione
inftgntficante , di Jìendere tutto ciò che fui detto propojìto di lingue
, e di cofe per effe efprejfe mi fi prefentava alla men- te^ in un
Trattato completo y e intefo a quefto efpref- f amente ; il quale così
non d pili che fare colla tra- duzione Juddetta , ma à molto che fare per
quanto mi fembra , colle maniere di penfare fugli ftudj , fulle
cognizioni umane , fugli affari comuni , e [ul- ta Religione medefima ,
per quanto code/le maniere effendo al prefente diverfe dalle ufate a'
tempi paffu- ti y fi reputano di quelle migliori . Quefto trattata
dun- Digiti;cri b> Google '• 5 ^ 0
dunque b Lettore .,c quello eh' io qui ti prefento ^ e che h jeritto
per mia e tua ijiruzione migliore y e per avven- tura dt pochtjjimi altri
, e non gid di tutti ; fempre piu falda in quella mia majjima , che le
cognizio- ni vere e reali abbiano e pojfano ejfer di pochi , a
differenza delle Juperficialt e apparenti , che poffo- no e debbono
ficnderfi a molti • e fempre più con- vinto altresì nel mio particolare ,
che nulla per me /limerei di f opere di certo y fe nulla fapejji dt
Geo- metria . D E- Digitized by
Google I i4x sf S;
{®<;S<,«<,-«i‘<-';®{)®i';^?i X <N*»
DEGLI OGGETTI APPRENSIBILI, DE’ COSTUMI, E DELLE
COGNIZIONI UMANE, PER RAPPORTO ALLE LINGUE .
vfc/ievAA<vdv> ^^srssrSFST^ A favella nell’ Uomo è quel
dono eh’ egli CAP. I. U 'f'^'^ M ^ comunicare ad altri le immagini
pre- Oggetti ap* Pii § fl Tentate al fuo cervello dagli oggetti efter-
prenfibili ori- » W ^ quivi combinate inpìbmodi dalla fa-
intellettiva, dono e qualità più ancor fìngolare e più (ublime
dell’ umana natura^. Quelle immagini che fe non s’ intendono per
quello nome , non s’ intendono per fpiegazione d’ elio veruna ,
fono più o men vive , a norma delle impreflìoni che gli oggetti llein
fanno diverfamente full’ un cervello più che fuir altro, o coll’afpetto
loro attuale, o colla me- moria di elTi apprefi altre volte , come la
ftelTa per- colTa imprime orma diverfa nella creta , nel gellò ,
nella cera o nel piombo . E quantunque s’ imprima- no fors’ anco fu
qualdvoglia materia pur infenfata , non fi combinano che fulla materia
animata mediante la facoltà intellettiva fuddetta , o la feparazione
delle più proporzionali ed armoniche dalle più difl'onanti e
deformi, per la quale così diconfi appunto combinarli A ia-
Digitized by Google 'è<i 1 1 ^ C A P.
I. infra efle. Una fimilc operazione dell’ intelletto tende a confrontare
gli oggetti fra loro, e da un fìmil con- fronto a rilevare fu elfi e per
eflì quelle verità , che fenza ciò rimarrebbero afcole ed ignote , non
arguen- dofi il vero che dalle confonanze di alcuni oggetti con
altri, ficcome dalle dilFonanze degli uni dagli altri fe ne arguifce
ilfalfo. Perchè poi delle confonanze o dif- fonanze di oggetti ben
arguite è indizio l’approvazio- ne o difapprovazìone per elle di altri ,
che abbiano o non abbiano fimilmentc combinate quelle immagini ; e
perchè una fimile approvazione o difapprovazione non può confeguirfi, che
per qualche mezzo fenlibile per cui efprimere e partecipare gli uni agli
altri code- fte combinazioni; quindi è dunque che un fimile mez- zo
fu ilHtuito nella favella , per la quale appellando ciafcune immagini o
ciafcuni oggetti dai quali quelle derivano, con altrettante voci o parole
diverfe, e col- locando queffe con certa difpofizione e corruzione
ana- loga a quelle, H partecipa da ciafcuno ad altri i mo- di coi
quali gli oggetti che occorrono all’ immaginazio- ne fon da fe apprelì e
combinati, afHne di verificare quanto fian efTì giufti , per quanto
reflino approvati dal concorfo maggior di piò altri ; di maniera
che quelle combinazioni d’oggetti s’ appellin migliori , alle quali
più altri preflinò un affenfo più facile e pronto, e quelle s’ appellin
peggiori, le quali non fìan fecon- date, ma fìano all’ incontro
contraffate da più altre a quelle oppofle e contrarie, comunicate
ciafcune a tutti mediante una comune favella. II. £’ chiaro,
quelle immagini combinate e comu. nicate così altrui per la favella , non
elTer diverfe dai proprj fentimenti d’animo , coi quali ciafcuno fi
ma- nifcfla agli altri non folo ne’ proprj giudicj fu gli og- getti
efìerni , ma nelle proprie azioni ancora, e negli ufiìcj e decenze della
vita comune che da quelli deri- vano , per non provenire tai fentimenti
che dalle im- preflioni appunto degli oggetti ertemi , e dalle
combi- nazio- Digitized by Google nazioni
che fé ne formano nelle ciafcune menti . A' cAP. I. ~ quedo modo parlando
per la verità e fuor d’ illufio- ne , pare che 1’ uomo tolto per la parte
fua fifìca , non didèrifca dai tronchi e dai faflì, fe non in quan-
to imprimendofi si in lui che in quelli le immagini degli oggetti coi
quali del pari comunicano, egli folo mediante 1’ anima ragionevole che lo
informa , à la facoltà che non an quelli, di fegregarne alcune dall’
al- tre e di combinarle infieme , e quindi di comunicarle colla
favella agli altri, affine di verificarle , e di de- durne quelle verità
che fugli oggetti medefimi poflb- no per lui concepirfi ( /» ) , e dalle
relazioni fra quelli W C. I. », t. fcuoprire per quanto a intendimento
mortale è concef- fo , gli ufi e le convenienze maggiori alle quali
dall’ autore della natura fon pur desinati . Che s’ egli (ì
lafcierà trafportare dalle combinazioni cafuali che le immagini degli
oggetti imprimeranno fui fuo cervello fenza fcelta o interelle alcuno,
quella facoltà non farà in lui diverfa dalla Pazxìa , la quale in fatti
non è che un abbandono alla propria immaginazione , com- mofla
dagli oggetti veduti o rammentati , e flrana- mente accozzati infieme .
Se poi egli combinerà tali immagini per le fole confonanze apparenti ed
eflerne di pochi particolari oggetti a sè vicini , per li quali
pertanto ei fia prevenuto per fuo folo piacere e inte- refTe, nulla
badando all’ oltraggio o danno che quindi ne provenifle ad altri, per non
iflendere quelle combi- nazioni ai moltiffimi altri oggetti ren-.oti coi
quali quelli avefTero relazione , e doveDero in confeguenza
combinarfi ; quella facoltà fi dirà in lui Errore, o ra- gione
intereffata particolare , il cui indizio farà que- fto , di ottener cita
I’ approvazione di alcuni , ma col- la difapprovazione di tutti gli
altri, potendo così l’er- rore eller bensì particolare di pochi , ma non
mai comune di tutti . E fe finalmente egli applicherà a combinare
le immagini colla fcelta e difcernimento più accurato , ed ellefo al
maggior numero d’ ogget- A a ti. Digitized by
Google ’ I V C A P. I. ti , e dirtinguendone le
relazioni e le confonanze tan- to più armoniche quanto più fparfe in
lontano, quali collocherù nel miglior grado di Ibmiglianza fra elle,
c quali fegregherà dall’ altre colle quali aveller quelle rap-
porto minore , o non ne avelfer nelluno ; allora ei ften- derà l’
interdlè e il piacere che da tali combinazioni derivano, da sè ad ogni
altro, fenza oltraggio d’ alcu- no, e una tal facoltà fi dirà \n\n\
Ferità o ragione co- mune, come quella che riconofeiuta da tutti , non
po- trà contrallarfi da alcuni, o contradata da alcuni , relterà
ognor vendicata dall’allenfo comune di tutti gli altri. III. Quello
dà facilmente a conofeere, come gli uo- mini in generale, mediante la
facoltà intellettiva fud- (j) C.f. II. 2. detta, o l’anima ragionevole
che gl’ informa (/»), paf- fino dall’ infenfatezza alla pazzia , col
combinare gli oggetti fortuitamente ed a cafo; e come dalla pazzia
pallino all’errore, combinandoli per proprio folo inte- Tcfle e piacere
fenza riguardo ad altri ; e come final- mente dall’errore fiano tutti
condotti alla verità loro comune, per la quale combinandoli per interelTe
e pia- cerecomune, agitati dapalTioni particolari, ma corret- ti e
follenuti per le comuni , tutti pur infiemc fudi- dono. E febbene tal non
fia d’elTi in particolare, per provvidenza pure particolare, giacché
quafi tutti invero dalla pazzia o dalla inconfeguenza nella quale
litrovano da bambini , padano all’ errore nel qual fi trovan da
adulti, ma non tutti da quell’errore padano alla verità comune, nella
qual fi trovan ben molti nell’ età più ma- tura , ma tutti non vi fi
trovan che al punto ellremo di vita; tal però è d’elliin generale per
provvidenza eter- na . Che fe alcuni fpiriti timidi e ombrofi
giudicano l’errore più comune della verità, in quanto gli uomi- ni
bene fpello contrallano, e non cosi di leggieri s’ac- cordano ne’ loro
penfieri ; ciò nondimeno la verità fi feorgerà fempre dell’error più
comune, in quanto elTa in etì'etto o previene, o modera, o pon fine
fempre a quei contraili medellmi anco ad onta loro , fenza di
\ che Digitized by Google ^ V ^5-
che nulla v’avrebbe di certo nelle combinazioni d’iin- cAP. i.
magini, nelle cognizioni che ne derivano, e nelle azio- ni per le quali
fi fulTide , che da tali cognizioni di- pendono, contro l’efperienza
manifelta, giacché pur fi fuflTifte. Ma intanto quindi apparifce, come
non eden- dò le lingue idituite che per efprimere e comunicare
altrui i proprj fentimenti dell’ animo o le proprie com- binazioni d’
immagini , per quindi rilevare quanto cia- fcuno per le vie
deU’infenlatezza , del delirio , e dell’ errore nello dato materiale, di
bambino, e d’ adulto proceda nell’età ferma alla verità comune nella
quale al- hn s’adagia e tranquillo fudide; la cognizione di quel-
le dipenderà dalla conofcenza di quede . Ond’ è che per ben ragionare
della natura e della diverfità delle lingue, dovrà ragionarfi prima della
diverfità delle co- gnizioni umane da manifedarfi per quelle ad altri
, non edendo certamente podibile ragionare o intender i mezzi coi
quali confeguire un fine , fenza la cono- fcenza di quedo fine medefimo .
Siccome ancora da qued’edèr la favella intefa a efprimer ioltanto le
pro- prie cognizioni falle verità o dilla ragione comune, e dall’
cder eda propria del folo uomo («), fi rileva, al W folo uomo dunque eder
dato il penetrare coll’intellet- to e r alzarfi a fimili cognizioni ,
occulte a tutt’ altre Ibdanze anco animate, ma prive della favella; in
gui- fa che ficcome ei folo podiede la favella, cosi ei folo in
queda vita mortale fia dedinato dalla provvidenza eterna alla conofcenza
delle cofe per una fimil ragio- ne , non odante il deviamento da eda di
alcuni , rico- noicìuto fempre dalla ragione medefima a tutti gli
al- tri comune . P ER comprender meglio le cofe fuddette , e
come gli CAP. II. oggetti combinati nelle ciafcune menti fi comuni-
Della forni- chino altrui mediante la favella , io confiderò da un
8'**9** * canto, che fogliono quedi del continuo rinovarli gli .
uni negli altri fecondo alcune leggi di moto , in che
con- Digitized by Googk VI ^
CAP. II. confifte la vita , e la eflenza di tutte le cofe mortali ,
e fcnza di che refterebbe il tutto coperto e ingombro di quiete , morte e
nullità eterna. Quelle leggi fono collanci e invariabili , cui natura non
preterifce giammai , come fi dimollra nel lirico , e da quello li
arguifce pur nel morale , per la ragione di non procederfi a que-
llo che per le vie di quello , o per la Icorta de’ fenfi , onde non poter
formarli regola per lo morale, che non fia in conformità a quelle per cui
fi conofcc proceder il fifico. Pertanto gli oggetti rinovati per tali
invaria- bili leggi, debbono altresì elTere invariabili e fra loro
confimili, ciò eh’ è molto conforme all’ armonia uni- verfale e alla
concordia di tutto il creato, non prodot- to dal cafo cieco e impolTibile
, come figurano gli fpenfierati , ma ufeito di mano di un folo , eterno
e fapientidìmo autore. Confiderò dall’ altro canto , che quella
fomiglianza di oggetti la quale feorre da tutti ein in cialcuna fpecie a
tutti ein nelle innumerabili altre fpezie nelle quali lì trovan divifi,
non toglie che gli oggetti medefimi non fian fra loro diverfì ,
colla diflerenza ancora, che gli oggetti della HelTa fpecie co- me
fon fra lor più confimili , così fono meno diver- lì dagli oggetti nell’
altre fpecie , dai quali più e più di- verlìficano . Ciò che non può
provenire che dalle mo- dificazioni diverfe e infinite, colle quali
procede il mo- to medefimo tìfico o morale fra gli oggetti. tutti
crea- ti, e che pur concorda colla potenza e fapienza infi- nita
del fupremo autore della natura, cui non convie- ne replicar un oggetto
nelle varie o nella llella fpecie di elTi , e colla varietà di natura
medefima , cui difdi- ce ad altri fpogliare delle infinite forme di
oggetti de’ quali è adorna , per rellrignerla folo ad alcune .
II. Quelle confiderazioni Habilifcono dunque quella verità , che
gli oggetti creati fono bensì tutti Confimi^ li y per le llefle collanti
leggi di moto fifico o morale per cui fullìllono, ma che fono altresì
tutti Diverfi , per le diverfe modificazioni di codello moto che
pro- cede Digìtized by Google V I r
cede colle tnedefime leggi, fcorrendo quella Ibmiglian- c A P. llT
za e dilTomiglianza per gradi inrenfibili dagli oggetti di ciafcuna
Ipecie a quelli di tutte le altre contigue dal regno minerale al
vegetale, e dal vegetale all’animale filico, ( e lo Hello dee intenderli
del morale {a) ) co- (a) C.II. n i. me è noto ai naturaliHi e agli altri
lilofolì per quel mifero finitefìmo di natura che fi trafpira, e dal
quale foltanto lice arguir di tutt’ ella. Tal ogni oggetto in ciafcuna
fpecie nel confumarlì procede per gradi di fo- miglianza indifcernibile,
e conferva i caratteri della fua fpecie con sè medefimo, e cogli altri
ne’ quali va a ri- produrfi , paflando per infenfibili gradi di
modificazioni diverfe da uno flato all’altro prima nella fua fpecie,
e pofcia da quella ad altre contigue più e più così fimili e
refpettivamente diverfe in infinito, finché dal tronco più informe e
infenfato, fi pervenga all’uomo megfioor- ganizzato e più faggio. Siccome
dunque il moto è la caulà di tutte le produzioni create, cosi certe leggi
di elfo Habili fon la caufa per cui fi producono e n con- fervano
elle tutte confimili ; e le diverfe modificazioni di un moto che procede
per le medefime leggi , fon la caufa della diverfità di ciafcuni oggetti
in ciafcuna del- le loro fpecie e in tutte le fpecie loro , reflando così
il creato uniforme e moltiforme, perchè prodotto e con- fervato per
quel moto, per quelle leggi, e per quelle mifure e modificazioni di elio
. Senza moto , non vi avreb- be cofa alcuna in natura . Senza leggi di
elfo , non vi avrebbe per il moto che un caos di follanze confufe
ed incerte, e da una rapa per efempio ufcirebbe una rofa , da una rofa
una ferpe , da una ferpc un coni- glio , ma il tutto informe e inoHruofo
fenza diHinzio- ne e progreflìone di fpecie , con ifconvoglimento di
tut- to il creato . Senza modificazioni diverfe di moto , per elfo
e per le fole fue leggi non s’ avrebbe in natura che una fpecie di
follanze inalterabili , folTer poi elTe tutte rofe, tutte rape, tutte
ferpi, o tutte conigli. £ folainente per un moto che proceda per le
medefime leggi Digitized by Google
vili C A P. II. leggi e per diverfe modificazioni di eflb, può
formar- fi e confervarfi in natura quella uniformità e varietà- di
follanze , per le quali effa pur fi vede ordinatamen- te fuflìftere . Che
fe la rofa verbigrazia è più fimile alla rofa che alla rapa , alla ferpe
, o al coniglio ; ciò non deriva da diverfità di leggi , ma da diverfità
di modificazioni in un moto , che ferbando le leggi me- defime ,
più che da rofa a rofa , procede da rofa a rapa, a ferpe, a coniglio. E
d’altronde la rofa, la ra- pa, la ferpe, e il coniglio fi diran fempre
fimili , per- chè prodotti per le flefle leggi motrici , avvegnaché fem-
pre diverfe per le diverfe modificazioni di quelle. III. Alcune di
quelle leggi colanti di moto , e di quefte modificazioni di eflo diverfe
particolari, furono alìegnate e conofciute dai geometri , ma il
pretender di tutte raccorle con mente mortale , o di portarli da
quelle che fi conofcono alla maffima di tutte dalla qua- le per avventura
tutte dipendono, farebbe lo ftelloche pretendere di mifurar l’infinito
con una fpanna , non che di infonder l’oceano in un bicchiere. Che però
gli oggetti fan fempre diverfi , fi conofce maffimamente da ciò,
che la detta rofa verbigrazia non è già alla fera qual era al mattino , e
un uomo non è in vec- chiaia qual era in giovinezza , e io flefib può
arguirfi d’ogni altra cofa che abbia fenfo onon lo abbia. Que- lla
variabilità poi negli oggetti creduti più volgarmen- te gli flefii, dee
maggiormente feorrere Irai creduti di- verfi, contemporanei o
confecutivi, nella fielTa fpecie e nell’ altre eziandio contigue e
diffimili ; dimaniera- chè non folamente tutte le rofe fian diverfe da
tutte le uova, e tutte le uova da tutti gli uomini , ma di tut- te
altresì le rofe, di tutte le uova, di tutti gli uomi- ni , non ve n’
abbian pur due , fra i quali non corra qualche indifccrnibile difparità,
mercecchè lefolfer per- fettamente le fteffe , non due ma una farebber
quelle rofe, queir uova, quegli uomini , e la prima divina caufa
motrice non più infinita, ma farebbe limitata c Digitized by
Google -5^ IX finita (/i). Ciò che negli uomini può
arguirfi dai fe- sni ancor materiali edefierni, per cui ciafcun
d’eiTifi didingue da ciafcun altro per iembianze di volto , di
voce, di carattere, di portamento e (Imili , e lo liefFo avverrebbe delle
rofe , dell’ uova, e de’ grani ftefli di miglio, fe fe n’ avede una
pratica corri fponden te . E quel che avvien delle rofe, dell’ uova, de’
grani di mi- glio, dee avvenire d’ogni altro oggetto particolare
mi- nore e maggiore , e del compleflb di più altri ancora vifibili
e invifibili ad occhio umano, della terra , de- gli adri , delie
codellazioni , e di tutto infomma il creato . Così la terra fempre a sè
defla confimile, è pur fempre dasè diverfa, e dove al prefente
forgonole città, v’ aveano ad altri tempi i deferti, dove s’ alzano!
monti , fcorrevano i fiumi o i mari , e viceverfa ; alla quale diverfità
fi procede per gradi quanto infenfibili , tanto continuati e
incelTanti. IV. Gli oggetti dunque creati pafTati , prefenti , e
fu- turi fono tanto fimili per le delle leg^i di moto , quan- to
diverfì per le infinite modificazioni , colle quali può edb variare,
padandofi per infiniti gradi e in infinite maniere di madima fomiglianza
e di minima varie- tà , dall’uno all’altro nella deda fpecie , e dall’
una eziandio all’altra delle infinite fpecie contigue di eflì, e
accodandofi ciafcun uovo ^r fomiglianza , e fco- dandofi per diverfità da
ciafcun altro o da Ciafcu- na rapa , per oggetti infiniti intermedi
va- rie fpecie , fenza però mai adomigliarlo o didbmi-
gliarlo del tutto; vale a dire fenza effer del tutto quel dedb o quella
rapa (6) , o fenza didrugger del tutto l’altr’ uovo o 1’ altra rapa .
Quel che s’ è detto degli oggetti filici , dee pur applicarfi ai morali ,
giacché fì- come quelli fi confervano e fi rinnovano io ciafcuni
per le deffe leggi di moto fifico , così operan quedi per le deffe leggi
di moto morale che da quello di- pende ( r). In confeguenza di che 1’
equità , il valo- re, la codanza, 1’ amore e gli altri affètti umani
vir- ^ B tuofi CAP. IL (<») C.I/.n.i.
W C.II.n.3. (c)C.II.n.i. Digitìzed by Google
CAP. II. CAP. III. Oggetti co- me apprefì
di- verfamente . (a) X "tuofi
o viziofi ancora , fi diran propagarfi dagli uni agli altri in ciafcuni
fempre conlìmili , ina tuttavia di- verfi , non folo ciafcuni in genere ,
ma nelle loro fpe- cie ancora in ciafcuno individuo, come paffioni
bensì confimili , ma che fono modificazioni diverfe d’ una verità o
d’un errore , eh’ ellendo lo fielfo e indivifi- bile in ogni paflione, è
nondimeno vario in qualfivo- glia fua apparenza o modificazione
particolare. Tallo Ipirito di conquida per efempio in Alelfandro ,
in Maometto, in Roberto Guifeardo, o il genio di filo- fofia in
Salomone, in Numa, in Marc’ Aurelio, o il fentimento di libertà comune in
Giunio , in Catone , in Gregorio VII-, furono ciafeune paffioni
medefimein sè llefle , benché ciafeune diverfamente modificate in
ciafeune di quelle perfone, attefe le diverfe circollan- ze de’ tempi , e
le varie difpofizioni de’ popoli, per le quali ancora furono diverlàmentc
fecondate , e ior- tirono vario efl'etto. L a fomiglianza e
refpettivamente diverfità d’ogget- ti fuddetta , è quella che coliituifce
le diverie re- lazioni fra effi , non riferendofi un oggetto all’
altro che per quanto ad effo è fimilc, o da effo è diverfo. Le
quali relazioni così fono infinite , per gl’ infiniti gradi di
fomiglianza e di diverfità, coi quali gli uni fi accodano agli altri o fi
feodan da quelli, e per li qua- li podbno infleme paragonarli, fia l’uno
coll’ altro nel- la deda fua fpecie, fìan gli uni cogli altri nelle
fpecic loro diverfe (/») . Qui prima di proceder più oltre ,
piacemi avvertire, che parlando io d’infinito, comeò fatto innanzi e farò
in féguito, non intendo parlarne come di cofa eh’ io comprenda per sè ,
ma come di cofa eh’ io non intendo che per approlfimazione , im-
maginandolo qual conviene a mente finita, vale a di- re qual finito ,
maggiore di quanti pollano alfegnarfi giammai in ciafeuna fua fpecie ;
inguifachè egli fia per l’aggregato di più e più finiti fenza fine di
quella Ipe- cie 1 Digitized by
Coogic eie d'oggetti di che fi tratta, per cui fi porga all’
in- telletto umano queir idea qualunque incompleta , che àffi
dell’infinito, fenza perciò che fi confegua elFo, o fi raggiunga a
comprendere polìtivamente giammai . Ciò avviene per le forze
intellettuali umane limitate al contrario e finite (<»); perciocché fe
ad intelletto umano fofle dato di apprendere verbigrazia tutti gli
oggetti e tutte le infinite relazioni fra loro , un intel- letto tale non
farebbe più umano o finito, e non com- binerebbe gli oggetti , nia
farebbe un Dio , che fenza combinarli li apprenderebbe tutti ad un
tratto, come quegli che li avefle creati , e ne avefle ordinate le
re- lazioni di tutti i luoghi, e di tutti 1 tempi. £ quan* tunque
di quella conofeenza l’uomo fcevro dai lenii, per quanto comporta il
grado di fua intellettualità , fia per partecipare nella vita avvenire ;
nella prefente di che II tratta , non potrà egli mai flenderfi in
elTa che per quanto lo conducano le tracce limitate de’fen- fi
medefimi , reflrignendofi così le fue cognizioni ad alcuni oggetti per
combinazioni foltanto finite , fenza fìenderfi a tutte per comprenfione
d’ efiì intuitiva e in* finita . II. Ciò porto, non
dirtinguendofi per or gli oggetti che per le lor dette relazioni diverfe,
ed elTéndo tali relazioni per ciafeuni di erti tanto infinite, quanti i
gra- di di fomiglianza odi diverfità, co’ quali poifan fra lor
riferirfi, fia nella ftefla, fia nelle fpecie loro diverfe ,
corrifpondenti alle infinite modificazioni d’un moto che procede colle
medefime leggi (b) ; ciafeun intelletto particolare, che per le forze fue
limitate dee apprender- li non per tutte, ma per alcune fole di tali
relazioni , dovrà apprenderli per relazioni diverfe da quelle , per
le quali le apprenda ciafeun altro, e in confeguenza dovrà
apprenderli diverfamente da tutt’ altri . In ellctto doven- do la
fomiglianza e diflbmiglianza fra gli oggetti a|>- prenderfi da ciafeun
intelletto finito ad un modo, edef- fendo infiniti i modi , coi quali
ciafeun oggetto può pa- B z rago- CAP. in.
{ò) C.ll.n.i.. Digitized by Google CAP.
III. ragonard come fimile o diffimile agli altri ; non potrà di quefti
infiniti modi quello col quale apprende quell* oggetto uno , effer quel
delTo col quale lo apprende un altro, ma dovrà l’uno effer dall’ altro
diverfo, per quan- to pur poffa efier a quello più e più confimile. A
que- llo modo faran gl’ intendimenti umani per gli oggettr medefimi
tanto diverfi , quanto le loro fifonomie o al- ia) C.II, n.^. tre
fembianze loro efterne fuddette che poffono bensì affomigliarfi in
bellezza o in deformità , ma non mai in modo di effer del tutto le fteffe
, o di non cor- rervi qualche differenza, per cui uno non fi ravvifi
o non fi diflingua, pollo al confronto coll’altro. Ed ef- Icndo gli
oggetti diverfi e confimili, e le relazioni fra effi infinite ; di infiniti
ancora intelletti umani fe fìa poffibile paffati , prefenti, e futuri, fu
i quali cadano le immagini d’unaflella, d’un fiore, d'un fallo, non
ve ne avran pur due che le concepifeano ifleffamente a per le
medefime relazioni ad altri oggetti, ma farà 1’ immagine di quella
(Iella, di quel fiore, di quel faffo diverfa nelle ciafeune menti di
quelle infinite perfone, confimile però più o meno l’una all’altra,
quanto que- flc relazioni fian più proporzionali ed armoniche, an-
corché armoniche e proporzionali Tempre dìverfamen- te. Fuori di quello
cafo non due, ma uno farebbero* quegl’ intendimenti, i quali ConcepilTero
gli flelli og- . getti per le fleffe immagini, o riferiti ad altri
ogget- ti per le fleffe finite relazioni delle infinite che ve n’
(è)C.J/. ».r . ànno , ciò eh’ è impoffibile {b). III. Qui occorre
offervare , come non è folamcnte (f)C.J/.w.5. la diverntà degli oggetti
apprefi avvertita difopra (r), ma quella ancora delle relazioni loro agli
altri diver- \ <d) C.III.V.3. (g gjjg (j avverte al prefente ( d ) ,
per cui fi concepì- fcano quelli da ciafeuni in vario modo, tanto al
me- defimo tempo uno lleflo identico oggetto , quanto à tempi
diverfi quell’ oggetto a sé confimile , ma da sè diverfo a diverfi tempi
in sè fleffo o nella fuafpecie. Per la qual cofa Tolomeo per efempio,
Ticonc , e Gali- Digitized by Google X 1
1 1 Galileo n diranno aver tute’ a tre immaginato il Sole '
diverlamente , quantunque il Sole veduto dal primo in AlelTandria à Tuoi
giorni, non folTe identicamente lo Iteflo che il veduto per avventura dai
due altri all’ idei* fo giorno, quattordici fecoli dopo nella Dania o in
Ita* lia, ma folle da quello infenfibilmente dillimile , per
rinfenfibile alterazione fofl'erta da ogni corpo , e in confeguenza da
ogni pianeta nella Tua durata medefi- ma, come s’è veduto (a). E ciò per
le relazioni fini- te del Sole dell’uno e dell’altro tempo, tolte dall’
in- finità di tutt’ elle cogli altri oggetti di qualfivoglia tem-
po, per le quali relazioni cialcun dei tre potea conce- pire il Sole , e
didinguerlo dagli altri oggetti , o para- gonarlo con quelli. Quello è
ben vero che la diverlì- tà, colla quale fi concepifcono da piò perfone
al mede- fimo tempo e nel medefimo luogo gli oggetti identi- ci,
farà molto minore di quella, colla quale fi conce- pifcano a tempi e
luoghi diverfi oggetti folo confimi- li , per variar appunto in quello
cafo gli oggetti an- cora da sè medeiìmi , e concorrer cosi non una,
ma due ragioni a diverfilìcarne le immagini . Ond’ è che ne’
diverfi luoghi e a diverfi tempi, fi dovrà ragionare di oggetti conlimili
con più di diverfità, di quel che fi ragioni al medefimo tempo e luogo di
oggeui iden- tici llelfi . IV. Del rimanente quella maniera
in ciafcuno di- verfa d’ immaginare gli oggetti llelfi o confimili ,
fi riconol'ce dai giudici diverlT che fe ne formano dacia- fcuni, i
quali giudici dipendono appunto da tali im- maginazioni. Se quei giudici
fugli oggetti llelfi folTer gli llelfi , allora potrebbe dirli , che
quegli oggetti fol- lerò apprefi e immaginati illelTamente . Ma
giudicando ciafcuni diverlamente del color verbigrazia rolFo o del
azzurro, convien pur dire, le immagini di quelli co- lori eflér diverfe
nelle ciafcune immaginazioni. Anzi fe un giudicalTe del rolTo come un
altro dell’ azzurro , potrebbe dirfi, apprender quegli perrolTo quel
cheque- /V! CAP. HI. (a) C.7/.M.5.
Digitized by Google CAP. III. (j) C.lll.n.l. CAP.
IV. Oesetii co- me nominati per la fteffa
favella. (ù)C.II.n.s. (e)C.m.n. 2 . •5^
XIV^ ’fti apprendelTe per azzurro, e viccverfa . Ma ciò non è
vero nemmeno e attefa la infinità delle relazioni di ciafcuni oggetti a
tutti gli altri , e la fingolarità iti ciafcuni di apprenderli (/»), le
immagini d’cfTì defta- te fui ciafcuni cervelli fon fcmpre diverfe , come
di- verfi ne fono i giudicj , e non folo uno apprende cia- fcun
colore, ma li apprende ancor tutti in vario mo- do da ajuel che li
apprenda ciafcun altro , inguifachè il rollo , r azzurro , il bianco , e
il nero imprimati di sè diverfe immagini fui ciafcuni cervelli non mai
le Itelle, e non mai permutate, ma fempre diverfe e im- permutate,
avvegnaché fcmpre conlimili. P orte quefte confiderazioni fulla
diverfità degli og- getti , e fulla maniera in ciafeuno diverfa di
con- cepirli , per apprendere come querto concepimento fi comunichi
da ciafeuno ad altri mediante la favella, è da avvertirfi, noneflcr
certamente portibile il commu- nicarlo per voci del tutto corrifpondenti
, e che il fi- gurarfi un efatta analogia fra le immagini colle
quali s’apprendon gli oggetti, e le voci colle quali s’ efpri-
ntono, è figurarfi un aflurdità . Imperciocché ert'endo ciafcun oggetto
infenfibilmcnte diverfo da ogni altro in ciafeuna e in tutte le fpecie
(b) , dovrebber le voci colle quali fignificarlo, variar infenfibilmentc
com’eflb dall’ altre voci colle quali fignifìcar gli altri oggetti
, ed crtér così le voci tante quanti fofler gli oggetti in- dividui
, appellandofi oggetti confìmili ma noniilertì, con voci pur confìmili ma
non iftelTe in partato , al prefente e nel futuro; anzi appellandofi con
voci di- verfe una rofa fterta per efempio al mattino e alla fe-
ra, e un uomo ftertb prima e dopo una febbre quar- tana. Oltre ciò per
effer ancora le immagini di que- lli oggetti medefimi nelle ciafcuni
menti diverfe (c), o per apprender ciafeuno gli oggetti diverfamente
da un altro, ne dovrebbero altresì le efpreffioni diverfifi- pre
nelle ciafcuni bocche irtertamente , o dovrebbero le favel-
Digìtized by Google XV ^ favelle cfler
tante quante le perfone favellatrlci , eia- c A P. iV. feuna delie quali
apprendendo gli oggetti così diverfi per relazioni eziandìo diverfe ad
altri oggetti , dovreb- be altresì pronunciarli in modo diverfo . Ognun
poi ..vede quel che avverrebbe per un fimil garbuglio di fa- velle,
per cui non farebbe poìTibile intenderli fra pa- dre e figlio, o fra
marito e moglie , più che fra gli antichi fabbricatori fcefi dall’
altiflima torre di Babel- le. Poiché dunque non è poHìbile applicar alia
favel- la, nè la diverfità degli oggetti individui , nè quella
delle immagini loro nelle cìafcune menti, ed è pur ne- celTario che
quelle immagini lì comunichino dagli uni agli altri , per conofeere
quelle verità che da mente nmana polTono concepirfi nello flato di vita
morta- le (a); non refla fe non che gli oggetti s’ efprimano
(a)C.I.n.t. per voci identiche flelTe accordate per confenlo e per
ufo , per le quali gli oggetti o le figure e immagini loro, s’ efprimano
non elattamente , ma proflimamen- te, e non già per quanto farebbe
neceflario , ma per quanto foltanto è poflibile ; in guifachè elTendo
tali imma- gini tutte fimili e tutte altresì diverfe, le voci
corrifpon- denti le efprimano bensì efattamente quanto alla lor ,
fomiglianza comune, ma non quanto all'individua lo- ro diverfità.
II. Quello è ciò che avviene in efietto, mentre og- getti
precifamente non iflelTi, e non concepiti da cia- Icuno ifleflamente,
s’appellano non per tanto con vo- ci flefle precife, e un faflb per
efempio, un fiore, una ilella fi proferifeono fermamente con quelli
flabili no- mi quafi folTer indifcernibilmente gli llefli , e li
con- cepiflero ifleflamente, quando per verità non lo fono, e fono
da ciafeuni ^preli in maniera diverfa . Con ciò fi vede, come effetto
della favella è quello di re- llrigner il numero degli oggetti e
dellefimmagini loro indeterminato e infinito, a numero tanto finito,
quan- to quel delie voci colle quali fogiiono profcrìrfi gli og-
getti medeOmi per quanto fono confnnili , e non per quan-
O Digitized by Google CAP. IV. quanto fono
diverfi , giacché alla ìftcflTa voce d’ una lUlla , d’ un fiore , d’ un
fafTo non fi deflano in ciafcu* ni le flelTe immagini , ma fi deflano
tanto diverfe , quanto quella (Iella, quel fiore, quel fallo cosi
appel- lati fono individualmente variabili, e fi riferifcono da '
ciafcuni non agliflefli, ma ad oggetti altri diverfi pur variabili, ed
apprefi diverfamente, e appellati tuttavia per quelle voci. Un tal lavoro
poi non può feguire , che mediante cert’ ufo e certa convenzione di quei
par- ticolari che piò comunicano di immagini e di voci , di
appellar appunto con voci immutabili e precifa- mente ifleffe, oggetti
individui e immagini loro, che non fono le flelTe colla precifione
medefima , fia per sè fia nelle ciafcune apprenfioni; o di appellar verbi-
grazia col nome immutabil di rofa un oggetto tanto variabile quanto una
rofa, e lo flelfo dee dirfi d’ogni uomo e d ogni altro oggetto
particolare per sè vario, ed apprefo da ciafcuno in vario modo, ancorché
pure confimile . La qual convenzione e il qual ufo è ar- bitrario,
e libero, mentre come fu convenuto di appel- lar r acqua e il fuoco con
tali denominazioni , cosi niente impediva che non fi convenirle di
appellare al- Jincontro 1’ acqua col nome di fuoco , e il fuoco col
nome di acqua . III. Perché poi poflbno gli uomini convenire
di chiamar gli oggetti per quanto fono confimili con al- (j)C.iK.
w.i. gypg yQgj jjQj, poflono convenire di render quegli oggetti
cosi invariabili come quelle voci , o di concepirli ciafcuni al medefimo
modo ; quindi avvie- ne che r analogia delle voci invariabili cogli
oggetti variabili in sè fleflì, e nelle ciafcuni immaginazioni ,
non può verifìcarfi che molto imperfettamente , o in quanto fi affuman
per oggetti invariabili , quelli che in effètto non fon tali che per
approlTimazione , va- riando eflì d’altronde del continuo per gradi
infenfì- bili e indeterminabili. In fatti quelli oggetti eie ma-
niere di concepirli , cangiano del continuo non can- gian-
O Digitized by Google XVII ^5-
giando le voci colle quali s’appellano , ed emendo le voci in ogni
lingua tanto finite, quante poffononume- rarfi ne’ Dizionarj, gli oggetti
e le immagini loropof- fono dirfi tanto finite, quante le innumerabili
modifi- cazioni di moto, dal qual derivano quelli, o le innu-
merabili relazioni degli uni oggetti a tutt’ altri , dalle quali derivano
quelle in ciafcuno . Il qual ciafcuno benché apprenda oggetti finiti per
relazioni finite, per eller però quelli e quelle in infinito variabili ,
li ap- prende in guifa diverl'a da quella d’ ogni altro , febben in
guifa d’ogni altro conlimile (<?), per le medeli me leg- gi di moto,
per le quali fi confervan gli oggetti, pro- ferendoli però lempre per le
ftelfe invariabili voci d’ ogni altro. Onde redi pur llabilito, la
moltitudine di oggetti e d’ immagini loro nelle ciafcune menti ,
ef- fer a numero incomparabilmente maggiore della mol- titudine
delle voci , colle quali pofian quelli denomi- narfi ed efprimerfi . Un
contralTegno efpreflb della det- ta imperfezione d’ analogia fra le voci
, e le immagini d’ oggetti per effe fignificati è quello , che
ciafcuno nello fpiegare altrui le proprie immaginazioni oi pro- pri
fentimenti d’animo, non trova cosi pronte le vo- ci che gli
occorrerebbero, ech’ei defidererebbe , come trova le immagini, e non v’è
cofapiù familiare, quan- to il dolerfi uno di non poter per voci dar così
be- ne ad intender ad altri ciò eh’ ei fente e intende per sé
medefimo , di che gli amanti foglion lagnarli il piò fpeffo. Ciò che non
può derivare , che dal conofeerlui molto bene, che gli altri per quelle
voci non appren- don gli oggetti per elle efpreffi, com’ei le apprende
, ma li apprendono in modo piò o meno diverfo, e che quelle voci
dellando nelle altrui menti non le lleffe, ma confimili immagini , fpiegano
ad altri una verità apprefa fempre con maggior chiarezza da quei
che la proferifee , che da quegli cui vien proferita . Lo che fi verìfica
tanto delie menti piò chiare che delle piò confufe , effendo certo che
ficcome un uomo fen- C fato CAP. IV.
MC.III.n.s. Digitized by Google -Sì! X V 1 1 1
;-5- IV. fato per quanto ei fia eloquente , intende meglio i
fuoi penfamcnti di quel che gl’ intendano altri ai quali ei li
fpieghi per voci ; cosi un inCenfato ancora , benché non intenda lui
ftelFo quel che vuol dar ad altri ad intendere, è però fempre mcn capito
da altri di quel eh’ ei capifea sè HelFo, ed è fempre men
feimunitoin sé , di quel eh’ ei fia concepito da altri. C A
P. V. A Pplicate come fopra una volta alcune voci ad Oggetti co- jlA.
alcuni oggetti in certo luogo e a certo tem- ine nominati po (^), fe
quelle voci come fono finite riguardo a per favelle quegli oggetti , così
il follerò riguardo a fe ftellé , ® avellerò con quegli oggetti una
necclTaria connef- (a)C./K.w. 2 . fjQfjg . qiie(p applicazione avrebbe
dovuto elTere uni- verfale di tutti i luoghi e di tutti i tempi , e
non v’ avrebbe al mondo che una favella , la quale for- mata una
volta , fi farebbe prefervata dappertutto la fiefla , invariabile per
tutti i fecoli , per efprimer gli oggetti per quanto almen fono fimili ,
fe non (l)C.iy.n.t. per quanto Ibno diffimili (6). Il fatto però è,
che febbene le voci lian finite riguardo agli innumerabi- li e
infiniti oggetti per elle efprefli , fon però elle pur innumerabili e
infinite riguardo a sè medefimc , fenza perciò avere quella infinità
relazione alcuna con quella ; mentre laddove quella degli oggetti
dipende dagli infiniti modi, coi quali procede il moto , che per le
ItdTe invariabili leggi li prelerva e li rinuo- va in ciafeuna e in tutte
je fpecie (c); quella del- le voci dipende dai moti pur infiniti, co’
quali l’aria fiella può ufeir dalle labbra, fpinta e percolla dagli
or- gani della favella , e quei modi non àn che fare con quelli.
