Grice e Nannini: la ragione conversazionale e l’implicature
conversazionali dei corpi animati – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Siena). Filosofo
italiano. Siena, Toscana. Grice: “Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini about the naturalism: the
‘anima’ is there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action, ‘l’azione’ – He is the
Italian Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the equivalent of the
Muybridge series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e, inizialmente, con
Cesare Luporini. Ha accompagnato la sua attività di
ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni accademici con una intensa
attività politica a Siena come militante del Partito Comunista Italiano. È
stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di Filosofia Teoretica
all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni anche filosofia della
mente ed è stato principale cofondatore e direttore di una scuola di dottorato
interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre più volte, visiting
professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e Oldenburg. Attualmente in
pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso l’Siena e dal è direttore di Rivista Internazionale di
Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono incentrati sulla
filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e la storia del
pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia analitica ed
in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare il
“naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come
Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello
spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il
proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in
meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla
teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato
soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di
naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del
problema mente-corpo. Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il
Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella
filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di
filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” -- Una introduzione storica alla filosofia dell’animo,
Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo,
Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici
sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società”
Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di
Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero
di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia»,
Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in
L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo
forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia
materialistica, in «Giornale di metafisica», Nicolaci G., Perone U., Ontologia e
metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in
Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come
Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società:
Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello:
Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e
filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano,
Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le
scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C.,
Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo
scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in
Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori, In-conscio, co-scienza e
intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta
cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per
una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet, Sandro Nannini, La Nottola di Minerva: Storie
e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Nannini. Keywords:
corpi animati, l’interazione dei corpi animati, l’ego come direttore assente,
freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi Speranza: “Grice e Nannini: il
santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The Swimming-Pool Library. Nannini.
Grice e Nardi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale d’Alighieri -- dantesco – Alighieri – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Spianate).
Filosofo italiano.
Spianate, Altopascio, Lucca, Toscana. Grice: “The Italians are fortunate: with
Alighieri they can philosophise about him!”
Primogenito di una famiglia benestante,
composta di nove figli, viene avviato sin dalla tenera età alla carriera
ecclesiastica. Entra nel collegio dei frati francescani a Buggiano e diventa
chierico, assumendo il nome di frate Angelo. Usce dal convento di Buggiano
perché non aveva intenzione di continuare nella vita religiosa, avendone
perduta la vocazione. Proseguì gli studi di filosofia e teologia frequentando
il convento di Sant'Agostino di Nicosia in provincia di Pisa. Volendo proseguire
gli studi, i genitori gli indicarono un'unica strada, quella di entrare in
seminario e diventare prete. Venne ammesso al seminario di Pescia e diventò
sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente al movimento Modernista, condannato da
papa Pio X con l'Enciclica Pascendi. Nel 1908 Nardi sostenne l'esame di
concorso per una borsa di studio triennale conferita dall'opera Pia Galeotti di
Pescia al fine di frequentare un corso di perfezionamento filosofico presso
l'Università Cattolica di Lovanio (Belgio). Nel 1909 Nardi aveva da poco
iniziato a frequentare l'Università Cattolica di Lovanio che già decise
l'argomento della sua tesi di laurea Sigieri di Brabante nella Divina Commedia
e le fonti della filosofia di Dante, che venne discussa con Wulf. La lettura
dell'opera di Pierre Mandonnet, nella parte dedicata a Sigieri, non persuadeva
N. sulla soluzione data al problema della presenza di questo averroista nel
Paradiso dantesco. Due pregiudizi la inficiavano: il primo “consisteva in
un'inesatta visione storica di quello che nel Medio Evo e nel Rinascimento era
stato l'averroismo. Il secondo pregiudizio del Mandonnet era quello di ritenere
il pensiero filosofico di Dante conforme in tutto e per tutto a quello d’AQUINO."