Quindi apparifee perchè le lingue abbiano ad elTer diverfe a diverfi
tempi e nei diverfi luoghi , perciocché elléndo le maniere, colle quali
le voci pof- fono articolarfi infinite , c dovendo elle adoprarfi a
numero finito per elprinier oggetti mcdelimi e con- fimili, benché
infiniti j non v’à ragione perchè a quell’ Digltized by
Googlc 'it XIX ?$- nfo s’adoprino l’une anziché
l’altre di effe, o perchè CAP. vA un faflo , un fiore , una della
appellati ora in Italia con quedi nomi , non fodero appellati o non foder
per appellarli ad altri tempi in Italia o altrove con nomi diverfi.
Per quedo s’è odervato, gli oggetti non appel- larft con certe voci , che
per convenzione particola- re (a) divifa fra quei che più comunicano d’
immagi- (^a)C.iy. «.i. ni, a efclufione di tutt’ altri chemen comunicano,
non potendo quelli eder mai tutti. E perchè l’infinità delle voci
nonà alcun rapporto a quella degli oggetti , quin- di è ancora che una
tal convenzione non è neccllaria per certe voci , ma è libera ed
arbitraria per tutte , e dove s’applicano ad oggetti dedì e confimili
alcune di ede, dove alcun’ altre, e quando quelte, quando quel- le,
fempre diverfe perchè Tempre finite, tolte dall’in- finità loro intiera.
Se l’tina infinità fode relativa all’ altra , il farebbero pur 1’ una
all’altra quede applica- zioni, ma moltiplicandofi allora le lingue colle
imma< ginazioni delle perf>ne in infinito, ne feguirebbe
quel- la babilonia di lingue odèrvata di fopra (b) per cui non
{b)C.lV.n.t. farebbe più podìbile fpiegarfi gli uni cogli altri , e
per eder quede infinite quante le perfone di tutti i tempi e di
tutti i luoghi , non farebber nediine in alcun luo- go , o ad alcun tempo
. II. Come poi egli avvenga, che le lingue una vol- ta
introdotte fi cangino in altre ai diverfi tempi e ne’ diverfi luoghi , fi
comprenderà da ciò , che dovendo gli oggetti per le voci didinti eder gli
dedi per le dede invariabili leggi di moto, ma dovendo ciafeuni in
ciafeuna fpecie rinovarfi con infenfibili difparità per le infinite
modificazioni o mifure di quedo moto medefimo (c)j dovranno dunque efll
appellarfi per le (f)C. //. ». 2 . voci una volta loro affide e applicate
, in guifa però che confervandofi quede le dede per lo primo riguar-
do , fi vadano infenfibilmente alterando e degenerando in altre per lo
fecondo . Queda ragione s’ avvalora e s’accrefee per le nuove arti, per
le quali gli oggetti C a mede- Digitized py
Google b XX ^ C A P. V. medefimi e
confìmilì fi fan fervine a nuovi ufi , a(Tu- mendo eflì quindi pur nuove
denominazioni c divcrfe di pria , e introducendofi nelle lingue nuove
voci a efclufione di altre all’ introdurfi di nuove arti , collo
fmarrirfi delle antiche. Dell’introduzione di nuove voci in qualfivoglia
lingua fon prova evidente tutte quelle, che nelle lingue vive fervono
all’ arti di nuovo intro- ^ dotte nella milizia, nella meccanica,
nella fiampa , e fimili ; o quelle colle quali fi fpiegano le nuove
foggie di vediti, di mobili , di utenfili e così feguendo , le
quali prima dell’introduzione di tali arti e foggienon potevano avervi. E
della perdita delle antiche fono in- dizio quelle innumerabili nelle
lingue morte, fulle qua- li indarno fofifiicano gli eruditi per trovarvi
il figni- ficato nell’ arti ed ufi di oggetti prefenti, quando me-
glio dovrebbero non penfarvi , come ad appartenenti ad arti ed ufi di
oggetti già fmarriti , e la cui cono- fcenza col fignificato di tali voci
rimarrà fempre irre- parabilmente perduta . Perciocché il figurarfi che
al for- ger di nuove arti o di nuove maniere di fuflillere non
abbiano generalmente a fopprimerfene e a perire altrettante, è una
puerilità e debolezza di mente, per cui fi credan gli uomini in genere
più fiupidi o più fvegliati , e più taciturni o più loquaci a un
tempo che a un altro, ciò che non fi darà mai ad intendere a chi
meglio intenda la fpecie umana , e la natura ge- nerai delie cofe.
Variando dunque infenfibilmente gli («)C. //.».*. oggcìt* loro ufo per
ordine di natura (a), e quindi per difpofìzione d’ arte ; le lingue
altresì debbono va- riare infenfibilmente per efprimere quegli oggetti
e quegli ufi , finché col lungo corfo di fecoli quelli e que- lle
prendano nuovi afpetti , refiando gli oggetti gli rteflì per le fiefie
leggi di moto, ancorché diverfi per le di- verfe modificazioni di quello
; e refiando le lingue pur le lleflè per la llelTa perculTìone d’aria dai
polmoni fo- Ipinta , ancorché fempre diverfe per le diverfe articola-
zioni di voci provenienti da quella percufiione, modifi- cata
Digitized by GoogU ^XXI ^ cala in varie
maniere. Ad accrefcer però e ad affretta- CAP. V. re moltiffìmo una
fimile alterazione e rinovazione di lingue, s’ aggiugne la mefcolanza di
popoli di lingue diverfe che comunichino di favella; perciocché
appel- lando gli uni e gli altri oggetti fteffi o confimili con
voci diverfe , e non avendo ciafcuni maggior ragione di così appellarli ,
è pur forza che riefcano a inferir gli uni le loro voci nelle voci degli
altri , onde imballar- dite così le lingue , vengan di due a formarfene
una o più altre di quelle compone , e da quelle del pari diverfe
. III. Egli è poi da oflervare, come per cffer gli og- getti
confimili fempre divertì , e per eflere una tal di- verfità molto più
notabile a tempi e in luoghi difpa- rati (a) ne’ quali s’ufino favelle
diverfe, che alloflef- v.]. fo tempo e luogo, ove non fe n’ufi che
una ; quegli oggetti efprelTi in un tempo e luogo con favella d’al-
tro tempo e d’altro luogo, non fi concepifcono perciò quali furono o fono
a quei tempo o in quel luogo na- tio, ma feguono a concepirfi quai
fogliono in quello, colla fola diffferenza di replicarli così in mente ,
e di cfprimerli altrui con favella ancora ftraniera . Cosi le
produzioni ftefre di animali, di piante, di minerali , più diverfe nell’
antica Italia e nella prefente Inghil- terra di quel che il fiano nell’
Italia prefente, efprelTe qui ora colle voci italiane antiche o colle
prefenti inglelì , non fi concepifcono quali erano in Italia
anticamente o quali fono al prefente in Inghilterra , ma quali fono
al prefente in Italia. £ febbene per la voce 'uir fi fì- gnifìcalfe
verbigrazia allora in Italia un uomo come un Lentulus , e per la voce man
fi lignifichi ora in In- ghilterra un uomo come un Richard, e per la
voce uomo fi concepifca ora in Italia untale comeunGiam-
pietro; per tutte quelle voci vir^ many e uomo fi con- cepirà ora in
Italia del pari un tale come un Giam- pietro, e non mai come un Lentulus
o come un Ri- chard. Lo che fi dice per avvertire, che la
cognizione delle I Digitized by
Google -5t! X X 1 1 CAP. delle lingue morte o vive
Oraniere, non amplifica per nulla la cognizion degli oggetti , ma carica
foltanto la mente di più termini d’eflì apprefi ad un modo folo,
diritto o torto ch'ei fiafì, lafciando cìafcuno nello fla- to d’
ignoranza o di dottrina, nel quale d’altronde ei fi trovi . Certo è che quantunque
ciafcuno apprenda gli oggetti diverfamente da tutt’ altri , per
appellarli con più nomi non li apprende con più maniere , o colle
maniere degli altri , ma fegue a concepirli all’ ulato fuo modo . Ond’ è
che per apprendere più lin- gue n apprendon più voci , per le quali
replicar in mente gli oggetti , e comunicarli a perlone di lingue-
dìverfe non diverfamente all’une che all’ altre , fcnza apprender perciò
niente di più fu quelli , o fenza ac- crefcer per nulla le proprie
cognizioni ; quand’ ancora la mente occupata ed ingombra dalla farragine
di quei moltiplici termini fugli oggetti medefimi , non reflafT'e
perciò impedita dal concepirli con più chiarezza e con più precifione,
reflando così le cognizioni fu effi tan- to più limitate e riftrette,
quanto apprefe per più ma- ni di lingue , come v’ù gran luogo di
dubitare.. CAP. VI. /^Uella diverfltà e refpettivamente
fomiglianza, che Della divef- V^_s’è veduta correre fra gli oggetti
della (lefTa e fità poffibile di diverfe fpecie , e fra le maniere
diverfc di (^)> è manifefto dover molto più ampia- C./i/ »
" ^ver luogo fra le combinazioni di quelli nelle ciafcune
menti, le quali combinazioni cosi faranno di- verfe e confimili non folo
quanto gli oggetti , ma quanto altresì pofTono quelli confimilmente
combi- narli o accoppiarfi infieme a numero minore o mag- giore ,
feparatamente gli uni dagli altri . Da quelle moltiplici combinazioni d’
oggetti in ciafcuni diverfe procede quell’ordine, per cui gli uomini
diverfificanod’ inclinazioni, di genj , di temperamenti, e quindi
di maniere di penfare e d’operare, ciò che coflituifce i di- vcrfi
cojìumi loro ne’ divcrfi luoghi e ai diverfi tem.- Digitized by
Google X X II I pi. Imperciocché llante una
fimile diverfità di oggetti c A P. VI. diverfamentc combinabili, non farà
poflìbile che s’ac- cordin eglino di applicare tutti ad oggetti delle
ftelTe fpecie, ma dovranno applicare quali all’une, quali all’
altre di quelle, e quando a quelle, quando a quelle , per riferirli
cialcuni e combinarli con altri oggetti di tutte le fpecie diverfamente ,
onde deriveranno appunto le moltiformi inclinazioni e coHumi fuddetti .
Quindi apparifce la necedìtà di una limile diverfità di collumi
negli uomini adunati ancora più Hrettamente infìeme , la qual procede
dall’ impodìbilitàfuddetta di applicar cia- fcuni in particolare, e più
ancora di ellì in comune , alle ftelTe fpecie d’oggetti, e di combinarli
e riferirli fempre al medefimo modo finito , quando tali fpecie
d’oggetti e tali modi di combinarli e riferirli fono infi- niti, e il
finito tolto dall’infinito in palTato, alprefen- te , e nel futuro per
infinite fiate ancora fe fia polfibi- le , è fempre diverfo {a). Quella
diverfità d’opinioni C. Il.n.i. e di combinazioni d’immagini, per ufo di
combinare ciafcuni più particolarmente oggetti d’ alcune fpecie in
luogo d’altre, è cofa familiare, e fi manifella ai fre- quenti incontri
per le impreflioni diverfe degli ogget- ti medefimi fulle menti di
quelli, che lìan più o me- no avvezzi ad apprenderli, e a combinarli. Ed
è cer- to l’incantefimo per efempio del villano fra i cittadi- ni ,
l’orgoglio del cittadino fra i villani, laprelunzio- ne del cortigiano
fra i dotti , la noja del dotto fra i cortigiani, non proceder da altro,
che da maggior ufo in ciafcuni di quelli di combinare più
particolarmen- te oggetti di diverfe fpecie , nelle varie circollanze
nel- le quali ciafcuni fi trovano. II. Chi poi da una fimile
diverfità d’opinioni eco- fiumi riputalfe derivar difordine e fconccrto
fra gli uo- mini , s’ ingannerebbe di molto , perciocché per quanto
diverfi fian gli oggetti apprefi e combinati più fre- quentemente da
ciafcuno, purché le combinazioni co- gli altri ne fiano armoniche, e
conformi alla llelTara- Digitized by Google
XXIV ~C À F. VI. gione comune (u), non potran quelle elTere che
pur (,a) C.I. ». 2, confimili, e perciò conformi fra elle, nè potran i
co- dumi che ne derivano effer difcordi o generar fra cfli
difordine, eflendo anzi tutti in ordine a una ftelTa ve- rità o comun
ragione. In eflètto rcflTer le opinioni e i coflumi diverfi non toglie
che non poffan elTer con- fimili , e ficcome gli oggetti fon confimili
per la fem- plicità e invariabilità delle ftedè leggi motrici , per
cui Il confervano c fi rinnovano in cialcuna e in tutte le l'pecie,
e fono diverfi per le diverfe mifure e modifi- cazioni, colle quali
procede quel moto in ciafcuniper le medefime leggi ; all’ ilidìo modo le
combinazioni loro, e i cofiumi che ne derivano, fon pur confimili
nella loro diverfità, per una ragione comune invaria- bile in sè fiefia ,
ma variabile nelle fue modificazioni , lecondo le quali quegli oggetti fi
a ppret\dono, e fi com- binano da ciafcuni . Che le fi domandi un
rifcontro, per cui conofcere quella conformità di coftumi colla
ragione comune, fi dirà quello efl'er quello, per cui ap- parila, che
elTendo elfi utili a sè niedefimi , il fiano altresì agli altri , lenza
che alcun ne rifenta nocumen- to od oltraggio, mcrcecchè fe elfendo
quelli a sè uti- li, fulfero ad altri nocivi, allora non firebber elfi
alla comun ragione o alla verità di natura conformi , la quale è
Tempre concorde e non mai a sè lidia oltrag- giofa; ma làrebber in
conformità all’errore o alla ra- gion particolare d’ alcuni a quella
comune contraria , dillruttiva disè medefima neila dillruzione degli
altri, li) C.T, n. 2. come s’è dillinto da principio [b).
III. Con ciò apparifee , come la diverfità di com- binazioni
d’immagini, e quindi d’opinioni e collumi, non folo non apporta difordine
in matura, ma ne co- llituifce aU’oppolto l’ordine e la concordia
migliore , purché non s’ allontanino dalla llelTa ragione a tutti
comune, ciò che può avvenire in infiniti modi; e in tai modi appunto
diverfi fi dirà pollo l’ordine e l’ar- (c) C.II.n.4, monia medefima di
natura morale (c), come ne’ mo- di (
Digitized XXV di di combinazioni in conformità alle
ftefTe legni mo- c a"? VI trici filiclie, è polla l’armonia di
natura pur liiTca. E invero dall’ applicare gli uomini di concerto, quali
fu alcune, quali lù altre fpecie d’oggetti più particolar- mente,
ne proviene che le cognizioni fu effi e per erti refpettivamente
s’accrefeano , e gli uni accorrano in foccorfo degli altri, derivandone
quindi quella perfua- lìone e prudenza umana , per la quale ciafeuni
per quanto è polìibile , ne’ varj ullicj , profertioni e modi di
vita per erti intraprcli piacevolmente fulfirtono . Senza ciò
combinando ciafeuni calualmente gli onnet- ti fenza fcelta e fenza
difeernimento di fpecie, non s’ ' avrebbe che confufìone , e per
clTer gli uomini di tut- te le opinioni, i collumi c le profellioni , non
fareb- bero di nellune. Ov’è da oU'ervare altresì l’iinportìbil- tà
in alcuni foli di riconofeer tutte le azioni e tutti i cortumi , per
quanto fian quelli utili a tutti , e con- formi alla coniun ragione,
dovendo una tal conofeen- za dipendere dalla ragione appunto comune , e
non mai dalla particolare di quegli alcuni . Se quello folfe
portabile , la natura avrebbe dertinati gli uomini non in foftegno, ma a
carico ed oppreHione gli uni degli altri, e avendo formato alcuni foli
intendenti ed atti- vi , avrebbe collituito tutti gli altri llupidi e
inerti . Egli è ben necellario, che alcuni riconofeano le
azio- ni e i collumi tutti, per quanto forter quelli contrarj al
bene e alla ragione a tutti comune, al qual fine fu- rono illituiti i
Governi de’ popoli; mentre il conofeer fe un’azione coll’crter utile a sè
il fia pur ad altri, o fja ad altri nociva, è dato ad ogni uomo in
partico- lare , e martime a chi è dertinato a quella conofeen- za.
Ma il prefumer alcuni* d’ inventariare e regolar tutte le azioni , i
collumi , le opinioni e le profèlfio- ni, per quanto fian utili a tutti,
è un prefumer d’efler quei tali di tutte le azioni , i collumi , le
opinioni e le profertìoni , cofa allurda , non elTcndo ciò dato
dalla natura ad alcuni in particolare , ma agii uo- D mini
Digitized by Google X X V I ~C A V. vir
mini in generale di tutti i tempi , e di tutti i luo- IV. Infatti
poiché le combinazioni di oggetti fono infinite non folo in tutte le
fpecic, ma in ciafeune an- cora di e(fi, e non può intelletto umano
apprenderne che un numero finito ; e oltre ciò poiché gli oggetti
non fi combinano che per conol'cere le verità fu effi c per efiì , e tali
verità non poffono rilevarfi per tali («) C.L ». 1 . combinazioni, che
pel confenfo di molti fu quelle (a); iàrà dunque forza, che molti
concorrano ad apprende- re c combinare , quali oggetti di alcune fpecie,
quali di altre particolari, clTendo cosi altri di alcune , altri di
altre inclinazioni e collumi meglio intefi e iftruiti , a efclulìone
limile di tutte le altre; non efi'endo d’al- tronde poHibile che tutti
gli uomini, ciafeuni de’ qua- li debbono apprendere e combinare alcune
fpecie fole d’oggetti finiti; delie infinite fpecie che ve n’ ànno,
s’ imbattano ad apprenderli e combinarli delle lleflè fpecie finite a
efclulìone delle infinite altre , e in tal guifa ad eflér tutti d’un
umore, d’ un’ inclinazione , e {b)C.VI.n.\. d’ un collume (é). A quello
modo fi può dire , eh’ tlfendo le immaginazioni d’oggetti diverfe,
edelfendo pur diverfe le opinioni e i collumi , fra 1’ una e 1’ al-
tra diverlità v’ à però quello divario , che elfendo la prima in riguardo
a ciàlcun uomo, la feconda è in ri- guardo a più d’ elTi , e che non
avendovi pur uno che (i) C.III. H. 2 . immagini gli oggetti come un altro
(r), ve n’àn pe- rò moltilTimi della llelfa opinione c collume ,
diverfi dalle opinioni e collumi degli altri; in guilàchè ladi-
verlìtà di opinioni e collumi, anziché divider gli ani- mi, tenda ad
unirli dalla diverlità molto più amplafra le loro particolari
immaginazioni col vincolo d’ una loia ragion comune, alla quale quelle
opinioni e quei collumi , avvegnaché diverti , fian pur femnre
confor- mi. Lo che non avviene indarno, ma è llabilito con provida
dilpcfizione , alfine di verificare l’armonia del- le immaginazioni
diverfe per la conformità delle opi- Digitized X X V
1 1 ^5- nioni confimili (<j), giacché la diverfità poid’opinio-
CAP. VL~ ni fra tutti non induce confufione o difcordia fraefll, («)
c.'l. t. per la uniformità appunto di molti in ciafcuna di ef- fe ,
e per non opporfi nelTuna alla ragion umana co- mune, della quale anzi
ciafcuna opinione particolare co- itituifce una parte, ed è modificazione
particolare di- verfa. Certo è, che ficcome la diverfità degli
oggetti immaginati non confonde la natura, anzi ne coltitui- fce la
vaghezza e perfezione migliore ; cobi la diverfi- tà delle opinioni e
cofiumi, che di quella è la conle- guenza, non incomoda alcuni come
quella che cofti- tuifce anzi la varietà delle azioni , e colla varietà
la libertà , che di quelle azioni è il carattere più gradi- to e
migliore, efléndo così ladiverfità de’ colìumi uma- ni tanto necelTaria
all’umana fulTidenza, quanto ladi- verfità nelle fpecie d’ oggetti lo è
nella natura univer- fai delle cofe- V. Per altro ciò che fa
credere come fopra (4), che WC.Ff. n.i- la diverfità degli oggetti
combinati, e de’ coflumi che ne procedono, apporti confufione edifordine,
è l’equi- voco di confondere la diverfità colla contrarietà di dii
oggetti e coflumi , e di prender quella per quella , non potendo negarfi
, che per opinioni e coflumi repugnanti e contrari non s’apporti
fconcerto e non fi dia moti- vo a difordini, ciò che non è da temerfi per
opinio- ni e coflumi diverfi. La contrarietà però è tanto lun- gi
dalla diverfità in tutte le cofe , quanto è appunta ad effa contraria ,
ed è quella tanto implicante nelle immagini degli oggetti e ne’ coflumi
che ne derivano, come lo è negli oggetti tutti creati , i quali
pofìbno bensì efler diverfi , ma non mai contrari , per dover efier
tutti confimili , e poter bensì la fomiglìanza aver luogo fra gli oggetti
diverfi , ma fra i centrar) non po- terlo avere giammai, come per più
induzioni e rifeon- tri fi farà chiaro qui in feguito. D a Per
Digitited by Google 'òi XXVIII CAP. VII.
Della
con- trarietà im- pofTibile de’ coflumi .
(o)C.P/.».i. P ER meglio comprendere le cofe fuddette è
dacon- fiderarH , gli oggetti de’ quali fi tratta , e dai qua- li
procedon le immaginazioni , le opinioni , e i collu- mi umani (/*), non
poter efferc che gli efjftenti , po- litivi, e creati, e non mai i
negativi , non efiftenti , e non creati , i quali non vi fono , e non fon
nulla . Polli poi alcuni oggetti pofitivi , i negativi loro con-
trari non poter efl'er pofitivi giammai , e in confeguen- za non poter
efl'er del tutto , e pertanto gli oggetti contrari efler del tutto
impoflibili . In efletto fe og- getti tali folfer poflìbili ed efiftenti
, rimarrebber di- brutti gli uni negli altri nella loro efillenza mede-
fima , nè vi avrebber più quelli nè quelli • e il fu- premo artefice
della natura farebbe autor ai contra- ri , o farebbe un principio
contradittorio e implican- te lui Ueflo, vale a dir nullo ; quando pur
non pia- cefle ricorrere al ripiego di due principi in natura con-
trari ed ambo efiftenti , per il’piegar appunto codefta fuppofta
contrarietà di oggetti pofitivi cercati ; ripiego adottato in vero da
alcune menti fupcrficiali, ma tanto pur contradittorio e allurdo elio
llelfo , quanto la fup- pofizione medefima , a fpiegar la quale fu
vanamente chiamato in foccorfo . Il fuppor gli oggetti pofitivi c
creati contrari fraeflì procede da materialità di mente, per cui fi crede
contrario all’altro quel che fembra di- ftrugger l’altro fol perchè il
vince d’ efletto, e fi crede cosi uno di quelli negativo dell’altro,
quando fon tutt’ due pofitivi del pari , e quella apparente
dillruzione non procede da qualità contraria , ma da forza mag-
giore, per cui uno fupera la forza dell’altro, e non la vince nella parte
che per prefervarla nell’ tutto . Cosi r acqua per efempio gettata fopra
un incendio , fi dirà fpegner il fuoco , non perchè ad elfo contra-
ria , o il negativo di quello , ma per impedir al fuoco di diftrugger il
tutto. E all’ iftelfo modo fi di- rà, una fornace di fuoco aflorbire e
vincere una pin- ta Digitized by Coogle XXIX
^ ta d’ acqua fparfavi fopra , per l’ attività allora fupe- e A P.
VII. riore del fuoco nel confervare fe flelTo , e del par pofitiva
a quella dell’acqua, giacché nell’ uno e nell’ altro cafo ciafeun di
quelli elementi efercita tanto di fua polla full’ altro , quanta ne
efercita quello fu quello , accordandofi così entrambi anco a collo
di loro ellinzione particolare, per la confervazione lo- ro e delle cofe
comun politiva , e non mai per la di- flruzione loro e comune , eh’ è
negativa , impolfibile , e nulla. II. Se li domandi un
contralTegno , per cui dillin- guer gli oggetti politivi e efillenti dai
negativi e ine- lidenti, giacché dal volgo fi confondon gli uni
cogli altri, fari facile additarlo in ciò, d’eU'er quelli fufeet-
tibili di piò modificazioni o mifure, quando quedi il fon di nellune,
come il nulla ch’é appunto di nelTu- na mifura e non efide . Cobi 1’
acqua e il fuoco fud- detri perché fufcettibili di piò modificazioni e
mifure, fi diran politivi ed elidenti del pari, avvegnaché cre-
duti negativi e contrari l’uno all’altro. E all’incontro il calore, la
luce, il moto , il pieno creduti contrari e negativi del freddo , delle
tenebre , della quiete, e del voto , faranno tali in effetto , per elfer
quelli di piò modi , quando quelli il fon di neffuno . Ma per quedo
appunto faran quelle qualità create pofitivc ed elìdenti, quando quede
faranno non create, negative, e inefidenti, o non elideranno che nella
mancanza di quelle. Con ciò fi dirà, il volgo ingannarfi nel primo
cafo col creder l’acqua contraria al loco, quando èfol- tanto da quello
diverfa, e non ingannarfi nel credere quedi due elementi del pari efillenti
; e nel fecondo fi dirà lui ingannarfi all’incontro nel creder quelle
quali- tà tutte efìdenti , non ingannandofi nel crederle con-
trarie , mentre per quedo appunto eh’ efiflono il cal- do, la luce, il
moto, il pieno che fon di piò modi ; i contrari loro freddo , tenebre ,
quiete e voto che non fon di nclTun modo di quelli, non potrebber
fuffide- re. I I Digitized
by.Google XXX CAP. VII.~re. E in vero col toglier del
tutto il calore, la luce. Il moto , 1’ eftcnfione , non è che fi generi
cofa alcuna pofitiva, come freddo, tenebre , quiete , voto, ma è
foltanto che annichilate quelle qualità nelle fofianze create , vi
rimangon quelle come nulla di quelle , giacché il negativo è nulla di
quel che nega fenzaef- fer cola alcuna per sé pofitiva , e gli oggetti o
follan- ze create di calde, lucide, mobili, ed ellefe che fono in
più modi , tolte quelle qualità , rellan non calde , non lucide, non
mobili , e non ellefe ad un modo , vale a dire a nelTun di quei
modi. III. Quel che s’ è qui detto degli oggetti creati fi-
fici, dee altresì applicarfi ai morali, oai collumi uma- (j) C.ILti.t.
jjj come fi li avvedrà dall’appiicarlo alle umane palTioni figlie delle
imprelTioni di quegli oggetti, e ma- dri di quelli collumi . Imperciocché
tali palTioni ef- fendo fra sé diverfe, e fullillendo come tali , non
fo- no fra sé contrarie , e come tali non potrebber fulfi- llere
che con ripugnanza e contraddizione, eh’ è quan- to a dire non potrebber
fulTillere in modo alcuno. In ell'etto l’amore, la compallione, la
giullizia, la liber- tà, e r altre virtù morali fon tutte palTioni
pofitive , create , ed efillenti ; e 1’ odio , l’ ingiullizia , 1’
oppref- fione, la crudeltà tenute volgarmente per palTioni vi-
ziofe a quelle contrarie, non elìllono altrimenti come tali, ma fono
all’incontro quelle prime palfioni mede- fime che in luogo di adoprarfi
in ufo comune e pol- fibile , per lo quale fono create , fi adoprano in
ufo particolare e negativo, per lo quale non fono create e fono
impolfibili. La contrarietà dunque delle palfioni non é tale in sé llella
, ma é apprefa per tale dalla dillruzione che fi feorge per elTe nel
particolare per p'fefervare il comune , come la contrarietà degli
ele- menti è apprefa dal vederli uno vincer l’altro nel par- ticolare,
quando quella vincita é intefa a prelèrvar 1’ (6) cyjl.n.t^ univerfale
(A) . Con ciò fi dirà , che quel che fa le palfioni pofitive , fia lo
llcnderfi efiTe.da sé ad altri , con Digitized by
Google X X X U5- con che la fpecie umana fi conferva
coll* ordine dina- CAP. VII. tura creato c che fuflìfte; e che quel che
la fa nega- tiva, fia il concentrarfi effe in sè llcffe con danno
d’ altri , contro quell’ ordine che non fuflìfte , e per lo quale
il tutto fe fofle poflìbile s’ annullerebbe e an- drebbe in
difperfione ; lo che però non avviene per la provida natura , che
converte quel difordine partico- lare in ordine univerfale- Tal
Tinterefle per le foftan- ze fparfo da sè ad altri, s’appella equità,
prudenza , gratitudine, e tali altre virtù confervatrici ; e
riftret- to insè folo, degenera in avarizia, ingiuftizia, ingra-
titudine, per le quali contro natura tutti languirebbe- ro e perirebbero
. L’ ambizione di onore , di potenza , grandezza e fimili , difufa da sè
ad altri , è virtù d’ ordine, e di concordia pofitiva; e confinata in sè
fo- lo, è vizio di fuperbia , di oppreflìone, e di difpotif- mo .
L’ amor di fenfo fparfo da sè ad altri , è amor pudico, amiftà, compaflìcne,
per cui la fpecie fi pro- paga e fuflìfte; e raccolto insè folo, è
lafcivia, odio, crudeltà, per cui refterebbe la fpecie fpenta e
diftrut- ta. In fomma qualfivoglia paflìone , eflèndo virtù con-
fervatrice fra tutti difufa, lì cangia in vizio diftrutto- re di tutti col
contrarfi in sè folo ; e finché le foftan- ze, gli oi»ri, i piaceri
procurati per l’interefle, l’am- bizione, famore, colfeller proprj fi
dilatano ad altri, quelle paflìoni fono virtù, non illando la reità di
el- le nel procurare il bene per sè , ma nel toglierlo ad altri , o
ne! procurare il proprio utile e piacere con altrui feiagura , onta , od
inganno . Perchè poi tutti certamente fuflìftono , e finché ciò avviene
non è da dire che tutti non fufliftano , fi diranno le paflìoni ef-
fer fempre virtù pofitive e come tali fulfiftcrc , e co- me vizj a quelle
contrari o negativi di quelle , non fuf- filter efle giammai ( « ) ,
eflèndo tanto contraditto- (j) C.VlI.ti.\. rio che fulTiftano inficine
vizj e virtù fra sè contra- ri , quanto che gli uomini tutti fufliftano e
non fuf- fillano . IV. Digitized by Google
XXXII fS- C A P. VII. IV. Non dubito, che quello dichiarare cosi
ampia- mente, che le paflìoni non fufliilano come vizj, non abbia a
parer Urano e (ingoiare a quei poveri di fpiri- to, a’ quali fembra molto
bene veder i vizj trionfare in alcuni. Lo sbaglio però di cortoro Ha, nel
confonder che fanno il particolare col comune degli uomini , e
nello (lar colla mente pur fitti in quello, come chiufi con quello in un
facco, quando la natura e il grande fuo aurore non opera che per lo comune,
e ogni parti- colare alforto e immerfo ncH’univerfale fi perde del
tut- to e s’annulla. D’altronde fe il vizio è contrario alla (j) C.
in, virtù ei contrari non fon pclHbili (//), poiché la vir- 3 -
certamente fudllte, il vizio dunque non può dirli che ludiila che
per equivoco. E quell’equivoco fi dirà proceder da vuote immagini, per le
quali fi prendono a torto per politivi , oggetti che non fono che i
nega- tivi di quelli; e quindi fi apprendono gli uni e gli al- tri
per eiillenti, quando per verità i negativi perquefio appunto che
fiifiiilono i pofitivi , non potrebber lulli- (lere c(Ii (ledi . Cosi
quantunque gli oggetti detti volgar- mente contrari, li prendano a
vicenda per, pofitivi e p.r negativi gli uni degli altri, è certo
nondimeno i pofi- tivi (oli eilere efillenti creali, ei negativi
noncnérche il nulla di quelli, o il nulla alfoluto , il qu^l non
fuf- fille, o (udìile folo nella negazione del pofitivo . Per la
qual cola il contrario dell’ amore , della compadio- ne, della equità ,
della libertà come (opra, non è 1’ odio, la crudeltà, la iniquità eia
opprefTione come volgarmente è creduto , ma è il non amore , la non
equità, non comp.idione, non libertà che non fudìllo- no , come il
contrario del fuoco c dell’acqua non è 1’ acqua o il fuoco , ma il non
fuoco, e la non acqua che pur non vi fono. V. Quelle
coiifiderazioiii fulle padroni umane , che elTendo virtù diverle non fon
mai vizj contrarj a quel- le virtù , fan conofeere, che i codumi altresì
che ne procedono , pollono bensì clfer diverlì , ma non mai
con- Digitized by Googlc X X X I II
contrarj , e che fe perquefli tufcono difordini, ciònon' avviene
che per quel bene, che dovendo procurarli per sè e per tutti com’è
polfibile , fi vorrebbe procurato per se a efclufione degli altri, quafi
^ruggendo in tutti quel che vuolfi per sè parte di quelli tutti , ciò che
non può avvenire , e che in fatti non avviene , giacché ogni bene
procurato per sè con danno di altri , lì di- Urugge alla fine in sè
ancora per la oppofizione e il contralto di tutti gli altri .
Procurandofi il bene al pri- mo modo , le difcordie faranno imponìbili ,
e ciafcun di tempera diverfa e non mai contraria a quella dell’
altro, s’ unirà ad elio per coitumi diverfi e non pur contrari, il collerico
col tranquillo, il timido coll’ ar- dito, il fcmplice coll’accorto, e
limili altri , come l* acqua col fuoco, e la terra coll’aria nella
compoGzio- ne de’ corpi fifica . Ma procurandofi quel bene al fe-
condo modo o con altrui oltraggio, le difcordie faran- no inevitabili per
rimpollìbiltà di unire i contrari, ^ poterfi bensì unir l’ardito e il
timido, ma non 1’ ar- dito e il non ardito, e il timido e non timido,
come può unirfi acqua e fuoco ne’ corpi , ma non acqua e non acqua,
e fuoco e non fuoco, quafi fi voIelTe fulll- fter da un lato quel che fi
volefre difirutto dall’altro, o quel che non potefle fullìftere fenza la
diliruzione di quello che pur fullifte . Egli è ben vero , che
ficcome un elemento nel fìfico non illrugge mai 1’ altro , per
quanto contrafiino nel particolare , attefe le leggi di moto invariabili
ed eterne ; cosi nel morale una paf- fione , e un cofiume che ne deriva ,
non dillrugge mai l’altra nel generale, per quanto pur nel particolare
s’ apprenda per a quello contraria , per elTer tutti pofiti- vi e
conformi a una comune ragione , non mai a sè llef- fa contraria. Ciò che
conferma quel che s’è detto (/r), le opinioni e i cofiumi umani eficr
diverfi , e combi- narfi diverfamente , mediante una ftefia verità comune
, della quale fiano modificazioni diverfe e non mai con- trarie,
come gli oggetti fon diverfi e fi combinano in- £ fiemc
CAP. VII. (-») C.W. H.2. Digitized by
Google Sie X X X I V C A P. VII. lìeme nell’
opere di natura inedianti le fleflè leggi di moto, delle cjuali (ianpur
modificazioni non trui con- trarie c tempre diverfe . Airoppotlo non
pt)ter quelli nè queffi etler contrarj, nè combinarli in contrario j er
errore comune, o per contralleggi di moto impoflibili e nulle, per le
quali foltanto potrebbero clfer tali , e per r implicanza di ruflilter la
t'pccie umana per co- iiumi , e la natura umverl'ale per leggi di moto ,
in- fierne col principio che dovefle dillruggerle, o per cui
dovelfero eller nulle . E conferma ciò ancora quel che è aggiunto (/»),
di elFer bensì poflTibile per attenzio- ne particolare d’ alcuni nelle
nazioni, il riconofccrvi ogni male e 1’ deluderlo da elle , per elfcr
quello ne- gativo e d’ un Col modo . Ma non elTer cosi poflìbile
per l’attenzione meddima, o introdurvi o crearvi ogni bene, per la
ragione contraria di dfer quello pofiti- vo, e di modi infiniti, onde
l'uperare elio ogni parti- colare attenzione . CAP. Vili.
/^Uel che s’è detto finora dà facilmente ad inten- Collucni ere- Vedere,
che non è già la diverlità , ma la contra- duci comrar) j-jetà e
ripugnanza de’ coflumi quella , per cui non 1 . noco- degenerino
quelli in errori , e per cui nal'can fra gli uomini Iconcerti e difordini
, e ciò per la contrarietà fimilmente e non divcriità di oggetti e di
combina- wC.VI.n.i. zioni loro, ful’e quali verlin le umane menti (i), e
dalle quali quei collumi derivano. Quelle combinazioni d’og- getti
diendo innumerabili , ed elléndo gli uomini nelle diverte iorcircollanze
avvezzi quali all’une, quali all’al- (OC. F/. n.i. tre Ipecie di elle
(r), faran dii cosi di divcrli collumi, allor conformi alla verità,
quando gli oggetti combinaci fian reali, pofitivi edefillenti; e allor
contormi all’ errore, quando tali oggetti fian negativi , imponibili ,
innefi- flenti c nulli . Imperciocché lebbene gli oggetti fian
d’innunurabili modi , e il nulla d’ un folo (d), ciò nondimeno ficcome la
verità eh’ è una, è di tanti mo- di, di quanti puòcfTa atlermarlì nelle
cok divcriè; cosi l’ er- Digitized by Google
XXXV r errore altresì eflTendo uno, s’apprende pur di tanti
caP- Vili! modi, di quanti quella verità può negarfi, inguilà che
tanti fiano i modi politivi di fullìlìere per la verità , quanti s’
apprendono i negativi di non rulTifìere per 1’ errore , fuililìendo ogni
cofa a un modo , e non lulli» ftendo la Aia contraria al modo a quello
contrario , e corrifpondendo verbigrazia 1’ ardito , il timido , il
collerico, pofitivi tutti creali, ad altrettanti negativi loro non ardito,
non timido, non collerico, con cller ciò non oAante quelli tutti di più
mudi , e queAi d’ un modo folo o di nelTuno, come il nulla eh’ è di
nef- fun modo . E^li è poi da confiderare , eh’ effondo la verità e
la eiiAenza tuttociò ch’efiAe, ed eflendo 1’ errore o il nulla tuttociò
che non efilìe , e non efilten* do cola alcuna che per la combinazione di
oggetti di> verli , e non mai contrari (a) ; parrebbe che il tutto (a)
C.Vir.n.t. dovclie l'ulfiAerc per la verità , e nulla per l’errore, e che
ficcome nella efilìeriza degli oggetti , così nelle combi- nazioni loro e
nelle inclinazioni e coftumi che ne de- rivano , non dovelfe avervi che
verità , efclufo fem- pre l’errore, cofa non generalmente creduta dal
volgo, il quale all’incontro non parla che di errori, e di con-
trarietà nelle inclinazioni e ne’coAumi fra gli uomini. Chi però
meglio rifletta , conolcerà , quello elTcr verif- ftmo, ed elfer l’errore
cosi lontano dai coAumi uma- ni, come dall’ opere di natura, che non
ammette con- trari , e non erra giammai . Che fe v’ à chi crede di-
verfamente, ciò deriva da equivoco di prendere il par- ticolare per lo
comune, come s’è accennato (/>), eco- (^)C.W. «.4, me più
efprelTamente fi dichiarerà ora , per ifpiegar me- glio coi fatti quelle
verità , che fon lempre alcofe al volgo, e che bene fpedo fi nafeondono
ai filofufi an- cora, che nel fìlofofare non fanno Aaccarfi dalle
vol- gari maniere di penfare, reAand > coi,i nella loro filo-
lofofìa più all’nfcuro del volgo medeltmo. II. Si dice dunque che
lo sbaglio di prendere il ne- gativo per pofitivo , o l’ errore per la
verità , nafee da» £ z equi- Digitized by Google
"è* XXXVI >5- AGP. V'iii, equivoco di prendere
il particolare per univerfafe , c di credere che ciò che può efler in
quello con ripu- gnanza e dilordine, poflTa pur avervi in quello con
or- dine ed armonia. E invero l’errore col nome fuoftef- fo, non
porta alla mente che un’ immagine di man- canza e di nullità, e il
crederlo nei collumi comune quando non è che particolare, procede da
errore ap- punto o da mancanza di difeernimento , per cui occu-
pata la mente da vani timori, dà corpo all’ ombre ed al nulla. Del
rimanente s’ ei fembra nafeere e avva- lorarfi :n alcuni , non fi vede
mai (lefo a tutti , e in quegli alcuni medefimi non lì vede che vinto , e
di- llrutto dalla verità a tutti comune . Il fullìller poi vinto e
didrutto non è fullìller in modo alcuno , in guifache chi fi lagna
dell’error ne’coflumi, fi lagni di elTo che volendo pur con vane lulìnghe
e con faifeap- parenze inlìnuarfi e fuHìllere nel particolare, non
ten- ta mai altrettanto neU’univerfale, e in quel particola- re
medelìmo è didrutto da quedo univerfalc , che il difapprova e il dichiara
pur nullo . Per quedo il co- mune degli uomini fi vede Tempre correggere
il parti- colare, e non mai all’oppodo; di che prova evidente fono
i governi de’ popoli, fra i quali tolti i più colti e fenfati, non v’à
dubbio che non confidano quedi in ciò, che per ellì colla verità e la ragione
comune di tutti fi didruggan gli errori , o le ragioni partico-
lari di alcuni a quella contrarie . Che le il governo delTo reggede i
popoli per la ragione fua particolare alla comune contraria , o per 1’
errore contrario alla verità , come nelle nazioni barbare o fconcertate ;
al- lora non elTendo quedo certamente poflibile , quell’ ederno
governo fi vedrebbe cangiato in fimulazio- ne , o in nullità elTo dedb ,
redando nondimeno la ragione e la verità comune interna a governar
la nazione realmente , Tempre per 1’ errore partico- lare da elTa vinto e
didrutto in ognuno , e nel go- verno medefimo ; verilicandofi così Tempre
, che la Digitized by Google X X X V 1 1
verità c la ragion comune fia cofa reale , pofitiva’i^A~prv'ìTr. ed
efiftente , e che 1’ errore fia cola negativa , in- nefìilente e nulla ,
comechè i'empre dilirutta da quella verità medelima. t III.