Nel momento in cui N. Entra a Lovanio abbandonò il modernismo teologico, ma non
abbracciò la filosofia neo-scolastica che quella Università belga stava
elaborando. Non aveva senso per lui ripetere, sul finire dell'Ottocento,
nell'epoca del positivismo, l'operazione culturale d’AQUINO che prevedeva
l'unificazione di fede e ragione. Il metodo di lavoro che Nardi seguì nel
corso della sua vicenda di studioso e ricercatore, rimase sempre improntato al
massimo rigore filosofico, risentendo come una traccia indelebile
dell'esperienza di Lovanio, dove dovette affrontare studi scientifici. Per
Nardi l'interpretazione del testo coincide con la libertà, ma tale atto libero
non può attivarsi senza uno scrupoloso lavoro di scavo e ricerca del materiale
documentario, l'esatta interpretazione filosofica dei testi. Ottenuta
un'ulteriore borsa di studio dall'Opera Pia di Pescia frequenta corsi di
filosofia a Vienna, Berlino, Bonn. Oltre alla pubblicazione della propria tesi
su Sigieri nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, N. vi pubblica altri
interventi spesso critici con la linea editoriale del periodico. scritto ai
corsi dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze perché voleva riconoscere in
Italia la sua laurea in filosofia conseguita a Lovanio. A Firenze discuterà la
tesi di laurea in filosofia dedicata alla figura del medico e filosofo padovano
Abano. Collabora alla “Voce”, rivista fondata da Prezzolini con il quale
mantenne per lunghi anni una fitta corrispondenza. N. volle abbandonare il
sacerdozio. In una successiva lettera
indirizzata al vescovo Angelo Simonetti, spiegava che era stato
l'ambiente familiare a spingerlo a chiedere la sacra ordinazione, con preghiere
e minacce. Di trasferì a Mantova per insegnare filosofia presso il liceo
classico Virgilio, dove vi restò fino al quando si trasferì a Milano. Ha da
Giovanni Gentile un incarico per l'insegnamento della filosofia medievale
presso la facoltà di lettere dell'Roma. Tuttavia non ottenne la cattedra
universitaria (se non dopo molti anni), a causa dell'art. 5 del Concordato in
base al quale la curia romana escludeva i sacerdoti secolarizzati
dall’insegnamento. Gli fu assegnata la “Penna D’Oro” dal presidente del
Consiglio Tambroni. Gli fu conferita la laurea honoris causa da parte
dell’Padova e da parte di quella di Oxford. Le opere e gli studi su
Alighieri si è dedicato instancabilmente per di più in mezzo secolo allo studio
del pensiero di Dante, anche quando si occupava di Virgilio, di Sigieri di
Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo mettere in discussione schemi
consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato proposte inedite che ci
permettono di avere una più esatta comprensione dei testi danteschi. Una
costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria autonomia, se non un
vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti culturali in cui si era
trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il coraggio con cui seppe
polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti accademici, gli
fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata considerazione rispetto alle
sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti pensare alle sue tesi
sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura di Avicenna, di Alberto
Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di Gentile parlava come di
un "vero e grande maestro", dandogli ragione nella sua polemica con
il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi pur tuttavia non aderirà
al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e stimoli per le sue
ricerche. L'incontro con Dante costituisce per N. l'episodio decisivo
della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956: "in Dante trovai
il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior gratitudine". Il
senso della sua ricerca è stato interrogare il "miracolo" della Divina
Commedia, questo "singolare poema sbocciato all'improvviso contro tutte le
buone regole dell'arte e del dittare". Secondo N. nella commedia è
custodita la Verità, che si è manifestata ad un poeta ispirato da una profetica
visione. La lunga fatica del Nardi è giunta a concludere che la filosofia di
Dante non si riduce a nessun sistema codificato; è una sintesi complessa tendente
a superare le antinomie e che mantiene intera la sua spiccata originalità, il
suo personalissimo pensiero. Per arrivare a coglierlo occorre da una parte
ristabilire il preciso significato delle parole in rapporto alla terminologia
filosofica e scientifica del Medioevo, e ricostruire dall'altra l'ambiente
culturale e l'atmosfera spirituale nelle quali Dante si muoveva per arrivare a
determinare la fonte, il libro letto da Dante. N. ha gettato luce su
molti elementi e suggestioni che Dante derivava dalla filosofia araba e
neoplatonica. Essenziali per comprendere Dante sono Alberto Magno e Sigieri più
di Tommaso; così come il neoplatonismo e la cultura araba più dello scolasticismo
aristotelico. A N. interessava particolarmente affrontare il tema della
"visione dantesca", esperienza profetica che seppe tradurre come
nessun altro nel linguaggio della Divina Commedia. La visione di Dante non è
finzione letteraria, è rivelazione reale dell'aldilà, concessa da Dio in virtù
di un supremo privilegio. Dante visse il rapimento mistico ed estatico al terzo
cielo come esperienza reale. Dante credette di essere sceso veramente
nell'Inferno, salito veramente al Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia
si distacca dagli altri scritti di Dante, perché ne è il loro compimento. Tale
culmine si realizza attraverso un'esperienza eccezionale, di origine
mistico-religiosa a lui soltanto riservata, una rivelazione che ha il potere di
trasformare e rendere nuove tutte le altre opere precedenti. L'opera
dantesca, secondo Nardi, si deve suddividere in tre fasi: la prima fase, che
termina a venticinque anni, è sotto l'influsso di Guinizzelli, assente del
tutto la filosofia. La seconda fase, quella filosofico-politico, coincide con
le rime allegoriche, il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia. La
terza fase, quella della poesia profetica, coincide con la Divina Commedia,
poema che segna il ritorno all'unità della filosofia cristiana. Dante vi
compare come profeta che deve annunciare al mondo l'avvento di un inviato di
Dio per la redenzione umana. La Commedia è "poema sacro", la sua è
poesia religiosa. Nardi vede in questa terza fase finalmente riconciliarsi la
speranza cristiana spezzatasi con l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi
l'aristotelismo è inconciliabile con il cristianesimo, e il tomismo pertanto è
"il più strano paradosso del pensiero umano". La Commedia testimonia
della riunificazione della filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una
visione profetica, esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei
Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Saggi: “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI
-- ; “Critica dantesca” (Milano, Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di
Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia
e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale
Critico della Filosofia Italiana",
Premi Feltrinelli, su lincei, Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto
Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem
Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone
del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica
sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le
fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri
di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri,
Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo
Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al
paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”,
Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della
filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento
italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura
medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica
e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita
in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il
naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma, Universitarie; “L'alessandrinismo nel
Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico, I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica”
La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della
filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del
commento al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della
verità, soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale”
(Universale di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano,
Corso di storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di Simplicio
al “De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il carattere
morale di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere inedite di
Pomponazzi, “Giornale critico della filosofia italiana” Le meditazioni di Cartesio,
Lezioni di storia della filosofia. “La Goliardica”, Roma, Pomponazzi e la
cicogna dell'intelletto, “Giornale critico della filosofia italiana” Il
dualismo cartesiano, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La
Goliardica”, Roma, Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a Leibniz, Corso
di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora qualche
notizia e aneddoto su Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Marcantonio
e Zimara: due filosofi galatinesi, “Archivio
storico Pugliese” Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a
Padova alla fine del sec. XV, “Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo
alla biografia di Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura
e cultura del Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze,
Sansoni); “Appunti intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura,
Roma); “Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale.
Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i
Testi di Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in
Studi di Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la
teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas
vergilana – (Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in
Umanesimo Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi”
(Monnier, Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti
di lezioni e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di
studi sul Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier,
Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai
tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di
critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura
veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina
Commedia, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza
scientifica Società Dantesca Italiana. L’ARISTOTELISMO PADOVANO. STUDI SULLA TRADIZIONE
ARISTOTELICA NEL VENETO, UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI PADOVA, CENTRO ARISTOTELICO. L'ARISTOTELISMO PADOVANO. SANSONI, FIRENZE. Il volume di N. è
stato pubblicato a
cura e sotto
gli auspici del centro
per lo studio
della tradizione aristotelica
nel Veneto e del
Comitato per la
storia dell'università di
Padova. Stampato in Italia. N.
adere di buon
animo a che
venissero riuniti in un volume, per
comodo degli studiosi
che ne fanno
ricerca, alcuni saggi sull'aristotelismo padovano
e particolarmente su quell’ interpretazione del
pensiero del “LIZIO” (antica
ortografia di “Lyceo”) che prende
il nome d’Averrois che
7 gran commento
feo », sparpagliati, come numerosi
altri loro confratelli,
in varie riviste
ormai non più facilmente
accessibili. Questi saggi
abbracciano un periodo assai
lungo di ricerche
dal igi2 al
ig^ó, e nel
loro insieme offrono un
quadro sufficientemente completo,
per monografie che si
richiamano fra loro,
della filosofìa a
Padova dai tempi di
Abano (SCHIAVONE, si veda) a
quelli di ZABARELLA (si veda) e PICCOLOMINI (si veda),
quando ormai, a
Padova e altrove, il LIZIO comincia a volgere
decisamente al tramonto,
per il nascere
delle nuove scienze della
natura e del
nuovo metodo di
ricerca filosofica. Fuori della
presente raccolta, già
abbastanza pingue, son rimasti
i saggi
stille opere inedite
di POMPONAZZI (si veda),
meno quello relativo alla
miscredenza di VERNIA (si veda), perché
essi potranno essere riuniti
a suo tempo
in un volume
a parte, ed
altresì quello sulla letteratura
e cultura veneziana, apparso in La
civiltà veneziana pella
Fondazione Cini, che
potrà meglio figurare
insieme ad altri, che
vado preparando , sulla
filosofia veneziana del
Rinascimento. Nella
formazione del presente
volume non è
stato sempre rispettato l'ordine
cronologico nel quale
i saggi qui
compresi sono apparsi, per il bisogno
di contemperarlo con la successione storica degli
argomenti trattati. Ad
ogni modo, sono
stati sempre indicati in
nota la data
e il luogo
ove ciascuno ha
visto la luce la
prima volta. Inoltre,
ritengo opportuno avvertire
che tutti sono stati
più o meno
leggermente ritoccati, e
qualcuno in modo assai
notevole. Quello che mi
ha guidato in
queste non agevoli
ricerche, non è stato,
cerne forse taluno
potrebbe pensare, il
gusto delle notizie erudite, pur
sempre indispensabili alla
ricerca storica, sibbene il
bisogno di prospettare
le particolari condizioni
e circostanze d'ambiente culturale
in cui certi
problemi filosofici eran
posti dagli aristotelici padovani,
e lo sforzo da
questi sostenuto per
trovarne una soluzione
e per eva- dere da
abitudini mentali e
pregiudizi che alla
soluzione di quei problemi
s'opponevano. Su alcuni di
siffatti problemi discussi
e ridiscussi mille
volte nel corso di
quasi quattro secoli,
era naturale che
avessi a fermarmi con
insistenza e abbondanza
di citazioni, perché
chi legge avesse modo
di rendersi conto,
quasi toccando con
mano, dell' imprecisione e
non di rado
dell' avventatezza di
talune af- fermazioni da parte
di non pochi
storici che la
storia delle idee non
hanno mai preso
sul serio, contenti
troppo spesso di
luoghi comuni e vacue
generalità: Per oppormi
appunto a questo
andazzo e per restituire
ai pensatori sui
quali mi sono
fermato i lineamenti della
loro umana fisionomia,
m' è parso
non fossero da sdegnare
notizie particolari e
perfino aneddoti che
rasentano il pettegolezzo, ma
intanto rivelano curiosi
tratti del loro
carattere morale e aprono
uno spiraglio su
quell'ambiente scolastico, per tanti
aspetti così diverso
di quello d'oggi. La
distinzione poi che
s' è preteso
di fare tra
filosofia e cul- tura s
è rivelata inconsistente, non
solo quando s'
è tentato di giustificarla, col
definire in termini
rigorosamente logici il concetto
di cultura come
diverso da quello
di filosofia, ma più
ancora quando, in
omaggio a quella:
pretesa distinzione, nel tracciare
la storia del
pensiero d'un epoca,
s' è tenuto conto quasi
esclusivamente dei pionieri
e si sono
disprezzate forme di pensiero
meno avanzate e,
diciamo pure, piii
umili, come, ad esempio,
per il Rinascimento,
le credenze magiche
ed astrolo- giche, condivise da
dotti non meno
che dal popolino,
e le opinioni intorno al
potere delle streghe
e al loro
commercio col diavolo, cui
davan credito, non
meno del volgo,
insigni cherci e
letterati grandi e di
gran fama, non
che giuristi e
teologi i quali
s'argomentavano d' estirparne
la mala semenza
con gli esorcismi
e col rogo. Così
del Rinascimento s'
è mostrato solo
un aspetto, mettiamo pure
il migliore e
più, seducente, ma
unilaterale e incompleto, per aver
relegato nell'ombra il rovescio della
medaglia, cioè quelle
forme di pensiero
che persistevano non
solo nelle masse popolari
e incolte, ma
altresì nei ceti
borghesi di media cultura,
nella nobiltà, nelle
corti principesche e
nel clero. Eppure anche
siffatte convinzioni rappresentano
particolari maniere di raffigurarsi
la vita e
il mondo e
costituiscono an- ch'esse
modi di
pensare la realtà,
che, per quanto
arretrati, furon condivisi dall'
enorme maggioranza degli
uomini nel periodo che
si dice del
Rinascimento. Altrettanto si dica
della distinzione fra
« ciò che
è vivo e ciò
che è
morto » del
pensiero del passato,
quasi che potesse
morire quel che non
è mai stato
vivo, e che
vivere non fosse
un correre alla morte,
cioè un continuo
rinnovarsi. Singolarmente
penosa appare infine
l'ansia che per
il con- cetto, la natura,
il metodo, le
sorti della storia
e per il
valore del giudizio storico
dimostrano taluni che,
chiusi nella loro specola
teoretica, senza scomodarsi
colla ricerca e la critica
dei documenti e delle
testimonianze, indispensabili al
giudizio sto- rico,
pretenderebbero di dedurre
a priori gli
eventi della storia universale. Sì,
lo sappiamo, per
interpretare il linguaggio
dei documenti e delle
testimonianze ci vuol
cervello; e per
cervello intendo la «
categoria », cioè
la capacità a
inserire il fatto
accer- tato nella trama logica
del pensiero. Ma
la « categoria
è vuota senza V
intuizione », e
la mola del
pensiero frulla a
vuoto se dalla tramoggia
non cala giù
il buon grano
falciato nei campi arsi
dal sole, battuto
vagliato e seccato
sull'aia. Sì che
a ragione pareva al
Vico « aver
mancato per metà
così i filosofi
che non accertarono le
loro ragioni con
l'autorità de' filologi,
come i fi- lologi che non
curarono d'avverare le
loro autorità con
la ra- gione dei filosofi. Il
già celebre e
oggi invece quasi
sconosciuto medico e filosofo
padovano, Abano SCHIAVONE (si
veda), vien classificato
ordinaria- mente dai rari storici
moderni della filosofia
medievale che si degnano
consacrargli qualche linea,
fra gli averroisti:
da qual- cuno è, anzi,
presentato come fondatore
dell'averroismo al- l'università
di Padova. Ma,
cosa strana, dell'averroismo dell' Abanese tacciono
affatto gli antichi
storici che pur lo
fanno passare come
astrologo, mago, eretico,
e che a
queste accuse, riguardanti le
dottrine di lui,
ne aggiungono ben altre riferentisi al
carattere personale, per
quanto queste ultime abbiano l'aspetto
di favole se
non, spesso, di
denigrazioni evidenti.
Scorrendo la monografia
che gli consacra
S. Ferrari ', il
sospetto che l'averroismo
del medico d'Abano
non fosse una pretta
leggenda, si accrebbe
in me a
tal segno che
decisi di consultare per
conto mio il
Conciliator differentiariini phi- losophormn et
praecipiie medicorum. Sennonché,
essendo l'opera relativamente rara
e trovandomi da
quattro anni quasi
sempre all'estero, non mi
fu così facile
procurarmela; quando, nell'essere a
Bonn m'abbattei in
un'edizione senza data,
ma che porta in
testa questa nota
manoscritta: impressus. Me
codex est Venetiis
a. 1483 per
Jo. Herbart de
Selgenstadt, alemanmmi. Mentre andavo
trascrivendo i passi
più impor- tanti dal punto
di vista filosofico,
quasi quasi non
sapevo credere a me
stesso, finché non
li ebbi collazionati con
altre * Già apparso
nella « Riv.