Chi dunque precorre provincie e climi diverlì, e incontra opinioni e
collumi, per li quali fi fulTide in un luogo, alieni da quelli, per li
quali fi fulTilte in un altro; creda pure tali coliumi quanto
fivogliandi- verfi , ma non li giudichi giammai contrarj, per eller
ein modificazioni diverfe d’ una verità a tutti corna* ne, che non è mai
a sè fleffa contraria. £ fe appari- fcon contrari , li creda tali per
fola appunto apparen- za , attefo ungoverno pur apparente , fimulato c
nullo, (a) giacché l’apparenza e la fimuiazione è
nulladiquel^^jjc.p;;/.,,.-. che è in fatto . Del rimanente che fin a
tanto che tutti nelle nazioni fufTiliono, i coliumi comuni benché
di- verfi , non fian mai contrarj a una verità comune , fi
manifclia da quelio , che 1’ errore contrario a quella verità fi troverà
periéguitato e punito, vale a dir di- iirutto da per tutto del pari , e
ciò fempre nel partico- Jare e non mai nel comune ; altrimenti
converrebbe dire, che laddove gli uomini fulTiliono a un tempo e in
un luogo per la verità, fuUìlielIero all’ altro per 1’ errore e per la
menzogna contraria e diliruttiva di quella verità , cofa affatto affurda
e impolTibile . All’ ilielTo modo i difordini ne’ fenomeni ffici
debbono ìmputarfi a irregolarità, particolari ne’ moti conformi
alle leggi collanti e generali, per le quali il tutto fuf- fifte, vinte
però quelle irregolarità e fuperate fempre da quelle leggi , lenza di che
il tutto perirebbe , ef- fendo cosi il difordine, la dillruzione e
l’errore fem- pre particolare , e 1’ ordine , la confervazione e la
ve- rità fempre comune , fia nel fifico. Ila nel morale , e quell’
errore fempre vinto e diflrutto da quella ve- rità . IV. Qui
può oflcrvarfi , come quell’ effer l’ errore fem- pre particolare in ogni
nazione e non mai comune , e quell’ Digitized by
Google xxxvin C A P. Vili, e queft'annullarfi per
quello, quanto per fa verità co- mune in e(Ta ruflìRe, dà a conofcere ,
che le fedizio- ni , i tumulti , le dilcordie , le guerre fono nelle
na- zioni Tempre errori particolari , e non mai verità co- muni ,
come quelle che in effe diliruggono ciò che pur Tuffìfte in modi diverfi
, ma non mai contrari . Che fimili diTafiri intcreffìno le nazioni
intiere , cuna’ è la Trafc d’efprimerfi de’ Gazzettieri , non è che
uno sbaglio, per cui come fopra (a) fi prende 1’ ambizio- ne e
Terrore particolare d’ alcuni , come Te TolTe co- mune di tutti, i quali
all’incontro non pnfl’on fufiìfie- re e non fufiìfiono, che per la comun
verità e dilàm- bizione . E fi ila pur certi, che ogni nazione
adonta di qualfivoglia an bizione o interclle particolare che muova
in tifa difeordia, prefa in comune non amerà che la concordia e la pace.
Quell’ ambizione poi e quell’ intcreflfe fi manifefiano particolari dal
fatto, per iadi- firuzione che del pari ne fegue delle parti
ambiziofe e interefiate , fufiìliendn le nazioni nell’ intiero per
la concordia, al tempo fieiìo che per la difeordia fi di- firuggnno
nelle parti . Che fe quella difeordia parefie comune, non farebbe di
nazione che fufiìfielle, ma fa- rebbe dell' ultimo particolare fuo avanzo
, che facrifi- caiTe fe (lelTo al riforgimento di altra nazione ,
che fulle reliquie della già diilrutta a parte a parte per errori
particolari , fi nnovafle intieramente per la ve- rità a tutti comune ,
eh' è il calò di tutte le rivolu- zioni negl’ irnperj . Ma tolte alfine
tutte le nazioni progrefiive e contemporanee , e tutti gli uomini
in genere , fempre fia che ogni difeordia , guerra o tu- multo fra
effi abbia a terminar in concordia , pace e amillà per la verità comune
che difirugga 1’ er- rore particolare, quando pur fi voglia prefervar la
fpe- cie umana , ficcome ogni pelhienza o procella dee ter- minar
in aere falubre e tranquillo, quando pur fi voglia prelervar la natura, e
non mandar tutto il fifico e il murale in nonnulla. V.S’ag-
Digitized by Google 'il XXXIX ■ V. S’aggiunge, che la detta prevalenza
della ragione c A P. Vili, o verità comune full’ errore particolare a
quella contra- rio, fi manifeda non folo negli uomini conolciuti
per giudi, ma in quelli ancora che fi reputano, e cliepià fembran
malvagi , e ciò per lo timore che accompa- gna infeparabilmente quedi
fecondi . imperciocché un fimil timore fe ben fi confideri , non è che
una pofi- tiva virtù eh’ edinta ogni altra , reda in cialcuno a
moderare e rafirenar i luoi eccedi negativi medefimi. Laonde edèndo
qualfivoglia malvagio Tempre più ti- mido che malvagio, non efclufi i
tiranni medefimi ; farà Tempre ogni uomo più virtuoTo che reo nella
deT- fa Tua reità , e farà Tempre vero , che 1’ error negativo
rimanga annichilato e didrutto da virtù politiva a 'quello fuperiore in
quegli deffi , che più Tembran me- narlo in trionfo. In queda guiTa il
timor pofìtivo e virtuoTo, con frenar l’ambizione e rintercH'e dall’
offèn- der altri, impedifee che quede padìoni, di pofitive e
virtuoTe che pur fono in propria e comun fuffidenza , diventino negative
e viziofe in didruzione altrui e pro- pria (<i), e tien luogo di virtù
nello dedb malvagio , ia)C.VlI.n.^. come un elemento altresì nel fìfico
contradando coli’ al- tro per la confcrvazion pofitiva del tutto,
impedifee la didruzion generai di natura, che tolto un (imii
contra- do ne leguirebbe, fcnzachè negativo alcuno lùlTida ,
Tempre per 1’ aperta implicanza di fudidere cola al- cuna
negativamente ( ) . Una fimil providenza nel WC.W/.«.i. morale (i
manifeda non folo ne’ rei fuperbi come fo- pra , ma ne’ giudi ancora da
quelli oppredì, i quali fon così virtuoli nella loro tranquillità e nella
loro fi- danza , come il fon quelli nella loro agitazione e nel
loro timore; ed è certo, ogni oppredb innocente eder così contento per la
verità comune che lo allolve fu- gli occhi dell’univerfo, come il fuo
oppredbre è feon- tento per 1 error fuo particolare , che
combattendolo con quel timore , lo cruccia nella Tua ignoranza fe
non à talento, efe à talento, illude nel fuo rimorfo. Vl.Re-
Digitized by Google "àt! XL CAP. Vili. VI.
Refta dunque Tempre
più flabilito , non avervi di contrario in natura che la verità e 1’
errore , ed elfer quella una modificazione di tuttociò eh’ eflde ,
e quello una modificazione di tuttociò che non efifle («)C.F///.n.
3 .(u). Il confidcrar ciò cIT efìfle come contrario a ciò che pur efille
, è un afTurdità ; e fe gli uomini ap- prendono per contrarie quelle cofe
che non fon che diverfe, ciò è Tempre per errore particolare , che
non paflà ad cfTer verità comune (i). Il contrafTegno poi , per cui
avvederli Te gli oggetti fian diverTi o contrar) farà quello, di eflTer
effi o non efTer efiflenti, mercec- chè Te eTiftono Ton certamente
diverfi , e Ton contrarj Te non eTillono . Ma per ben giudicare di quella
efi- llenza o non eTiflenza loro , debbon elR riTerirfì non al Tolo
particolare , ma al comune di tutti . Il dolore per eTempin e il piacere,
poiché ambo Tuffiflono, Ton certamente TenTazioni diverTe , ed elTendo
diverTe non Tono contrarie . RiTerite però al particolare s’
appren- dono per contrarie, ciò che non rieTce Te Ti riTeriTca- no
al comune . Di ciò è prova evidente ognuno che Tofl'ra il dolor con
piacere , Tol che il riTeriTca non a sé Tolo , ma al comune degli altri ;
come Muzio contento del pari e d’arder il Tuo braccio nel Campo di
PorTena , e di llrignerTi con quei braccio al Ten la Tua Clelia , per
addurre un Tolo degl’ innumerabili eTempj di eroi TacrihcatiTi con dolore
al piacere di giovar alla religione, alla patria, alla verità
inTomma comune , ciò che non avverrebbe Te tali TenTazioni ToT- fer
contrarie. Quella comun verità non è in Tollanza (0 C.r/J.a.j. che
la virtù (c), la qual contrallata dai vizj partico- lari e non mai comuni
, può dirTi travagliata , ma non per efiì opprelTa. Laonde elTa fola può
dirli comune , come quella eh’ è approvata da tutti, quando il
vizio non può appellarTi che particolare, come quello eh’ è
dctelfato da ognuno, e dilàpprovato da quei medeTimi che lo proTelTano,
indizio evidente di eller quella po- Titiva ed efìllente, e di efier
quello negativo e nullo. Cer- Digitized by
Google ^ XLI Certo è die (iccome futTifle quel eh’ è
voluto ed è ap- provato da tutti , come la virtù ; cosi quel che non
è voluto e non è approvato da alcuno , come il vizio , non può
dirfi fuffìlìere . E lo sbaglio di conlìderar que- llo come efiftente Ila
in ciò , di confiderar per efiften- te quel eh’ è voluto da alcuni coi
contrailo di tutti , quando non può confiderarfi per tale, che quel che
vo- luto da tutti , non è contraHato da alcuno . VII. Io non
fo, fé tali dottrine convengano con quelle che lì dicono degli antichi
iloici , accademici , platonici , o altri , interpretate dagli eruditi ,
e eh’ io non ò mai avuto la flemma d’ interpretare . So che le ò
apprefe dai lume naturale, dal quale poteano ap- prenderle quelli, e può
apprenderle ogni altro che fia i'eguace della verità comune, non alterata
da errore o da educazione corrotta particolare , e fappia che un
uomo non è tutti gli uomini, nè tutto il creato, ma uno folo di quelli, e
un’opera fola di quello. Se poi le mie dottrine non convengono con quelle
che corro- no al prefente anco fra i più fludiofi , ciò è per erro-
re appunto particolare di quelli , che fedoni maffìme a quelli tempi da dottrine
fuperhciali di Comici che fi fpacciano per fìlofofi , vorrebbero pur
perfuadere il tut- to effer peggio , contro il fatto evidente , per cui
la natura e l’uomo , col conferv'arfi e fufliflere , dimo- flrano
il tutto efler meglio . La dottrina fra le altre della nullità dei
contrae) (a) non dee dirfi nuova , dacché fi troverà ella convenire coll’
altra non nuova del tempo e dello fpazio, che efiendo quello la
dura- ta fola, e quello la fola diflanza degli oggetti e del- le
foflanze create , non fuflìflono così che negativa- mente , e fulTiflendo
in tal modo , pofitivamente fon nulla. Tolte quelle foilanze pofitive e
create, il tem- po e lo fpazio reflan come nulla di quelle , o come
nulla adoluto , non pntendofi inver concepire come polfan pofitivamente
fufliflere o tempo , o fpazio, o diflanza di cole , che non fufliflauo
elleno flefle . F Pro- CAP. Vili.
(ii)c.n/.».i. Digitìzed by Googl*“ "S-:
xLii CAP. IX. "pRocedendo le inclinazioni e i coftmni dagli ogget-
Della (labilità ti creati ertemi , e dalle combinazioni loro nelle e
inabilità de' umane menti, è certo eh’ ellendo tali oggetti invaria-
ro(lumi. bili per le rtelfe invariabili leggi motrici , dalle quali
(fl)C. //.w. I. derivano {a), faranno altresì quelle inclinazioni e co-
ftumi invariabili e cortanti , per la rtdià inalterabile verità e ragione
comune, per cui naCcono , fi confer* {b)C.VI.n.i. vano, e fi rinnovano {
b ) . Per la qual cofa ficco- me quegli oggetti fi vedon perfeverare gli
rterti in ogni fpecie , e ogni pianta e animale fi rinuova in
pianta e animale confimile , (enza degenerar mai in altra di natura
diverfa; all' ilierto modo l’ambizione, l’interertè, l’amore, il timore’,
e limili altre partìoni, dalle quali rifultano i cortumi , fon collanti
in natu- ra, nè tralignan mai in partìoni diverte nel propagar- fi
dagli uni agli altri, e il fimile avvien dei cortumi (f)C. 7/.B.4. (c).
Quanto però cederti cortumi per quelli motivi tono rtabili e fermi nella
loro natura, tanto nelle mo- dificazioni loro fon variabili e incollanti,
come appun- to gli oggetti dai quali derivano , o le modificazioni
delle rtellè leggi di moto , dalle quali quelli oggetti procedo-
no. Ertèndo poi le modificazioni dall’ una e dall’altra parte infinite,
ed ertendo quelle di ciafeun tempo e di ciafeun luogo finite ; i cortumi
di ciafeun tempo e luogo , fempre gli rtelll per la rterta verità comune
, faran per le modificazioni di quella verità fempre di- verfi da
quelli di un altro, come gli uomini finiti d’ un luogo e d’un tempo,
fimili fra loro per la rtabile loro natura, variano nondimeno
infenfibilmente in in- finito di fembianze , d’afpetto , di maniere da
quelli d’un altro per le modificazioni diverfe di quella na- tura
rterta . Con ciò rinovandofi gli oggetti e le loro combinazioni in altre
pur fempre diverlè , anco per tempi e luoghi infiniti ; i collumi , le
opinioni , i gen) , e le inclinazioni umane di ciafeun luogo e tem-
po vi dovranno variare in infinito , come modifica- Digìtized by
Google XLIII zioni fempre finite tolte dall’infinità
di tutt’ effe (<j); cAP. IX. fcnza di che dovrebbe dirfi, che degl’
infiniti oggetti i. creati , o dei coflumi che ne derivano ,
doveffer gli uni a un tempo efier gli ftellì che gli altri ad un altro
, ciocché ripugna colla fapienza e perfezione infinita del fupremo
autore della natura nelle fue opere (b). {b)C.lI.n.ì. 11. Perchè
poi tutti gli ilabilimenti umani in ri- guardo alla fucieià, e gf Imper)
lieffi dipendono dal- le opinioni e coliumi in effi comuni ; per effer
quelli nelle loro modificazioni ederne cosi variabili , non po-
tran tali focietà o Imper) avere labilità alcuna dipen- dente da quelle ,
ma dovranno infenfibilmente variar di maniere , cola comprovata molto
bene dal fatto , per cui fcorrendo con occhio fugace per tutta
quanta la ferie de’ tempi e de’ luoghi da Noemo a noi, non ci fi
rapprefenta alla mente , che una perpetua rivolu- zione di Stati e d’ Imper)
. Infatti effendo le opinioni e i collumi in ogni impero attualmente
finiti , ed ef- fendo quelli di maniere infinite pollibili, debbono
dun- que col variar de’ tempi e de’ luoghi finiti variare in-
fenfibilmente di maniere attuali e finite (c), e con ciò {c)C.VI.n.i.
variar quegP Imper) , la cui divifione cosi , ellenfione e forma effendo
fempre tanto (labile e ferma, quanto la verità e la ragione a tutti
comune ; farà eziandio tanto cangiabile, quanto le modificazioni dìverle
e in- finite di quella verità , o quanto la divifione , ellen-
fione e forma delle opinioni e collumi in ciafcun im- pero particolari, e
comuni. Vero è, che fimili rivolu- zioni negl’ Imper) o ne’ governi de’
popoli non fempre fon fubitanee e impetuofe , anzi il più delle volte
fe- guon per gradi infenfibili ; ma fono in ogni cafo le lleffe, o
producono i medefimi effetti, e la differenza ne dipende folo dalla
verità o ragione comune che Ila piò o men riguardata dai particolari , e
per la qual, folamente poffon le nazioni fulfillere (d). Perciocché
fe quella verità farà dalla nazione fparita , l’errore ol’ ambizione
particolare che d’ effa avanza , dovrà dì flrug- F a gerla ,,
\ Digitized by Google ^ XLIV C A
P. IiT~gerIa , o diftrugger fe ftcflb colle difcordie e le guer- re , per
dar luogo a quella verità di ricorrere a rino- («)C.f7//.».4. var quella
nazione fott’ altro afpetto (//) , e talvolta fott’ altro nome, nel qual
cafo fi diranno feguir le rivolu- zioni con più di violenza e di fdegno .
Ma fé quella comun verità fi foderrà nelle nazioni a fronte di
quìi- fìvoglia errore particolare , le rivoluzioni allora vi fe-
guiranno a (Irida quiete , fenza violenza e per gradi infenfibili ,
trovandoli nondimeno ia nazione col cor- fo di lunghi l'ecoli del pari
cangiata da quella di pri- ma per varietà di opinioni e coliunii , non
però mai fra loro contrarj. Del primo cafo è elempio qualfivo- glia
Impero d’ Afta o di Grecia più rinomato , e in particolare l’antica Roma,
volta di Regno in Repub- blica a’ tempi di Giunio, e indi di Repubblica
in Im- pero a’ tempi di Giulio, per ia verità comune a quei tempi
in e(Ta fmarrita , e per l’errore o per 1’ ambi- (ó)C.r///.a,9. 2 Ìone
particolare non da timore frenata { b ) redatavi fola , per cui non era
poflibile che quel go%^erno, (la in forma di regno o di repubblica più
fuUìdefle • E del fecondo polFon eller efempio quegli Stati
prefenti Europei più moderati , che contano più migliaja di fe-
coli per fuccedioni di Sovrani , ma che per opinioni e codumi non fon
certamente quali erano alla loro origine y e ciò per la delTa verità o
ragione comune non mai da e(Ti partita , quantunque diverfifìcata
in modificazioni diverfe , che (on appunto quelle divcrfe opinioni
e codumi. III. Tuttociò fa conofcere , come quel che cangia
gl’ Imperi è in ogni evento la ragione comune di tut- ti, per la quale
pur fi confervano , e la qual ricorre fempre a occupar il luogo dell’
errore particolare, per cui fe folTe pofTibile rederebber le nazioni
tutte didrut- te, fenza che l’attività particolare di Giunio, di
Giu- lio, o d’altri v’abbia più parte di quella di qualfi vo- glia
altro che podìeda una fimil ragione , e che coll’ unirla alla ragione di
quelli la renda comune . Del rima- Digitized by
Google X L V ^5- rimanente che le nazioni prefenti d’
Europa non fian c A P. IX. quali erano da principio , e fi fìan rinovate
in altre , non ferbando di fe (ielFe che i nudi nomi , fi compro*
va da quello, che tolta qualfivoglia diede, potrà que- lla ben appellarfi
collo (Iciro nome di due i'ecoli in- nanzi, come per la lleda verità
comune fudlilere, ma non perciò fi troverà la llefla per forma d’
inclinazio- ' ni e coftumi comuni che la collituifcano , o per mo-
dificazioni di quella verità medefima. Anzi fi troverà da quella tanto
diverta per quello capo , quanto dall’ al- tre nazioni fue contemporanee,
e lo fieiro avverrà re- trocedendo di due in due fecoli più o meno ,
per quanto le memorie ne fiano a noi tramandate. Cosi i Francefi prefenti
diflèrifcono forte più per maniere e cotlumi dai pur cosi detti Francefi
di due fecoli in- nanzi , di quel che differifcano dai prefenti Italiani
di- llinti da etti di nome . £ gl’ Inglelì che ora fon d’opinio- ne
di difertar per l’America , avran forfè più di conformi- tà coi prefenti
Francefi loro emoli , di quel che preten- dano aver per cotlumi cogl’
Inglelì loro antenati , eh’ erano d’opinione dv difertar per Soria , e
così di più altri . E’ poi chiaro , una fimile rivoluzione di opinio-
ni e cotlumi nelle nazioni dover efier tale , da non ri- correre o
rinovarfi mai in netfune allo lleflo , fempre per la detta ragione delle
combinazioni di oggetti , e delle modificazioni che ne derivano ne’
cotlumi , che tolte dall’ infinito a numero finito , fon fempre
diver- fe fune dall’ altre per quante pur volte fi prendano (rt) .
E ciò non per dil^fizione umana particolare , ma per fitlema
imperferutabile di natura . 11 compren- der quello fitlema , vale a dir
1’ ordine , la ferie , i rapporti di tali combinazioni di oggetti , e di
tali mo- dificazioni di cotlumi , o perchè e come a certune abbiano
a fucceder cert’ altre , in luogo di tutt’ altre qualunque , è rìferbato
alla mente dell’ autore del tutto , nè potrà ciò mai penetrarfi da mente
crea- ta , finché fi trovi nel pafieggiero fuo flato, avvio-.
ta / Digitized by Google
XLVI CAP. IX^ ta c ridretu dalle ritorte e dagl’ inganni de’
fcnli WC.///.».i. (tf). IV. Qui cade a propofito
d’avvertire l’errore di quel- li, che lì figurano di richiamar nelle
nazioni la verità e la ragione comune per quanto vi fi folTe l'marrita ,
col rinovar quelle leggi che ne preferivevano le modifica- zioni a’
tempi decloro bifavoli , progetto del tutto af- furdo e impofTibile . La
verità e la ragione comune potrà ben richiamarfi per leggi , per quanto
a’ tempi trafandati folle Itaca più riconofeiuta per fé ItelTa in
quei coltumi, di quel che il fia a’ tempi prefenti per coltumi che la modificairero
in contrario di sè medelìma , giacché elTa in sè llelTa è una fola di
tutti i luoghi e di tutti {b)C;lX.n.i. I tempi (i). Ma il richiamarla al
prefente per le fue modificazioni antiche , quando tali modificazioni
deb- bon ad ogni tempo elTer diverfe , non può elTere che una
miferia di mente , per cui lì creda la natura non più capace d’invenzioni
in fua condotta , di quel che fiafi un povero Conllgliere fecreto che
creda operar in fua Wce. Chi declama contro i nuovi coltumi che fi
van- no introducendo , e deplora gli ufati che fi van di- ftifando;
à molto ragione fe i nuovi coltumi fon mo- dificazioni dì una ragion men
comune, di quel che il fiano gli ufati che a quelli dan luogo . Ma fe i
nuo- vi coltumi fon tanto buone modificazioni della comun ragione,
quanto gli ufati che fi perdono ; ei declama inutilmente, come fe ciò
foffe contro il variar de’ ven- ti, elTendo 1’ una e l’altra cofa quanto
innocente, tan- to, inevitabile e neceflaria , e potendo , anzi
dovendo quella comun ragione per difpofizion di natura , e per fapienza
illimitata del fupremo fuo artefice, praticar- (.c)C. II. n. I. fi fempre
per modificazioni diverfe (c) , e comparire in fembianze che non fiano
giammai le flelle , elTendo nondimeno la. ItefTa per sé medefima . Senza
quelto una fimile verità o ragione, correrebbe rifehio di non
efercitarfi che per inganno ; ed è ancor vero, che tal- volta con
richiamare la verità , la ragione , il valore e la
Digitìzed by Google >5^ X L V 1 1 c la religione
fteflfa per le fole loro modificazioni eflcr- c A P. Ìx7 ne di tempi
molto remoti, f» rielce a perdere tutto il fenfo reale ed interno di
quelle virtù , invariabili per sè flede , riducendole a quelle materiali
loro modifi- cazioni eflerne , fenza alcun rapponto a quell’
interno lor fenfo e fignificato. V. Ma intanto è qui da
avvertire, che quel che s’è detto finora in ordine all’ illabilità
de’coflumi, non fa torto ad alcuno, e non è detto per accufar gli
uomi- ni di leggerezza o d’incoflanza , ma per anzi giuflifi- carli
d’ ella , e per renderne ragione , come di cofa inevitabile e neceffaria
, la qual non riguarda in eflì coflumi che le modificazioni eflerne d’una
ragione co- mune interna, che debbon cangiare, come le modifi-
cazioni eflerne degli oggetti fenfibìli, dalle quali quel- le tengono
dipendenza (a) . Dail’altro canto ficcome (a)C. IX.n.i. quelli oggetti
cangiando modificazioni fon purgliflef- fi in tutti i luoghi e a tutti i
tempi , per le fleffe leggi di moto che li producono ; il medefimo
avviene de’coflumi, ed è fempre una flefla invariabil ragione e
verità comune, che per varie vie li guida e gover- na . Per quello s’ è
veduto , quella ragione comune effer la fola, per cui gli uomini
lufTiflano infìeme, co- me per quella che può ben effer diverfa nelle
diverfefue modificazioni , ma non può mai a sè flcffa effer con-
traria , nel qual cafo foltanto la comun fuffiflenza farebbe impoffibile
; ond’ è che non è effa contra- ria che per difetto o ragione particolare
di alcuni , e non mai di tutti. Ciò fa che i governi o gl’ Impe- ri
fian fempre confimili , per quella fleffa ragione co- mune per cui
fullìflono (ì), avvegnaché diverfi per le modificazioni diverfe di quella
ragione medefima , non oflante qualfivoglia irregolarità particolare,
come gli oggetti fenlibili eflemi fon fempre confimili nelle loro
fpecie , perchè fempre in conformità alle flefle leggi motrici , benché
ne fìano diverfe le modificazio- ni , e non oflanti alcune irregolarità
in eflì fifiche . £ po- Digitized by Google
X L V 1 1 1 'C A P. 1X7 potranno quelli e quelli fuffiflere
a ragione benché di- ve rfa , giacché i mollri nel filico e le calamità
nel mo- rale lòn cafi infoliti e particolari , e il confueto e co-
mune non è calamità e difordine, ma é ordine ed ar- monia . In effetto la
ragion comune, dalla quale deri- va il difintereffe, la dUambizione ed
ogni altra virtù, per la quale fuflillon gl’ Imperj , é invariabile , ed
è di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e ne fon le mo- dificazioni
infinite. E iflelfamente la ragion particola- re, dalla quale procedono
1’ intereffe , l’ambizione , e gli altri vizj per li quali col
diflruggerfi fi rinuovan gl’ Imper) , è pur la lidia , in quanto é Tempre
con- traria alla comune , con modificazioni altresì infinite a
quelle contrarie . Ma è poi imponibile che quella ragione particolare
viziofa diventi comune , com’ è imponibile che i turbini e i terremoti
fiano incdlan- ti e collanti («), mercecché in quello cafo rimarrebbe
la natura non variata, ma dillrutta , come in quello ri- marrebber non
rinovati, ma dillruttì gl’Imp.rj. VI. Nel rimanente le diverfe
circollanze comuni e particolari , nelle quali fi trovino le nazioni per
le di- vcrlé modificazioni d’ una lldfa ragion pur comune o
particolare, fon quelle che giullificano o non giuflifi- no le opinioni e
i collumi diverli . Così gl’ Inglefi avran per avventura tanta ragione di
difettar ora per l’America, quanta ne avevano innanzi di difettar
per (i)C.JX-v.^. Sorla (6), fe tali opinioni diverfe faran conformi
del pari alle diverfe circollanze o modificazioni di ragion loro
comune d ambo quelli tempi , di che farà indi- zio appunto l’ellèr quelle
all’uno e all’altro tempo co- muni. Perciocché fe la nuova opinione non
folfe cosi comune come l’antica , non farebbe quella così con-
forme alla comun ragione, come lo era l’antica, ma potrebbe elfere
qualche opinione o errore ancora par- ticolare alla verità comune
contraria. Il fuppor gl’ In- glefi che difertan per Bollon più fenfati di
quei che difettavano per Sorìa , quando quelli difettavano di
co- Digitized by Google XLIX ^
comune confenfo, e quelli difertano coll’oppofizione di 'c’À P IX '
mezzi i voti della nazione , è un’ alTurdità . Del redo non fi nega che
sì una fpedizione che un pellegrinag- gio non pofian eficr conformi alla
comun ragione , purché fian efiì tali da attirare il comune confenfo
. E ciò non per attività d’un Ammiraglio o d’ un Romi- to che
li pcrfuadano, ma per ragioni piò alte , ordi- WC.IX.n.ó. nate da una
fapienza eterna ( a ) , la quale nel crear una fola ragione , ne coditu)
le modificazioni diver- fe, e volle che non ladiverfità, ma la
contrarietà del- le opinioni e coftumi fodè quella , che da queda
co- mun ragione li dividede. Q Ucl che s’ è detto di fopra (
6 ) , che le immagini C A P. X. degli oggetti da ciafcuni apprefi non
tengan rap- De’ cofhimi 'porto necedario alcuno colla favella e colle
voci, efpreffi perla per le quali fian ede efpredè agli altri, dee
applicarfi f*»ella. eziandio alle combinazioni di quelle immagini , dalle
qua- *• *• li derivano le inclinazioni e i codumi diverfi, le
qua- li combinazioni d’immagini non terran così nedunne- cedario
rapporto con quelle delle voci , o colle regole gramaticali di lingua,
per le quali fi manifedano , oli partecipano agli altri. Ciò fi verifica
idedamente dall’ edere tali regole pure dabilite di comune confenfo
ar- bitrario di quei foli , fra i ^uali quelle combinazioni d’
immagini debbono comunicarfi (c), e che così comu- (#)C.iF.«,i. nicano di
codumi e d’inclinazioni a efclufione d’ ogni altri . Ond’ è che ove
manchi queda comunicazione , nedune lingue o regole di ede fono in ufo, e
ove ef- fa v’abbia, le lingue e le regole d’ede perciò introdot- te
, non s’ apprendono dalla natura , ma da fola mec- canica fcoladica , o
da idruzione pratica d’altri, fen- za apprender perciò niente più di
reale (d), e fuor di WCy.n.ì. queda meccanica , l’ ufo dejle lingue
farebbe impoflìbi- Ic • Del primo è prova ogni felvaggio, il quale
perchè non in calo di comunicar ad altri le proprie combinazioni d
immagini, non à favella veruna, nè articola alcune G voci
Digitized by Google "50 L CAP. X. voci
introdotte fra gli altri , non occorrendone certa- mente a lui alcune per
efprimerfi a sè medelìmo . E del fecondo è prova ogni bambino, che alla
villa de- gli oggetti che le gli prefentano , non proferifce natu-
ralmente che llravaganze , finché colla propria efperien- za e
coll’illruzione non ifcientifìca, ma pratica altrui, non s’ alTuefaccia a
proferirli e cultruirli per voci alla maniera accordata fra gli altri ,
coi quali più comuni- ca , e non mai alla maniera fra quelli , coi quali
non comunica d’immagini e di collumi . Ancorché poi le combinazioni
d’ immagini degli lleflì oggetti , non ab- bian verun necelfario rapporto
colle combinazioni di voci, colle quali li proferifcono ; per elTere
nondimeno quelle tutte confimili , atteli gli (ledi oggetti , e
tutte diverte , attefe le diverfe combinazioni loro nelle cia-
(a) C.III.n.i. fcune menti (/»); c per edere altresì una favella
colla quale fpiegarle la della per ciafcuni , ma pur diverfe
le combinazioni in clfa di voci nelle ciafcuni bocche (b) C.V.n.\.
(6) j d’innmnerabili perfone ancora le quali efprima- no altrui uno
llelfo fentimento colla llelTa favella , fic- come non ve n’àn pur due ,
che apprendendo gl’ og- getti dell! li combinino indiamente nel lor
cervello ; così non ve n’ àn pur due , eh’ efprimendoli con quel-
la favella, li efpriman colla deda difpolizione di voci; in guifa che
poda dirfi eziandio , che quede innume- rabili perfone liccome edendo
della della fpecie , pur fon diverfe ciafeune dall’ altre per fembianze
ederne e per tuono delFo di voce, così elFendo dello dedo fen-
timento e della Itelfa lingua, s’efprimano nondimeno agli altri cialcuno
con diverta difpolizione di voci o di termini di quella lìngua
medefmia. II. Inoltre quella idabilità d’oggetti, eh’ edendo
gli dedt per le Itede leggi motrici , pur lì cangiano del continuo
per le infinite modificazioni di codedo mo- (»)C.i7. W.2. to (c); e
quella delle inclinazioni e codumi , eh’ ef- fendo gli dedi per le delle
padioni d’una ragione co- mune, van pur perpetuamente cangiando di
modifica- zio- \ •5^ LI ^
zioni (/>),(! riconofce altresì nelle lingue , eh’ eden- c A P. X.
• do le llefle per la ftefla impulfione d’aria fofpinta dai
{a)C,VI.n.i. polmoni, rielcon pur diverle per l’ articolazione di
vo- ci, o per modificazioni diverfe di quell’aria fofpinta.
Perciocché eflendo effe intefe a efprimer le immagini quali fon
combinate, e i codumi quali fon praticati, egli è pur forza che feguaciò
che per nota efperienza fi vede feguire, vale a dire che difufati in
ciafeuna lin- gua del continuo alcuni termini, fe ne foftituifean
di nuovi , non per altro certamente , che per fecondare la detta
diverfìtà di modificazioni, (la nelle immagini de- gli oggetti , fia
nella pratica de’ coAumi che ne deri- vano. E quantunque quella diverfìtà
di modificazioni negli oggetti e ne’cofìumi, proceda con più
d’unifor- mità , per elTer ella opera di natura ; non manca però
più o men efattamente di tener dietro a quella la di- verfìtà de’ termini
in ciafeuna lingua, con quella im- perfezione (6), colla quale fi vede
fempre l’arte imitar (*)C. /r.w.j. la natura. In efi'etto, del difufo
fuddetto di termini in ogni lingua viva, e dell’introduzione in efla di
termi- ni nuovi fuir eftinzione di quelli, non fì faprà afìegnar
altra ragione, che quella degli oggetti apprefì e com- binati, e
de’codumi che ne derivano , eh’ elTendogli flefit per la flclTa ragion
comune , fi van rinovando per modificazioni di quella diverfe col variar
de’feco- Ji , giacché le lingue non fono inllituite e non fono
intefe che a quello, di efprimere quegli oggetti e quei collumi così
combinati e cosi diverfamente modificati . Dimanieraché per la ftefla
ragione, per cui non v’ à luogo , in cui corrano le opinioni e i coftumi
di più fecoli innanzi , cosi non v’ abbia luogo , in cui s’ ado-
pri la lingua d’ allora; e fia cosi impolfìbile di richia- mar fra gli
uomini quei coftumi (c) , com’è impof- ( 0 CJX». 4 . fìttile il richiamar
quella lingua . III. Da ciò s’apprende , come il determinar una
favella di tutti i luoghi e di tutti i tempi , farebbe lo fteflo
che determinar un opinione e un coftume, ounacom- G z bina-
\ Digitized by Google Lii 7^ CAP,
X. binazione d’opinioni e di coftumi pur d’ogni luogo e d’ogni tempo ;
vale a dire che determinar la facoltà intellettuale umana , e limiurla
non folo all’ellenfìo- ne, ma alla qualità ancora e ai modi delle fue
cogni- zioni in ogni luogo e ad ogni tempo ; cofa 1’ una e l’altra
imponibile, per non poter elTa accordafi colla fleda limitazione umana
intellettuale . Perciocché l’ in- telletto umano per quello appunto di
edere limitato nelle fue cognizioni, dee variarne’ modi e nelle
qua- lità di edè ; e per eder quedi modi e quede qualità infinite,
dee verfar più quando fu alcune di ede , quan- do fu altre, e quindi
adottar quando alcuni , quando altri codumi , elprimendo in conleguenza e
comuni- cando tuttociò altrui, quando coU’une, ^uandolcoll’al- tre
voci o favelle . Siccome poi col variar di combi- nazioni d’ oggetti e di
codumi non fi ricorre giammai (a)C.yi.tt.t. ai modi ufati altre volte
(/«), ma le modificazioni ne fon fempre diverfe ; così col variar delle
lingue vive non fi ricorre giammai a rinovame o a replicarne al-
cune delle morte oltrepadate , ma fe nc formano altre dapprima fempre
inaudite, e non mai per innanzi ado- prate. 11 tutto per le infinite
maniere, colle quali pof- fono combinarfi gii dedì oggetti , gli dedi
codumi , e le dede articolazioni di voci, colie quali proferirli,
attefa una fapienza eterna e infinita , che regola tut- to quedo magìdero
con leggi uniformi in sé dede , ma varie fempre nelle loro modificazioni
. Per quedo gli eruditi pudono bensì lufingarfi d’ idruird. e di
ra- gionare de’ codumi e delle lingue antiche , per quan- to é podibile
ravvifarle a un lume che d va fempre allontanando , e per quanto è
podibile alla vita uma- na caduca tener dietro al tempo indancabile ed
eter- no . Ma il figurarfi d’ aver de’ codumi e delle lin- gue
perdute , quella contezza che fi à de’ codumi e del- fe lingue viventi, o
il lufingarfi di raccapezzar dai po- chi frammenti che redano , quel
tanto più che non teda de’ lècoli antichi , é una vana credulità ; ed è
co- me Digitized by Googl» ^ Liir^
me lufìngarfi d’ indovinar per le poche fandonie che CAP. X.
foglion narrarfì delle Sibille , tutto quel che per av- , ventura
avelTero quefte fcritto ne’ libri loro , che fi di- , con arfi nell’
incendio del Campidoglio Romano. IV. Per altro la diverfità di
lingue, che come fopra dee avervi nelle nazioni, per la diverfità in elle
di og- getti combinati , e di collumi che ne derivano , e 1’
impoHìbilità di elTer tutti d’ un collume e d’ una fa- vella (a), fan
conofcere che la natura unifce in vero («) C.X.». 2 .;. gli uomini hno a
certa mifura, alla quale polTan elTi giovarfi , ma li difgiunge oltre a
quella mifura , nel qual cafo la loro unione elTendo inutile , farebbe
in- comoda, e potrebbe renderft ancora nociva. Certo è, che fe r
ufo dell’ illelTa favella indica la necelTità di llar gli uomini uniti ,
per accorrere gli uni in foccor- fo degli altri, ciò che non può
verifìcarfì che per fa- vella che fia la llelTa ; 1’ ufo di fevellar
diverfamente indica la nelfuna necellìtà di Har elTi uniti a
quell’ef- fetto, giacché fra perfone di favella diverfa nelluna co-
municazione di fentimenti , o nelfuna fcambievole ali^ llenza può
interceder giammai . D’ altronde le occor- renze umane fono ognor
limitate, e non poflbno llen- derfì oltre a quei limiti che con difagio
comune degli altri, e con illufione particolare disè medefimi ,
elfen- do in vero un’ illufione e un inganno , che quel foc- corfo
Ila di provedimento , di diletto, di piacere, di difefa o d’altra
qualunque occorrenza, che ognun può confeguire da altri loncan tutt’ al
più dieci miglia , abbia da attenderfi edalanguirfi da altri, di favella
in- intelligibile , e lontani le migliaia e migliaia di mK glia.