di Filos. Neoscolastica», I\',
Solo qualche lieve
ritocco. I / tempi,
la vita, le
dottrine d’Abano. Saggio
storico-filo- sofico di
Sante Ferrari, Genova.] edizioni e
specialmente con quella
del 1476, di
cui, oltre le
copie possedute a Padova,
a Firenze, a
Torino ecc., una
si trova con mia
grande sorpresa proprio
nella Capitolare di
Pescia. Dico che non
sapevo credere a
me stesso, perché
i passi, a cui
il Ferrari rimanda,
lungi dal rivelare
le preoccupazioni
averroistiche che egli,
con critica bizzarra,
crede scoprire ad ogni
pie sospinto attraverso
le dichiarazioni di
Pietro d'Abano, dimostrano, al
contrario, che questi
aderiva espHci- tamente e
senza riserve o
esitazioni di sorta
ad un'altra teoria intorno all'anima,
che era l'antitesi
perfetta di quella
del filosofo arabo di
Cordova. Quei passi
sono così chiari
che il Ferrari stesso
si sente imbarazzato
e suda due
camicie per interpretarli a
rovescio, come fa.
Dovrei forse dubitare
della buona fede di
lui ? Certo,
nell'opera erudita del
Ferrari si rivela qua
e là un
gusto matto di
sorprendere nel filosofo
da lui studiato atteggiamenti
e pose d'eretico
che agli occhi
dell'autore lo rendono più
simpatico. E quando
gli fanno difetto i
documenti e le
dichiarazioni esplicite, ricorre
a stravaganti congetture o
a insinuazioni ridicole.
Ma io ritengo
Ferrari un perfetto galantuomo,
e per dubitare
della sua completa buona fede
non ho motivi
sufficienti. Penso invece
che gli manchi l'esatta
conoscenza del pensiero
medievale; in ma- niera che
egli non sa
comprendere nel loro
giusto significato certe dottrine,
le quali non
si possono capire
se non in
rapporto ai movimenti d' idee
a cui mettono
capo. Ora, infatti,
sostiene che Pietro d'Abano
fu accusato di
materialismo; più tardi, invocherà la stessa condanna
per dimostrare che
questi non era sincero
quando dichiarava prava
la teoria averroistica dell'unità dell'intelletto. Ora gongola
di gioia perché
Pietro,nel riferire l'opinione
del Commentatore, la
lascia passare senza una
nota di biasimo;
una pagina, dopo,
ti verrà a dire
che la
nota di biasimo,
che l'Abanese quest'altra
volta invece ha affibbiato
agli averroisti, va
presa per «
.... un'ostentazione a ufficio
di scudo »
! E via
di questo passo
-. - Op. cit.,
pp. 340-353. Il
Ferrari avrebbe fatto
bene, invece di ri-
mandare alle opere di
Pietro d'Abano, che
il lettore non
sa procurarsi con tanta
facilità, di offrire
estesamente citazioni più
abbondanti e meno laconiche.
Il pubblico poi
che si occupa
di queste materie
sa- prebbe, credo, fare a
meno, e quanto
a me molto
volentieri, della tra- duzione che il
Ferrari sostituisce ai
passi citati, i
quali nel loro
latino scolastico sono molto
meno oscuri. LA TEORIA
DELL ANIMA 3 Confesso
la verità. Arrivato
in fondo al
capitolo dove il Ferrari
parla della «
Psicologia genetica e
metafisica », non sono
mai riuscito a
raccapezzarmi sulla vera
dottrina del medico-filosofo d'Abano.
La quale, pertanto,
se si piglia
in mano il Conciliator,
è abbastanza chiara,
nelle sue linee
gene- rali, ed è ben
diversa da quello
che il Ferrari
va fantasticando. Ecco qui
uno dei passi
più importanti e
nello stesso tempo meno
ambigui. Alla differentia
48 ^ si
discute la questione
se il seme umano
sia o no
animato. E, a
proposito di questo problema, il
medico padovano espone
la sua teoria
sullo svi- luppo
dell'embrione e sull'origine
e natura dell'anima.
Egli dice: Rector autem huius
tain divini operis
[cioè dello sviluppo
embrio- nale] virtus est dieta
informativa ab anima
parentis decisa, per
im- pulsionem coeuntis incitata,
quam Galenus de
virtutibus nahiralibus,
secundo, ca. 2,
appellat summam artem
praesidem et intellectivam sine mente,
Aristoteles autem intellectum
vocatum sive intel- lectivam divinam, ceu
ei Haly ascripsit.
Nominavit autem eam Aristoteles intellectum
vocatum, ad differentiam
intellectus po- tentionalis et
agentis pars existentium
animae intellectivae, ut terfio
de anima inquit:
Dico autem intellectum
quo anima opinatur et
sapìt, ad differentiam
intellectus quem ponebat
Anaxagoras chaos dieta ex
eodem consimilia sequestrantis. Et
ideo apparet hic erroneus
intellectus lacobitarum me
persequentium tam- quam posuerim
animam intellectivam de
potentia educi mate- riae;
differentia 9; cum
aliis mihi 54
ascriptis erroribus. A
quorum nianibus gratia dei
et apostolica m.ediante
me laudabiliter evasi. Da
qua quidem virtute,
ló. animalium, Avicenna:
' Virtus infor- mativa est illa
quae dat vitam
et est proportionalis virtuti
su- percoelestium '.