Con ciò^ fì direbbe, che quel che congrega gli uo^ mini lino a certo
numero, al quale poffano confervarfi dell’ illelTa favella, fia la natura
amica della fuflillen- za e del piacere verace ; e che quel che li
congrega oltre a quello numero, al qual non pollano confervarfi d’
una favella , fia T ambizione particolare dillruttiva della fpecie,
corruttrice del vero piacere, e amica del Digiliz^ by Google
C A P. X. CAP. XI. De’ coftumi efpreflì per
fa- velle diverfe . («} C. I.n.i, '^LIV ^
‘piacere ingannevole • Ciò fi comprova dal fatto , per cui gli
uomini finché fon dell’ ifiefla favella , più convengono infieme , e più
s’ accrefcono per arti di moderazione c di pace, come nelle nazioni più
limi- tate d’ Europa , e qualor diventano di più lingue , come
negl’ imperj più valli dell’ Afta , non polfo- no fofienerfi che per la
forza , e fi diftruggono per queir arti ftefle di luflb e di guerra, per
le quali cre- dono bonariamente di confervarlì, e di foccorrerfi
gli uni gli altri ; come in fatti fi trovano quivi a molto mi- nor
numero che nell’ altre nazioni d’ una fola lingua, avuto riguardo
all’ellenfion delle terre . E fi compro- va ciò pure dalla dipendenza
neceflarìa degli uni da- gli altri, quando pur voglian gli uni cogli
altri fup- plire ai bìfogni comuni . La qual dipendenza di ordi-
nazione e fubordinazione può ben avervi fra perfone della fleU'a lingua,
ma fra quelle di lingue diverfe non può avervi che con inganno , eflendo
invero impoffi- bile che gli uni dipendan dagli altri , quando
ignora- no fin la favella, per la quale dipendere . Dacché fi
conclude , che la faggia natura vuol veramente uniti e congiunti infieme
tutti gli uomini dell’ univerfo , ma per il folo vincolo di amore e di
ragione lo- ro comune ; e che quel che li tiene uniti per tutt’
altro titolo , non fia che la llolta ambizione e 1’ interefle loro
particolare , ben divcrfo da quell’amo- re e da quella ragione , e
talvolta a quelli con- trario . Q uella ragione che fa , che
gli uomini dell’ illef- _ fo luogo e dell’ ifteflb tempo fiano dell’
illef- fa favella , per la necelfità di comunicare in- fieme d’
immagini d’ oggetti , e di collumi (rf) , fa non meno che a luoghi e
tempi diverfi fian di di- verfe favelle , per la nelTuna necelfità allora
di una li- mile comunicazione, elTendo d’altronde le voci, colle
quali comunicar d’immagini e di collumi per le llef- Digìtized by
Google Lv fe infinite (/j) , ed eflendo finite quelle,
colle quali a' qualunque tempo e luogo particolare, comunicar d’im-
magini c di collumi di quel tempo, c di quel luogo particolare . Ma oltre
ciò quella ragione che fa , che ciafcuna lingua vada alterandoli riguardo
a sè llefla , per r alterazione che va feguendo nelle modificazioni
degli oggetti e de’ collumi medelimi allo IlelFo tempo e nello ItcITo
luogo (6), fa che s’ alteri molto mag- giormente riguardo all’ altre di
tempo e luogo di verfo , per feguire l’alterazione degli oggetti e de’
collumi mol- to più notabilmente ne’ luoghi e tempi feparati e lon-
tani , che in un iltelTo luogo e tempo (c), o lotto al medefimo afpetto
de’ pianeti . Da ciò ne deriva , che non polfan gli uomini mai fpiegar
così bene le pro- prie combinazioni d’ immagini , e i proprj collumi
e fentimenti con lingua Itranicra d’ altro tempo e luo- go, come li
fpiegano colla propria , ciò intefo degli uomini in genere, e degli
affari e collumi loro non già meno fìgnificanti, che fi trattano nelle
accademie 0 ne’ gabinetti, ma dei più fìgnificanti e comuni,
che fi trattano nelle piazze e nelle famiglie. E invero ef- fendo
ogni favella illituita per elprimere gli oggetti e 1 collumi d’ un
luogo e d’ un tempo , e dovendo quel- la variare col variar di quelli;
l’adoprar a un tempo c in un luogo una lingua illituita per efprimere
og- getti e collumi d’ un altro , farà ognor più difficile , per
doverli allora follituire alle voci più proprie e più precife di quegli
oggetti e collumi , voci intefe a clpri- mcrne altri da quelli diverfi ,
e in confeguenza men proprie per elprimerli , e men precife .
II. Che gli oggetti e collumi di ciafeun luogo e tempo fian diverti
da quelli di ciafeun altro , e che per ciafeuni corrifpondano termini e
voci diverfe , fi manifella oltre per quel che s’è detto (d), per li
Di- zionari ancora particolari, ciafeun de’ quali fi vede più
carico e ricco di quelle voci , che più corrifpondono agli oggetti e
collumi del luogo e tempo, in cui la CAP. XI. (j) C. F. n. t
. (i) C.V.n. 2 . {d) C. X. i».i. Di„::Uad
by Google ■5^LVI?§. CAP. XI. lingua d’eiTi
è nativa; carichi in confeguenza
cricchi meno di quelle, che più corri fpande{Iero agli oggetù e coftumi d’ogni altro luogo e tempo, incuifolTe
quel- la lingua ftraniera. Non per altro certamente, fé non '
perche ciafcun luogo e tempo à i Tuoi coflumi che non fon precifamente
quelli d' un altro , e per efpri- mer ì quali non mancando mai le voci
nella lingua di quel luogo o tempo , mancano bene fpefTo nella lin-
gua dell’altro. Per elempio nel vocabolario arabo di- celi , il Cammello
efpredo con voci mille ed una , quando nell’italiano fi tiene per
efpreflTo abbadanzapet qued’una fola, lafciate fuori le mille ; e ciò non
per altro, che per la moltiplicità d’ufi di codeiio animale nelle
contrade arabe maggiore che nelle italiane, per la quale moltiplicità,
gli oggetti e i coftumi diverfihcan- do nell’une e nell' altre regioni,
diverfamente s’ efpri- mono. E lo fteifo fi direb^ d’ innumerabili altre
pro- duzioni animali e vegetali diverfe degli uni luoghi e tempi ,
in riguardo a quelle di altri . Ch’ è la ragione , per cui un Dragomanno
pratico del pari della lingua araba, e dell’ italiana s’ arreda bene
fpelTo nel ragio- nar di cofe italiane colla prima lingua, e nel
ragionar di arabe colla feconda ; e per cui parrebbe ancora , che
Cicerone defl'o non potcfle al prefente elTer cosi buon fecretario di
lettere latine in Roma , come alcun crederebbe , per gli oggetti e affari
romani prefenti molto diverfi da quelli, de’ quali ei fcriveva ad
Attico a’ fuoi tempi , e richieder pertanto gli uni e gli altri
qualche diverfità ne’ modi di efprimerli . III. Tutto ciò fi dice,
non perchè il poffeder più lingue non abbia a riputarfi un ornamento,
neceffario ancora a chi non contento degli oggetti e codumi vi-
cini , che forfè non intieramente intende, anela ed ap- plica ai più
lontani che intenderà fempre meno; ma perchè fi fappia che gli uomini
delle nazioni, ficcome ciafcuni ànno i propri oggetti e codumi diverfi
da quelli degli altri, cosi ànno una propria lingua, per cui
efpri- Digitized by Google L VII efprimerli,
che non può effer quella degli altri: e che~^~ A T vi" ficcome non adotteranno
mai bene gli altrui oggetti e coftumicomei propr), cosi non efprimeranno
mai quedi cosi bene coll altrui, come colla propria favella. Dall’
altra parte la cognizione di più lingue non è cogni- zione f«r se Itella
, ma è un mezzo per cui comuni- care foltanto a più altri quelle
cognizioni , che folle cofe e non fulle parole , fi foflcro apprefe (a) -
e un WC.F. n. 3. dotto farà fempre tanto dotto con una lingua , come
con dicci , ficcome uno fciocco non fi manifefterà men Iciocco con
dieci lingue, che con una fola. A ciò ri- guarda lo zelo, col quale ipiù
fenfati antichi, e moder- ni ancora, fi fono ognor dichiarati a favore ,
e àn fempre altamente parlato in commendazione de’ patri lari, de
patrj collumi, de’patrj iflituti, e della patria tavella .Ognun che
trafcuri tutto quefto per quanto é fuo, affine di adottarlo per quanto
folle dUltri, fia cer- to che trafeura quel che a lui è più naturale, per
aflu- mere e tenerfi a quel che gli è meno, e che ciò è co- inè s
ei fpogliafle 1 proprj velliti per adoffarfi gli altrui , che non fe gli
adatteranno mai bene indoflb . Un uomo di tutti 1 coftumi , di tutti i
fentimenti , e di tutte le lingue, fuole dal popolo e dai romanzieri
am- mirarfi come un portento . Un uomo tale per la ve- rità c per
la natura, farebbe un arnefe infignificantee contraddittorio, di nelTun
coftume, fentimento , o fa- vella che almen foffe Aia propria (A), com’ei
farebbe { 6 )C.VI.n.ì. di nelTuna nazione e religione, quando intendeffe
eflèr ^ di tutte. IV. Del rimanente col diffinguere
come fopra, idi- verfi oggetti e coffumi di ciafeun tempo e di
ciafeun luogo (c), non s è già pretefo di dividerli in modo, y che
non abbian poi a convenire allo llelTo, per auan *°‘“«,'.P™«donp dalle
ffefle invariabili leggi motrici , c dall iffefla ragion urnana comune ;
per la qual cofa le lingue altresì fi vedon poi quafi confluir tutte
in una, allorché gli oggetti , i coftumi e i fentimenti H
in Digitized by Google L V 1 1 1 ,>§-
CAP. XI. in fomma umani efpreffi in una favella, fi trafportano a
qualfivoglia altra. Ma s’è pretefo con quello foltan- to di far conofcere
, che quella convenienza che cor- re fra r une e 1’ altre lingue in
riguardo appunto a codefie leggi e a codefia ragion comune , per
cui gli oggetti e i cofiumi fono confimili, non pofla cor- rere in
riguardo alle modificazioni di quelle leggi e di quella ragiotie diverfe,
per le quali gli oggetti e ico- ». 1 . Itumi fon pur diverfi (a). Ona è
che per 1’ une e T altre lingue s’ efprimono oggetti bensì confimili ,
ma diverfamente modificati , e per le voci vir , uomo , e s’
cfprime il medefimo uomo , ma diverfamente modificato in Lentulo,
Giampietro, e Ricardo, come {b)C.V.n.i. s’è veduto (i). Quefte modificazioni
dunque diverfe d’oggetti e cofìumi confimili fan fempre conofcere ,
eh’ efpreffi ciafeuni di quelli in una favella per mo- dificazione a sè
naturale e nativa , trafportati ad un altra non pefTon ferbare la nativa
lor proprietà e vi- vezza, ma debbon perdere di loro efpréffione più
na- turale. A quello modo fi dirà, che pofla ciafeun va- lerfi
d’una lingua flraniera qualunque, per quanto gli oggetti, i collumi e i
fentimenti fono gli llelfi e con- fimili a tutti i tempi e in tutti i
luoghi, ma che non pofla poi così propriamente valerli di efla come
della propria , per quanto quegli oggetti , collumi e fònti- menti
elfendo confimili nelle loro fpecie, fon poi dif- fimili nelle loro
modificazioni col variar de’ tempi e de’ luoghi . Dacché apparifee di
nuovo , come natura fempre a fe fteflà uguale e fempre faggia, avendo
or- dinato gli oggetti , i collumi e i fentimenti tutti con-
fimili, ma pur diverfi ; col conceder agli nomini la ilefla favella
perchè poteflero foccorrerfì gli uni gli al- tri per quanto occorrefle ,
la concefle altresì diver- fa , per quanto un fimil foccorfo poteflè
renderfì loro (r)C. X». 4 , inutile, o potefle ancora convertirli in
dannofo (c) . Ma all’illeflb tempo confervò nondimeno tutte le
fa- velle confimili , per avvertirli d’ una Ulefla ragione e
amo- Digitized by Google LIX ?fi-
amore comune, per cui doveflero tutti trovarfi uniti e c A P. XI.
concordi ; quafi avvertendoli , che per fuppLire ai bi- fogni fcambievoU
di iudilienza , baftava 1’ opera im* mediata di pochi fra loro vicini d’
una litigai mede- sima; e che peramarfi dovevano tanto Stenderli ,
quan- to le favelle loro cflendo diverfe, foflcr tutte confimili,
dovendo cosi il circolo dell’ amore fra eSli edere incom- parabilmente
più ampio , di quello dell’ interede co- mune medeSitno. V.
Ma ritornando airalterazione Solita feguir col pro- gredo de’ tempi in
ciafcuna lingua viva , è da odervar- fi , che Sebbene queda foglia , e
debba molto imputarli al commercio degli uni cogli altri popoli di lingue
di- verfe, e all’invafioni d’un popolo d’una lingua folle terre de’
popoli di un’ altra; eda nondimeno dee fem- pre principalmente
attribuirfi alle modificazioni degli oggetti e codumi, che col progreSTo
de’fecoli fon Sem- pre diverfe nelle confimili Specie loro (a)^
Perciocché (.a)CJCLn.i^ lafciando pur dare , che prescindendo ancora da
inva- sioni e commercio ederno , la lingua italiana o l’ ingle- fe
d’ ora non è già la delTa che la italiana di Guiton d’ Arezzo, o la inglefe
diCaucer; è certo che per quel- le invasioni e per quel commercio ederno,
non è che gli uni adottino la lingua degli altri , ma é che dall’
impado di due lingue (e ne forma una terza , che non è alcuna di quelle,
liccome dalla compofìzione dell’ une coll’ altre inclinazioni e codumi ne
rifulta un’ altra a quelle consimile, ma non mai la deSTa che quelle,
pre- valendo però Sempre in tutto quedo l’ indole degli og- getti
edemi attuali e prefenti, e non mai dei lonta- ni e padati . L’introdurre
in una nazione i codumi e la lingua d’un’ altra, quando tutto ciò va
cangiando in qued’ altra fteSTa , è un’ aperta implicanza ; e il
pre- tender tutti d’un codume e d’ una lingua medefima farebbe lo
deSTo, che limitar la natura come in ciafcu- na Sua opera così in tutte ,
quando eSTa è tanto infi- nitamente Simile in tutte , quanto
infinitamente diffi- H z milc Digitized by
Google CAP. XI. niile in ciafcune (a). Quindi è che per quanti
barba- ci) C. II. n.z. ri così detti , fian mai fceft in Italia , i
coftumi iu> liani àn potuto bensì coiromperfi ed alterarfi , ma
non mai perciò renderli così barrati , come i colìumi di quelli. E
Io lleflb è avvenuto delia lingua, che coll’ alterarfi per quello motivo,
confervò Tempre 1’ indole dell’ antica latina , e non già della gotica
antica . 11 tutto per gli oggetti e le produzioni italiane Tempre
nel rinovarfi men diverfe da sè medeTime , di quel che il potelTero
eflere da quelle della Gozia . Per la qual cofa dovevano ben i Goti più
piegare ai collumi e alle inclinazioni italiane, che gl’ italiani ai
collumi e alle inclinazioni de' Goti , giacché quelli col traTpor*
tarfì nelle pianure del Lazio e della Lombardia , non vi avevano
trafporcato i diacci o le rupi delle loro regioni . CAP. XII.
■p’Certo, la verità delle coTe non apparire airafpet- Delle cogni- to ellerno di elTe, ma
doverli invelligar per indu- zioni reali , e ^ioni da cagioni occulte ed interne , quando più quando ^ e e ipparen- ^ come apparifce dalle
molte implicanze nelle quali s’ incorre nel giudicarne di prima
villa , per le quali implicanze quel che Tembra vero all’ ellerno, Ti
Tcuopre realmente non efler tale , e Ti riconoTce fovente elio
Hello eller Talfo. E’ certo altresì, una tal verità dover {b)C.Vl.n.z.
nelle cofe eller unica (i), mentre fe folTe più d’ una o folTc da fe
Heffa diverla, quella cofa ancora di cui fols’ elTa la verità , farebbe
pure più d’ una , o farebbe diverfa da sè medefima , ciò che certamente è
impof- fibile . Ond’ è che fe d’ una cofa llelTa fi giudichi in più
maniere , tali giudici non faran veri , ma faran dubb) ed incerti, e
tutt’al più faran probabili e veri- fimili, come foglion pure appellarfi
; e allora foltanto faran elfi veri, quando elfendo d’un modo, fi ricono-
fcano non poter elTere d’ alcun altro. Ciò fa ch’io di- llingua le
cognizioni umane vere t reali, dalie verifi- Olili ed apfarcnri ,
conlidcrando quelle per tali , la cui Digitized by
Google 'U LXI ^5- cui verità non poffa cambiarfì con
altra , comechè de- c AP. XII. dotta da ragioni immutabili e neccfl'arie
, colle quali non poflan altre competere , o polTan a quelle refi-
ilere ; e confìderando quede per tali altre , la cui verità poffa
eziandio cfler diverfa, comechè fufcettibi- le di più e di meno, o
proveniente da ragioni che s’ arreffano Aiirefferno, e che eflendo a quel
modo, po- trebbero ancora efferlo a un’ altro , ancorché non da
altre apertamente fmentite. Del primo genere fono le cognizioni che fi
direbber geometriche affratte , della cui verità l’animo riman talmente
convinto , che di più non ricerca per effe . E del fecondo fon tutte
le più ufate , folite fpacciarfi da chi applica coi metodi più
comuni all’ifforia, alla fifica, alle leggi , alla po- litica e fimili ffudjpiù
praticati, filile quali per quan- to la verità apparifca lotto a un
afpetto , lafcia pur luogo di apparir fotto a un altro fenza
contraddizioni , conofciute almeno ed efpreffè; fcgno evidente di
non effer dunque tali cognizioni reali, ma di effer foltan- to
apparenti , giacché le reali non fon che di un modo ( rt) , e quelle fon
di più modi . Dell’ incer- tezza di quelle feconde cognizioni in
confronto alle prime, non diffentono gli rtefli coltivatori di effTe
Ilo- rict , filici , legilli , politici ed altri , quando conven-
gono, le cognizioni loro ei fiffemi di più modi, non effer cosi evidenti
come le verità per efempio numeri- che elementari, da loro pure e da ogni
altro conofciute a un fol modo. II. Chi ben attenda a quello
conofcerà, l’intelletto umano effcre molto più inclinato alle cognizioni
effer- ne ed apparenti , che alle interne e reali , ciò che pro-
cede non già dall’ effer ei più capace del falfo che del vero , come
immaginan alcuni ; ma dall’ effer quelle cognizioni più facili di quelle
, non efigcndofi per le apparenti che certa attenzione fuperficialc,
quando per le reali fi efige un’ applicazione più diligente e più
di- lìntereffata . Q^uclla applicazione poi più diligente e
diCin- Digitized by Google V ^
LXII C A P. xn. difintereflata richieda per le cognizioni reali,
proviene ‘ dalla neceflltà di 6flar per elTe lo fpirito per sè
volu- bile e fugace, a un punto foto dei moltiflinii , fra i quali
ei fuole fvagare trafportato da’ cavalli dell’ im- maginazione fervidi di
natura; e molto pià provien ella dalle feduzioni de’fenli a proprio
interelle, a che ei (la fortemente attaccato . Per la qual cofa la
mente umana o non cura idruirfi di fotta alcuna , e fchiva d’ ogni
applicazione, s’abbandona all’inerzia; o nell’ iftruzione medefima s’
arreda alle prime imprellìoni , o fegue più la fcorta de’ fenlì in fuo
prò, che quel- la della ragione, intollerante di quel freno che
quella cerca d’imporre a quelli, perchè non la traggano lun- pi dal
vero . Certo è , che tolta quell’ inerzia e quella intolleranza ,
farebbero gli uomini cosi ben idrutti del- la verità delle cofe, come ne
fon mal idrutti/ gli ot- timi conofcitori del vero farebbero nelle piazze
e ne’ mercati , nelle accademie e nelle corti , cosi familiari e
frequenti, come vi fon gl’ ignoranti e gl' impodo- ri, e tutti
parlerebbero di verità, come i Parrochi nel- . le Chiefe , e come i filofoli
migliori ne’ privati loro recedi. Pare dunque, che la verità reai del le
cofe dia fituata a certo punto di mezzo unico e indivifibile ,
innanzi e oltre il quale fia vano il cercarla , o non fia podibile il
rinvenirla che con dubbierà e incertezza ; e che gli uomini per lo più o
non fi muovano a ricer- carla del tutto, o neirinquifizione di elTa
trafcendano quel punto , (edotti e ingannati dai fenfi , che per
loro interede particolare li trafportano dall’ une all’ altre apparenze ,
lenza difcernere o arredarfi al pun- to reai delle cofe , fuor che ben
rare volte . In ef- fetto il didinguer fra tutti quel punto folo, efìge
cer- ta infidenza e applicazione , che non è volentieri incontrata
, ma è al contrario fchivata e abborri- ta ; e dall’ altra parte l’ affidarfì
ad un punto fo- lo degli infiniti che ve n’ ànno , fra i quali può
la mente fvagare nella traccia del vero, è cofa ardua c
dif- Digitìzed by Google LXIII e
difficile . Laonde le verità nuile o peggiori faran“cAp xiT fempre più
coltivate delle alcune o migliori , e gli uomini ad ogni tempo e in ogni
luogo faran Tem- pre nelle lor cognizioni medefime più Aiperfìciali
e diftratti , che rifleffivi e raccolti ; perciocché non potendo le
cognizioni reali acquiltarfi che per ap- plicazione più laboriofa, c per
aftrazione dai fenfi , non faranno dunque elleno mai comuni fra gli
uomi- ni , alieni comunemente da quel lavoro e da quell’ aerazione,
maffime per l’interelTe loro che v’intervie- ne particolare , al quale principalmente
riguardano i fenfi . III. S’ aggiunge a ciò, che quel che
induce gli uo- mini ad applicare di via ordinaria alle cognizioni
ap- parenti, non ollante refler clTe divcrfe dalle reali , è ancor
quello , che quelle cognizioni per quanto fian dubbie , oltre al prefentarfi
Tempre in fembianza di reali , lon bene fpeffo reali effettivamente effe
fteffe ; e la differenza dell’ une dall’ altre confifte foltanto in
ciò, che laddove le reali fon conofciute tali immedia- tamente per sè
medefime, le apparenti non fi ricono- fcono per reali che dagli effetti
confecutivi , o dall’ cfperienze eventuali che lor corrifpondano o non
cor- rifpondano, attendendofi cosi da quelle la prova della verità
loro reale , o della apparente . Allora poi le co- gnizioni corrifpondono
cogli eflfetti confecutivi , o fon comprovate per elfi, quando effendo
quelli dagli altri diverfi, non fono a quelli contrarj; e allora non
ccr- rifpondono, o non fi verificano per gli cfl'etti che ne
confeguono , quando quelli fi trovano implicanti , e a tutt’ altri o ai
comuni contrarj . Imperciocché le co- gnizioni, all’ illello modo che gli
oggetti creati , e i cotlumi c le ^inioni umane che ne derivano (/») ,
{a)C.VII.n.i. poffon bensì cller diverfe , ma non poffon fra sé
tro- varli giammai contrarie, e quelle e quelle finché fon diverfe,
fon reali e conformi alia verità comundi na- tura ; e qualor fi readon
contrarie , fono apparenti , im- o
Digitized by Google LXIV CAP. XlTT imponìbili , e
conformi al/alfo e all’errore. Le cogni> zioni dunque apparenti
polTono e(Tcr reali ancorché fempre noi (ìano, perchè dipendendo dagli
effetti con- fecutivi , poflbno queffi effer dagli altri diverfi , ancora
chè poffano eziandio efler a quegli altri comuni con- trari ; a
differenza delle cognizioni reali così dette , le quali non dipendendo da
effètti confecutivi alcuni , ma da sè fole, ed effendo fra sè diverfe,
non poflbn efler contrarie nè fra sè ffeffe, nè negli effètti comuni
che le confeguono . Gli uomini poi inclinano più a quel- le che a
queffe cognizioni, per eflTer più facile atten- dere la verità dagli
eventi confecutivi benché dubbio- li, che logorarli il cervello, come lor
fembra, nel ri- cercarla per sè medefima e di prima mano. E ciò
tan- to più , quanto per le lufìnghe de’ fenfi , o per interef- ie
loro particolare, le cognizioni apparenti dilettano molto più delle reali
, avvegnaché queffe iffruifeano più di quelle , e ognun vede , che
inclinando elfì fem- pre più ai diletto de’fenfì che all’iffruzion della
men- te, faranno dunque efft fempre più avidi di cognizio- ni
apparenti che di reali , in tutto ciò che riguarda la ricerca del vero.
Ma intanto qui fi vede, come le co- gnizioni diverfe e reali, alle
apparenti ad effe contra- rie tengono la ffclTa relazione, che gli
oggetti pur di- verfi e reali, ai contrarj ad effì e aita comun ragione
, per queffo appunto, che quei primi coffumi procedo- no da quelle
prime cognizioni , e queffi fecondi da queffe feconde. IV.
Quello ch’io vorrei qui malTimamente avverti- (»)C.XIJ.n.i. to,
egli è, che quantunque il punto fuddetto (a) nel quale fu detto dler
polla la verità reai delle cofe, per edere indubitato e folo, fembri non
poter convenire e non poter confeguirfi che nelle cognizioni affratte
e geometriche cosi dette , convien elio nondimeno e fi trova molto
bene in ogni genere di cognizione pratica. Chi crede la fola geometrìa e
l’ altre cognizioni affrat- te , dette ancora teoriche , capaci di
certezza reale , e l’al- o Digitized by
Google r altre cognizioni dette volgarmente pratiche, non
ca-‘ paci della certezza medefìma; non avverte, l’adrazione di
quelle prime non confidere appunto che nell’ a<ha> rione dai fenll
, e la evidenza di elTe dipendere dal metodo d’ inveliigare il vero , o
di dedurre le verità più compone dalle più femplici. La qual aerazione
dai ienfi e il qual metodo può aver luogo, anzi dee aver- lo, ed
applicarfì a qualfrvoglia facoltà di leggi , di Itoria , di fìfìca , di
politica , di teologia liefla e di morale , e di tant’ altre , nelle
quali foglion dividerfì le cognizioni umane; di ciafeuna delle quali fi
giudiche- rà Tempre realmente , fol che fi aftragga dagl’ ingan- ni
e dalle feduzioni de’ fenfi , e fi giudicherà femprd con dubbio, non
afiraendo datai feduzioni, o non cor- reggendole per lo reale della
ragion comune , come fi pratica nelle cognizioni dette appunto afiratte e
teori- che. In guifa che 1’ incertezza delle feienze pratiche come
le appellano, in confronto delle teoriche o afirat- te, dipenda Tempre
dall’inganno de’ fenfi , dai quali gli uomini s’ingegnano in vero di
aflrarre o di pre- feindere, quando meditano, ma non fan rifolverfi
di far lo fieflb, o duran fatica a farlo, quando operano. A quello
modo ogni fpecie di cognizione umana , qualor lia verace e reale , fi
renderà una fpecie di geo- metria, e non rendendofi tale, non farà che
una co- gnizione fuperficiale , apparente ed incerta , come quel-
la che involve le illufiioni de’lènfi, perle cui apparen- ze può ciafeuno
cafualmente imbatterfi nei vero ( 0 ), ma può ancora rellar ingannato o
trovarli involto nel falfo. Anzi la Geometria cosi detta , non farà per
sà flella cognizione, ma parlando più propriamente, farà il metodo
ola regola, per la quale dillinguereinqual- fivoglia fpecie di cognizione
il reale dalF apparente , e di rilevare in ella la verità per quanto è
poflìbìle , o di difingannare per quanto non è polfibile di rile-
varla * convenendo così elTa colla Logica comune , o ellendo la Geometria
una Logica pratica , quando la } comu' CAP. xu.-
Digitized by Google -àd L X V I C A
P.'xìTT” comune cosi detta, non è che una Logica fpeculativa , men facile
a praticarli e men ficura . V. Del rimanente è poi vero che
parlando in gene- re, lo fpirito umano in ordine a cognizioni , parte
(i trova fotto al punto reale e più precifo di elTe difopra
accennato ( a ) , e parte ancor Io oltrepalTa e trafcende * e che quello
è il coliume del popolo più incolto ed abietto inclinato alla pigrizia,
quando quello è il fo- lito del popolo più colto e volgarmente Hudiofo,
aman- te per lo più delle follecitudini e della gloria alfanno- la
. Perciocché egli è vero, che gli uomini fchivi di quella laboriofa applicazione
eh’ elige la ricerca del vero reale , s’abbandonano fpeflb all’inerzia e
non v’ applicano di Torta alcuna . Ma dall’altra parte è vero
altresì , che avidi elTi di cognizioni , e Idegnofì per mancanza di
quelle di vederli confufi col comun del- la plebe, s’alzano fopra quella
nella ricerca medellma , nella quale poi impazienti di freno, lìlafciano
trafpor- tare dalie illulìoni de’fenfi come s’è detto, oltre quel
punto, e lo sfuggono fenza avvederfene, feorrendo dall’ I,:
ignoranza propria del volgo più rozzo, a quella propria de’ comuni
(ludiofi, che per lo più fono i troppo llu- diofi. L’una e l’altra
ignoranza può dirfi comune , ef< tendo ben pochi quei che fcevri da
illulìoni , ricerchi- no la verità con accuratezza fenza penofa
follecitudi- ne , e eh’ elTendo tranquilli , non fiano pigri ed
iner- ti. E l’una e l’altra ignoranza fi dirà ancora comune^ del
pari ; mercecchè chi toglielTe a follenere , quella' de’ comuni lludioli
elTere meno ellefa, e più tollerabile di quella de' comuni idioti ,
torrebbe a follenere ardua e didicil cofa , e a ben riflettere s’
accorgerebbe , la diffe- renza dell’ una dall’altra ignoranza elTèr polla
in ciò foto, che elTendo quella degli idioti più fempliceemen
fallofa, quella dei più fludioiì tien più di fallo, e men di
femplicità. Poi- Digitized by Google
LVXII ?$. P oiché le cognizioni apparenti ed ellerne fon
mol- to pià coltivate delle reali ed interne (a) , egli è certo,
che gli uomini nella condotta de’ loro aSari, dovranno di regola generale
govemarfi per quelle, più che per quelle cognizioni , dovendo certamente
go- vemarfi ellt comunemente Mr cognizioni che fiano fra lor più
comuni , anziché per quelle che fodero men comuni. Una llmil condotta
loro non può negar- li in pratica da chi dia ad olTervarli , ed ogni
perfona più accorta s’ avvedrà molto bene , che tenendo cia- fcun
in mente certa verità reai delle cofe non abballan- za da lui fviluppata
ed attefa , pure co’ fuoi penfìeri e colle fue azioni fa forza a sè delTo
per adattarli alla verità di quelle apparente , e ciò per conformarli
al comune degli altri , che paghi di quella verità, mal foflfrono
di procedece a quella . Nè v’è cola più fami- liare, quanto il vedere i
più fenlati in ogni fpecie d’ aflàri loro economici e civili ancor più
fer) , adattarli con certa ripugnanza interna colle cognizioni loro
rea- li per quante ne tengono, alle apparenti dei men fenfa- ti,
come altresì a quantità di ulRcj, formalità, e con- venienze ederne di
vita vane ed inutili, che di quegli adari più fer) fon per lo più la
difpofizione , il. vei- colo , e l’impulfo maggiore . Lo che non per
altro certamente fuccede , che per la facilità maggiore , col- la
quale quegli adari fi conducono a proprio interef- fe colla fcorta dei
fenfì per cognizioni apparenti , di quel che li conducedero per reali,
con più d’efame e con più adrazione dai fenfi , fodrendo così
ciafcu* no con qualche fua pena negli altri quella negligen- za di
cognizioni , che brama con maggior fuo co- modo da altri fodèrta in lui
dedb . Tutto quedo poi avviene fenza difordine , e con efito ancora
feli- ce , purché- quelle cognizioni apparenti non s’oppon- gano
alle reali , ciò che negli uomini che fi regolino a quedo modo non può
conofoerfì che per gli effetti 1 2 con- CAP.
XIIL Cognizioni apparenti più pratiche delle reali
. Digitized by Google Lx viri ^ CAP.
XlILConfecutivi come s’è veduto (/») , o per Toltraggio o danno che fe ne
fcorga provenuto negli altri. Percioc- ché fe quegli aflari cosi condotti
, eflendo utili a sò fteflì , non riurciran dannofi ad alcuni ; le
cognizioni apparenti,- per le quali (I conducono , faran conformi
alle reali e procederanno elll felicemente , e il contra- rio avverrà, fe
da quell’ utile particolare ne feguirà danno ad altri , nel qual cafo non
potrebber gli ad'ari procedere , che con ifconcerto e difordine . '
11. E invero fe gli uomini tutti fi- governalTero di- rettamente
per cognizioni reali e teoriche , gli fcon- certi fra loro farebber tolti
del tutto e farebbero im- polTibili , tutti fi troverebbero d’ un
fcntimento confor- me ed unanime, nè vi avrebbe il cafo di
diirenfioni dell’uno coll’altro in qualfivoglia genere d’ intereife
o (ù')C.XII.n.z. d’ affare (é). Ma effendo quello iirpoffìbile, attefa la
(0 feduzione de’fenfi a proprio intercfle ( c ) , ei bada dun* que
per evitar gli fconcerti , che governandoli effi per apparenza e per
pratica , non s’oppongano almeno al reai delle cole . Quegli fconcerti
poi procedono dalla verità di natura , la quale non laida di regolare
gli uomini per io reale , ad onta d’ogni lor propenfìone , dilegno
e inffllenza di regolarfi pure per apparenze . Ond’ è , che fe tali
apparenze fon contrarie a quel rea- le, debbono quelle andar vuote
d’effetto , o confeguir-i lo con difordine, per poter bensì l’apparente
averluo- go, quando non na al reale contrario, ma non pcter- aver
mai, quando al reale s’ opponga {d) . Quello regolarfi gli uomini da sè
fteflì per apparenze , e re- golarli la natura irrefiffibilmente per io
reale, fa cono- feere, che fe effi pur reggono e fuffiffono, e i loro
af- fari procedono felicemente , ciò avviene per difpofizic- ne e
faper di natura , e non mai per fapicn-za loro , giacché governandofi
effi al primo modo errano bene ImITo, e fi trovano fvergognati dalla
verità reale, quan- do natura governandoli al fecondo non erra
giammai, ed è Tempre a sè llelTa conforme . Egli è ben vero , ef-
fer Digitized by Google -^<1 L X I X ^
fer poi quefto ftcflTo il gran delirio di quei politici , CAP. XIlT
ed altri che più prefumono di prudenza umana , i quali vedendo cosi fpenb
mancare i loro progetti più ipeciofì , non s’ accorgono derivar ciò da
quello appun< to, di elTcr quelli contrari al reai delle cofe, per non
riguardarne che l’apparente, per la qual cofa la natu- ra che non intende
apparenze , fconcerta le loro ini- fure , e delude per lo reale quanto
per 1’ apparente eflt tentano , e non è Tempre polTibile che riefca .
Peg- § io però intendono e ufan quei fcimuniti , che veden- o
i molti difordini che corion fra gli uomini , foglio- no imputarli alla
natura , o al grande autore di e(Ta « quando è certo che debbon quelli
imputarfi agli uomi- ni Itein, che in luogo di applicare al reai delle
cofe, applicano all’ apparente , che può a quel reale elfer
conforme, ma può ancora a quello cder contrario, e perciò impolTibile a
riufcire ( <» ) ; in guifa eh’ effen- ».j- do gli uomini Tempre
occupati a imbarazzarfi infìeme per fole loro follie, la natura non
fembri occupata d’al- tro , che di sbarazzarli , emendando e
correggendo quelle follie medefime . 111. Quello che qui lì
dice è tanto più vero, quan- to la verità reale non è già per gli uomini
un arca- no, ma è cofa palefe ad ognuno, che nel cercarla fap- pia
prelcindere , o non fr lafci ingannare da illulìoni di fenfi . Ciò fi
manifella , oltre per la forza che co- me (opra ognun fa a fe llelTo
nell’ adattarfi al penfar apparente degli altri (é), per quello ancora ,
chegrin-(i)C.X///.».i- ganni medefimi , nei quali bene fpelTo cadono gli
uo- mini per quelle illufioni , appena incontrati da una parte da
alcuni, fono riconofeiuti da tutti dall’altra , non folo per gli effetti
contrarj che fpelTo ne deriva- no , ma per lo pianto ancora , e pel rifo
che più an- cor di frequente fi fparge full’ azioni umane. Percioc-
ché le ben fi confideri , l’uno e l’altro di quelli non è pollo che in
ciò, di riconofeer gli uni , che s’ollinino gli altri a regolarfi per
apparenze, quando la natura e Digitized by Google
"à^LXX C A P. XHiria neceffità li aftrigne a regolarli per lo
reale . Dacché procedon fra loro quei tanti inganni , e quelle
mife- rie , che vedute in altri folTerte per altrui opera , ge-
neran la compaflìone ; e vedute fofferte da altri per lo- ro colpa ,
generano il ridicolo . Non avendovi poi ge- nere di peribne di
quallivoglia arte, ufficio , o profef- lìone , fui quale non cada qualche
fpecie di compaffio- ne o di ridicolo conofciuto da tutti , non v’avrà gene-
re di perfone , che non fi governi per apparenze . Ma quella riconofcenza
comune medefima farà molto ben noto, una verità reai delle cofe elTer da
tutti fentita, ancorché men coltivata , per eflcre veramente più
fa- cile compatire- le altrui miferie o ridere degli altrui in-
ganni , che coltivar quella verità con più d’ attenzio- ne, aliraendo dai
fenfi e dalle loro illufìoni a proprio favore (a), E qui s’ oflfervi ,
come di quella verità rea- le fentita , ma non attefa , fon del pari
lontani ed igna- ri e quei che delle azioni umane fentono
compaflìone, e quei che ne conofcono il ridicolo, colla fola
differen- za , che l’ignoranza dei primi pare efler quella della
plebe meno fludiofa, e l’ignoranza dei fecondi quella degli fludiofi di
fole apparenze, o dei vanamente ftu- diofi (é), quando quei che applicano
al reai delle co- fe , non piangono nè ridono mai delle verità che
cono- fcono . Così Eraclito , e Democrito , come vien detto , erano
tanto faggi , quanto a conofcer le apparenze per cali , ma non quanto a
diftinguerle dai reale o a cono- fcer le verità uefTe reali , al che
nelTuni procederono tanto innanzi, quanto ifilorofì del crillianefimo.
Que- llo però non impedifce, che in ogni flato, poiché le
cognizioni reali vengono in confeguenza della iflruzio- ne , e le
apparenti in confeguenza del diletto durato nell’ acquiflarle (c) , gli
uomini più propenfi a quefto diletto che a quella illruzione, non lian
più ricchi di quelle che di quelle cognizioni , e che gli affari loro
condotti per aroarenze, non fi conducano femprecon implicanze e difordini
, di che non lì ceflTa di lamen- tarli, Digìtized by
Google Lxxi tarfi , e a che non fi cefla di fiudio per
provveder- "c a V. Xlir. vi. 1 quali difordini , (oliti mal
attribuirfi alla debo- lezza delle umane cognizioni , e peggio a diHètto
di natura (<»), abbian tutti a cadere come s’ è detto, fuU’
WC.A^///.».z, avverfione fuddetta all’ifiruzione migliore^ e filila
prò- penfione al diletto fiiperfìciale e peggiore ; mercecchè
dovendo Tempre gli affari proceder per verità reali, e con certo ordine
di natura flabilito dal fupremo Tuo autore, qualora voglian diflrarfi per
apparenti contra- rie a queir ordine , non potranno a meno di non
pro- cedere con difordine. IV. Qui non può a meno di non
prefentarfi alla mente una verità, la quale è quella , che
diflinguen- dofi gli affari particolari dai communi , poffano
nell’, ellerno molto piò facilmente condurfi per cognizioni , reali
quelli che quelli , per edere appunto il particola- re più facilmente
condotto per Io reale, di quel che fia- fi il comune , che come s’ e
veduto (6), non è con- WCJCILn.i, dotto che per apparenze . Una fimile
verità quantun- que di fatto , non fi efprimerebbe da alcuni con
pa- role , quafi per timore di non mollrar per effa dì cre- dere ,
o di dar a credere , che al governo degli altri non fi richiedan che
cognizioni apparenti , polle le reali tutte dapparte. Allopollo però di
quello, chi ri- detta più finceramente apprenderà, che per quello
ap- punto di dover il comune degli uomini regolarfi per cognizioni
apparenti , è necelfario fra elfi un governo ellerno, per cui da quell’
apparente fian tutti condotti al reai delle cofe ; mercecchè fe il comune
degli uo- mini fi regolalfe per lo reale, ogni governo allora fra
loro ellerno farebbe inutile e vano . In edètto fe fi confìderi che per
necedità di natura debbon gli adàri procedere per lo reale , e che
l’apparente può invero elfere a quello reale conforme , ma può ancora non
eflèrlo ( c ) ; ^li è dunque d’ uopo per non trovarfi col- (c) C.XJI.n.j.
la natura in contrailo , che v’ abbian alcuni , i quali più bene intefi ,
più efperti ed illrutti degli altri nel- le Digitized by
Googk ^ LXXII ^5- C A P. Xlir. le verità reali (
che o bene o male fon fentite da tut- ma non da tutti dalle apparenti
dipinte (<r) ) pre* fìedano agli altri , e diftinguan loro quali di
tutte le cognizioni apparenti per le quali fì regolano, fianò al-
le reali couformi , e quali fìano a quelle contrarie . Quefto infatti è
ciò cn è intefo per ogni Governo, pri- ma per la perAiaHone della
Religione , depofìtaria del- le verità reali non corrotte da apparenze
contrarie, e desinata così a infegnarle ai popoli per regola delle
loro paOioni , delle loro azioni , e de’ loro coftumi ; ed indi per la
forza o il comando del Principato , de- Ainato a far valere quelle verità
medefime, e a difèn- derle, per Quanto colle apparenti a quelle contrarie
fof- fero contralUte . La qual difinzione di Religione e di
Principato nel governo non è un giuoco dì fpirito , ma una necefìtà di
natura , per cui nella condizione uma- na non è pofibile , che un
perfuada a ciò a che dovefe pur af rignerc , o afringa a ciò a che
dovefle pur per- fuadere, per l’ abufo d’una di quefe facoltà che
ognun vede poter allora feguire nell’ ufo dell’ altra , come ò
altrove dimofrato ampiamente . Io qui parlo de’ go- verni ben ordinati e
fenfati , ne’ quali la Religione ap- punto e il Principato nelle
refpettive loro appartenenze iuddette , fon del pari lìberi e
indipendenti , come nelle nazioni più colte e più crìfiane ,* e non de’
governi difordinati , ne’ quali confufe quelle due appartenenze in
una , o oppredà l’una dall’altra , il governo (lelTo non è che una
fìmulazione o impofura , rapprefentato da una fola autorità più forte , e
foggetta alle UriTe il- lufioni d’ ogni altro , come nelle nazioni men
colte , o nelle quali più prevale la fchìavitù e 1’ ignoranza.