Arrestiamoci a precisare
il significato di
questo passo. L'Abanese parla
qui non dell'anima
umana, ma della
virtù i il formativa,
la quale più
sotto è così
descritta sulla scorta del
De animalibtis, XVI,
e. i, di
Avicenna: Virtus informativa est
illa quae dat
vitam et est
proportio- nalis virtuti
supercoelestium, et ista
virtus facit similia
secundum quid virtutibus supercoelestibus quousque
sit possibile illam recipere vitam,
et est dispersa
per universam substantiam
cor- poris sive sit
humiduin sive siccum:
et in spermatis
substantia est potentia potens
recipere hanc virtutem
et est spiritus
primus deferens calorem coelestem
et ipse est
causa omnium partium
sper- matis. Estque haec virtus
a corpore abstracta,
cui etiam ab
Arist. accipiens
commentator. j° metaphy.
i^Comm. 37]: Arist.
dixit in libro de
animalibus, quod ipsa
sit similis intellectui
in hoc, quod non
agit per instrumentum
corporale et membrum
pro- prium. La teoria della
virtù informativa, qui
esposta, è tratta
dal secondo libro del De generatione
animaliuni d'Aristotele 3 e la si
ritrova quasi negli
stessi termini presso
S. Tommaso 4. Siccome,
per altro, i
Giacchiti di Parigi
credettero che Pietro intendesse parlare
dell'anima umana, per
questa ragione, com'egli dichiara,
lo accusarono dell'errore
d'Alessandro d'Afrodisia e di
Galeno, l'ultimo dei
quali sosteneva che
l'anima fosse la stessa
complexio del corpo
organizzato \ e
il primo che r
intelletto materiale o
possibile dovesse farsi
consistere in una certa
virtìt. risultante «
ex universa illa
temperatura vel
constitutione » propria
dell'organismo umano ^.
Lo accusa- vano, dunque, dell'errore
opposto all'averroismo e
contro il quale il
celebre commentatore dello
Stagirita aveva aspra- mente polemizzato a più riprese.
A quest'accusa aveva
dato certamente motivo l'appellarsi
che Pietro faceva
a Galeno e al
di lui fidelissimus
interpres, Haly ben
Rodoam. Questi aveva saputo
trovare presso Aristotele,
non si sa
come, la teoria dell' intellectus vocatus,
della cui provenienza
aristotelica il Nostro, con
quella sua espressione:
« ceu ei
Haly ascrip- sit »,
sembra tutt'altro che
convinto. L' intellectus
vocatus è la traduzione
letterale del ó
xixXoù\j.tvoc, voui; del
De gene- ratione animalium 7,
Basandosi su di
essa, Haly sosteneva che
r intelletto separato
di Aristotele, distinto
dall'anima individuale e identico
al voij? d'Anassagora,
fosse la stessa virtù
informativa, ossia l'influenza
degli astri la
quale per mezzo del
seme paterno presiede
allo sviluppo e
all'organiz- 3 Cap. 3, 736 b.
29 sgg. :
tkxvtwv (xév yùp
év tcò oTuéppiaTi
ÈvuTrdcpxei OTTEp TTOiEÌ yóvifxa
elvai xà CTTrép[xaTa
xò xaXou(i,evov -!>£p(i.óv. xoùxo 8'où
TTup, oùSè xotauxY]
SuvafjLit; Icttiv, àXkà
xò l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov
èv T(p
CTTÉpfxaxi, jcai èv
xo) à9p(óSEi. TTVEUjj'.a
xal rj Èv
xw TTVsufAaxt , quando viene
a parlare del
capitolo de electionihus.
Egli intanto di- stingue la ricerca,
invero innocente, dell'
« bora laudabilis
in- cipiendi aliquod opus
», affinché l'opera
da intraprendere abbia felice
risultato, pur senza
tentare di modificare
il corso o r
influenza del cielo,
dai tentativi, per
mezzo d' immagini 33 Cfr.
Ferrari, P. d'A.,
pp. 355-356. 34 Cap.
13. 35 Capp. 10
e 14. 36 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI e di
scongiuri, di modificare
favorevolmente le influenze
ce- lesti per la buona
riuscita dell'opera che s'
intraprende. Che la prima
ricerca non abbia
niente d' illogico, dati i presupposti astrologici che
noi conosciamo, o
di temerario dal
punto di vista della
dottrina teologica del
tempo, è evidente.