V. In qualunque modo però proceda un governo* egli è fempre vero ,
che attefa l’inclinazione comune all’apparente più che al reale, elTo non
efibifce opre- fenta mai ai popoli le verità reali , che coll’afpetto
delle ‘ apparenti, e che nel adattare appunto 1’ apparente con-
forme e non il contrario al reai delle cole , è pollo tutto
■ \ Digitized by Googl Lxxiii ;»?- tutto l’arcano e l’arte ben difficile di regger i
popoli, CAP. Xllf. fenza di che quella non farebbe, che un’arte ben
fa- cile di follazzare sè lleflì . I governi poi ben ordina- ti
dagli fconcertati fi dillinguono appunto per quello foto , eh’ eflendo
gli uni e gli altri occupati nell’ ac- comodare il reale all’ apparente ,
o all’ intendimen- to fuperficiale del popolo, i primi per quell’
apparen- te non li fcollano mai dalle verità reali molto ben
conofeiute da chi governa , quando i fecondi per quell’ apparente s’
oppongono più o meno a quelle verità reali , feonofeiute ed ignote
talvolta più a chi governa , che a chi da altrui è governato . Ma intanto
quindi apparifee, come non potrebbe dirli cofa più inlenfata di
quella , che la Religione non abbia ad aver parte nel governo de’ popoli
nell’ illruire , come loà l’Impe- ro nel comandare , o nell’ allrignere
alle verità mede- fime, per le quali i popoli fon governati; Tempre
ciò intefo de’ governi (inceri e reali , e non delle fimula- zioni
o apparenze di ellì , contrarie elTe (lede talvolta al reai delle cofe.
Quello poi ch’è pur detto da alcu- ni con qualche circofpezione e riferva
, toma però a quello che con minor riferva è detto da più altri ;
cioè che al governo Udrò ballino cognizioni pratiche, vale a dire
apparenti (a), e che le teoriche o reali fìa- (s)CJÌlIIji^. no del tutto
inutili . lo fon certo, che gli uomini di (lato più accorti , converran
Tempre meco , che ogni lor pratica abbia da procedere da conifpondente
teo- rica , e che per quella fola da quella difgiunta, gli (latifli
non dovelTer riufeire che a tanti ciechi, che lì battdTero infìeme
/ nel qual cafo i popoli di elfi più faggi àvrebber ragione di lafciarli
fare , governandoli inunto da loro llelfi (è) . P
t^emefle quelle conftderazioni Tulle cognizioni urna- CAP. XIV. ne
reali e Tulle apparenti , per rilevare 1’ effetto Imperfeiione della
favella nel comunicarle altrui, gioverà confiderà- dell» favella re in
prima pur quella fotte un doppio afpetto , o di LXXIV ^
CAP. XIV. dichiarare ad altri le cognizioni della prima fpeciepià
ardue e men note, o di trattenerli su quelle della fe> conda più
facili , e quai fon conofciute comunemen- te ; giacché in eflètto quallìvoglia
ragionamento verfa fempre su qualche foggetto , noto bensì ad ognuno
per le lue apparenze più generali ed elìerne , ma ignoto altresì
comunemente per li Tuoi principi afcolì ed interni. Siccome poi le prime
cognizioni fì fon vedu- te intefe a idruire , e le feconde a dilettare ciafcuni
(«)C.X7I,ff.3.che vi applicano (a); così ufficio della fa\ella fi dirà
pur doppio, o d’ iflruire altri nelle cognizioni non per anco da effi
acquilìate, o di dilettarli nelle giàacqui- lìate; quello molto più
familiare di quello e frequen- te, giacché il più confueto degli uomini è
d’ intrat- tenerfì fra lor per diletto, favellando di quel che fan-
no; e l’inllruir gli uni gli altri di quel che quelli non fanno, par cofa
riferbata alle fcuole , e da non prati- carfi fuor d’efle che con altrui
fallidio , dai foli pedan- ti. Nientedimeno, poiché la favella é pur
dellinata a partecipare ad altri le cognizioni da cialcuni acquiUa-
te , e tali cognizioni dipendono da oggetti appreli e <6) C,XlI.n.i.
combinati ( A ) ; é altresì da confiderare , eh’ elfendo 3 ue(li
oggetti a numero incomparabilmente maggiore elle voci, per le quali
poflfano denominarfi (r), le vo- ci in ogni favella mancheranno bene
fpelTo, come per nominar quegli oggetti , cosi molto più Mr
efprimer- ne le cognizioni , e la favella a quell’ enetto rinfeirà
un mezzo dubbio , confulo e imperfetto . E invero quantunque ciafcuni
oggetti in ciafeuna favella ten- gano alcune voci più efprelfìve e
diUinte , dette per- unto \ot proprie", ciò non fa che tali voci non
pollano eziandio applicarli ad oggetti da quelli diverli , per le
quali diventan traslate , non per altro certamente , che per la povertà
appunto di clTe voci in riguardo agli oggetti, eaU’impoinbiltà di
appellar ciafcuni con voci talmente proprie , che non pòiTan elTer
d’altri . Oad’ ,é che una voce medeGma dellinata cosi a più
ogget- Digitized b^Google «é^LXXV?^'
oggetti , gli cfprime Tempre con proprietà maggiore o gap. xiv.
minore , ma non mai per la fola e precifa , che cor-' ril'ponda per la
cognizione di dii. II. S’ arrese , eh’ dTendo le apprenfioni e le
com- binazioni d’oggetti diverfe nelle ciafeune menti (a) y tali
combinazioni che ne derivano , debbon pur dier per ciafeuni diverfe , e
il comunicar uno agli altri le proprie, potrà bensì edere per regolarle e
confrontarle con quelle degli altri , ma non mai perchè diventino
cosi proprie d’altri, come fon fue. All’incontro la fa- vella è a
ciafeuno comune , ed è la deda in una def- fa nazione, e quando dante la diverfità
d’apprenfioni e di combinazioni d’oggetti, le cognizioni
particolari fono in altri più chiare ed edefe , in altri più ofeure
e ridrette ; le voci per cui efprìmerfi , non fon più chia> re o
copiofe per ^elli o per quedi, ma fon le dede per tutti , e il più fciocco
parlerà forfè tanto e più ancora del più lenfato. Per la t^ual cofa la
favella do- vrà ognor trovarfi inedìcace o imperfetta per efprime-
re le cognizioni , dovendo eda eder tanto comune al dotto che più ne
podìede , che all’ indotto che ne pof- fiede meno , e dovendo
necedariamente adattarfi all’ intendimento non dei più, ma dei meno
intendenti , che fono a maggior numero fra quei che l’adoprano .
A quedo modo parlando più propriamente , fi direb- bero le lingue
idituite non a efprimere le cognizioni , ma a fufcitarle più o meno nelle
menti a norma dei ciafeuni intendimenti, giacché per le dede voci altri
le apprende più didinte e moltiplici, altri più limitate e confufe
. Perciocché per quanto il dotto tenti parteci- par le fue all’indotto,
ufando la deda di lui favella; quedi non le concepifee mai che in
relazione alle per lui apprefe dianzi , per gli ometti dedi da lui
com- binati diverfamente dall’altro. Per quedo di cento che odano un
rt^ionamento, o che leggano un libro def- fo, ciafeun fe ne idruifee a
norma della qualità delle cognizioni da lui podedute e apprefe dianzi , e
il dottO' K a puù Digitized by Google
^LXXVI ^ C^'p. XIV. può per un libro fciocco > rettificandolo e
migliorandolo per le Tue cognizioni, farìfipiì^ dotto, <|uando
l’indotto per un libro de’oiù Irafati, può divenir più sguajatodt
prima, o renderli per quella lettura più (Iucche vote e più Impertinente,
ma non già più dotto. Se ciò non fofle , ogni difcepolo al folo udire il
maedro, diverrebbe co- sì dotto che lui , e per divenir Capiente come il
Gali- leo dovrebbe badare il leggere le fue Opere, che par- lando
generalmente è tanto vero, quanto il pretende- re di partecipare alla fua
dottrina , per adìbiarri quel fuo certo collare che forfè fi conferva per
memoria di un tanto uomo, ma non per ridampar qued’uomoad ognun che
Io adìbj. III. Per altro qui cade a propofito di riflettere
al- quanto Alila diverlità delle cognizioni umane , e Alila
moltiplickà per ede e varietà, con cui procede natura nelle Aie
operazioni. Perciocché edcndo in prima le voci in ciafcuna lingua a così
gran numero , quanto è pur noto ; quedo numero moltiplica colla ferie de’
tempi infiniti e de' luoghi finiti, efomminidra una moltitudine innume-
rabile di lingue, in ciafcuna delle quali le voci lon all’ idedb modo
moltidtme . Contuttociò fe A confiderino le maniere, colie quali quede
voci prefe a numero mag- giore e minore fogliono combinard e permutarA
in una favella, A conofcerà, tali combinazioni e permute collocate
pur con fenfo e difcemimento , edere a nu- mero incomparabilmente
fuperiore a quello delle voci in eda , ed eder in tutte le lingue a tanto
più anco- ra , quanto imfwrti quedo gran numero di pennute e ' ' di
combinazioni in una lingua , moltiplicato nel nu- mero delle lingue di
tutti i luoghi e di tutti i tempi - Padando poi dalle voci e combinazioni
loro, agli og- getti ocmbinati per ede efpredt , e alle maniere di
co- gnizioni che ne derivano ; A conofcerà , la moltitudi- ne di
tutto quedo edere incomparabilmente ancor fu- periore a quella delie
combinazioni di voci , e tanto- Aiperiore in ciafcuna lingua, quanto per
ciafcuna com- Digitized by Google LXXVII ?§-
binazione di voci in efla ciafcun apprende e combi- c AP. XIV. na
gli oggetti fiedì difl'erentemente , e ne forma di- verfe le cognizioni,
proferendole iftelTamente . Tanto- pià poi fuperiore in tutte le lingue,
quanto quel nu- mero di cognizioni diverfe in ciafcuno di diverfa
lin- gua , moltiplicato pure nel numero delle lingue tutte diverfe
palTate , prefenti , e future . Quello poi che re- ca maggior forprefa
egli è , che tutta quella prima pro- digiofa quantità di voci e
combinazioni loro , non de- riva da più , che da venti elementi o lettere
d’ alfabe- to, più o meno pronunziate in ogni lingua . E che queda
feconda tanto più prodigiofa e incredibile quan- tità di apprenfloni e di
combinazioni d’oggetti , e di cognizioni su e(Tì, non deriva che da
alcune leggi di moto quanto più femplici e vere, tanto più uniche e
fole , giacché tutte le apprenfioni e cognizioni uma- ne , per quanto
fiano individualmente diverfe in cia- fcuno , pur fono in tutti confimili
(a). Tutta poi («) C. II. mi.. codeda varietà e fbmiglianza di cofe è unita
e con- catenata infìeme , e procede e fi confegue con certo- ordine
e ragione eterna e immutabile, lenza la quale {^un comprende nulla poter
avvenire , e a comprendere la quale ognun conofce in sè dedb, poter
edenderfi ben per poco la umana capacità, colla fcorta di fenfi
infermi- e fallaci. Niente di meno in quedo dedo natura non manca ,
giacché dal minimo faggio che di ciò fi tra- fpira, può altresì ognuno
arguire, quanta e quale fia- la pofTanza e la fapienza del fupremo autore
di tutto quedo , e quanto ammirando l’ordine e il raagidero „ con
ch’ei governa e regola l’univerfo. U NA affai curiofa confeguenza
che dalle cofe Aid- CAP. XV. dette fi viene a dedurre è queda , che
l’ imper- ImMrfezione lezione accennata delle lingue, per cui le voci
riefcono dell» favella a numero molto minore di quello degli oggetti per
dell effe efpredi ( é ) , par che torni non già a diffctto
co- me fi. crederebbe a prima vida , ma a perfezione ed ' ' ’ ’ ”'**■ elc- Digitized 'è-, LXXVIII ^ C A P. ^ v'. eleganza di quelle maggiore, in quanto non avendovi cosi nefTune voci talmente proprie e
attaccate adalcu* ni oggetti, che non poiTano
applicarfì anco ad altri ; gli oggetti tiefli polTono efprimerri , o
dedarfene le im- magini negl’ intelletti, non folo per voci dirette,
ma per fHÙ altre ancora indirette chiamate traslate come
(a)CJCIF.n.ì. s’è veduto (<»), d’t^getti a quelli analoghi e confi-
mili. A quello modo lebbene manchino nelle lingue le voci dell’ ultima
precisone alle immagini degli og- getti determinate , foprabbondano per
le indetermina- te, e in mancanza e neU’impofTibiltà di adoperare
per ciafeuna immagine ciafeuna voce diverfa, le ne ado- prano non
una , ma più e più altre d’ oggetti a quel- k affini e confimili , per le
quali non una , ma più immagini fìmilmente occorrono all’ intelletto pur
fra sè confimili e combinabili, ciò che Tuoi avvenire con molto
diletto e foddisfazione dell’ intelletto medefimo. Cosi appellandofi DIO
ottimo e grandiffimo, non folo per quello venerando più proprio fuo nome
, ma per altri ancora traslati di via, di verità, di vita e fimi-
li, fi dellan nell’ animo tutte le immagini proprie e bro affini ,
polTibili più o meno a dellarfi per quelle ciafeune voci, a mifura
dell’attività dell’animo Udrò, onde figurar alla mente con più efficacia
e grandezza r idea di quella ineUàbile elTenza . E generalmente
laddove fe ciafeuna voce propria corrifpondellè efatta- mente a ciafeuna
immagine a efclufione di tutt’ altre voci , da dieci voci proprie per
efempio , non fi de- Uerebber nell’ animo che altrettante - immagini
combi- nabili in alcuni modi; corrifpondendo quelle nonefat-
tamente e non a efclufione di altre , vi fi dellan per dieci voci proprie
e più altre traslate, pur altrettan- te immagini combinabili in
nioltifiime più altre ma- niere . II. Su quella condizion
delle lingue , o fu quello difetto in effe di vocaboli per efprimer gli
oggetti, è pollo tutto i! pregio deli’ eloquenza, e da ciò deriva-
no Digitized by Googli' •a LXXIX ^ •no
tutte le perfezioni e tutti gl’ incantcTimi dell’ arte c AP. XV. oratoria
, e più della poetica; vaie a dire non folo i traslati , ma le allegorie
ancora > le allulioni , le para- bole, le (imiiitudini, le analogie,
le efagerazioni , il palTaggio dal proprio al metaforico , dal ferio al
gio- <cofo, dall’ animato all’inanimato , e fimili ornamenti che
fan la grazia, la forza, e la bellezza eh’ è invero delle immagini dedate
e .combinate nell’ intelletto, ma che in eflb non fi dellerebbero e
combinerebbero, fei termini nelle lingue coi quali efprimer gli ometti,
fof- fer tanti quanti eflì . Perciocché dall’ dfer folo quelli a
molto meno, ne avviene che non fiano quelli cosi propr) di alcuni oggetti
, che non polTanu eziandio trasferirfi ad altri, per li quali con numero
d’ imma- gini maggiore, certe verità intefe afignificarfi, fi rap-
prefentino all’ intelletto con più di vivacità e di va* ghezza . Egli è
ben vero che affinché ciò riefea felice- mente è d' uopo, che tali
traslati feguano con certa fcelta e giudicio, fenza di che tutti gli
ornamenti ret- torici e poetici non avrebbero fenfo; e non
confiden- do edéttivamente l’ infenfatezza che nella combinazio- ne
d’oggetti fatta fenza dilcernimento (<;), fe le voci («)C.7. ». a,
proprie fofler applicate ad oggetti trasìati pure fenza difeernimento ed
a cafo , non potrebbe quindi deriva- re che ofeurità e confufìone .
Laonde i traslati nelle lingue per quanto pur fian difparati, debbono
ferbare certa conneffione e mifura , per la quale fian conofeiu- ti
fimili e relativi agli oggetti lor propr), fenza di che chi fi credefle
il più l'ublime nell'eloquenza, potrebbe edere il più proffimo alla
fatuità , e dalle immajgini più ardite e più ingegnofe di Pindaro , lì
potrebbe Kor- rere con breve pafso alle più infenfate aisurdicà d’
un vifionario. Quefta .condizione non è della fola rettori- ca e
poetica, ma di tutte le bell’ arti ancor cosi det- te, e di tuue le opere
di entufiafmo , nelle quali il più fublime delirio confiru
infcnlìbilmente col più Ura- no ridicolo , e il pittore e il mufico più
eccellente Digitized J?y Google LXXX ^
CAP. XV. neirarte fua, con un pafso più oltre trafcende il giu-
dicio, e diventa una Aia caricatura di piazza , nella quale pur
procedendo per gradi , può toccarfi l’eftre* mo, fino all’efser condotto
allo fjpedale qual pazzo di* chiarato . Ch’ è la ragione , per cui
comunemente an- cor fu odervato , ogni pazzo tener un non fo che di
poeta, di mufico o di pittore, fìccome ciafeun dique- Ai, tener talvolta
in lor virtù qualche irregolarità, che li denota prodimi alla pazzia
. HI. Per altro quedo diletto che così apporta la fa- vella,
col trafportar l’intelletto dal projprio al figurato degli oggetti , fa
conofeere che l’ imperfezione e la in- <d} C. XIV. capacità conofeiura
in efsa difopra («) , per partecipa- ». 1. 2. re altrui le proprie
cognizioni, dee edere intefa in ri- guardo principalmente alle reali ,
per le quali reda la mente idrutta, e non già in riguardo alle apparenti
, (l>) C.XII.n.3. per le quali fuol eda dilettare {b). E in vero i
trasla- ti , le analogie , e gli altri ornamenti rettorici fuddet-
ti, convengono molto bene alle cognizioni di quedo fecondo genere, per
eder ede note comunemente, on- de giovar rapprel'entarlc altrui con
pluralità d’ imma- gini , che imprimendole nelle menti con più di
no- vità , producano quel diletto . Laddove per efprimere le
cognizioni del primo genere più afeofe e men co- nolciute, ognun vede
edere necedario valerfi di termi- ni più propr) e precifi per quanto è
podibile , e che r uiare i traslati non farebbe che od'ufcar quelle
co- gnizioni maggiormente , e renderle a chi n’ è privo più ofeure
ancora ed ignote. Ed è vero che per que- do fecondo edètto, le voci
proprie mancano bene fpeA fo , quando per quel primo le traslate non
mancati giammai . A quedo modo parlando più propriamente ,
{e)C.XIV.n,2. « didinguendo la favella dall’eloquenza, fi dirà (c) , che
ficcome quella è imperfetta, cosi queda è nociva finché fi tratti di
verità reali , o d’ idruir altri di quel che non fanno. Ma che
trattandofi di fole veri- tà fupcrficiali e apparenti, conofeiute
comunque da tut- ti» Digitized by Google
LXXXI tl, quella favella dovelTe eflere un’ arte non folo ini- c A
P. XV. perfetta , ma ancora nojofa , quando non fofle foccorfa
dall’eloquenza, la quale con rinovar alle menti quelle verità coli
qualche varietà d’immagini, riefcille così a dilettarle per elle • Quella
attività maggiore della fa- vella per le cognizioni fuperficiali più
conofciute , che per le reali men conofciute, perchè aHìdita dall’
elo- quenza, fa che lepcrfone più applicate alle verità reali lian
parche di parole ne’ familiari difcorfi, che d’or- dinario non fon che
ferie confecutive d’immagini co- nofciute , e rapprefentate altrui colla
favella fenza efame , e fenza conneflìone dimodrativa per effe ; al
contrario delle perfone contente della • cognizione più volgar delle
cofe, le quali fon copiofiffìme di parole, e parlan rapidamente di tutto
. Le donne in partico- lare, men atte per la delicatezza e debolezza de’
loro organi a penetrar nelle verità men comuni , fe non fon frenate
dalla modeffia, che di quella debolezza è il compenfo più caro e gradito,
favellan delie più co- muni con più diff'ufìone eprontezza degli uomini,
più robuffi di tempera, e più (ermi dipenfamento. Vero è che per
quello lleffo parlando generalmente, i menri- llelHvi c più loquaci
dilettan più quando illruiì'con meno, a differenza de’ più taciturni
eritìeffìvi, chedi- Jettan meno quando più illruifcono . £ che i gran
par- latori di verità apparenti, lafciano per lo più i loro uditori
muti e llorditi , quando i parchi dicitori di ve- rità reali , lafciano i
loro più fereni di mente , e mi- gliori ragionatori di prima .
IV. Per comprovare che l’eloquenza nella favella fia intefa non già
a illruire , ma a fol dilettare , gioverà ancora avvertire, che una delle
condizioni principali, per le quali piùeffa rifalta , è quella
dell’accento, del numero, della inflellìone tenue o piena, grave o
dol- ce , affrettata o fofpefa nelle voci , per le quali fi porti
effa all’ udito , cofa più efpreiramente praticata nella poefia , ma che
fi llende a ogni genere di eloquenza, L per Digitized
by Google CAP. XV. CAP.xvr.
Eloquenza come nociva allecognizio. ni reali.
(s)C.XF.n.i. LXXXII ^5- per cui il periodo giunga air
udito piùfonoro, quali a guifa di canto. Tutto quello certamente non è
diret- to che a dilettar l’udito, percuotendolo con vibrazio- ni
d’aria pìd regolari; e perchè le l'enfazioni della fa- vella qualunque
fieno, dall’ organo dell’ udito paUàno all’intelletto; quindi è che
quello Hello per quelle fen- fazioni a lui tramandate, nerella dilettato
al modo me- delimo, prefeindendo da cognizioni di qualunque gene-
re , e non rellando cosi più illrutto delle cole , di quel che ne redi
l’orecchio materiale. Ognun vede quanto per quello capo rellino
pregiudicate le umane cognizio- ni, per Tabulo allora così evidente della
favella , la qual dellinata a illruire, o a pur dilettare T
intelletto colle cognizioni reali, o almeno apparenti delle cofe,
s* arrclla all’ udito per follcticarlo con percuflìoni più ro- do
grate che ingrate, e non tramanda alT intelletto che il diletto elimero
che da tal folletico ne deriva; quali deludendolo con prefentargli per
cognizioni quelle , che per veritù non fon tali. Certo è che T armonia
mu- (leale, dipendente da confonanze di fuoni uditi, è di- verl'a
dalla intellettuale , dipendente da confonanze d’ oggetti e di cofe
intefe , perciocché podbno efprimerfi con verfi canori i più alti
drambezzi , ficcome podb- no efprimerfi con afpro fuono di voci le verità
più reali , non che le apparenti ; ed io conofeo un gran fi- lolbfo
che canta aliai male , come ò conofeiuto un celebre violinilla , che
ragionava molto male del fuo violino. P oiché come s’è veduto
(a), le cognizioni reali ed interne non elìgono eloquenza , ed è queda ferba-
ta per le apparenti cd ederne, chiara cofa è che il più che prevarrà
nelle nazioni e nello fpirito del fecolo T eloquenza , il più prevarranno
quelle cognizioni , pre- valendo men quelle. Perciocché per quanto
l’intellet- to umano fia capace ed attivo , e forpadì per cogni- zioni
Tua l’altro, eiTcndo non per tanto eì Tempre li- mita-
Digitized by Google LXXXTII ^ mitato e finito, non
potrà quell’ attività niedefima pii c AP. XVI. adoprarfi falle cognizioni
più trafcurate a tutti comu- ni eh’ efigono eloquenza , fenza flenderfi
meno Tulle rifervate a pochi che non la efigono, attenuandofi cosi
in tutti le cognizioni reali, quanto più lo fiudio dell’ eloquenza , che
non può occuparfi che Tulle apparenti , farà coltivato ed efiefo . Si Ta
che chi inclina al di- letto più comune, sfugge l’iftruzion men comune ,
e viceverfa fimilmente; e per regola generale ^ gli appli- cati
all’ une e all’ altre cognizioni , tanto più riefeono in ciafeune, quanto
men fi (iendono ad altre, e ognun che fi flenda a più generi di
cognizioni , riefee in cia- feuno più leggiero e più fuperficiale . L’
elTer poi gli uomini in generale, non fol più inclinati a cognizio-
ni apparenti perchè più facili, che a reali perchè più difficili, ma dcfiderofi
eziandio di renderfi per cogni- zioni accetti a maggior numero d’ altri ,
fa che incli- nino altresì facilmente allo fiudio dell’eloquenza,
pro- prio di quelle , e non di quelle cognizioni > Onci’ è che
fcbbtne le lingue fian dellinate a iflruire e a di- lettare (a), lo
fiudio e l’ufo più frequente d’ efle fia in riguardo più a quello fecondo
, che a quel primo ufficio, affine d’elT'er uno cosi per efle intelò ,
appro- vato e applaudito da maggior numero di perfone , rellando
intanto per la molta eloquenza più riputate ed eltcfe le cognizioni
apparenti,, e le reali più trafcu- rate e neglette .. II. Qui
cade a propofito di oflervare, che fe le co- gnizioni fra gli uomini
fembrano a’ nollri giorni più avanzate che ad altri , e fi reputan eflì
p«ù illuminati e più. iflrutti delle cofe di quel che foflero i loro
an- tenati , ciò non potrebbe accordarft che in riguardo alle
cognizioni apparenti , giacché una fimite riputa- zione ridonda inelTì
dalla facilità maggiore , colla qual fi ragiona da tutti d’arti e di
feienze , e dalia molti- plicità de’ libri che feorrono dappertutto fu
ogni gene- re di cognizione , tanto più comuni a tutti , quanto>
L z più. Digitized by Google ^ LXXXIV
CAP. XVI. più adorni de’ pregi dell' eloquenza. Quefto giudicar
però le cognizioni più avanzate , perchè più comuni e perchè più facili ,
indica abbalianza eflb fteflb , non poter tali cognizioni elTer dunque
che le apparenti , che in effetto fon tali ; laddove le reali , per la
diffi- cile aerazione daifenfi, eia infiftenza maggiore richic- fta
nell’ acquiftarle , non è poffibile che lian facili o fian comuni {a). Il
pretender poi per iftudio d’ elo- cuzione o per meccanifmo di parole, di
render facile e comune ciò che per sò è difficile e non comune, o
d’ inclinar gli uomini generalmente più alla fatica di apprendere il reai
delle cofe, che al diletto di tratte- nerfi full’ apparente , farà fempre
difperato configlio , ad onta di quanti Dizionari , Giornali , Compendi
o altri repertori poffan formarfi di cognizioni qualunque fieno, e
che fembrino facilitarle . Di ciò par che con- vengano gli fieffi autori
de’ libri letti il più comune- mente, quando dichiarano di fcriverli per
dilettare , divertire, eamufe(ire^ come direbbero, tutto il mondo,
di maniera ch’ei lembri , che ognun di quelli dovefle quafi recarfi a
vile, di fcrivere per iftruir feriamente lol pochi, nelle verità reali ed
interne. Con ciò fi di- rebbe , che tanta follecitudine fra noi di
applicar tut- ti a tutte le cofe non folle intefa , che a meglio
elu- derfi gli uni gli altri per apparenze , e che dovendo le
verità reali rimaner tanto addietro , quanto le ap- (,b)CJCVI.n.t.
parenti procedeffero innanzi ( 4 ) ; per effer dunque quello fecolo d’
ogni altro il più adorno per cogni- zioni apparenti , doveffe trovarli (
fia detto per mo- dellia ), il più fcempiato d’ogni altro per
cognizioni reali . III. Comunque fiafi , nelTun negherà che
llante la ►
inclinazione comune al diletto , non potendo le verità {c)CJCILn.z, reali eller comuni (c), lo lludio dell’ eloquenza,
col render le apparenti più diffufe e più riputate , noti efcluda
maggiormente di infra gli uomini le reali, e che ogni eloquenza così
adoprata per diffonder le verità in gcne- Digitized by
Google LXXXV ^5- genere , lungi dall’ ottenere di
ftender la più reale , c A P. xVT non ottenga al contrario di llenderla
meno , per non adoprarfì quella che l'ulla verità apparente più
comu- ne , a elclulione della men comune e reale , che non elige
eloquenza (a). Lafcio conliderare, fe fia perciò (a'ìC.XVI.v.i. che folle
creduto, le verità più venerabili e più arca- ne di religione, la cui
cognizione reale può certamen- te tanto meno clièr comune al popolo,
doverli ad elio annunciare con lingua a lui ignota , e da lui più
ri- fpettata che intela . Certo è, le religioni ancora più
materiali antiche , eirerli cipolle al popolo fra le nazio- ni riputate
più laggie con liinboli, hgure ed emble- mi , c non mai con elprelfioni
verbali ; per elFerlì 'ognor giudicate le verità d’clfe qualiunque
follerò , tan- to più venerande, quanto più ineH'abili, e non con
vo- ci eiprimibili . Ma parlando pure di verità femplici naturali ,
che 1’ eloquenza col lublimar le apparenti tenda ad allontanar le reali ,
lì troverà verificato trop- po ancora per pratica ; e chi poflìede l’arte
d’inten- dere , non potrà certamente a meno di non farli un tri-
llo Ipettacolo , diveder come alcuni polFedendo eminen- temente l’arte
del dire, riconvochino IpelTo intorno gran turbe di popolo nobile e
ignobile , e prevalendofi del- . . la comun debolezza bro e
pigrizia per le cognizioni reali, li traggan l'eco perle più fuperfìciali
e apparen- ti, non lapciido elfi Itelli ove abbian a riulcire .
Per- ciocché l'oratore, adulatore fempre e lulìnghiero, rap-
prelentando almo uditore credulo fempre e vano l’ap- parente, come le
folle indubitatamente reale, lo confer- ma bensì nel vero quando ei lìa
tale, ciò che avvien rare volte, ma Io conferma altresì e indura nel
falfo ? quand’ei noi lìa, il che avviene più fpelfo, fenzache
né lui, nè la ciurma de’ Tuoi uditori aguifa di pecore, fappiano lo
perchè, o lo come. IV. Per altro quel che s’è detto finora delle
cogni- zioni apparenti , non fia già creduto clferfi detto pec
difanimarle, o avvilirle del tutto . Ma fi creda detto fol-
Digitized by Google ^ LXXXVI ^ CAP.
xvi,'^o*t3nto per avvertire, di noa prender in effe per rea- le quel che
folle folo apparente, e perchè non s’attri* bulica tanto a quello eh’
elìge eloquenza , quanto a la* feiar del tutto da banda quella che non la
elìge. Dall' altra parte egli è poi vero , che non potendo le
co> gnizioni reali effer comuni, giova che per occupazio- ne
almeno, per commercio di vita , e per diletto ap- punto comune , tali
fian le apparenti , pur che ciò av- venga in modo , che non s’ oppongano
alle reali , ma che dipendano Tempre quelle da quelle . £ in vero quel
che s’ è detto de’ collumi , ch’cffendo diverli poHono non- dimeno
aver luogo lenza implicanza, ed effer utili a tutti purché non fiano
centrar) (a); Io Hello dee ap- plicarft alle cognizioni umane , che
eilendo apparenti poflono illeffamente non effer implicanti, nel
qualcafo . non fono alle reali contrarie , ma fi concilian con ef-
(é)C.A//jf. 3 . e fupplifcono a quelle (é). 11 diltinguer poi quan- do r
apparente difeordi , e quando concordi col reale in genere di cognizioni
, dipende dalle cognizioni ap- punto reali, o apprefe per fe medefime e
per teoria , allraendo da illufioni di fenfi ; cofa che non può ap-
partenere al comune degli uomini incapace di tali allra- zioni , e Iblito
verificar le fue cognizioni per fola pra- tica confecutiva de’ fatti ,
bene fpeffo ingannevole ; ma dee appartenere a pochi fra tutti piò faggi
, e più il- luminati degli altri. Quelli s’è già avvertito dover
ef- fer quelli che agli altri prelìeduno, fia colla perfuafio- ne
della Religione , fia colla forza del Principato ( 0 C.A///.b, 4 ._( f j dellinati
perciò all’ ufficio di giudicare quali fra tutte le verità apparenti, per
le quali fi conducon gli ailàri comuni , concordino colle verità reali ,
e quali da effe difeordino , o fiano a quelle contrarie.. £ ve-
ramente che un fimil giudicio o una fimile cogni- zione abbia ad
appartenere , e poffa convenire del pari , non folo al nobile e al
manovale, o al citta- dino e al rifuggiate , ma al chierico ancora che
iflrui- £ce, e al cialtrone che dee effere iflruito , o al Ma-
giflra- Digitized by Googic ^ LXXXVII ^
ciftrato che comanda , e al fuddito che dee obbedirlo , C A X VL ó
quella un’ aperta impitcanza , malTime quando già tutti convengono,
chegli uomini generalmente fon più fpenfierati che riflelTivi , e che le
cognizioni reali fon riferbate ai foli più rifleinvi . V. Ora
piacemi ancora olfervare , che quell’ clTer le cognizioni reali note per
sè ftelTe a fol pochi , e que- llo dover perciò tutti rcllar a quei pochi
fubordinati, non fa torto ad alcuno, e non è che per quello flana-
tura cogli uomini parziale od ingiuHa. Imperciocché non è già elTa, che
concedendo le cognizioni reali ad alcuni , le ricufì a tutti gli altri ;
ma fon gli uomini flein, che inclinando più al facile che al dilhcile ,
lì lafcian condurre da illufìoni de’fenfi a proprio favore, anziché
da rifledione , per cui conofcere fe le cognizio- ni che quindi loro
derivano , fiano reali , adraendo an- cora dai fenfi . E quella
fubordinazione non fi rende neceflaria, che per fecondare codeda loro inclinazione
più geniale al facile, e per follevarli da quella più dif- ficile
riflelfione . Sol che gli uomini tutti s’ accordino d’elfere riHclfivi,
ogni fubordinazione ceflerebbe fra lo- ro, tutti fi governerebbero da sè
per cognizioni reali ( /j ) , nè v’ avrebbe d’ uopo di chi li govcrnafle
per quelle. Ma efl'endo quello impolfibile, per la propen- l'ione
comune più aldiletto delle cognizioni apparenti, che all’ illruzione
delle reali , come s’ é replicato più volte; e dovendo pur eglino governarfi
per cognizioni reali , quando voglian fulTillere infieme ; egli è
dunque forza che alcuni almeno fra edì aduman le veci di tutti, o
fupplifcano al loro dilètto, prefìedendo al go- verno degli altri, con
quella verità reale, che altri ri- cufan di darfi la pena di didinguere e
d’ invedigar per sé dedì. Vero é però, che perla propcnfione llef-
fa invincibile e comune all’apparente e al facile, quel- la verità
mcdellma non può poi produrli al popolo da chi governa che per
l’apparente , ciò che può avve- nire lènza implicanza, per edere ogni
apparente alrea- Digitized by Google CAP. XVI.
{a)C.XU.n,i. CAP.XVII. Dell' elo- quenza
fulle cognizioni apparenti . (0 C.XKn.^.
-5^ LXXXVIII ^ le conforme, quando non fia a quello contrario (a)
: Dimanierachè il fiflema d’ ogni nazione fia quello , che le
verità reali fi propongano per le apparenti non a quelle contrarie, e per
tali conofciute e difiinte da un governo, procedendo così tutti gli
affari per ap- parenze, con ficurtà di non opporfi per quefìe al
rcal delle cole, mercè l’intelligenza fuperiore di chi a tut- ti
prefiede. Se in un fimil governo la perfuafione eia forza faran libere e
indipendenti , il governo farà giu- fio e fenfato, e la nazione libera e
tranquilla ( giac- che quelle due facoltà nella condizione umana
debbon pure dilìinguerfi ( A ) , e o bene o male fi difìinguono
dappertutto ). Se faran le due facoltà confufe in una, o una minilira e
non compagna dell’altra, farà il go- verno fimulato e difpotico , e la
nazione inquieta ed opprelfa. Il tutto non per difetto di natura, ma
de- gli uomini e de’ governi fleffi in particolare, che anzi eh’
effer liberi e tranquilli , amaffero elfer opprcflì e agitati. Sempre
però Ila, che la fubordinazione a un governo fia per fc flcffa non un
dilòrdine , ma un ordine anzi faggio e ammirando , per cui 1’ umana
fiacchezza fi alìolve dall’ applicare a quelle verità rea- li , che
fofier per eflà faticofe ad apprenderli , e fi con- cede ad ognuno di
abbandnnarfi ancora alle apparen- ze e al diletto Hello de’ lenii ,
purché ciò fia in con- formità alle regole, calle leggi llabilite e
preferitteda un governo , che per la fuperiorità de' fuoi lumi , e
per fenno e fapienza fia più illrutto degli altri, nel difeerner quale
apparente fia al reale conforme, e qua- le fia ad elio contrario.
C Olfellerli dichiarato di fopra, di dover l’eloquen- za verfare
fulle cognizioni più comuni (c), non s’è perciò intefo di degradarla in
modo, che abbiano gli oratori, e i poeti a confonderli per fapere
colvol- gar della plebe . All’ incontro fi sa , dover efli mol- to
bene dilìinguerfi per cognizioni dal volgo, e laco- / pia
Digitized by Google LXXXIX ^ pii di cognizioni , e lo
ftudio degli oggetti su i quali ftenderfi la loro eloquenza, dover
precedere l'eloquen- za medefìma, fenza di che non farebbe poflibile
dilet- tare per ella, e non favellando l’oratore al fuo udito- re
che di ciotole e di pianelle , anziché diletto , non potrebbe recargli
che noja e faftidio . L’oratore dun- que dee più del fuo uditore elTere
iihutto e ricco di cognizioni, per ornarle pofcia coi fregi dell’arte fua
, e fì; li dice tali cognizioni dover efler comuni , ciò non può
verifìcarlì che in quanto abbian elle ad elTe- re delle più apparenti, e
delle più facili a concepirli da Mnuno . Ciò conviene con quanto s’ è
avvertito pur mpra ( ) , di ftar la giuHa cognizion delle cofe in
certo punto di mezzo, innanzi e oltre al quale fìa vano il cercarla ,
come che quinci e quindi ha polla r ignoranza di elTa ; col folo divario d’
efler dalf una parte la ignobile , propria degl’ idioti e del popolo
più rozzo {b) i e dall’ altra la ignoranza nobile , propria delle
perfone più colte . A quello modo fi dirà , l’ora- tore e ri poeta rare
volte comunicar di cognizioni e d’immagini col popolo più ignobile al di
qua di quel punto , e folo trattenerli quivi con quello ne’
foggettì più comici, burlefchi, o latirici; e qualor s’alzi col- la
tromba più fonora a celebrar eroi, o a trattar argo- menti gravi e
fublimi , allor fi dirà lui trafcender quel punto , e confarfi col
p<^lo più nobile e più ri- S utato . Ma intanto fempre Ila , che
al giullo punto i mezzo, al quale s’arrellano le cognizioni reali ,
ei rare volte o non mai fi foflèrrni , per^ l’ inutilità dell’ arte
fua qualor lì tratti di verità reali , fuperiori a or- namenti rettorici
e poetici , atti più tollo a ofcurarle (c) , quando fulle fuperliciali e
apparenti quell’arte fa di sé prova e pompa maggiore. II.
L’ufo delle efagerazioni , de? traslati , delle alle- gorie, e rimili
figure proprie della fola oratoria e poe- tica, fan conofeere tutto
quello, e come tali articoli’ amplificare o ellenuaie gli <^etti , fi
trattengano fot- M to CAP. xvn.
(é)C.XJh.z. Digitized by Google
xc CAP. XVII. to quel punto o lo formontino ; mentre
quantunque le c(^nizioni Tulle quali verfano, ogii argomenti de’
quali trattano, fiano agli uditori men noti; pure per efler quelle
cognizioni fuperficiali e apparenti , e in conleguenza facili ad
apprenderfi dall’ uno e dall’ altro popolo , polTono da quello elTer
apprefe nell’ atto lief- lo di ellerne ei dilettato . Con ciò fi direbbe
, che il partito degli oratori e de’ poeti in ordine al vero , fof-
fe quello dei difperati , i quali diffidando di sè fteffi per aflegnarlo
al giullo Tuo punto, fcegliellero più to* Ito di raggirarvifi intorno
inocrtamente , e di quafi con- troillruire per più dilettare con varietà
d’ immagini facili , ma tirane e TpetTo implicanti , nell’
incapacità conofciuta d’ iltruire colle piu difficili c più veraci
. Quindi ebber luogo quei tanti poemi su paffioni ed azioni oltre
il credibile. Le donne, i cavalier, F ar~ mi , gli amori, e quei tanti
ftrambezzi fugli eroi là* volofi e Tuli’ antica mitologia , i quali
dilettan molto più di quei che verfano su argomenti filofolici e
mo* rali , Alila vera religione , e su azioni deferitte quai fon
accadute precifamente, che non diletterebbero più di un procelfo civile o
criminale, cfpolio a un auditor di rota . E ciò fol perchè in quel cafo
può la mente fvagare dappertutto a Tuo talento, quando in quello
elTa è allretta a hllarfi ad un punto , e a Aarvi con- fìtta come ad un
chiodo ; elfendo d’altronde imponi- bile di fupplire ad un tempo llelTo a
due oggetti , dì dilettare e d’ iAruire precifamente , o fupplendofi
al- men meglio ad un folo di quelli oggetti , che infieme
(fl)C«yf7.».i.ad entrambi (a ). Per quello ftelTo le
rapprefentazio- ni maffime teatrali, tantopiùfogliono dilettare,
quan- to più dal vero, o dal verifìmile ancor di natura , tra-
feendono all’ implicante od al falfo dell’ immaginario, brillando Tempre
il diletto a fpefe dell’ iAruzione mi- gliore; tanto è quello comunemente
diverloda queAa, e tanto 1’ eloquenza e 1’ altre arti analoghe ad elfa
, c compagne del diletto più comune, sfuggono l’iAru-
zion Digitized by Googic XCI xion
più feverj c meno comune. Chi trova indecente cAP. XVII. che Temiftode
canti andando a morte, non bada che a queda Uhuzione, che non trafcende
il vero ed èbeti di pochi ; ma fol ch’ei badi a quel diletto , che
tra* Icende il vero ed è di molciffimi , troverà quel can- to
adattato all’azione, e piagnerà ad eflb , purché fia preparato a dovere
(<») , e accompagnato da quel de- («)C.Arr.».r. bile che richiede
l’azione medefima. ^ III. Ma infomma generalmente, chi riprende i
poe- ti per la futilità degli argomenti , ai quali d’ordinario e’
s’appigliano , e per la fallacia delle cognizióni che inOnuan per edi,
non bada a quedo, d’eifere il hne Principal loro quello di dilettare e
non d’idruire, e di dilettare non i più dotti , ma il comune del
popolo che non è dotto (fr)', e che parlando generalmente,
{.b)C.XVI.n.i ceflTan eglino di dilettare , todochè prendono a
idrui- re . Le allufioni certamente , le immagini , i traslatì
fuddetti , proprj e neceflarj dell’ arte loro , occorrono alla mente a
numero incomparabilmente maggiore per le cognizioni più facili al volgo
note , che per l’efat* te e didicili riferbate ai più dotti , per le
quali non è così agevole padare dal proprio e precifo al metafori-
co e figurato . Cosi la Luna per efèmpio , concepita per le immagini più
facili che ne dànno le antiche fa- vole, non che col nafoecolla bocca
Come fugli alma- nacchi, dà motivo a mille allufioni e figure, che
non darebbe apprefa per lo reale de’ fuoi monti , edellefue ombre
nel fidema planetario ; e finché il popolo la concepirà più facilmente al
primo che al fecondo mo- do, il poeta canterà, e avrà ragion di cantare
con più dolcezza del nafo della Luna, che de' fuoi monti. Gli occhi
ideflamentc , cofa la più conofeiuta e più tri- viale , apprefi per le
cognizioni di effi più volgari e comuni, fomminidrano alla mente mille
immagini, ond’ effer chiamati luci leggiadre , vezzofi rai ,
fiammell» vivaci , lucide delle , pupille ferene , drali omicidi ,
faci gemelle , adii d’ amore , che non fomminidre- M 1 rebbe-
Digitized by Google "3^ X c II CAP.
XVII. rebbcro apprefi per l’ irruzione d’ effi più efatta , o per le
dottrine ottiche e anatomiche migliori , ma men conofciute. Anzi
s’olfervi di più, come da ciò proce- de, che l’oratoria, la poetica, e l’
altre arti dilettevo- li non foffron nemmeno regole iflruttive , per
eflcr tai regole ellratte dalla ragione più elàtta per cui ap-
punto s’iftruHca , quando quell’ arti per illituto prin- cipale , debbono
traCcender quello reale , per dilettare («ICJl^'il.n.i.coll’apparente
{a). Quindi avvien bene rpelTo che un’ orazione , un poema , un’ azione
teatrale dettata fe- condo tutti i precetti che ne dànno Longino ,
Arido- tele, Orazio, o Gravina, dilTecca nondimeno l’anima, e fa
sbadigliare, quando un’altea fenza quelle regole , ma ornata più di drane
apparenze , attrae tutto il po- polo fìa noÙie o ignobile , il quale
feguace del diletto , fchiva ogni idruzione per eflo, e prevenuto anzi
per lo mirabile falfo e apparente , che per lo vero naturale e
verifimile ancora , non intende precetti , per cui fìa qnello confinato e
ridretto ; giudicando di quel che ode e vede , per le ragioni
fuperficiali pur vedute ed udite , e non per le interne che non vede , e
che non potrebbe vedere che prefeindendo dai fenfì , di che il
popolo ( e il fod'ra Aridotele ) , non farà mai capace (h)CJCll.n.i. {à
). IV. Quedo preferirfì poi per l’oratoria fempre l’ap-
parente al reale , non può negarfì che non torni in abufo , il quale però
faria tollerabile finch’ei fi re- ftrignede al divertimento appunto
teatrale , e all’ozio delle corti e delle accademie , fenza perciò
opporli al U)CJOI.n,j. medefìmo, com’è pur podibile (r). Ma il
fatto è , che bene fpeflb ei li dende ancor filila condotta degli
affari più fer), ne’ quai l’ eloquenza col folfermar- fì più full’
apparente , fa più perder di vida il reale di edi , con altrui dainno e
feiagura ; come apparifee ki pratica per più (inceri uomini e
dabbene , fopradàt- ti e delufì ne’ loro intereffì da chi per fola
facondia , e per artificio di ragionare vai più di loro . E il
peggio è an- Digitized by Google
-5^ xeni ^ è ancora, che dagli affari particolari, l’ abufo
medefimo s’ inoltra facilmente ai comuni cosi detti di governo ,
ne’ quali per l’adulazione, la lufinga , e la fimulazio- ne che più o
meno indifpenfabilmente v’ àn luogo (i*) , l’arte del dire è ancor più
accetta che altrove . C^d’è , che Aiblimando quella più le verità
apparen- ti , mette più a rifehio d’ allontanarfi e d’obbliar le
rnli . Su quelle conliderazioni farebbe a riflettere , fe giovi a’ di
nollri tanto animare e apprezzar l’eloquen- za su i tribunali e nei fori
, o fe anzi oltre al dovere non fi trovi effa incoraggita e apprezzata.
Certo è, che febbene gli affari comuni abbiano a condurfi per co-
gnizioni apparenti ; nientedimeno ciò dee feguire fen- za fcollarfi dalle
reali ( é ) , come s’ è ridetto più voi-’ te, e ciò per imitar per quanto
è poflìbile la natu- ra , che falciando difputar gli uomini ,
accarezzarfi e idolatrarfi fra loro , regola il tutto per lo reale
fenza profferir mai parola . Se poi chi pretendeffe governar altri
fenza render ragione del fuo governo , come ufa natura , farebbe un uomo
affai vano ; il farebbe non men certamente chi pretendeffe governarli per
fola co- pia, ed eleganza di voci. Quei medefimi che fi repu- tan
più valere per eloquenza ne’congrelfi , e ne’ par- lamenti , converranno
di quelle verità , fe l’arte del dire è in lor pari al buon lenfo ; e
accorderanno non meno , che quegli oggetti grandiofi di profperità ,
di felicità , di potenza pubblica , che si fpeffo dai rollri
amplificano all’orecchio del popolo, non fon poi tali quai da lor ir
promettono , o almen ne dubitan ellt nelfi , e ne rellan in gran parte
fofpefi . Dall’ altra par- te, le repubbliche antiche non furono mai più
feon- certate , che a’ tempi dell’ eloquenza più fublime di
Demollene e di Cicerone, quafichè fi governaffero al- lora per cognizioni
più popolari e apparenti , che per vere e reali , per le quali quelle
repubbliche fi fareb- ber per avventura meglio follenute, come a tempi
dei parco Licurgo, e del religiolb Numa. CAP. XVII.
C-»5C. XHI. r. 4 . (J>)C.XVl.n.ì.
Fi- ^ XCIV GAP.XVIII.1TInora ei pare che non fi fia
ragionato di doquen- Deir elo- XT za, che affine di fcreditarla, e di
renderla fra gli quen» filile uomini odiofa , proverbiandola come inutile
, vana , cogaizioDire-pregiudiciale, inhdiofa, e nociva alla miglior
condot- * *• ta de’ privati e de’pubÙici affari. Perchè però non
fia creduto , efferfi di cosi mal umore contr’ efla , quanto
a volerla del tutto sbandita dalle nazioni, è da avvtr- tirfi , non
efferfi cosi favellato dell’ eloquenza , che in quanto fuoleffa verfare
fulle cognizioni apparenti e fai* laci , lardate a parte le reali e
migliori . In confeguen- za di che fi apprenderà , che l’odiofità fuddetta
non cade già full’ eloquenza in genere , e che non è effa cosi
pregiudiciale nelle nazioni per sè medefima , ma per la qualità appunto
delle cognizioni alle quali d’ ordinario s’appiglia, e alle quali ftante
la propenfione comune umana al piò facile , dee eifa cotnunemente
(a)CJCyi.n.j. appigliarfi (a) . Con ciò confiderando ogni cofa , s*
arguirà dunque eziandio, che fe l’ eloquenza , in luo» go d’occuparfi a
fiabilir negli animi le cognizioni ap« parenti , s’ applicherà ad ornare
e a meglio prcfen* tar alle menti co’ fuoi vivi colori le più reali ;
lun- gi dall’ elfer nelle nazioni nociva , fi renderà anzi a quelle
utile e giovevole . Infatti s’ è veduto , uffi- cio della favella effer
quello d’ iftruire e di diletta- (.tjC.Xiy.n.x. re (è), vale a dire dì illruire
nelle verità non cono- fciute , e di dilettare nelle già conofciute . E
perchè le verità di qualfivoglia genere non polTono elfer co-
nofciute che per qualche illruzione , quefta dunque dovrà fempre
precedere il diletto che proviene dil- la favella , e 1’ oratoria così ,
la poefra , non meii che r altr’ arti tutte dilettevoli , dovran
generalmen- te confeguire la filofofia , la morale , e 1’ altr’
arti klruttive , fiano apparenti o fiano reali , fcnza che polfan
mai quelle preceder quelle , non elfendo cer- tamente polfibile adornar
coi fiori dell’ eloquenza , e con immagini traslate e lublimi , ciò che
non fi fia pri- Digitized by Google
xcv prima apprefo per voci proprie, più piane e preeife .
CAPJCVIir. Stando dunque al diletto della l'avella , è certo che
do- vendo quello cunfeguir Tiilruzione , tanto può confe- guir la
più Aiperficiale e comune, quanto la più vera ertale eh’ è mcn comune; e
che ficcome pollòno con figure e immagini adornarfi le verità men
el'atteepiù popolari , conofeiute da molti ; cosi fi poflbno pur le
più efatte e men popolari , riferbare a fol pochi . £ la differenza farà
, che effendo nel primo cafo 1’ elo- quenza la più popolare e comune,
della qual s’ è fa- vellato finora ; fi renderà ella nel fecondo più
partico- lare , difufa a non molti , della quale s’ aggiungerà qui
qualche cofa . II. Egli è vero' pertanto , che eli uomini
amanti generalmente più del diletto che delf ifhuzione , foglion
trattenerli più fulle cognizioni apparenti perchè piùfii- cili e perchè
apprefe , che fulle reali perchè non ap- prefe , e perchè foticofe ad
apprenderli ( <» ) , ond’ è che il più frequentemente ufino 1’
eloquenza fu quelle cognizioni , applicandola ben di rado a quelle
\b) Ma ciò non teglie che non poflà effa a quelle appli-
carli , e che non vi fi applichi talvolta effettivamen- te. Anzi quello
fa, che l’eloquenza medefima coll’ef- fer nel primo cafo più comune , Ila
altresì più appa- rente ed equivoca, e in tal guila perigliofa come s’ è
detto ; quando nel fecondo coll’ elfere men comune , fi rende più ficura
e reale , e con ciò giovevole , prendendo il diletto che ne proviene
ognor tempera e qualità, dall’iUruzione e dalla cognizione apparente
o reale che lo precede. Così uno fpirito altiero e ambi- ziofo,
potrà tirarfi dietro un popolo di fpenfierati, e -condurli per le verità
apparenti all’incredulità, e quin- di alla fchiavitù , alle difeordie ,
alle guerre , e alla povertà che ne derivano , e ciò con tanto più
di veemenza, quanto in lui fìa maggiore f arte del di- re (c)'. E
dall’altra parte può un tìlofofo più fenfato (e) colie verità reali ,
perfuadere i più rideliìvi ' per quan- ti ve Digitized by
Google Xcvi ^ CAP.XVIII. ti ve n’ànno, alla
religione non finta, e con ciò alla libertà , alla concordia , alla pace
e alla felicità che pur ne confe^uono, con tanto più iiledamcnte di
for- za e di grazia , quanto in lui v’abbia più di facon- dia. £ la
prima eloquenza farà indubitatamente futile e dannosa , eflendo quell’
altra più utile e reale , giac- ché in eflètto ogni apparente termina in
reale , per la 'natura che non devia mai da quello , per quan- to
gli uomini fi lafcino sbalordire da quello . Ond’ è che (ebbene quel
primo cafo (ìa il più frequente in pratica umana , rella nondimeno e^o
fempre tolto (é)C.XIJIji.2.per lo fecondo ( « ) , o per la pratica della
natu- ra , eh’ è la più vera , perchè pratica infieme e teorica ,
di quanto a.v viene nel corfo generai delle cofe . IH.
S’arroge, che la detta dillinzione xkll’ idruzio- nc dal diletto che
procede dalla favella ( è ) , non è poi tale , che 1’ un di quedi s’
efcluda per 1’ altro , o che abbian perciò f arti dilettevoli a non
efler idruttive , e le idruttive non dilettevoli . Percioc- ché aU’
incontro può ancor dirli , che 1 ’ idruzione deda non vada difgiunta dal
diletto , ancorché que- do proceda non dalla favella , ma dalla verità
per eflà avvertita ed intefa , il qual diletto così é compa- gno e
contemporaneo all’ idruzione medefima , quan- do r altro che procede
dalla favella , confegue 1’ (») C.XVIll. irruzione ( c ) , e non mai 1 ’
accompagna , e mol- ”* to men la precede . E fi dirà idedanaente , qud
di- letto eder di quedo molto maggiore , mafdine in ri-
guardo alle verità reali , come quello che li dende all’ intelletto,
quando quello della favella (i porta all’im- (J) C.XV. U.4. maginazione ,
e talvolta s’ arreda all’ orecchio ( d ) . Certo é che il diletto
d’ un geometra nel concepire una verità , fupera di gran lunga quello d’
un Ora- tore nelteder l’elogio, o nel commendar legeda d’un eroe ,
come lo fupera eziandio quello di quedo eroe ncH’efequir quelle geda,
quand’ ei pur le efequifea ; c quat- Digitized by
Google xcvii ^5- e quattro linee di Euclide con
illruire piit di dieci CAP-XVIII. orazioni di Cicerone, dilettano altresì
più di quelle , che ben fovente dilettano con inganno . Per que-
llo i precetti fondamentali , e le regole generali di morale, di
giurifprudenca , e tali altre verità, per quan- to fono reali e
geometriche (■>) ,
dilettano coll’ illru- 1«) zione tanto a’ dì noUri, quanto a mill’anni
innanzi ; vale a dire con diletto più fenfato e durevole . Laddo-
ve i lìmboli di Pitagora , i fogni di Platone , le mi- nuzie d’ Omero,
che a’ lor tempi rapivano gli animi, col diletto per avventura fugace
della fola elocuzione ; al prefente o non lì comprendono, o non apportan
di- letto , quando ciò non folTe in riguardo lòlo a chi • avelTe
l’abilità, di formarfene uno della loro antichità medelima.
IV. Le lingue dunque finché fi trattengono nell’ ufficio d’
illruire , ancorché non dilettino per fe llef- fe , dilettano per le
verità, delle quali ilhuifcono ; e le s’ avanzano a dilettar per fe
Ireire , ciò non é, che per figurar alla mente con colori più vivi le
ve- rità medefime per efle apprefe , e ciò con eloquen- za frivola
e vana , fe le verità fon comuni e volga- ri, e con eloquenza robulla
creale, fe le verità fon pur reali e fuor d’ ogni inganno . Verbigrazia
s’ io dirò : „ La Luna coll’ attrar più la fuperficie convelTà
che „ il centro , e più il centro che la fuperficie conca- „ va più
dillante della terra , alza la parte acquola „ che più cede, filila falda
che men cede nell’ una e „ nell’ altra fuperficie di elTa ; ond’ é che quelle
due „ elevazioni d’ acque comparifcono tulle llabili ripe, „
al paflàr d’ ella Luna per Io punto fuperiore e in- „ feriore del
meridiano di ciafcun luogo terrelhe * Io con ciò non farò, che dilettar
l’intelletto colla illni- zione men comune , ma più vera che polla
darli del fiulTo del mare , fenza punto dilettarlo per la fa-
vella, per cui Cia efpolla quell’ illruzione , non poten- do ella efportì
per termini più femplici e più pre- N cili.
Digitized.by Google XCVIII ^ CAP.XVIII, • Che fe dopo
aver dilettato T intelletto con quc* Ha iftruzione, dirò come in quel
terzetto : Sai perché fale alternamente , e fcende Il
mar , che a Cintia che fi /pecchia in ejfo , Innamorato in fen fi /pigne
e tende ; allora palTerò di più a dilettar l’ intelletto medefimo
coir eipreflìone ancor d’ eloquenza fu quell’ iHruzio- ne ,
tralportandolo dalle immagini proprie di Luna , di mare , di attrazione ,
alle figurate e fimboUche di Cintia, di fpecchio , d’amore, per le quali
quella ve- rità già conofciuta, fe gli prefenta con più di novità e
di vaghezza ; e ficcome quell’ iftruzione è miglio- re febben men comune,
cosi quella eloquenza che la confegue , può appellarfì migliore . Ma fe
in luogo di tutto quello , fupponendo 1’ uditor pure iftrutto di
qualcuna di quelle più volgari dottrine , per le qua- li iogliono. più
comunemente fpiegarfi le maree , io prendelfi ad ornarla con immagini
fimilmente trasla- te, con figure rettoriche, e con efprellìoni enfatiche
; potrei pur con ciò dilettarlo, defcrivendo un cieco tur- bine
interno, una prelfìon d’aria verticale, una im- prelfion di vento
orientale ellerno , o fimil altra opi- nione folita fpacciarlì a quello
propofito , delle qua- li tutte vien detto , che mal loddisfatto un
filofofo dell’ antichità, prendelTe la rifoluzione di gettarli in
mare , dichiarando elfer giudo che folTe da quello ca- pito, chi non
potea quello capire- Comechè però ta- li opinioni , per elTer più facili
e più comuni , fon meno efatte e peggiori ; così la eloquenza fu
clTe che le confeguilfe , farebbe imperfetta, o farebbe un inutile
vaniloquio. V. Il diletto dunque che proviene dall’ eloquenza
, può confeguire le cognizioni tanto apparenti e co- muni , quanto
reali e meno comuni , e per quello ilelTo di elTer ogni eloquenza
confecutiva all’ illruzio- ne. Digitized by
Google » XCIX Bc , chiunque afpira al
diletto d’ efla migliore, dee CAPJtVlII. prevenirlo per la migliore
irruzione corril'pondente , e per le verità non quai fon conofeiute dal
popolo, ma quai fono in fe ftede, mentre quel diletto confe- guendo
la irruzione fuperfìciale del popolo , non po- trà appunto elTcre che
fuperficiale, e talvolta efimero e menzognero, come nel cafo degli
equivoci , de’ fo- firmi , degli enimmi , de’ paralogifmi , e degli
altri prodigi cosi detti dell’ eloquenza > Per la qual cofa ,
che i poeti dilettino più cogli argomenti quai fono apprefi popolarmente
, s’ è detto ciò eflTere in riguar- do al popolo , al quale più
frequentemente favella- no (/r). E fi aggiunge ora ciò elTere ancor con
in- (d) C.XVll. ganno , in. quanto quel diletto che confegue 1’
idru- zinne peggiore, è ingannevole , e non v’à diletto di
eloquenza reale , che quel che confegue pur l’ irru- zione vera e reale
{b)^ Dacché s’apprende, perchè 1’ {b) C. XVIIL eloquenza , e generalmente
1’ arti di diletto più co- moni , rade volte appaghino le genti di
miglior fen- no , e perchè gli fciocchi fieri ne refiino cosi toflo
annoiati per elTer quelle in confeguenza .della irru- zione peggiore ,
che foggetta ad inganno, non può dilettare che con inganno, e quero non
avvertito an- cora , non può a meno di non generar noja e fpia-
cere. Quindi è che agli fpettacoli, alle fere , ai con- viti , e a ogni
fpecie infomma di divertimenti comuni nobili e ignobili, è d’uopo dar
fempre nuove forme, Q uando ancor del tutto non fì cangino in
altri, fenza i che ogni fpecie di popolo alto e bafTo' ne reda
rucco e ammorbato. L’ uomo è fatto dall’autore del- la natura per l’ irruzione
inreme e pel diletto reale , ad onta, de’ fuoi fenH che lo incantano
full’ apparen- te ; come H convince da ciò ,. che l’ irruzione
allor più. diletta , quando è più diligente ed efatta ; prova
J |uefla. evidente della fuperiorità, e immortalità del i uo
intendimento fopra tutte le cofe mortali (<■).(#) c.hu.j^ Laonde s’ ei fi lafcia trafporur dal diletto
apparente Ni fea- Digitized by Google -5^c CAPJCVIII. fcnza iftrurione , o coll’ irruzione priore , non pnò alfin ciò riufcire che a Aio rincrefcimento , e con
fu» naturai ripugnanza. L'oAinarfi
poi a contraAar quel reale con quello apparente, è come contrallar il cor* fo del Sole con un tiro di cannone , o
penfar di dillnigger la natura in sè Aeflb , come fi dillruggono J uattro poveri ingannati , che A difendono in una iazza . CAP. XIX. QE piaccia applicare il
detto finora folle cognizioni Delle tradu- O umane, e Alile lingue per le
quali s’efprimono, alle zioaidall’uoa traduzioni dell’ opere d’ingegno
ferine dalP una all’ altra all’ altra fa- favella, èda avvertirfi, eh’
elTendo le lingue intele oa velia. iAruire nelle cognizioni reali, o a
dilettare colle appa- (a}CJC/Kn.i. tenti (a), il trafporto delle
cognizioni dall’ una all’altra lingua potrà agevolmente riufcire, quanto
al primo ca- po dell’iAruzione reale ; perciocché non richiedendoA
a ciò che un’ efprellìone d’oggetti per li termini lor più proprj e
precifi , queAi in ciafeuna lingua fono de- terminati, o efprimon gli
oggetti colla precilìone me- defìma , eh’ è una per tutti i luoghi e per
tutte le lin- gue. Laonde baderà a queAo effetto, che il tradutto-
re ben intefo del fentimento dell’ autore , e iArutto per pratica de’
termini precifì d’ ambe le lingue , fo- Aituifca gli uni agli altri di
quelli , con quella coAro- , zìone o difpoAzione che a lui fembri piò
naturale nel- la Aia lingua ; coB' che egli iAruirà così bene in
que- Aa , come 1’ autore nella lingua Aia originale . Ma quanto al
fecondo capo di dilettare colle cognizioni apparenti , poiché il diletto
delie lingue proviene da Amilitudini, alluAoni , e altre immagini
d’oggetti an- co traslate , queAe in ciafeuna lingua fon più o men
naturali, più o men giudiciofe o ingegnofe, a norma degli oggetti Aedi ,
eh’ eAendo conAmili , Aan più o meno diverA , e a combinar i quali Aa una
nazione piùo meno familiarizzata. E pertanto trafportate quel- le
iminagiai per foAituzione di termini come fopra, dall’
Digitized by Google ■i’
CI ^ dall’
una favella , debbono perder di molto della lor gra- CAP. XIX. zia, e della lor forza nell’altra. In effetto, quelladif- ferenza che nelle combinazioni d’ immagini proprie , e molto più traslate , s’ è
oflervato paflàre fra perfo- ne di varie condizioni in una fteffa
nazione (a)j non (a)C.n.n,i. v’à dubbio che non abbia a renderfi
vieppiù notabile fra perfime di
varie nazioni e lingue, i cui coflumi , profeflìoni , e'modi altri
efierni , per impreflìoni più o men forti e frequenti di oggetti diverfi
benché confi- mili, fon più rilevanti , non fol fra ciafcuni in fpe^
eie , ma fra tutti eziandio generalmente ; procedendo da ciò un
fìgnifìcato più o men eliefo ne’ termini del- le lingue, per efprimer gli
oggetti fterti o confimili , che fi direbbe tanto più efiefo nelle lingue
diverfe , quanto quella diverfità fuperaffe quella dei diverfi dia-
letti in una lingua medefima. II. Egli è certo, da quella diverfità
di oggetti con- fimili nelle varie nazioni , derivar le diverie indoli
, fpiriti, e umori nazionali, come pur le diverfe indoli e fpiriti
cosi detti delle lingue. Concioflìachè ficcome le piante, gli animali, i
minerali di qualfivoglia fpe- cie , e gli uomini flefli nel lor
materiale, ancorché confimili, fon pur diverfi in ciafcuni climi (6) per
(4) C. T. ». j-- tcflìtura di parti più dure o più elafliche , più
denfe o più rare, più fragili o più compatte; all’ ifleflo mo- do
il fignificato delle voci , colle quali efprimer tutto- ciò nelle lingue
, è più o meno eflefo , e le voci fleffe più afpre o più dolci, più
rifonanti o più molli, più acute o più ottufe . Ciò eh’ é ben noto ai
viaggiatori , che vaghi d’ invefligar una tal varietà, feorrono
da"^ dima a clima e da nazione a nazione ; e un Inglefe che
per tal fuo capriccio muova da Londra all’ Egit- to, o un Affricano che
per fua difperazione fia tratto da Algeri in America , non troverà minor
difparità fra i fuoi coflumt e i coflumi egizj o americani , di
quella che trovi fra le maniere diverfe di efprimerli lotto ciafcuni di
quelli climi (c), rimanendo ciafeun (r)C.Jff. dei
I Digitized b*CoogIe cn ?§. CAP^ XIX^ dei
due allettato più, come delle fue die delle altrui immaginazioni e
collumi ^ cosi de’ Tuoi che degli al- trui modi di efprimerli; non per
altro che per la di- verfìtà degli oggetti e voci corrifpondenti ai quali
le refpettive lor menti fìan più afluefatte ed avvezze . Per efler
dunque la verità delle cofe reale una, ed in- variabile dappertutto, e
per elTer le maniere di appren- derla e di dilettare con elTa moldplici e
innumerabili , faran le lingue tutte del pari, qualor lì tratti
d'idrui- re nelle verità reali, ma faran fra elTe diverfe, qualor
fi tratti di dilettare culle apparenti ,. elfendo general- mente elle
illituite non per quel fulo udìcio , ina an- cora per quello, e non per
tutti in tutte le nazioni , ma per ciafcuni in ciafcune. 111.
La copia e moltiplicità di termini in una lin- gua al paragone
dell’altra, è un indizio di tutto que- fio , e di quanto una lingua polla
dilettar più d’ un’ altra ; per provenire quella moltiplicità dalla
maggior quantità d’immagini, colle quali efprime ciafcuna gli
oggetti llein o conlìmili; non introducendofi una nuo- va voce in una
lingua, che per introdurvi una nuova immagine, o per dividere e appellar
per due voci le immagini , che prima s’ appellavan per una . Per la
qual cofa la lingua più ricca di voci, farà più capace d’ immagini divife
o traslate , per elprimere la lidia quantità d’ oggetti, e per dilettare
con elTi ; percioc- ché fe un oggetto ftelTo o conlimile vorrà
efprimerli per due lingue, lì dovrà per la più povera di voci ap-
pellarlo talor per la voce, che folle pur propria d’un altro ; laddove
colla più ricca appellando 1’ uno e l’ altro con voci diverfe , coll’
applicar poi a quello la voce propria di quello, e viceverfa , u viene a
efpri- merli entrambi per traslati e figuratamente. Percfem- pio un
Inglefe appellando propriamente un furbo e un fervo per la llelTa voce
Knave^ non può per queAo capo indur analogia veruna fra quelle due
perfone; e l’ Italiana appellando ciafcun di quefti con quelle
voci Digitized by Google CHI ^ ‘
voci proprie diverfe, collo ftender poi all’ uno la vo- cAP. XIX. ce
propria dell’ altro , riefce ad appellarli tutt’ a due allufivamente , e
a fignificame i caratteri , quando oc* corra , con più di forza e con più
di vivezza . Con tal fondamento ei parrebbe, che numerandoli nella
fa* velia italiana da 38000. termini o voci , e non nu* merandofene
nella inglefe che da zdooo., deflunti gli uni e gli altri proflimamente ,
e colla Udrà regola dai più comuni refpettivi Dizionari ; la prima
favella fuperalTe la feconda per capacità di alluuoni, e d’im*
magini traslate, in ragione di ip.aiz., eche di tan- to più potefle
quella fopra di quella dilettare nell* ope- re a ingegno fcritte.
IV. Ma fopra tutto è cofa mirabile TolTervare, co* me dalla detta
diverfa ellenlion di lignificato ne’ ter- mini delle lingue, e dal grado
impercettibile d’elTa, con cui li palla dall’uno all’altro oggetto,
unitamen- te a non li là dir quale collocazione dei termini llef-
fi, dipende quella inefplicabile forza, armonia, e gra- zia di Jiiley che
nelle produzioni d’ingegno rapifcegli animi , e fa bene fpello il più
bello e il più dilette- vole di elTe ; lieve così , che sfugge molte
volte il fen- fo dei nazionali medefimi , e che i forellieri
cerumen- te non aggiungon giammai . Io non ò trovato oltra- montano
, per illudiofo che folle della lingua italia- na , che rilevalTe
differenza veruna jIì flile infra il So- netto per efempio del Cafa fopra
la gelofìa , e quel- lo d’ogni altro comune fiudente di rettorica che
imi- talfe quello poeta , e non folfe difpoHo a giudicar il primo
del fecondo autore , e il fecondo del primo , quando ciò gli folfe flato
dato ad intendere . Le bel- lezze altresì che trovano i forellieri nello
flile del Pe- trarca , di Dante , del Talfo , fon diverfe da quelle
che vi riconofcono gli italiani , e la novella di Gio- condo, dilettando
del par gli uni e gli altri per I’ in- venzione ; per le grazie dello flile
, e per l’ efficacia dell’ elocuzione , non diletterà mai tanto un
francele come Digitized by Google CAP.
XIX. come un italiano nell’ Ariofto , nè mai tanto un ita- liano come un
francefe nel Fonténe. Ciò che fa, che di via ordinaria , chi giudica
dell’ opere d’ ingegno d’ altra lingua e d’ altro tempo , s’ attacchi ai
di- fetti che Hanno in elle dalla parte del fentimento , del quale
è giudice ognuno , come di cofa di tutte le lingue e di tutti gl’
intendimenti , fenza badare che Hando al diletto dell’ efpreiEone ,
quello sfuggen- do un tempo e un luogo, fpazia molto bene in un (a)
C.XVllI. altro, rilevando talvolta fui fentimento medefuno («). i’ Così
i! moto verbigrazia della terra per T annua fua paralade colle
Helle fìlTe, che n’ è la cagione di tut- ti i luoghi e di tutti i tempi ,
può comprenderfì da ognuno del pari, fiaper la propria, fia per l'altrui
fa- vella ; quando il Capitolo dei Lorenzini fulla ven- detta , o
fimil altro tratto di poefia italiana , il cui pregio confida nella fola
collocazione, cnfafi , dite , e fignifìcato di voci , per cui dipingere
all’ immagina- zione le padloni umane , non farà mai da neduno cosi
ben rilevato, come dall’ italiano , per eder tut- to ciò diverlb in ciafcuna
lingua, e in ciafcuna na- zione . V. Egli è dunque vero , che
trattandofi di tradu- zioni d’ opere d’ ingegno fcritte dall’ una all’
altra favella , non potran quede mai riufcire quanto al di- letto
della favella deda, o qualora il traduttore adu- ma di dilettare coll’efprcdìoni
del fuo autore, trafpor- tate nella propria lingua . Quedo nondimeno è
quel che .volgarmente fuol farli, ed è queda la ragione, per cui le
traduzioni quand’anche idruifcano ugualmente che gli originali , dilettan
Tempre meno di quelli , e rie- fcono per quedo capo quanto inutili per
chi intende ambe le lingue , tanto imperfette per chi non ne in-
tende che una . E ciò allor più , quando nell’ opere tradotte , il
diletto della favella prevale alla dottrina deir idruzione, come nelle
novelle, ne’ romanzi , nel- le produzioni teatrali , poetiche , e fìmili
altre , più Digitized by Google ^cv di
fpirito che di fentimento . II pretender di dilettare CAP.' XIxT per
fodituzioni grammaticali di termini d’ una lingua a quelli d’ un* altra,
come nel cafo fuddetto d’ idrui* re \a)y è una vanità , Amile a quella di
chi credef- fé dì meglio ricopiare un ritratto originale, con fo-
prapporvi i Tuoi colori , cuoprendone cosi e confon- dendone le tinte , e
cangiando il quadro in un ma- fcherone , o in un empiadro . S’ aggiunge
trattandoli di poefia , che il numero , 1’ accento , la rima , e 1’
altre condizioni, per le quali il diletto dell’ eloquen- za rileva
moltidimo , e che dipendono dall’ armonia che palTa all’intelletto per le
vìe dell’udito (^), fono if>)C.XF.n.^ del tutto imponibili a
tral^rtarfì dall’ una all’ altra iàvella ; e che fìccome la mulica
italiana può farfì udi- re in Francia, e la francefe in Italia, ciafcuna
nel fuo carattere, ma non è podibile tradurre la mufica verbi-
grazia del Sig. Gallupi in quella di Monsù Ramò; all’ ideflb modo non è
podibile per quedo capo, tra- durre r una nell’ altra poelia . E il
miglior poe- ta comico italiano de’ nodri tempi , potrà darfene in
Francia per padar quivi meglio i fuoi giorni , ma non giammai perchè il
fuo talento comico da così ben rilevato in Parigi, nella lingua francefe
non fua, come il fu già in Venezia , nel dialetto fuo vene- ziano
. VI. Da ciò A conclude , che non potendo il tra- duttore
nella nuova lingua dilettare colrefpredìoni del- la originale, non gli
rederà dunque per tradurre ben che dilettar coll’ efpredioni della
propria ; inguifachè impodedatoA lui del fentimento dell’autore per
idrui- re com’ edo , lo efponga poi con quei colori di di- le, e
con quelle fraA d’eloquenza, che nella fua lio- eua fon più vive e più
forti, per dedare il piacere, n terrore , la tenerezza , la compadìone, e
gli altri affetti , quai più occorredero . £i dee Agurarn d’ ef-
fere autore , per non isAgurare il fuo autore , e lafciar a lui l’arte di
dileture colla fua Angua, per dilettar O ci Digitized
by Google evi CAP. XIX. €» colla propria ; e alTumendo
le dottrine e le imma* gini di quello, efprimer 1’ une e rapprefentar 1’
al* tre, coi colori della fua lingua e poelia che meglio conofee ,
e non con quei dell’ altra lingua e poefia , che non potrebbe mai cosi
bene conofeere . In altra gui* fa gli riulcirebbe bensì di privar la Tua
traduzione del diletto , che potefle provenirle nella propria lingua ,
ma non mai di venirla del diletto, che 1’ animala nell* altra . L’
indizio poi per cui ravvifare , s’ ei fi fia nel tradurre comportato con
quelle regole , farà fol que* fio , di piacer tanto la fua traduzione a
quei della lin* gua tradotta , quanto T originale a quei della
lingua originale, o di poter quella palTar per opera così ori*
ginale fra quelli, come 1’ originale medefimo pafia per ule fra
quelli. CAP. XX. "p Accogliendo ora le principali verità
efpofte di fo- Epilogo, e pra, fi apprenderà facilmente , una di
quefie CoDcluCone . efl'er quella , di dover difiinguerfi fra le
cognizioni umane le apparenti , e le reali (a). Perciocché io non ò
già pretefo per quanto ò qui fcritto , di per* fuadere gli uomini a
governarli col folo reai delle co* fe , e di difiruggere infra lor 1’
apparente del tutto , come potrebbe alcun lòfpettare. Ciò faria fiato
come voler perfuaderli a lafciar le vie piò facili e pronte di
governarfi, per appigliarfi alle piò lontane e difficili , e ad abbandonar
quegli alietumenti de’fenfi,dai quai dipende tutto quel commercio di
pafiioni , di pende* ri , e di azioni grandi e luminofe , per cui
pia* cevolmente fufiifiono ; cofa che non s’ è mai otte- nuta , e
che in confeguenza non è da fperarfi che s’ ottenga giammai. Al contrario
di ciò , mio difegno è fiato fol quello , di didngannare gli uomini
fu quello apparente mededmo , e di rapprefentarlo loro per quello
eh’ egli è ( i ) , avvertendoli che oltre a quello , per cui fogliono
elfi governarfi , v' à nelle cofe un reale, per cui li governa
irredllibilmente na- tura , Digitized by Google
"3^ cvii *4”’ » ® ® riferire 1’ uno all’ altro c A P.
XX. di quedi , dipende quella felicità, di cui fon tanto
anfiofi e foJlecitt , o quella infelicità , per cui alzan- si trilli e si
fpein lamenti . E ia vero non potendo gli uomini acquillar cognizioni che
per mezzo de'fen- ii (a) , e non^ iflendendofi quelli che alla fuperficie
{a)C,XILn. 2 ^ apparente degli oggetti , le cognizioni loro fu quelli
non pollono al primo tratto effere, che fuperficiali e apparenti. Vero è
che oltre ai fenfi, fon eglin dotati dalla natura eziandio d’ un
intelletto , per cui con- frontando giuHamente fra loro quegli oggetti
inferiori ed ellerni , arguir le verità fu elH piu fublimi ed
interne , e farfi cosi dal vifibile degli oggetti crea- ti , all’
invifibile di Dio eterno e increato . Ma efi- gendofi a ciò certa
allrazione dai fenfi medefimi, da non praticarfi che con ripugnanza, per
l’amor pro- prio che tiene a quelle apparenze fortemente attac-
cati/ non è poi llupore , le gli uomini di via ordi- naria s’ arredano
fulle prime imprclTìoni , e fe paghi dell’intereire proprio per quelle,
non elaminanpoi, fe quedo concordi o non concordi col comune degli
al- tri, o colla ragione reale di tutti (i). Una fimil pi. (i) C.T,
grizia in edi e tanto più fcufabile , quanto le appa- renze medelìme non
fon fallaci per sè , ma per fola mancanza di ridedìone , poda la quale,
fi rendono elTe dede il reai delle cofe . £ oltre ciò i difordini
che quindi ne feguono , facendo ben todo accorti gli uo- mini de’
loro inganni dopo edervi incorfi , fan si che fe ne correggano (c) , c
conofcano quegli errori che (0 *•?* potean prevenire, ma che non àn
prevenuto, ciò che non è altro che condurli idedamente dall’ apparente
al reale, benché proprio mal grado, a che riguarda quel detto
popolare , che la necedità , o le angudie alle quali li conducono gli
uomini da sè dedi , infegnan gran cofe . II. Un’ altra verità
dedotta dalle cofe fuddette è pur queda , che le dette cognizioni reali ,
alle quali O z con- Digitized by Google
CVIII ^ CApTxxT" conducono le apparenti , non fon poi tanto
fcono- Ibiute ed ignote , nè da ^efte tanto diverfe , quan- to
raflembrano , e eh’ eifendo anzi quelle inufita- te nella pratica edema ,
nel fentUnento e nella pra- tica interna , fon più note e paleft di quede
. Lo che fi comprova non fòlo per quella coinpadione e quel
ridicolo, che s’ è odervato cadere sì di frequen- te Tulle azioni c
debolezze altrui {a)\ ma per quella circofpezione ancora , e dudio d’
ognuno di occultare le verità , o di prefentarle e palliarle ad altri con
co- lori alterati , e talvolta mentiti da quel che fi cono- fcono .
Perciocché in ed'etto ciò non è , che tacere il reai delle cole che più
fi lènte e s’ approva , per re- golarci cogli altri per 1’ apparente, che
11 lente e s* approva meno , amando meglio adulare e lufingare col
facile, che illuminar col mdìcile , e infadidir sà dedi con tacer quel
reale , più todo che offendere o turbar altri con lor palefarlo . E ciò
non ]xr altro , che per conciliare una pari condifeendenza d’altri
ver- fo di sè medefìmi , contenti cosi gli uomini con sì. bel
garbo, quafi d’ingannarfi a gara a chi fa far me- glio , e di convenzione
comune . Effendo poi queda più o meno la pratica univerfale , il reai
delle cofe non è dunque così arcano e incredibile, come è cre-
duto, ed è anzi più noto ed approvato dell’ apparen- te, ancorché
fimulato quello, e adombrato nelle azio- ni comuni ederae. E s’odervi,
come queda fi mulazio- ne delle verità reali conofeiute in occulto , è
poi al- tresì fmentita elfa deda io palele da ognuno , allor eh’ ei
dichiara ad alta voce , che le cognizioni uma- ne fon tutte incerte e
fallaci , e che gli uomini fon foggetti tutti a sbagli e a illufioni ,
alle quali efpref- fioni tutti fan eco ed applaufo ; ciò che
propriamente é un vero accordarli da tutti, che febbene gli uomini
fi regolino per P apparente, per cui s’ingannano, ten- gono nondimeno mi
mente e in cuore un reale , per cui alla line del conto, puc ad onta loro
li difìnganna- no. Digitized by Google
^CIX no. Ed è eofa maravigliofa , come fu lecito ad ognu> CAP.