Perciò l'autore dello Speculum
non solo la
ritiene legittima, ma di-
chiara che sia opportuno,
come pensa anche
Pietro d'Abano, conoscer l'ora
favorevole al concepire,
al prender medicine
e alle operazioni chirurgiche
36. Per quel
che riguarda invece
la costruzion delle immagini
a fine di
modificare l' influsso ce- leste, egli stima
necessario far molte
riserve: «Parti.... electio- num
dixi supponi imaginum
scientiam, non quarumcunque, sed astronomicarum. Quoniam
imagines sunt tribus
modis. Est enim unus
modus imaginum abominabilis,
qui significa- tione et
invocatione exigit.... Est
alius modus aliquantulum minus incommodus,
detestabilis tamen, qui
fit per inscrip- tionem characterum,
per quaedam nomina
exorcizando.... Tertius
autem est modus
imaginum astronomicarum, qui
eli- minat istas spernendas
suffumigationes et invocationes,
et non habet neque
exorcizationes, ncque characterum
inscrip- tiones admittit, sed
virtutem nanciscitur
solummodo a figura caelesti ». Posta
tale distinzione, mentre
egli condanna gli esorcismi, gì'
incatesimi e la
necromanzia, pensa di
non po- tersi arrogare il
diritto di condannare
o di negar
l'efficacia delle immagini astronomiche. D' immagini astronomiche,
ammesse dall'autore dello
Spe- culum, si parla nella
già citata differenza
X e nella
CI del Conciliator. Ma
Pietro d'Abano sembra
andar più oltre
ed ammettere anche quel
genere di pratiche
condannate dall'au- tore
dello Speculum^i. Si
tratta per altro
d'un equivoco. Egli crede
al fascino, all'arte
notoria, alla pvaecantatio
e alla magia (e
questo deve, senza
dubbio, aver contribuito
a crear la sua
fama di
mago e di
necromante) ; ma
intanto spiega i
fenomeni e i resultati
ottenuti con queste
arti, sforzandosi di
traspor- tarli sul terreno della
magia bianca, allora
ritenuta lecita dai teologi. 36 Conciliator,
diff. io (Champier,
II, 8). 37 Conciliator,
diff. 135 e
156. Champier, III,
8, g, io.
Intorno alle interessanti varianti
del numero 8
nelle varie edizioni
del Conciliator, cfr. Ferrari,
Per la biografia
etc.] Così egli ammette
l'efficacia del fascino
e degl' incante- simi, come r
ammetteva Avicenna e
come due secoli
dopo l'ammetterà il Pomponazzi,
ma esclude da
essi ogni carattere sovrannaturale e
segnatamente l' intervento di
demoni 38, pur senza
negar l'esistenza di
essi. Per lui,
l'anima di certi uomini
è fornita, per
uno speciale influsso
celeste, di virtù eccezionali, e si comporta,
nel modificare le
influenze astrali sulla terra,
come le immagini
artificiali costruite dagli
antichi sapienti dell' India 39.
— La praecantatio
è utile al
medico, come gli è necessaria la
fiducia da parte
dell' infermo 40. Ma
le parole dell' incantesimo
verbale desumono la
loro efficacia dalla virtù
celeste, come dalle
disposizioni favorevoli delle
costel- lazioni deriva
l'efficacia, secondo Albumasar,
della preghiera astronomica
41. L'efficacia, insomma,
di tutte queste
pratiche è desunta dall'astrologia: siamo
fuori del dominio
della magia nera. 8. -
Una censura speciale
dello Champier riguarda
anche una dottrina la
quale non ha
niente che fare
con le dottrine di
carattere prettamente astrologico,
che abbiamo riferite; ma
che, anzi, sotto
un certo aspetto,
è opposta a
quelle: in- tendo la dottrina
della produzione delle
forme nel mondo infralunare. Essa
suona così: «
Ponentes.... creationem, etsi verissimi in
lege sint, in
philosophia tamen non
sunt admit- tendi, cum
ipsam levem faciant
omnino, ac primam
quasi causam multiplicibus vexent
laboribus; decorem non
minus et ordinem et
per consequens perfectionem
removentes, secun- dum Peripateticos, ab
universo «42. Lo
Champier pretende che, con
siffatta dottrina, l'Abanese
venga a contradirsi,
« quia simul stare
non possunt, quod
lege sint verissimi,
et tamen admictendi non
sint in philosophia;
quia omne verum
conso- nat ». Dove
non sai se
egli accusi il
filosofo di aver
negato la creazione, o
di avere ammessa
la dottrina averroistica
della doppia verità. Ma nell'uno come
nell'altro caso, ha
frainteso senz'altro il pensiero
di Pietro d'Abano,
come avremo modo
di dimostrare nel paragrafo
che segue. 38 Conciliator,
diff. 135. 39 Ibid. 40
Ibid. 4' Conciliator, diff.
156. 42 Conciliator, diff.
loi (Champier, III,
2; cfr. I,
3). Cfr. soprap.
14 e 16. 38
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI realtà, di tutte
le dottrine censurate
dalla Champier, tre appena
sono tacciate di
eresia e segnate
di un biasimo
spe- ciale, e cioè: i)
quella, ora accennata,
intorno alla creazione; 2)
l'avere Pietro affermato
che Dio non
possa operare nel mondo
infralunare se non
per mezzo d' intermediari; 3)
l'aver ritenuta efficace la
praecantatio. Ora la
prima dottrina è
stata, come vedremo, semplicemente
fraintesa da lui;
la seconda è esagerata,
poiché così come
l'Abanese la intende,
non suonava affatto eretica
ai tempi di
lui; quanto alla
terza, egli non si
è accorto come
la praecantatio e
le altre pratiche
affini avessero perduto in
Pietro d'Abano quel
loro carattere originario
deri- vante dalla magia nera
che le rendeva
singolarmente sospette. Se lo
Champier avesse esaminato
il Conciliaior coll'animo scevro dai
pregiudizi di una
scuola teologica che
aveva già perduto per
sempre il senso
della libertà nel
campo scientifico, quel senso
di libertà che
si era così
poderosamente affermato nel secolo
XIII ; se
egli, dico, avesse
studiato l'opera del
medico- filosofo con quel
senso di tolleranza
che rivela il
teologo autore ■dello SpectUum,
e non colla
grettezza sospettosa degl'
inquisi- tori parigini e padovani,
avrebbe potuto forse
risparmiarsi quasi tutte le
sue censure e
castigationes. Notevole, per altro,
che nemmeno lo
Champier, che con tanto
zelo si dette
la pena di
spulciare l'opera ritenuta
peri- colosa, abbia
formulato le accuse
ben altrimenti gravi
che, con altro scopo,
ha sollevato contro
Pietro d'Abano il suo
moderno biografo. Sante
Ferrari. III. — Eresie
di P, d'Abano,
secondo il Ferrari:
Dio E il mondo,
Scienza e Fede. 1.