XX. no di dichiarare impunemente e con lode , che fian gli uomini
in genere deboli, lufinghieri , e ad errore foggetti; e non ardifca poi
alcuno di far la ileda di- chiarazione ad un altro, di quello fteflo in
ifpecie , anzi fia quella creduta cofa villana e indifcreta . L*
ignoranza dunque delle verità reali è polla non già nel non conofcerle ,
ma nel (ìmularle ad altri per le apparenti j mercecchè d’ altronde fe
tutti conofco- no , le cognizioni umane elTer generalmente fallaci,
in quella conofcenza medefima additano molto be- ne, le reali eHer loro
pur note , e a qualche mo- do non (on più nell’ inganno , rollo che
conofcono d’ eflTervi . III. Quindi fi prefenta f altra
verità pur avvertita, la qual è, che fe gli uomini prendono errore nel
re- golarfi per cognizioni apparenti , fenza badare fe con- vengano
o non convengano quelle colle reali , il pren- dono molto maggiore,
quando condotti perciò in un pelago di contraddizioni e d’implicanze, dal
qual non fan come ufcirne , e per ufcire dal quale fon indi
allretti a ingannarli , a tradirfi , a combatterfi inlie- me con quella
ferie di calamità, delle quali non cef- fano di lagnarfi , fi volgono a
imputar tutto quello alla natura , o ai grande autore di ella (a); quando
(«}C.Z//7.n.a» ò indubitato doverli tutto ciò afcrivere aHa loro
pi- grizia , per cui non curano di proceder dall’ apparen- te al
reai delle cofe , e s’ arredano alle prime im» S rdfioni degli
oggetti edemi a loro favore, fenza ba- are fe con ciò ìiano giudi o
ingiudi cogli altri . E in vero che gli uomini per certa inerzia e
condifcen- denza, prefertfcano di adularfi e di accarezzarfi in-
fieme con vide di ambizione, di fado, e di altre ve- rità apparenti, in
luogo d’ iltuminarfi colle reali, te- mendo ancora per quede di od'endere
o conturbare i più inclinati a quelle ; può ciò palfarfi ( benché
con poco onore dell’ umana ragione ), purché ne’ mali che O 3
con Digitized by Google 'Òt ex ^
CAP. XX. con ciò s’adunano intorno , fi compatifeano e fi di-
fendan fra loro . Quello infatti è ciò che avviene di via ordinaria, e
ben fel vede ogni più faggio ed at- tento , nel quale eccita ancor
tenerezza il vedere co- me quelli poveri fpenlìerati , poiché fon caduti
per inavvertenza negl’ inganni più vergognofi , fatti indi accorti
di quelli per li difordini che ne confeguono , accorrano ad alfillerfi
per ufeirne , a compatirli , e a prellarfi foccorfo gli uni agii altri,
comprovando cosi a elTervi incorfi quafi di confenfo uniforme. Fin qui
li mollrano elfi di un carattere timido e incauto , ma buono almeno
e fincero. Ma che poi vi fian di quel- li , i quali degli errori e de’
mali che s’ attirano fo- pra per loro pufillanimità e miferia di fpirito
, accu- fino la natura , quando quella con ingenuo candore
fuggerifee loro, che oltre all’ apparente v’ à negli og- getti un reale ,
cui va quello riferito , al qual fi- ne oltre ai fenfi , per cut
apprender gli oggetti , dà altresì un intelletto , per cui confrontarli ;
quella non può negarfi che non fia la cecità r e la llolidezza
maggiore . IV. PalTando poi al propofìto delle lingue , la
ve- rità più conliderabile avvertita di fopra in ordine ad elTe e,
che quantunque fian quelle dellinate a rappre- fentare ad altri , e a
efprimere gli oggetti e le cogni- zioni per quelli apprefe ; non fon però
così atte a far quello, come il fembrano a prima villa (//) ; e eh*
elTcndo anzi elTe imperfette per efprimer le cognizioni reali , fervono
di fomento per dilatare e dar rifalto al- (.é)CJCyi.n.u ìe apparenti a efclulìone
delle reali medellme (b) . Cib avviene per mancanza d’ analogia
necellària fra le cofe , e le parole per cui s’efprimono, e fra la
diver- 11 tà colla quale s’ apprendono e fi combinano gli og- getti
, e quella colla quale fi proferifeono e fi combi nan le voci; come
altresì fra le foggie, colle quali cangiano quelli e quelle , che non àn
connefilone o (f) C. XIV. dipendenza necelTaria veruna ì’ une coll’ altre
( c) • Que- Digitized by Google Quefta
oflTcrvazione che parrà nuova nell’ enunciarla > c A P. xx7 non n
troverà tal nella pratica , fe fi ponga mente alle tante ^legazioni ,
coment! , glofe, e interpreta- zioni che {penb occorrono per i’
intelligenza degli al- trui penfamcnti fui libri, o fulla lettera di
efli, maf- fime fe fì tratti di leggi, di coftumi, e di azioni an-
tiche cfprefie con lingue perdute. Le quali interpreta- zioni fan
conofcere , che non folo i coiiumi divcrfi pallati non àn relazione
necelTaria conofciuta veruna cogli (ieflTi prefenti, ma che le lingue pur
morte diverfe non 1’ ànno con una llefla pur viva , e ciò fenza di-
pendenza di ciafcuna di quefle relazioni coll' altra ; giacché per le
flelTi voci antiche fi dedano diverfi , e talor contrari concepimenti in
perfone d’ una lingua medefìma da quella diverfa, alfiflellb tempo.
Quindi molto più apparifce l’ incapacità delle lingue per det- tar
regole di vita , che fervano a tutti i tempi e i luoghi , ne’ quali fi
cangiano e i coliumi e le lin- gue ; e come elTendo le azioni , per
quanto pajan con- nmili , ciafcuna diverfa da tutte le altre alio flelTo
, e molto più a’ tempi diverfi (a) , ciafcuna doveflb (j)C.F/. ».t.
efigere quafi una legge diverfa, o dettata diverfamen- te , eflcndo
invero in^lTibile il comprenderle e re- golarle tutte, colla fiefia efprefiìone
di voci. Certo è, che nella pratica ancor più fenfata , una legge
per efempio , che non può dettarli dai legislatore che fu tutti i
cafi in afiratto non avvenuti , dee fempre dal faggio giudice
interpretarfi nell’ applicarla ai cafi av- venuti particolari , cial'cun
de’ quali è noto diverfi- iicare da tutti gli altri per adiacenze,
occafioni , cir- cofianze e motivi che lo accompagnano ; fenza di
che quella legge fi trova fempre al propoli to o rigi- da o lenta , o
mancante o eccefiiva , o facile o le- verà . E gl’ Inglefi che pa|ono
aver fempre del fingo- lare, col foggettarfi alla lettera materiale delle
lor leg- gi più tolto che al fenfo di efle, non fi fono accorti,
che di uomini ragionevoli eh’ ei fono, fi fon conten- Digitized by
Google -3^ cxii CAP. XX. tati di confiderarfi come
tanti automi , da muoverfì per quelle leggi come per molle , a guifa di
figure in un quadro movibile ; operando cosi non per la ragione lor
viva , ma per la morta di alcuni loro vecchi parlamentar] , non
certamente d’ efll più ra< gionevoli . V. Finalmente dall’
elTer le lingue più atte a dif- fonder le cognizioni apparenti che a
efpor le reali , fi conferma la verità prima fuddetta , che gli
uomi- ni in generale abbiano ad elTer più ricchi di quelle , che di
quelle cognizioni ; giacché la favella, per cui s’ avanza 1’ apparente ,
è infatti più comune della riflelfione e della meditazione , per cui s’
avanza il i»)CJCyiM.x. reale (a) . Ciò che conviene col detto ancor
popola- re , che la verità e la virtù fincera Ila nell’ azione e
non nella favella , e che gli uomini più millanta- tori e loquaci Ibn
meno attivi degli altri . Il giu- dicarli più virtuolì e più faggi ,
perchè più parlano di virtù e di faviezza , ognun fa eh’ è un
giudicio dubbio ed equivoco ; e che quando ancora fi verifi- calle
elTo della virtù e faviezza apparente , della rea- le non potrà
verificarli giammai . Del rimanente io fon certo , che in propofito di
quella mia folenne dillinzione di apparente e di reale , di che ò
fatto qui si grand’ ufo, alcuni avrebbero defiderato, eh’ io r
avelli meglio Specificata , efemplificandola fu fog- eetti particolari ,
e tnalTime fu quei che riguardano la comun fulTillenza e i comuni aflàri
, e aflegnan- do in elfi ciò che fia apparente e ciò che fia reale,
o dillinguendo 1’ uno diair altro . Quello non pote- va io qui fare,
trattando di oggetti , di collumi , e di cognizioni in genere . Trovo
però di averlo fat- to in altro luogo, ove trattando particolarmente
dell' Economia e del Governo de’ popoli , ò polle molte
propofizioni col titolo di Error$ popolari , che fono tante verità
apparenti , alle quali ne ò contrappollo altrettante col titolo di
^JJiomi , che non fono che veri- Digitized by
Google '-Secxiii ^ errori contrarie, delle quali prò-
cap. XX? pofìzioni un faggio fa ancor veduto da alcuni . Lo lleflo
potrà farfi da ognuno in qualfìvoglia altro par- ticolare foggetto , che
fe gli prefenti alla mente j o eh’ ei prenda in confìderazìone , fui quale
proceden- do col metodo col quale io fon proceduto in quello,
allora dovrà fempre temere di giudicare per 1’ appa- rente , quando
flando alle prime impredioni de’ (en- fi , badi al particolare di sè
fteflo o d’ alcuni , tra- feurando il rimanente degli altri ; e allora
potrà a(^ ficurarfi di giudicare realmente , quando badando al
particolar di sè (le(To o di alcuni , abbia altresì ri- guardo al comune
di tutti , a fomiglianza di giuda e imparziale natura (a) . Que(ia amica
di tutti, non tien nelTuni nemici , e non opera mai per uno, che
con relazione all’ univerfale degli uomini e di fe def- (a ; e il
medefimo dee fare chiunque penfi imi- tarla . IL fine.
I N- Digitized by Google CXIV ^
INDICE DE’ CAPI. I. /^Ggetti apprenGbili origini
della fiTelIa . pag. i II. Della fomigliaaza» edifomiglianza degli
ogget* ti appreoGbili. • 5 III. Oggetti come apprefi
diverfamente. la IV. Oggetti come nominati per la fietfa favella ..
14 V. Oggetti come nominati per favelle diverfe. 18 VI.
Della diverGtà poflìbile de’ coftumi . za VII. Della contrarietà
impoffibile de’ coftumi. z8 Vili. Coftumi creduti contrai non fono
comuni. 34 IX. Delia ftabiliti , e iftabilità de’ coftumi .
41 X. De' coftumi efpreftS per la fteffa favella. 49
XI. De’ coftumi efprefti per favelle diverfe. 54 XII. Delle
cognizioni reali, e delle apparenti. do XIII. Cognizioni apparenti
più pratiche delle reali. 67 XIV. Imperfezione della favella fulle
cognizioni reali. 73 XV. Imperfezione della favella motivo dell’
eloquenza . 77 XVI. Eloquenza come nociva alle cognizioni reali.
8z XVII. Deir eloquenza fulle cognizioni apparenti . 88
XVIII. Dell’ eloquenza fulle cognizioni reali. 94 XIX. Delle
traduzioni dall’ una all’altra favella 1 100 XX. Epilogo e ConcIuGone
.. io6 Gianmaria Ortes. Ortes.
Keywords: verso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Ostiliano:
la ragione converazionale e il portico romano -- la filosofia romana sotto il
principato di Vespasiano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Portico. His claim
to fame is that Vespasiano (si veda) banishes him from Rome. Ostilliano.
Grice ed Otranto: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Otranto, Puglia. Grice: “Otranto
wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as
when we say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written
‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si
sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia,
però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse
la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue
competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete
al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani.
E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello
scalpello”, con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di
testi liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro
i Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo);
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere;. J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O.
Abt von Casole. Beiträge zur
Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich
II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση. Athena, L. Hoffmann: Der anti-jüdische Dialog Kata
Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine
convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks. Nicola
Nettario d’Otranto. Otranto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool
Library. Grice ed Otranto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Grice ed Ottaviano:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nel secolo d’oro
della filosofia romana sotto il principato d’Ottaviano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo
italiano. il primo principe. Historia augusta, scritta d’Ottaviano. His
philosophical teachers are well known. The education of a prince. O. lascia alla sua morte un dettagliato resoconto
delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti. Svetonio in particolare racconta
che una volta morto, lascia tre rotoli, che contenevano: il primo,
disposizioni per il suo funerale, il secondo, un riassunto delle opere, da
incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti al suo mausoleo, il terzo:
la situazione dell'Impero. Quanti soldati sono sotto le armi e dove erano
dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali,
oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato da un'iscrizione
in latino. E incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla città di Roma e ad O.,
situato ad Ancyra -- l'odierna Ankara, la capitale della Turchia -- e pertanto
è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie, molte delle quali sono
giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui
dedicati. In uno stile volutamente stringato e senza concessioni
all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati
via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le
elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato,
ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue
spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il documento
non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua
famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa,
Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. O. e totus
politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendica egli stesso nelle sue
memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le
sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista
e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini
politici. Si tratta di un miracolo ed egli capì subito che anda capitalizzato.
Durante i giochi da lui organizzati in memoria di GIULIO (si veda) Cesare, in
un momento di massima incertezza politica, tra liberatori perplessi e cesariani
frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben VII giorni. Il
fenomeno fa molta impressione. «l volgo – scrive O. nelle sue memorie -
credette -- “vulgus credidit -- che quella stella significa che l'anima di
Cesare e stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine)
feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di GIULIO Cesare che fa
consacrare nel foro. Il brano è citato da PLINIO nella Naturalis Historia, il
quale commenta. Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una
gioia intima gli suggere che quella stella era NATA PER LUI e che lui nasce in
essa. L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e
storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che
stabili essere GIULIO Cesare ‘divino’ - ha luogo. Divus lulins. In tal modo O.
diventa ope legis, figlio di Dio, Divi filius. C'è chi pensa che già in
concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, O. ottene tale
prezioso riconoscimento. Ma di fatto le premesse O. le aveva poste con
l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione
superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico
astrum Caesariso fa già riferimento VIRGILIO, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga.
La carriera d’O. e incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in
ottima salute, aveva raggiunto GIULIO Cesare in Ispagna per esser presente
all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino
all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se GIULIO Cesare lo avesse
già allora notato, se Azia - madre di O. - abbia attratto l'attenzione di GIULIO
Cesare su di lui, se O. forza la situazione superando le esitazioni materne.
Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente
vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani d’O. esaltano come
premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità
dimostrata da GIULIO Cesare di scegliere un successore. In politica non accade
quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria
indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro
sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono pescare
chi verrà dopo di loro. A sua volta O. cerca per anni, e resta tra gli arcana
delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta
(Svetonio, Vita di Tiberio). E ben si comprende. GIULIO Cesare sceglie un
figlio adottivo ed erede che puo, se si e confermato capace, diventare un
capoparte; O., invece, pur avendo restaurato la repubblica cerca un successore.
Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali
viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la
certezza della propria insostituibilità' -- che rende, tra l'altro, ancor più
disperante la ricerca di un successore -- si sposa con la tenacia nel
perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione,
dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di
conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una
riproposizione aggiornata del principato di Pompeo. Gli anni della lunga pace
non sono facili. Non sono mancati, in quei lunghi anni di governo solitario,
congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da
qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se
Seneca ne e informato vuol dire che ne trova la traccia nelle inedite Historiae
ab initio bellorum civilium che suo padre continua a scrivere e ad aggiornare
ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico
accorto, che fa a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per O.,
alla fine, l'unica scelta possibile era quella della storia sacra. Perciò,
quando la lunga pace civile del suo interminabile governo non ha più bisogno di
una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica,
egli inventa un altro strumento che affermasse in modi essenziali e
monumentali, sperabilmente per sempre, la sua verità: il solenne e
sacralizzante ri-epilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi,
non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nasce
in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero
e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degl’anni, e alla fine pronte,
oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato
intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca
dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui
Druso. Per Roma e una radicale novità. E la via epigrafica alla storia sacra,
sul modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico -- Dario a Bisutun --
e del mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae e quello non solo
di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare
anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare
accettare questa verità come l'unica vera nel momento stesso in cui la
successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro
grandezza e, insieme, la loro fragilità. VOX AVGVSTA. Petrarca, nel secondo
capitolo del primo libro delle Res memorandae, racconta d’essergli avvenuto,
ancora giovinetto, di leggere un libriccino contenente gli epigrammi e le
lettere agli amici dell’im- peratore Cesare Augusto, conditum facetissima
gravitate et luculentissima brevitate adorno di forbita dignità di
stile e di eloquente brevità; un volumetto quasi intonso e mezzo divorato
dalle tarme, che andò per- duto, e che, per quanto disperatamente
cercasse, Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti dubitano della
veridicità della notizia, ma forse dubitano a torto, giacchè nessuna
ragione poteva avere Petrarca di men- tire la notizia, e da nessun’altra
fonte che dalla diretta lettura avrebbe egli potuto derivare un giudizio
così vero e preciso sulle doti stilistiche degli scritti di
Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti che a rivelare al
mondo la grandezza di Cesare Augusto scrittore sia stato il primo
umanista d’Italia, e che a nessun altro sia riuscito meglio che a lui di
definire, in fresco e saporoso latino, le caratteristiche dello
stile del figlio adottivo di Giulio Cesare. Molti secoli
passarono prima che si ponesse di nuovo mente ad Augusto scrittore, e
solo quando fu ritrovata l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si
diedero a raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a riprodurli
più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando meticolosamente il
benchè minimo frammento. Sulla iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici
e filologi discutono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi
d’accordo sulla natura e significato di uno dei quattro documenti che O. consegna,
insieme col testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte
fossero letti in Senato. I quattro documenti erano le disposizioni per i
funerali, il resoconto delle sue gesta, una relazione sulla situazione
militare e finanziaria dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come
reggere e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero il
secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem- plare che Tiberio,
obbedendo alla volontà di Augusto, fece scolpire nel bronzo dei due
pilastri collocati innanzi al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella
parte setten- trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Flaminia;
bensì nella copia che fu incisa nella pietra dell’Augusteo di Ancyra,
capitale della Galazia, cioè nell’Augusteo di Ankara, capitale della
nuova Turchia. Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res
gestae Divi Augusti furono incise nel testo latino det- tato
dall’Imperatore e nella traduzione greca fatta eseguire dal successore Tiberio,
perchè le parole di Cesare. O. sonassero più intelligibili alle
popolazioni orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di
Monumentum ancyranum, da venti anni a questa parte riprodotta in un
testo sempre meglio corretto, essendo stata rinvenuta un’altra copia
dell’originale latino nella colonia imperiale di Antiochia di Pisidia.
Ma, come ho detto innanzi, i dotti discutono ancora sul significato
del documento, nel quale Augusto volle rendere pubblica ragione
delle cariche ricoperte, dei donativi elargiti e delle imprese operate.
E, purtroppo, anche in questo caso, taluni critici, per cercare di
scoprire i diversi momenti della redazione dello scritto, hanno
affermato che il piano generale dell’opera è disorganico e disor-
dinato, che molte sono le incoerenze di alcune parti, e che però Cesare
Augusto ha redatto il documento ampliandone uno precedente, più modesto e
meglio ordinato. Insomma... una quistione omerica, che, a parer
nostro, è facilissimo distruggere nelle sue false ed ingannevoli
argomentazioni con poche parole. Il documento di Augusto non è un bilancio,
non è un testamento politico, non è un'iscrizione del tipo degli
elogia; ma è rendiconto, testamento ed elogium, perchè Augusto l’ha
redatto quando si appressava il giorno della morte. Per ciò stesso non
rientra in nessun genere. La solennità del latino del documento
augusteo non è soltanto nello stile, ma è nei fatti che vi sono
esposti, e soprattutto è nel fatto che al Senato e al Popolo di Roma
parla il fondatore dell’Impero, il Padre della Patria, Augusto, e non per
esaltare la sua propria opera, ma per proclamare che essa rimarrà in
eterno legata alla fedele collaborazione del Senato e del Popolo di
Roma. Svetonio afferma che Augusto soleva scrivere tutto ciò che
dovesse dire, che scriveva perfino quello d’importante che dovesse dire a sua
moglie Livia; e che si era assuefatto a scrivere meticolosamente i
suoi discorsi al punto che, quando la troppo cagionevole gola
gl’impedisse di arringare la folla, un araldo leg- geva ad alta voce il
suo manoscritto: praeconis voce ad populum contionatus est. Perciò io
dico che anche questo documento è un discorso al Popolo di Roma:
l’ultimo discorso nel quale il Padre della Patria, Cesare Augusto,
rende conto dell’opera sua. E le prove della mia affermazione sono la
presunta incoerenza e il presunto disordine scoperti e biasimati
dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli quei critici i quali
cercano di dimostrare in « sede scientifica » che Cesare avrebbe copiato
da Posidonio molti capitoli di un libro dei commentarii della guerra
gallica (e sono, purtroppo, Italiani); o questi altri (e
fortunatamente non sono Italiani) che scoprono in Augusto un errore
di cronologia? Giacchè, se dovessimo dar retta a costoro, O. avrebbe
commesso l’errore di menzionare alla fine del documento i due maggiori
titoli del Pater Patriæ e di Augustus conferitigli dal Senato e dal
popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che nel trentaquattresimo
e trentacinquesimo paragrafo, Augusto avrebbe dovuto ricordarli, a
giudizio di cotesti critici, molto prima: chè insomma avrebbe dovuto
fare opera di storico mediocre e dimenticare di essere Cesare
Augusto. Leggete il documento. Esso comincia: annos undeviginti natus exercitum
privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a
dominatione fac- tionis oppressam in libertatem vindicavi: « all’età
di diciannove anni, di mia iniziativa e con danaro mio apparecchiai
un esercito, e con esso restituii libertà allo Stato oppresso dalla
prepotenza di una fazione. E si chiude così. Tra il sesto e il settimo
consolato mio, dopo ch’ebbi soffocate le guerre civili ed assunto,
per universale consenso di tutti i cittadini, il supremo potere,
trasferii dalla mia persona all’arbitrio del Senato e Popolo romano il
governo della cosa pubblica. Per questa mia benemerenza, mi fu conferito,
con decreto del Senato e Popolo romano, il titolo di Augustus...
Durante il tredicesimo mio consolato, il Senato, l’ordine equestre e il
Popolo romano mi acclamarono Padre della Patria, e decretarono che questo
titolo dovesse essere iscritto nel vestibolo della mia casa e nella
curia Giulia, sotto la quadriga che per decreto del Senato fu
eretta ad onor mio. Quando redigevo questo documento, avevo settantasei anni. Comincia:
annos undeviginti natus; finisce: annum agebam septuagesimum sextum. Non
dimentichiamo questa chiara e significativa corrispondenza tra
l’inizio e la chiusa del documento, nella quale sono compresi i
cinquantasette anni della vita politica di Cesare Augusto. O sembra,
forse, strano che per sublime orgoglio il primo cittadino della Roma
imperiale, acco- miatandosi per sempre dalla plebe romana, di tutti
i titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia ricordare alle
generazioni avvenire il nome di Augustus e il titolo di Pater Patriæ? O.
era infermo, la morte si appressava non temuta, ma serenamente attesa,
chè infatti morì di bella morte. Egli parla per l’ultima volta al Senato
e Popolo di Roma, come un cittadino, che, amministrata la cosa
pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al successore l’incarico e chieda, con
coscienza onesta e proba, il benservito. C’è in questo documento un
crescendo di tono, che verso la fine raggiunge il maestoso: dal
venticinquesimo paragrafo in poi esso si fa solenne come litania: mare
pacavi a praedonibus; omnium provinciarum populi romani fines auxi; Ægyptum
imperio populi romani adieci; colonias deduxi; signa militaria reciperavi;
Pannoniorum gentes imperio populi romani subieci; ad me ex India regum
legationes saepe missae sunt; ad me supplices confugerunt reges; a
me gentes Parthorum et Medorum reges habuerunt; e finalmente i due ultimi
paragrafi sopratradotti. Sui mari ha debellato i pirati, ha allargato i
territori di tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova
provincia di Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni colonie di
Roma, ha recuperato bandiere e vessilli: a lui hanno fatto ricorso in
atto di supplica i re di tante nazioni, da lui le genti di Oriente hanno
avuto i re che avevano dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo si
chiude il rendiconto delle imprese operate da Cesare Augusto; nel
trentaquattresimo e nel trentacinquesimo paragrafo risuona il ricordo del
nome di Augustus e del titolo di Pater Patriæ. Al Senato e Popolo
romano, alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni avvenire
Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua terrena giornata si
chiuda, con quel nome solo e solo con quel titolo. * ws
Cesare Augusto affida il manoscritto alle vergini Vestali perchè
fosse consegnato dopo la sua morte al Senato e inciso sul bronzo. Il
successore Tiberio fece riprodurre il testo com’era, con una brevissima
appen- dice e in ortografia un tantino diversa da quella prefe-
rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale modificazione. Dunque,
noi possediamo un’opera intera di Augusto, la quale ci rivela la sua
grande personalità di scrittore. Il latino d’O. non è QUELLO DI
GIULIO CESARE. O. scrive e parla IN PRIMA PERSONA, ma si può dire che in
questo scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commentari. Non
giudica, NON AGGIUNGE NESSUN COMMENTO ai fatti che espone pacatamente e
senza enfasi, ma dalla secca enumerazione dei templi fondati, degl’edifici
pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite all’erario e alla
plebs, delle genti soggiogate, dei nemici sconfitti, delle terre
conquistate, delle leggi promulgate, spira il calore dell’epopea e della
leggenda. La sua opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di
ripen- sare ai primi quattro versi della prima epistola del secondo
libro di ORAZIO (si veda). Se io tentassi di rubarti un po’ di tempo con
una lunga chiacchierata, o Cesare, peccherei contro l’interesse dello
Stato, giacchè da solo sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia
difendi con gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi
la emendi. Epico è il tono di questo scritto d’O., anche là dove
sono riassunte in brevissime parole imprese che durarono anni. Colonie
militari ho inviato in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due
Spagne, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in
Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte per ordine mio, le
quali, per tutto il tempo ch'io vissi, sono state assai popolose e
prosperose. Leggendarie appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai
generali suoi sotto ì suoi auspici, marciano, di conquista in
conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte nella leggenda
sembrano le triremi sue che fanno vela, =_= 1 -:-—=- esse
poni “bi ski audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse
l’Oceano dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad
Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano prima di allora
era giunto... ». Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto
enfatico, e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono sempre
esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit, per dire che il
Senato e Popolo romano ordinò, decretò, comandò, nominò. La collocazione
delle parole è semplicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in
questo periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen meum
senatus consulto inclusum est in saltare carmen, et sacrosanctus in
perpetuum ut essem et, quoad viverem, tribunicia potestas mihi esset, per
legem sanctum est. Il mio nome per decreto del Senato fu compreso
nel carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo, ed a
vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito. Non fa mai
il nome degli avversari suoi; tace quello dei congiurati che
assassinarono il padre suo Cesare: qui parentem meum interfecerunt, eos
in exilium expulsi iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea
bellum inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas-
sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con procedimento
legale il loro delitto, e, in seguito, quando essi portaron guerra allo
Stato, per due fiate li sconfissi in campo ». E continua, pacato e
grave: « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne, in
tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore risparmiai tutti i
cittadini che dimandarono grazia. Le genti straniere alle quali fu
possibile, senza pericolo, perdonare, preferii conservarle anzi che distruggerle.
Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit- tadini romani
militarono. Di essi più che trecentomila mandai nelle colonie o feci
ritornare ai loro municipi, dopo ch’ebbero compiuto gli anni di servizio,
e a tutti assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa del
servizio prestato. Seicento navi catturai, non includendo in questo numero
quelle di tonnellaggio inferiore alle triremi. Entrai in Roma
ovante, due volte: tre ebbi trionfi solenni e ventuna volta fui acclamato
imperator, sebbene il Senato mi decretasse un maggior numero di trionfi,
ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo deposi in Campidoglio, e
così sciolsi il voto che avevo solennemente fatto in ogni guerra. Per le
imprese felicemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici
operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque volte decretò che
si rendessero grazie agli dèi immortali. Ottocentonovanta furono i giorni nei
quali, per decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove
re o figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi al mio cocchio.
Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo la sua opera di
legislatore: « Con leggi nuove da me promulgate richiamai in vigore le
consuetudini antiche dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra
generazione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire esempi di
molte cose, degni d’essere imitati. Sentitelo quando ricorda gli onori
che il Senato e Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi,
e leggerete in un brevissimo inciso il dolore del padre per
l’immatura morte di Gaio e Lucio Cesare, e l'umano e affettuoso
compiacimento suo nel ricordare che appena quindicenni essi furono
acclamati principi della gioventù romana e designati consoli. I due figli
miei, che il destino mi strappò ancor giovani, Gaio e Lucio Cesare,
il Senato e Popolo romano per farmi onore li designò consoli appena
quindicenni, che entrassero in carica dopo cinque anni. E il Senato
decretò che dal giorno della loro presentazione nel Foro partecipassero ai
pubblici consigli. E tutti i cavalieri romani li acclamarono principi
della gioventù, e offrirono in dono scudi e lancie di argento ». E, infine,
ascoltatelo quando ricorda gli anni di Azio e dell’ultima guerra
civile. Mi giurò fedeltà l’Italia tutta intera, spontaneamente, e mi volle
condottiero della guerra nella quale vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà
anche le provincie delle Gallie, delle Spagne, d’Africa, di Sicilia, di
Sardegna. O. è filosofo accortissimo, che aborre da ogni lenocinio
sintattico o lessicale, ma che nel giuoco delle congiunzioni, del
polisindeto e dell’asindeto, riesce a far leggiero o grave il tono della
voce, più lento o più celere, ma non mai concitato il movimento della
frase. Abbiamo letto or ora un esempio di asindeto, in cui le pause
tra un nome e l’altro delle provincie rendono più solenne l’immagine del
mondo romano stretto nel giuramento intorno al suo Duce; eccone, invece,
un altro di polisindeto, là dove O. ricorda l’iscrizione dello scudo
d’oro offertogli dal Senato. Il testo originale dell’iscrizione era il seguente.
Il Senato e Popolo di Roma offre ad O. questo scudo per il suo valore
clemenza giustizia pietà – VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTOTIÆ ET PIETATIS CAVSA – e, naturalmente,
VIRTVS sta a significare l’opera del condottiero d’eserciti, e PIETAS il
profondo ossequio alle istituzioni religiose. Ma O. riunisce più
efficacemente in due endiadi le quattro virtù, essendo le due prime
proprie dell’opera sua di condottiero, le altre due del magistrato civile
e supremo amministratore dello Stato. VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTITIÆ ET PIETATIS
CAUSA. Perciò io dico che è molto difficile tradurre bene i paragrafi
delle res gestae d’O. A questa grande iscrizione, che Mommsen chiama
la regina delle iscrizioni latine, è mancato chi la traducesse nella
lingua del principe, perchè è stata rinvenuta troppo tardi. Nei tempi
moderni avrebbe potuto tradurla solo Tommaseo, ma non l’ha fatto
perchè non la conosce. TOMMASEO traduce solo le sette parole che son
citate da SVETONIO nella vita d’O, ed io le ho ripetute nella mia
traduzione copiandole dal Dizionario d’estetica, e le ripeto di nuovo con
accanto il latino d’O. BIS OVANS TRIVMPHAVI ET TRIS EGI CVRVLIS TRIVMPHOS.
O entra in Roma ovante, due volte: tre volte ha trionfi solenni. Solo la
collocazione delle parole semplice ed efficace, e un raro
accorgimento nella scelta dei vocaboli e dei sinonimi potrebbero
soddisfare il desiderio nostro di una traduzione italiana che riproduce gl’effetti
del latino d’O. O. e filosofo elegante e temperato. SVETONIO riferisce
che egli filosofa su molte cose, alcune delle quali legge NELLA CONVERSAZIONE
DEGL’AMICI, quasi dinanzi a un uditorio come le risposte a BRUTO (si veda)
intorno a CATONE (si veda), che essendosi messo a leggere, giunto un pezzo
innanzi, finalmente stanco dovè farne terminare a Tiberio la lettura; l’esortazioni
alla filosofia, ed alcune notizie della sua vita che espose giungendo
fino alla guerra cantabrica e non più in là. Compone anche qualche
verso. Rimane, al tempo di Svetonio, un volumetto in esametri sulla
Sicilia e un altro di Epigrammi, i quali egli e andato COMPONENDO DURANTE IL
BAGNO. Anche incomincia con grande alacrità
una tragedia, ma non essendo contento della forma la distrusce, e agl’amici
che un giorno gli dimandano che fa di bello il suo Aiace, risponde che il
suo Aiace s’e buttato non sulla spada, ma in una spugna. Spregia di
fare uso di vocaboli dotti e difficili o com’egli stesso li define
reconditorum verborum fetoribus. Ha a noia i leziosi e gl’arcaizzanti,
ciascuno vizioso nel suo genere, e talvolta li mette in derisione e sopra
ogni altro il suo MECENATE (si veda) di cui continuamente riprende i riccioli
stillanti unguento, come li chiama. Non la perdona neppure a
Tiberio che anda a caccia di parole stantie, e da del matto a Marc’ANTONIO
(si veda), come colui che FILOSOFA PIÙ PER FARSI AMMIRARE CHE PER FARSI
INTENDERE. Nei discorsi, di alcuno dei quali leggesi in CICERONE menzione
entusiastica, sappiamo che O. si preoccupa di riuscire eloquente senza
mai ricorrere alla verbosità e pesante sentenziosità dell’allora
decadente oratoria. In una lettera ad Agrippina, lodando l’ingegno di
lei, l’ammonisce che si studi di non CONVERSARE in modo
disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì che tutti potessero
capire, preferiva una sintassi limpida ad una sintassi più armoniosa e serrata,
e adopera le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città, facendo cosa
che un diligente maestro dei nostri tempi sottolinea con frego azzurro
nel compito del malaccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta questi particolari
della grammatica e sintassi d’O, e che ha modo di consultarne gl’autografi,
ricorda anche che O non divide mai le parole in fine di riga per
terminarle nella riga seguente, ma le ripiega sotto chiudendole con una
linea curva. E aggiunge che l'ortografia d’O, abituato a scrivere per CONVERSARE,
e quella di chi scrive COME PRONUNZIA. Se dobbiamo credere agl’antichi, d’O. restano
famose le lettere. Raccolte per tempo in più volumi e alcune di esse
rimaste vaganti, non costituirono mai un vero e proprio corpus, ma andarono
a poco a poco disperse. Esse non hanno la buona e cattiva ventura
di entrare nelle scuole come libro di testo, e neppure l’altra d’essere
raccolte in antologia. Restano però i giudizi degl’antichi e alcuni
frammenti degni d’essere ricordati. O. discorre alla buona,
familiarmente, sia che filosofa di affari politici, sia che si rivolgesse
ad amici e parenti. Sollecita VIRGILIO (si veda) che gli mandas almeno
l’abbozzo dei primi versi dell’Eneide; scherza con ORAZIO (si veda)
rimproverandolo che non conversa mai di lui, e chiedendogli se per
caso non crede di rimanere infamato presso i posteri, qualora dai
saggi suoi appare chiara la loro intimità. All’amico MECENATE (si veda) un
giorno scrive che essendo infermo e tuttavia indaffarato in più cose,
chiama e fargli da segretario il suo ORAZIO; lo richiama cioè dal
parassitico desco del nobile etrusco alla sua mensa di pontefice massimo.
VENIET ERGO AB ISTA PARASITICA MENSA AD HANC REGIAM ET NOS IN EPISTVLIS
SCRIBENDIS ADIVVABIT. E un’altra volta gli scrive una lettera che si chiude con
questa forbita apostrofe. Salute o mio ebano di Medullia, città etrusca,
avorio d’Etruria, laserpizio di Arezzo, perla tiberina, smeraldo dei
Cilnii, diaspro degl’Iguvini, berillo di Porsenna, carbonchio d’Adria, e, per
dirle tutte in una parola, céccolo delle meretrici. Suo nipote Gaio
Cesare e da lui chiamato in segno di affetto, asellus tucundissimus; e al
figliastro Tiberio egli scrive lettere gonfie di tenerezza e confidenza,
raccontandogli come avesse passato il giorno, quanto avesse perduto al
giuoco, parlandogli dei suoi digiuni imposti dalla cagionevole salute, e
d’aver sbocconcellato in lettiga, tornando al palazzo, un’oncia di pane e
pochi acini di uva secca. E quando Tiberio, il quale milita lontano con
gl’eserciti, scrive di essere smagrito per le continue fatiche della
campagna, ei lo supplica di riguardarsi, chè, alle cattive notizie
della sua salute, et ego et mater tua (Livia), expiremus et summa
imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia Giulia vuole un gran
bene, e la licenziosa vita ch’ella conduce amareggia assai l’animo suo. Sole
dire di aver DUE FIGLIE, tutt'e due DELICATISSIME, la RES PVBLICA E
GIULIA. E molto spesso nelle lettere, come riferisce il vecchio PLINIO,
recrimina penosamente la dissolutezza di lei. Umano egli e sempre e ricco
di sentimento. Qualunque cosa scrive, politica o familiare, alieno da
ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad accogliere espressioni còlte
sulla bocca del popolo. Non scrive die quinto ma diequinte, chè così
comunemente dicevasi. E per esprimere la celerità di un avvenimento, dice
ch’esso e accaduto più prestamente che non cuoce uno sparagio, celerius quam
asparagi coquuntur. E per dir stolto adopera baceolus che corrisponde al
nostro baggeo. E per dire che sta male in salute dice vapide se
habere. Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero la sola iscrizione
delle res gestæ in latino, e alcuni decreti ed editti in greco, non
tradotti da lui direttamente, ma certo da lui corretti e controllati.
Svetonio racconta che O., sebbene conoscesse il greco e sempre lo
legge e studia, tuttavia non si prova mai a scriverlo, chè teme di non
conoscerlo abbastanza. Studia con retori greci, i quali gli appresero cose
di larga erudizione. Ma scrittore, come ci appare nel lapidario latino
della iscrizione delle res gestæ, egli s'e formato sull’esempio di
Cesare, nell’azione ed esperienza militare e politica di tutti i giorni.
Aveva innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia, ma la
loquacità, e a reputare perciò che L’ELOQUENZA CONSISTE NEL NON FAR MOSTRA D’ELOQUENZA:
PARTEM ESSE ELOQVENTIÆ PVTAT ELOQVENTAM ABSCONDERE -- che è poi la grande
virtù della parola destinata a commuovere i popoli e a guidarli alla
vittoria e all’impero. I contemporanei lo salutarono coi versi di VIRGILIO.
Ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato promesso e che resusciterà nel
Lazio e nelle campagne d’Italia, dove in antico regnava Saturno, l’età
del- l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan e all’India,
di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instancabile Atlante sostiene sulle
spalle lo splendente astro dei cieli. Lo avevano veduto entrare tre volte
in trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi d’Italia
l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di trecento templi, e
fra l’applauso della folla e i canti delle vergini e delle matrone,
mentre sugli altari fumanti cadevano immolati migliaia di tori, l'avevano
ammirato, sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio di Apollo,
ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli sottomessi per abbellire
le magnifiche colonne del superbo porticato. L’immagine
virgiliana -- VIRGILIO (si veda) -- dell’apoteosi di Augusto si è
trasmessa, di generazione in generazione, come l’immagine della pace
romana creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e dalla volontà
pura di uno spirito umanamente libero trasformata in religione politica e
ideale di civiltà: riformatore della costituzione, difensore del
territorio, organizzatore dell’amministrazione e della società, Cesare
Augusto rappresenta la maestosa dignità dell’Impero e il diritto fondamentale
dello Stato. I simboli del suo destino, l'adozione di Cesare, la
battaglia di Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel tramonto
di Roma repubblicana, la luce di Roma imperiale; più chiaramente ancora l’annunzia
il nuovo suo nome di Imperator Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso
e riunisce in un solo destino l’eroe creatore e la volontà
implacabil- mente lucida del fondatore dell’Impero. Religiosa
eredità fu quella di Cesare: e infatti duravano ancora le leggi, le
istituzioni e gli ordina- menti, coi quali Cesare era salito al potere e
il culto del divus Iulius e diventato il culto dello Stato,
garanzia e patrimonio dell’Impero. Ma rafforzando e difendendo la
Romanità così che niente mai potesse distruggerla, Augusto risolveva a
favore dell’Occidente l’antitesi tra l'Oriente e l'Occidente che Cesare
aveva drammaticamente vissuta negli ultimi anni della vita sua, e
che s’era ripresentata, fortunosa e tragica, nella lotta tra Ottaviano
non ancora Augusto e Marco Antonio. È però costruendo in Occidente la Roma imperiale
sognata e creata da Cesare, Augusto che aveva da Cesare ereditato la
legittimità aggiunse alla grandezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a
battesimo la civiltà europea. Insieme con GIULIO (si veda) Cesare, O.
è il simbolo della dignità imperiale, e il nome suo di imperator cæsar avgvstvs
consacra l’identificazione dell’impero con l’occidente. Il titolo di ‘cesare’
da il diritto di successione al trono; quello di ‘augusto’ concede la
dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficialmente inaugurato d’Adriano
e poi consacrato nelle formule del protocollo. Creatore dell’impero e
Cesare; fondatore e O., il quale e riuscito a far sopravvivere l’opera e
la gloria di Cesare in cinquantasei anni di regno, e della santità di Cesare fa
il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appare dunque ricco di conseguenze
per il mondo l’atto di adozione, col quale Cesare proclama suo
erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che, alla vigilia di una
battaglia, mentre fa tagliare un bosco per costruirvi il campo
delle legioni, ordina si risparmiasse una palma come augurio di
vittoria, e quella sùbito gitta polloni alti e fiorenti. All’albo della
Rinascenza, quando si inaugura la ricerca storica e si annunzia fecondo
di civiltà il quasi voluttuoso amore del passato, e la romanità risorge
nella cultura e nell’arte nutrite dalla possente vita dei sensi, allora i
due nomi di cesare e di augusto tornano ad essere creatori della
religione dell’impero. Allora il romanticismo eroico dell’umanesimo celebra ed
esalta l’idea imperiale di Roma con tanto devota ammirazione che gl’italiani
ne trarranno motivo di orgoglio e di serena fede, quando il predone
straniero spoglia e insozza le loro terre. E da quel grido di amore
per l’antica grandezza romana nasce un appassionato libro del
Risorgimento, sul primato della nostra gente e sulla universale missione
d’Italia. |Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leggende sui
monumenti che sono rimasti segni tangibili della sua presenza, a testimonio
della grandezza d’O. Ed O. apparve garante del miracoloso destino
d’Italia, come nella formula dell’impero che saluta l’imperatore con
l’augurio che fosse più fortunato di Augusto: felicior augusto. E si
divulga la fama che nel mausoleo comunemente noto col nome di Austa
sorge circondata dalle tombe un’abside, ed O. e i sacerdoti suoi vi
celebrassero sacrifizi solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte
del mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’impero. L’Austa
divenne una fortezza inespugnabile, la fortezza più contesa di Roma, ed e
strascinato allo campo dell’Austa il cadavere di Cola di Rienzo e
là e bruciato in un fuoco di cardi secchi, in quegl’aanni che Petrarca scopre e vaticina nella grandezza di
Roma imperiale l’ideale politico italiano, distruggendo ogni antitesi tra
il passato e l’avvenire. E dopo che il maestro Marchionne d’Arezzo ha
costruita presso il Mercato di Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora
nasce, più suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che sotto
la torre e un palazzo incantato ed O. vi riposa. E un giorno si desterebbe
dal sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni, quando
Roma e pronta a reggere e guidare per la seconda o terza volta le sorti
del mondo. Ottaviano. Keywords: vox augusta. Ottaviano. Luigi Speranza,
“La ragione conversazionale: Grice ed Ottaviano,” pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “ The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice ed Ottaviano: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale e il collettivismo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Modica). Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice:
“Perhaps with Holllinghurst, and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the
few who have cherished in the analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has
revived a debate which should fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano. Straordinario
di Storia della Filosofia a Cagliari, poi a Napoli, ottenne la cattedra, conseguendovi
la libera docenza ne passò poi a Catania, dove fonda e diresse l'Istituto di
Magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande conoscitore della
filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e studiò molte opere
inedite, elaborò una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo”
(Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue
critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo
Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si
occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri
nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi
Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di
Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore,
presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della
nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca
Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte
del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre,
nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova, da
spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne dapprima
Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber figurarum,
scoperto da Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e
diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non ha
seguito. Saggi principali: PAbelardo. La vita, le opere, il pensiero, Poliglotta,
Roma; Il Tractatus super quatuor evangelia, di Fiore, Archivio di filosofia,
Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda),
Abelardo, Incertus auctor, Olschki, Firenze; Joachimi abbatis Liber contra
Lombardum (Scuola di Gioacchino da FIORE (si veda)), Reale Accademia d'Italia Studi
e documenti, Roma, Un documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore, Rondinella,
Napoli); Pier LOMBARDO (si veda), in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte
per la Decorazione e la Illustrazione del Libro, Urbino; Critica dell'Idealismo,
Rondinella, Napoli; Metafisica dell'essere parziale, MILANI, Padova; “La
tragicità del reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia,
MILANI, Padova; Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del
cartesianesimo in Italia, introduzione e note Orsi, MILANI, Padova; Scarcella,
Dizionario Biografico degli Italiani, Orsi, Il filosofo della quarta età:
ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”, Catania, di. Orsi, Tra Socrate e Gesù, Sicilia,
Catania,. E. Scarcella, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore Pace, Info Magazine. Grice: “I love
Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy.
More specifically, as a Sicilian, he was not interested in Italian philosophy,
which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile –
he corresponded extensively with him! La
visione cristiana di Buonaiuti, Campitelli, Foligno. A proposito di un libro
sul Prepositino, Rivista di filosofia neoscolastica, Traduzione, prefazione e
note di: Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba,
Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo, Signorelli,
Roma. Ricerche lulliane, Estudis universitaris catalans; Abelardo. La vita, le
opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Lullo,
Rivista di cultura; L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la
bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in
francese: L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le
Fond Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin. Guglielmo
d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero, Biblioteca di filosofia e scienze,
Roma. A proposito di un libro su AOSTA (si veda), in Rivista di filosofia
neoscolastica. I problemi del realismo, Giornale critico della filosofia
italiana; Le Quaestiones super libro Praedicamentorum” di Faversham, R.
Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda),
Saggio contro la dottrina dell’unità dell’intelletto, Carabba, Lanciano. Traduzione,
prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio sull'essere e l'essenza e altri
opuscoli, prefazione, traduzione e note critiche d’O., Carabba, Lanciano. Frammenti
abelardiani, Rivista di cultura, Prof. P, Loescher, Roma. Il Tractatus super
quatuor evangelia di FIORE (si veda), iArchivio di filosofia», Padova. Osservazioni
critiche sui presupposti del problema della conoscenza. Il superamento
dell'immanenza sulla base della nozione di individuo, Archivio di filosofia. Il
pensiero e il suo atto, Archivio di filosofia. La riforma della logica di
Aristotele, Archivio di filosofia. Nota polemica, Rivista di cultura. Le opere
di Faversham e la sua posizione nel problema degl’universali, Archivio di
filosofia. Traduzione, curatela e note di: TRACTATVS DE VNIVERSALIBVS attribuito
ad AQUINO (si veda), cur. di O., Reale
Accademia d'Italia, Roma. Introduzione, traduzione, prefazione e note di AOSTA
(si veda), Il Monologio, Palermo. Antologia del pensiero medioevale. Per le
scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi medioevali inediti. Alcuino,
Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Pietro Abelardo, Incertus auctor, a cura
di O., Olschki, Firenze; San Vittore, la vita, le opere, il pensiero, Lincei,
Traduzione, prefazione e note di FIDANZA (si veda), Itinerario della mente
verso Dio, traduzione, prefazione e note di O., Antologia del pensiero
medievale per le scuole medie superiori, Palermo. Il pensiero di Orestano,
Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in Varisco, Archivio di filosofia,
Traduzione e note di: P. Abelardus, Epistolario completo. Contributo agli studi
sulla vita e il pensiero di Abelardo, trad. it. e note critiche d’O., Ires,
Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum. La Scuola di Gioacchino da FIORE,
cur. O., Reale Accademia d'Italia, Studi e documenti, Roma. Critica del
principio d'immanenza, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Il perduto “Liber de
potentia, obiecto et actu” di Lullo in un manoscritto romano, Estudis
franciscans, Un documento intorno alla condanna di FIORE (si veda), Rondinella,
Napoli, Siculorum Gymnasium, Catania). Storia, filosofia della storia,
scienza della storia, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Un brano inedito
della Philosophia di Conches, Morano, Napoli. Il cosiddetto riferimento
necessario alla coscienza nell'idealismo, Atti del Congresso di Filosofia, Padova,
Novità in filosofia, Milani, Padova. LOMBARDO (si veda), in Celebrazioni
piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro,
Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli, Milani, Padova, Traduzione,
prefazione e note di: Abelardo, L'origine delle monache; e La regola del
Paracleto, traduzione, prefazione e note di O., Carabba, Lanciano.
L'unica forma possibile di idealismo, Rivista di Filosofia Neoscolastica, La
scuola attualista ed Eriugena, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Riflessioni
sulla polemica Orestano – Olgiati, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Curatela
di: CAMPANELLA (si veda), Epilogo magno (Fisiologia italiana). Testo inedito
con le varianti dei codici e delle edizioni latine, cur. O., Reale Accademia
d'Italia, Roma, Kritik des Idealismus, mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim
Von Rintelen: Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. Metafisica
dell'essere parziale, MILANI, Padova. L'unità del pensiero cartesiano e
il cartesianesimo in Italia, MILANI, Padova. Scritti con giudizi della critica
italiana, Tipografia agostiniana, Roma. Panteismo o trascendenza, Humanitas; Il
problema morale come fondamento del problema politico, Milani, Padova. L'idealismo
trascendentale e la metafisica classica, Rivista di Filosofia Neoscolastica; La
soluzione scientifica del problema politico, Rondinella, Napoli. Le incertezze
della scienza moderna, Padova. Progetto di un disegno di legge per salvare la
Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla democrazia ingenua alla
democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il social-liberalismo, MILANI,
Padova, Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, MILANI,
Padova. Presentazione di Sepinski, Cristo interiore secondo FIDANZA (si veda),
presentazione O. trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del
reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI,
Padova. Critica del socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà
per tutti, MILANI, Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti,
ovvero la mia soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica
e pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova. La legge
della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e
applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La
Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La
Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e COLLETTIVISMO.
Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti.
Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in
Italia, introduzione e note cur. Orsi, MILANI, Padova. Sophia: fonti e studi di
storia della filosofia, Palermo: Ires, Il complemento del titolo varia in:
rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia; poi in:
rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed editore
variano in: Napoli, Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni dei saggi più
significativi da O. per Sophia: Le rationes necessariae in AOSTA (si
veda), in Questioni e testi medievali , Sophia, Novità abelardiane, in
Questioni e testi medievali , Sophia; Storicismo attualista, Sophia, Storicismo
attualista, seconda puntata, Sophia; Controversie medievali. A proposito della
paternità tomistica AQUINO (si veda) di un “Tractatus de universibus, e della
data del De unitate intellectus, Sophia», Intorno al Congresso di Filosofia di
Padova, Sophia; Intorno alla critica dell'immanenza, Sophia, Critica del
principio di immanenza, Sophia, A proposito della storia, Sophia. I grandi
idealisti, Sophia. L'idealismo sulla via di Damasco, Sophia. Contraddizioni
idealistiche, Sophia. La fondazione del realismo, Sophia. Postilla alla difesa
del principio di immanenza, Sophia; Postilla a Immanenza, idealismo e realismo,
Sophia». Idealisti per forza, Sophia, Ancora sulla fondazione del realismo, in Sophia;
Fanatismo idealista, ovvero l'agonia dell'idealismo, Sophia; Nuova
illustrazione del documento intorno alla condanna di FIORE (si veda). Postilla,
Sophia; Intorno all'idealismo e al realismo, Sophia, Postilla a Chiocchetti: “A
proposito dell'idealismo d’O., Sophia; Anti-moderno, Sophia; Intorno alla
critica all'idealismo, Sophia; Intorno alla valutazione della filosofia, Sophia;
La teoria delle “species” e l'idealismo immanentistico, Sophia; La natura della
sensazione e la fondazione del realismo, Sophia; Referendum ai nostri Lettori
in occasione della ripresa delle Rivista, Sophia, Sophia, Il vero significato
della relatività galileiana nel movimento, Sophia. Natura pura e soprannaturale, Sophia. I
fondamenti logici della relatività, Sophia. Gl’argomenti probativi
dell'evoluzionismo, Sophia, Intorno al significato storico dell'idealismo
italiano, Sophia; Intorno alla legge di conservazione dell'energia, ossia del
materialismo, Sophia, Intuizionismo e logicismo in matematica, Sophia, Intorno
alla gratuità dell'ordine soprannaturale, Sophia; Postilla a Riverso, Aporie e
difficoltà del Positivismo logico, Sophia; Valutazione critica del pensiero di Croce.
L'estetica, Sophia, Valutazione critica del pensiero di Croce; Lo storicismo
assoluto, Sophia, Bilancio di Croce, Sophi. Einstein filosofo, Sophia, Giudizio
intorno alla Logistica, Sophia, Logica, matematica, poesia, Sophia, Crolla
l'idolo einsteiniano, Sophia, Il“compagno Scioccherellov, ossia la
tragicommedia del comunismo, Sophia, Mi intrattengo ancora con il compagno
Scioccherellov, Sophia, “Individui di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica
della democrazia come idea-forza, Sophia, Giudizio su Croce come uomo politico,
Sophia. L'assalto alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica
all'assalto del tesoro della stato, Sophia, Difesa della scuola statale, ossia
l'anti-stato contro lo stato, Sophia, L'ordine della scuola italiana”, Sophia,
In difesa dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, Sophia. Come
integrare la dottrina relativistica di Einstein, Sophia, O. nella filosofia del
Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, cur. Rando e Solitario,
Prometheus, Milano. A. Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del
tragico nell'opera di O., cur. Ghisalberti
e Rando, Prometheus, Milano Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo,
Brescia. Coniglione, Sophia. Nel segno d’O.: una rivista a tutto campo, in La
cultura filosofica italiana attraverso le riviste, cur. Giovanni, Angeli,
Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di tromba, Critica, Orsi, Il filosofo della quarta età:
ricordo d’O., Sicilia”, Catania, Orsi, O: Tra Socrate e Gesù, Sicilia”,
Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica d’O., Archivium
Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una vita
filosofica, Introduzione a O., Campailla. Contributo all'interpretazione e alla
storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Orsi, MILANI,
Padova, Noce, Il problema dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato
del Progresso e postulato del Peccato, Mulino, Bologna, Noce, Gentile, Mulino,
Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci
dal Novecento, a cura di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta Ferro, L'anti-moderno di O., Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu,
La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier,
Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza gnoseologica, Rivista
di Filosofia Neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano. P. Mazzarella, Il
contributo di O. agli studi di filosofia medievale, Sophia, Mazzarella, Tra
finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi, O., Tradizione,
Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico italiano: il
confronto tra Preti e O., Protagora, Aspetti e problemi della filosofia
italiana contemporanea, cur. Quarta, Scarcella, O. in Dizionario Biografico
degl’Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca, Di una
recente critica del principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche», Sciacca,
Il secolo XX, Bocca, Milano. Carmelo Ottaviano. Ottaviano. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.
Grice ed Ovidio: la
ragione conversazionale e l’implicatura convrsazionale – Roma – filosofia
abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Sulmona, L’Aquila, Abruzzo.
Publio Ovidio Nasone. Muore a Tomi, rivela influssi filosofici assai svariati.
A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la rappresentazione dell'età
dell'oro e dello sviluppo della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla setta di
Crotona deriva in larga misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui Pitagora --
di cui si dice che si innalza sino al divino colla filosofia e scorge con
l’animo ciò che la natura nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un
ampio insegnamento sulla natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e
condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibizione con la
teoria della metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e
nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano
invece influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos
(Met.), in complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che
fanno pensare a Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman
reader of Ovid's Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his
way through the labyrinth of mythological tales that comprise, one segment
becomes in some ways a fresh start. It begins the third and last pentad. As he
marks this formal boundary, Ovid introduces what he calls a *historical*
emphasis. Troy is founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman
matter, settings, and themes occupy ever more of our attention as the thing
approaches its end. Ovid includes some of the same tales that he had used in
his less successful (less read, not even the emperor read it!) in the Fasti, his “most Roman work” in terms
of its proclaimed matter: the very Roman calendar – “tempora cum causis Latium
digesta per annum.” – And the Romans always found a cause to celebrate! As we
read of Hippolytus deified as Virbius, or encounter the list of Alban kings,
the last pentad of the Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more
imperial readership the “Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of
of the Metamorphoses is fully continuous with the first part, simultaneously a
fresh start and a seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is
a development of long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects
signal the work's conclusion, wherein the large-scale historical progression
promised in the work's opening lines will be fulfilled: having set out
"from the first beginnings of the world," primaque ab origine mundi
Ovid's narrative will now reach "my own times," mea tempora the
present for both author and readers. Thus, if we, after reading of so many
nymphs and maidens transformed into trees or waterfowl, are surprised to find
Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's development and fulfillment of
narrative patterns also remind us that from the start we had reason to expect
such figures to appear. His vast work of transformative myth embraces even
them. Whereas Rome contribute something new to the last pentad of the
Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid has made throughly
familiar. Already at the start, the council of the gods, called by Jupiter to
discuss Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of heaven's architecture
and social distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the
like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,”
Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood
on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses
Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to
contemporary attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment
throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam
fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds
their heralded arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use
Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as a frame for other tales,
which are often only tenuously related to the newly-prominent national theme –
or rather the theme of the history of the nation. We are well aware, when we
arrive at this point, that traditionally important and familiar cycles of myth,
such as those concerning Theseus and Hercules function mainly as framing
devices that connect tales. Many of these are only tangentially related to the
framing narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does Ovid
introduce Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative mode.
The traditional story appears to establish a structural pattern for the
progress of the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales.
Troy may be familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict
our convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess,
when Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our
attention? As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other
tales in the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally
recalls those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared,
at least for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale
of Ceyx and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material.
Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as
Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical
themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters
them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his
last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and
Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts
the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But
before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive
passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter
terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod
est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis
ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at
the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the
boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere,
however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor
holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and
the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications
in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid
achieves a rich and grimly detailed impression of corporality through his descriptive
language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise description.
The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's house, but in a
way that defeats definition; for the house occupies a liminal site, hovering at
the boundaries between earth, sea, and sky. The structure itself if it can be
called a struc-scarcely separates inside from outside, for its porous nature defeats
such distinctions: “innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et
nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti,
tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit. nulla quies intus nullaque
silentia parte.” She added innumerable approaches to the building, and a
thousand openings. With no doors did she shut its threshold: it lies open night
and day. The whole house is of resounding brass, produces a roar, echoes and
repeats what it hears. There is no quiet within, silence in no quarter. In and
out of the house issue personified rumors: atria turba tenet: ueniunt, leue uulgus,
cuntque mixtaque cum ueris passim commenta uagantur milia rumorum confusaque
uerba uolutant. A throng occupies its halls; they come and go, a light crowd;
lies mixed with truth wander here and there by the thousands; and the confused
words of rumor roll about. Only when this expansive description is finished do
we learn its relevance to its surroundings: rumors of the Greek expedition have
reached Troy. This house of Fama and her attendant rumors, "lies mixed
with truth," creates a remarkable preface to the beginning of the Trojan
War, inviting us readers to consider it as an interpretive comment on all that
follows. Feeney connects the passage to themes of poetic authority in the
Metamorphoses; indeed, the authority of Ovid's epic predecessors, especially
Homer's lad and Odyssey and Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of
the Metamorphoses, where extensively adapted sometimes severely
distorted-versions of their tales are woven into a new fabric. For much of the
rest of Book 12, for instance, Nestor narrates the battle of Lapiths and
Centaurs, as he did in Book 1 of the liad: but Homer's version is a brief
summary, meant to illus-trate a point in its context, Ovid's a vast expansion
that engulfs its context, displacing the Trojan War in our attention for
hundreds of lines. Fama dominates the rest of Ovid's poem, from Book 12 to the
end, not only because of the formal introductory description of the house of
Fama, but also because of the increasing role of internal narration in the
later books: as the poem proceeds, the epic narrator recedes, and more and more
tales are reported by an internal narrator to an internal audience. Fama also
forms a boundary, prominently recurring at the very end of the Metamor-phoses,
where fama provides the means of the poet's continued sur-vival: perque omnia
saecula fama,/ siquid habent veri uatum praesagia, winam. The recurring
presence of Fama serves as a reminder of the fundamental lack of definition and
stability characteristic of narrative style throughout the work. Flux remains
Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol and an embodiment of
flux within the narrative. Fama resists the tendency toward interpretive
simplicity and transparency that the introduction of historical and political
topics might lead us to expect. As we proceed through the last pen-tad,
historical and historico-political modes of understanding events, however
pervasive their presence, ultimately never reduce Ovidian flux to order. Fate,
for instance, a cosmic principle beloved of some Greek and Roman historians,
whose workings they trace in the unfolding of events, duly turns up from time
to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of historicized myth
that is likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas the Aeneid is
deeply imbued with a sense of fate, guiding the reader to a teleological
understanding of myth and history, fate is an historical prop in the
Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from dominating
its context, the context dominates it, as in the summaries of the Eneide that
Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum moenibus
esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure from
Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil
integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the “Eneide”,
however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest summary. Ovid
acknowledges Virgil's historical vision without permitting that vision to
structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid
shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a
characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and
figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her
hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature
of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of
transformation on the narrative surface: the loss of human identity in
metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the
obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid
now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language
for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this
national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic
predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous, echoing,
boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all within
it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers familiar
with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet Ovidian
slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to interpretive
stability, although his readers may crave it. In fact, by introducing interpretive
frameworks familiar from his predecessors-Virgilian fate, for instance, in the
lines quoted above Ovid takes advantage of his readers' desire for clarity: he
invites us to reach conclusions, then fails to sustain them. The concept of fate
drawn from the philosophy of the Porch is one interpretive possibility that
turns up in the Metamorphoses, yet without the structured development that
Virgil gives it; Augustan historical vision is another. By introducing
historical and political subjects into his work, Ovid invites readers to
consider the relationship of the Metamorphoses to the world outside it -- not
only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical themes, but also to
Augustan ideology and its expression outside poetry -- in the architectural
projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the Romans' physical
environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding to the plot and
eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his contemporary
readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions of this story.
Ovid could not retell this story with directing readers awareness from his own
text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis of Romulus into the
narrative of Book 14, readers are likely to find that their thoughts turn
unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo – Roma’s first
king -- , and to accompanying images and slogans concerning the foundation of
Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place among the dia,
Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least provisionally to
define the relationship between this figure from the remote past and his
contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the later books of
the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus, Julius Caesar,
and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures are
already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that they
resemble images that are powerfully identified with meanings, like the statues
of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's parade of
heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it will be
worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of meaning, each
with its own ways of associating ancient with contemporary heroes. The Forum of
Ottaviano an architectural space well designed and equipped to promote a
unified and coherent set of messages about the relationship of past to present;
and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of change, whose
author enacts his theme by mischievous artistry, establishing patterns of
meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns are among
those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these sites of
meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by means well
suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,” the
observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but also a
titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore,
this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti,
erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive
father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer
of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in
interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum
itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's
Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea
on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of
these same heroes near each other is to make inevitable the reader's
recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the
same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly
regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely
verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues.
Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to
regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their
interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian
flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is
the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars
Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s
father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the
Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away
from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological
tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in
Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery
back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who
stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.), "Venus
joined to the Avenger" -- an expression that invites reflection on the
sexual significance of “iungere." Venus's husband stands outside the door,
wir ante fores."? A myth of political origin, its official representation
in art, and resistance to it are prominent also in the Metamorphoses in the
tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the tale offers rich
reflections on official interpretation of art. When Minerva chooses to depict
her victory over Neptune in the two divinities' dispute over the naming of
Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes its didactic
message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic correlate to the
power of enforcement that lies behind that message. Readers often side with the
Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior; yet Minerva does
not ask for our approval, nor need she take much thought for the judges of the
con-test. Her views of the story are enforceable and will determine the outcome
of the plot. Her power allows her to impose her perspective on events. Because
the historical subjects of the later books of the Metamorphoses so often bring
official interpretations within view, it is worth noting that, according to one
political approach to literature currently in favor, only official
interpretations are possible. On this view, all activity of writing and reading
takes place within a fixed political system, often unrecognized by the
participants, that "advances the interests" of "elites."' Proponents
of this approach offer a powerfully reductive historicism: nothing is important
about literature except the historically determined power-relationships that
govern its production and reception; all attention to literary qualities of a
text is sentimental and self-indulgent aestheticism. Whereas this view
contracts all understanding of literature to the narrowly political, some
recent writers on history in Roman literature expand the historical to a larger
field that embraces Varro's theologia tripertita and the universal history of
Cornelius Nepos, Diodorus Siculus, and others. In the shift, for instance, from
mythological to historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad
similarity to Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of
history in the Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical
principles is far deeper and more intimate than has been recognized before. For
instance, the poem's "alternation between diachrony and synchrony is a
narrative technique characteristic of universal history. The poem's
chronological framework from first origins to the present also reflects the
aims of universal history; yet Wheeler, like most critics today, does not view
the poem "as a natural process of evolution from chaos to cosmos,
culminating in the peace and properity of the Augustan age."' Arguing for
a subtler and less overtly political patterning of events, Wheeler traces
historical principles behind the increasingly historical subject matter of the
last pentad. The movement from myth to history represents "a shift,"
in Wheeler's view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis."
The terms are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses
alongside Varro's “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and
comprehensive work, among whose aims was to organize conceptions of divinity
into mythical, natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used
the “Antiquitates” as a source in the later books of the Metamorphoses as well
as in the Fasti, and it is surely right to call attention to the presence of
Varronian principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does
not structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's vision
is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that Virgil
self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has much to
teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that
Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the
Metamorphoses remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing,
and intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse,
unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede
them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the
'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be
sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book
1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary
reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes
throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up
as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly
brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans,
in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War
tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next
three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a
narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the
moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad,
"mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from
Roman history and even "current events," all brought within the
narrative sweep. Among "current events" we may locate the
transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is
thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess
Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's
patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity
of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed
the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach
Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it
is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But
Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by
internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological
movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent
or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with
manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in
the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city
after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs lines after the hero's
death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler
has explored Ovid's anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules'
death. Troy is assumed to exist already in the world of the poem, and that
"Ovid could have avoided the anachronism by placing stories about the dead
and deified Hercules in the mouths of characters who report retrospective
events in inset narratives that temporarily suspend the main chronological
thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology, first recounting
Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator, Alemene, mother of
Hercules, to recount his birth. Chronology appears to reverse direction, but
chronological dislocation turns out to be more complex than simple reversal.
Wheeler's conclusions refute the common notion that Ovid's shift to historical
topics results in a more linear narrative explication and greater chronological
regularity. The reintroduction of Hercules is therefore part and parcel of a
larger web of anachronism involving the foundation of Troy and the marriage of
Peleus and Thetis, both of which should have occurred already in the poem's
historical continuum. It should be clear, furthermore, that Ovid's transpositions
of the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis are a
deliberate structural strategy to furnish new points of origin for the narrative
of the final books of the poem. That is, Ovid deliberately violates his earlier
chronological scheme to provide new beginning points for the final pentad i.e.,
from the foundation of Troy and the birth of Achilles to the present) As a
result, the formality and regularity of the pentadic structure produces a
paradoxical result: on the one hand, it divides the work symmetrically into
thirds and hence to some extent structures the experience of the reader: we may
compare the division of Virgil's Aeneid into halves, in allusive reference to
the Odyssey and Iliad." On the other hand, in effecting a new beginning
for thelast pentad, Ovid reinforces the narrative indirection and
unpredictability that have characterized the Metamorphoses from its beginning. The
tales that follow the foundation of Troy both illuminate and obscure the newly
initiated narrative patterns of the last pentad. At this point, Ovid's readers
may expect him to expand upon the origins of the Trojan conflict. He does so in
his account of Peleus and Thetis, the parents of Achilles, but hastily
summarizes the elements of the story that are traditionally the most important:
Thetis receives a prophecy that she will bear a son who will surpass his
father; Jupiter, despite his passion, avoids mating with Thetis "lest the
universe contain anything greater than Jupiter" (ne quacquam mundus loue
maius haberet). Ovid alters the authority for the prophecy, substituting the
shape-shifting divinity Proteus for Themis as its source. He then develops the
story in his own way, dwelling upon a description of the bay frequented by
Thetis, Peleus's attempt to, assault her (which she thwarts by shape-shifting),
Proteus's advice to Peleus that he tie her up as she sleeps, and the successful
results. Some of this account will remind us of epic predecessors, for Proteus
is familiar from the Odyssey as well as from a brief appearance carlier in the
Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet in emphasizing shape-shifting and
sexual assault, Ovid flaunts the unedifying nature of his account and its lack
of relevance to any of the large-scale themes, providential, historical, and
originary, that one might expect at the threshhold of events that lead to the
foundation of Rome. An account of origins this may be, with reference to
historical subjects, and formally analogous to Virgil's reworking of Homeric
material in the Aeneid. Yet Ovid offers it manifestly without the interpretive
guidance that would associate it with Virgilian themes. As an account of
origins, it explores causes of the Trojan War still more remote than those
developed by Ovid's pre-decessors, suggesting a line of interpretation that
traces events back to lust, violence, and deception at least as much as to
beneficent destiny. Ovid on the one hand traces Trojan subject matter from its
origins, and on the other characteristically takes his narrative into
unforeseen directions. The tales of Daedalion and his daughter Chione and of
Geyx and Aleyone are intricately linked to the matter of Troy; yet in them Ovid
pursues free-wheeling digressivevariety that is entirely consistent with the
earlier books of the Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or
goal-directed than formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate
turn up in another tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus,
a son of Priam first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone,
whose unhappy tale of fidelity and loss has long occupied our attention.
Observing the royal couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an
old man and his neighbor shift their conversation to another sea-bird, the
diver, who likewise turns out to have a human history and even royal lineage.
In a send-up of learned claims to poetic authority," Ovid's narrator
cannot tell us which of the two interlocutors is the source for the story:
proximus, aut idem, si fors tulit... dixit. The irony of this crisis of
authority is especially marked by the genealogical king-list that follows,
which approaches annalistic, even inscriptional style: et si descendere ad
ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt huius origo Ilus et Assaracus raptusque
loui Ganymedes Laomedonue senex Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus.
frater fuit Hectoris iste: qui nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan
inferius non Hectore nomen haberet. And if you wish to follow his lineage down
to him in continuous sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede,
seized by Jupiter, and Priam, allotted Troy's last days, That bird there was
Hector's brother. If he had not experienced a strange fate in early youth,
perhaps he would have no less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously
to claim and to obscure authority for the tale. To complete the paradox, he
refers to the king-list as ordo perpetuus, "a continuous list": thus
the pretensions of his carmen perpetum to be a universal history, conducted in
unbroken sequence from first beginnings to the present, serve to introduce a
tale of admittedly indeterminate origin. The tale that follows is primarily a
natural actiology, incorporating both historical and epic subjects into an
account of how Hector's brother became the origin of a species of sea-bird.
Aesacus chasesHesperie, who in her hasty flight steps on a snake,
Eurydice-like, and dies of its bite. Her pursuer is introduced as hating cities
and devoted to rural life, yet unrustic in his susceptibility to love: non
agreste tamen nec inexpugnabile amori/ pectus habens. Amor agrestis is not
uncommon in the Metamorphoses and will soon be fully developed in the tale of
Polyphemus. What is unusual in Aesacus are his guilt and remorse at Hesperie's
death: uulnus ab angue a me causa data est. ego sum sceleration illo, qui tibi
morte mea mortis solacia mittam. The wound was given by the snake, the cause by
me. I committed a greater crime than the snake, and will send you consolation
for your death by my ow. When he throws himself from a cliff, the sea-goddess
Tethys pities him and transforms him into the diver; the verb mergitur at the
end of the story echoes the noun mergus at its beginning. Thus, the whole story
is framed as an aetiology of the bird's name, and so establishes a link between
the history of Troy and the origins of the natural world. Trojan history, along
with all notions of historical progress to the glorious present, becomes
naturalized and incorporated into aetiological explication; natural phenomena,
meanwhile, receive a history, and suggest that an historicized understanding of
nature is possible. Natural actiologies are prominent in Ovid's integration of
Trojan subjects into the Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and
Roman heroes into his narrative, his atiological focus turns from the earth to
the heavens. The poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of
apotheoses and catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the
soul of her descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to
prevent Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the
heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone
by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to
his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri
quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis
inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to
be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any
commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To
attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard
are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the
Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described.
Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with
truth," which issue from her echoing house, and have met her also as
"the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal
succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia
ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting
the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure,
any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The
identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest
anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman
readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part
of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of
his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible.
Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy
until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's death.
The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the
anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's
appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius
Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged
episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such
widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I
would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by
it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all
seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely
loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even
subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with
irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in
modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the
larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the
account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent
thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis
in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a
common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences,
books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of
Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the apotheosis
itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it raises. Ovid
resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and
intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's
nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and
Ovid's version of Aeneid 7-12 begins here, too. Ovid adds an epitaph for
Caieta: hic me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne
cremauit. By emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by
another, Ovid calls attention to an etymological explanation of her name from
kaiew, glossed by cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil
omitted. Ovid is in a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology that
would later find a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another
effect of Ovid's revision is to fill out the earlier account, suggesting that
there is more to the story than what Virgil provides. There follows a severely
abridged summary of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in
Latium up to Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here
resumes his earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he
reduces to brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many
tales not in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the
lliad, expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length,
and adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle
between Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate
over the arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated
until it is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that
had offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed
to seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.).
In Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical
of the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon,
recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus,
impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words
picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who
opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet
the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to
transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae,
and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae
sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis (Met.).
The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of Virgilian
material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event foretold but
not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy to Venus in
Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's apotheosis. Both
are assurances that fate and Jupiter's established plans have not changed: parce
metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem et promissa Lauini
moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean; neque me sententia
uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you unmoved. You will
see the city and promised walls of Lavinium, and you will carry aloft
great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision has not
changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed well beyond
the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a reassuring
teleological vision. Among the events prophesied is the reconciliation of Juno
with the Romans, which is to prove important both for the Aeneid and for Ovid's
recontextualization of Virgilian topics: quin aspera luno, quae mare nune
terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius referet, mecumque fouebit
Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore, harsh Juno, who now
wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her plans to a better
course; along with me she will cherish the Romans, lords of all, the people of
the toga. We ought better to call this not the but a reconciliation, for,
introduced after Jupiter's mention of Romulus and the foundation of Rome, it
appears not to refer to the reconciliation that actually occurs in Aeneid.
There, shortly before the final encounter of Aeneas and Turnus, Jupiter appeals
to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating that the Latins not be
required to give up their language and dress, and that Troy remain fallen
(Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales” in dating Juno's
reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's own subject, as
Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia bello Punico
secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil mentions
the chronologically later reconciliation long before describing the former. In
Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a conflict
introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of Carthage, will
eventually be resolved happily. Whether we take Juno's reconciliation in Aeneid
12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only some of Juno's grudges, it
contributes only a partial sense of closure to the end of Virgil's poem. Ovid's
transformation of Aeneas into the divine Indiges more specifically recalls
Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of Jupiter's address to Juno
at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/ deberi caelo fatisque ad
sidera tolli' Ovid does not closely follow the chronology of Juno's
reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead to a time beyond
Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas, which indeed it
serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem ucteres
finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli tempestius erat
caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled all the gods,
even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources of rising
lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for heaven. The
thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid introduces these
lines into bizarre, surreal surroundings of his own making. Their immediate
context is one of the strangest transformations in the poem-the tale of
Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town Ardea may
be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote from Virgil,
and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is typical of
Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of a species,
tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of traits and
features in the change from the old to the new shape. This case goes beyond the
typical in the sheer imaginative effort required to make the shift from a
ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human social
organizations, are characteristically distinct from the natural. This is not
just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical,
and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind
has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is
profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of
their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the
symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in
their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and
compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as
editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue
of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum
n/umero relatus (CIL = Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to
the apotheosis of Romulus, but first there intervenes a king-list an annalistic
structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses.
Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman
readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier
lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His
transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine
status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition
to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as
an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that
could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that
we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in
a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that
is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's
soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both
their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does
not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and
Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural
features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an
incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of
Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away
from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is
a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It
is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is
otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or
make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an
epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas
and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope
of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's
destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of
Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history
as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted
king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in
the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives
mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque
senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia
conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might
of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's
gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls
are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations themselves
are speculative, but the text seems to call for explanation because Ovid has so
strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of Rome's
origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His text
demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because
Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical
parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical
exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally
unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits
the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The
apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result
from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who
record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of
exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it
into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans
largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the
shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic
actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration
as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of them.
Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death, Romolo
now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus aeum/
degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's
deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly
likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of
founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been
placing Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by
emulating Hercules. Although the details of Ennius's account are far from
clear, Ovid's non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his
principal source, the original and canonical version of Romulus's deification. History
appears to be going backwards as the divine agents in the Romans' war with
Tatius take action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite
having so recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus
tacitorum more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt
portasque petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit
nec strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures,
keep their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose
bodies are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had
barred; yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she
turned it on its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation
earlier, in the apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly
inconsistent. We may try to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's
historical framework, by which Juno gives up her wrath at the second Punic War.
But Ovid makes no attempt to clarify and so rescue historical consistency;
indeed, he appears to mock the tradition of multiplereconciliations of Juno,
exploiting it for its comic absurdity. There are serious consequences as well:
the equation of history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable
to the Romans once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other
divinities intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in
unbarring the gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the
Forum Romanum to come to her assistance. Their spring, normally cold, they
bring to a hasty boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the
Romans time to arm themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting
deification for Romulus as the fulfillment, now: due, of a long-standing
promise. Mars cites Jupiter's original words, representing them as an exact
quotation: tu mihi concilio quondam praesente deorum (nam memoro memorique
animo pia uerba notaui) "unus crit, quem tu tolles in cacrula caeli"
dixisti: rata sit uerborum summa tuorum. Once, at an assembled council of the
gods, you told me (for I remember, and marked the pious words in my retentive
mind),there will be one whom you will carry to the blue of heaven.' Let the
content of your words be fulfilled. The words Marte quotes appear to gain even
more authority by referential confirmation from outside the text of the
Metamorphoses doubly cited, as it were: for while Mars cites Jupiter, Ovid
cites Ennius's Annales. Readers of Ovid's contemporary Fasti will remember the
recurrence of Ennius's line in a third context, for Mars cites it there as part
of a parallel appeal for Romulus's deification. Although Marte describes his
son to Jupiter as the latter's "worthy grandson" (Met.), Romulus's
exploits have no part in the appeal. Deification results directly from
Jupiter's promise, so strongly emphasized, and at the beginning of the speech
Mars needs only to establish that now is the time for its fulfillment: tempus
adest, genitor, quoniam fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab
uno, praemia (sunt promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris
inponere caelo. Since, father, Roman affairs are well established on great
foundations, and do not depend on a single protector, it is time to pay the
reward it was promised to me and to my worthy grandson to remove him from the
earth and to place him in heaven. In all this there is no mention of Romulus's
great benefactions, such as might sustain a euhemeristic interpretation of the
hero's advancement to divine status. Far from avoiding comparison to Ennius,
Ovid ostentatiously quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact
that in stripping the hero of exploits he has eliminated Ennius's
interpretation of them. Ennius's words, transferred to so un-Ennian a context,
may appear well suited to a familiar allegorical parallel, reminding Roman
readers once again of their second Romulus, likewise destined for the skies. Yet
Ovid's apotheosis of Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely
because of its lack of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's
Romulus offers readers little to go on in drawing conceptual parallels to the
achievements of Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis
of Romulus in the Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes
an emphatic identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing
relatively recent developments in the story. In both Ovid quotes the line from
Ennius and repeats the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment
when the apotheosis occurs. Yet in their larger contexts the two passages are
remarkably dissimilar. While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his
whole story -simply one in a series of apotheoses extending from Hercules to
the end of the work, in the Fasti his apotheosis has a context in the life and
exploits of the hero. Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes
concerning him are numerous enough to trace out a biography of him, even if by
installments. Ovid's version of the Roman year gives Romulus an unprecedented
amount of space, far beyond the natural occasions offered by tradition (such
as, for example, Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual
rituals of the Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with
Romulus even to the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of
Romulus. If the violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti”
make him a problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives
himself an easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of
his narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead
brother Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas
in the Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for
apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not
depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence,
Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark
makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio
Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According
to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted
from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia,
importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to
argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita
rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to LIVIO's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance
seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of
Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill.
A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she
passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body,
calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's
apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel
to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's
goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he
has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even
scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made
amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic
rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both
available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again
conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum
as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly
notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in
caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.)
and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her
own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her
anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the
star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay
often operates in just this way: words that initially appear figurative become
literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described
in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's apotheosis
is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance, similar to
many others that readers have enjoyed by this stage in the work's progress. As
they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also may reflect
on the power of his transformative vision, which now incorporates even their
own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a joke, Ovid
grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their fated-ness
and bringing out their contingent character. Throughout the last pentad,
historical events lose their connection to fata and pass under the sway of Fama
in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with
truth" (mixtaque cum ueris... commenta) issue from the house of Fama,
while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces
Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured
historical vision of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio) Fasti Ritratto immaginario di Ovidio
(di Anton von Werner) Autore Publio Ovidio Nasone Original ed. Editio princeps Bologna,
Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I
Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è
un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici
elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende,
oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.
L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda
tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo
l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a
Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della
differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in
cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni
“INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio
di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le
festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al
suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o
valenza. Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da
gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che
non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe
Ovidio e che non gli permise di terminarla. Indice 1Struttura 1. 1Libro
I: gennaio 1. 2 Libro II: febbraio 1.3 Libro
III: marzo 1. 4 Libro IV: aprile 1.5 Libro V: maggio 1. 6 Libro VI: giugno 2 Voci
correlate 4 Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il
primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora
spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di
Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto
stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del
calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi
passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul
modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio,
modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei
riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione
sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali
è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.
Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di
aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso
d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare
dell'origine del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la
rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di
Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste
Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a
parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa
degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento
opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile Festività romane Fasti (antica Roma) I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in
terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor
Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa Traduzione in
inglese dei Fasti, su tkline.freeserve.co.uk. V · D · M Publio Ovidio Nasone
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Religioni Categorie: Opere letterarie in latinoOpere di OvidioOpere letterarie
del I secolo. Ovidio.
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