L'averroismo di P.
d'A. secondo il
Ferrari. — 2.
Dottrina della crea- zione; lo schema
neo-platonico; il concetto
di creazione mediata.
— 3. Eternità della
materia ? —
4. Il problema
circa l'eternità del mondo.
— 5. La
pretesa tendenza al panteismo. —
6. Il miracolo.
— 7. La doppia
verità. I. - L'ultimo
processo alle dottrine
filosofiche di Pietro d'Abano è
quello intentato ad
esse nella voluminosa
e farragi- nosa biografia scritta
intorno al nostro
filosofo da Sante
Fer- rari. Anzi che colla
serena comprensione dello
storico, si di- rebbe che
questo autore si sia accinto
allo studio del
pensiero dell' Abanese colla stessa
parziahtà dello Champier
e, quasi direi, colla
stessa mentalità degl'
inquisitori parigini e
pado- vani: coll'aggravante
di una minore
disposizione a intenderlo, derivante dalla
scarsa conoscenza, che
ha il Ferrari,
di una filosofia così
complessa e ricca
di motivi come
quella medie- vale K La scarsa
conoscenza del pensiero
medievale, che verremo documentando, si
rivela subito, fin
dal primo tentativo
col quale il Ferrari
vorrebbe caratterizzare la
dottrina filosofica di P.
d'Abano, ora asserendo
che questi inclina
e simpatizza per l'avverroismo
^, ora sforzandosi
d' inquadrarne il pensiero nel
movimento d' idee noto
sotto il nome
di « averroismo
la- tino » 3. All'averroismo più o meno
latino avrebbe inclinato
il maestro padovano: i)
per la negazione
della creazione dal
punto di vista filosofico,
per avere ammessa
la materia eterna,
la ne- cessità d'
intermediari tra la
causa prima e
i fenomeni del mondo
infralunare, e l'eternità
del mondo; 2)
per una non
ben precisata tendenza al
panteismo e per
un certo naturalismo che lo
porta a negare
la possibilità dei
miracoli; 3) per
aver professata la dottrina
della doppia verità;
4) e finalmente
per la dottrina dell'
intelletto separato. In questo
paragrafo discuteremo il
giudizio del Ferrari
sui primi tre punti
; al quarto
punto riserveremo il
paragrafo che segue, giacché
ne vale la
pena. 2. - Alla
fine del paragrafo
precedente, abbiamo visto che
lo Champier segnala
come errore, et
horrendus, l'af- fermazione di Pietro
d'Abano, che la
dottrina della creazione, pur essendo
vera dal punto
di vista teologico,
è da rigettarsi da
quello filosofico. L'
interpretazione sbagliata che
lo Cham- pier colla sua
censura dava di
un passo male
inteso, diventa ^ Un
esempio caratteristico dell'
incapacità a comprendere
e a giu- stificare, nel loro
genuino significato storico,
le idee del
passato, è il capitolo
che il Ferrari
dedica a P.
d'A. astrologo. Egli
riassume pur- chessia le dottrine
astrologiche del Nostro,
ma non le
spiega; anzi, ad un
certo punto non
sa far di
meglio che uscire
in questa goffa
escla- mazione : « Piaccia
al nostro lettore
che non ci
smarriamo in tali
labi- rinti del pensiero umano
che mettono avvilimento
e pietà» (P.
d'A., V- 375) ! 2
Pietro d'Abano, p.
348 e sgg. 3
Per la Biografia,
etc, p. 92-98.
L'accusa d'averroismo, per
altro, risale, sebbene non
precisata come presso
il Ferrari, per
lo meno al Renan
e al Tiraboschi.] addirittura una
mostruosità storica sotto
la scorrevole penna del
Ferrari. Udiamo, infatti, qual
concetto questi si
sia fatto della
rela- zione tra la divinità
e il mondo
secondo la mente
di Pietro: « Le
azioni del mondo
superiore sulla terra
e su noi
vengono infine da Dio;
salvoché le une
producendosi per una
serie di mezzi, sono
coordinate a questi
e ne hanno
la misura, la co-
stanza, la prevedibilità, oltre
che sono relativamente
ad essi inevitabili; onde
le possiamo in
certo modo ridurre
alle qua- lità degli elementi,
anche se non
vediamo precisamente il come;
le altre si
esercitano senza movimenti,
absque medii alteratione, o
da Dio stesso
o dalle stelle
imprimenti una spe- ciale virtù, com' è nel
caso del magnete,
la cui virtù
attrattiva è collegata, lo
attesta l'esperienza, col
polo artico. L'opera divina è
del resto palese
nell'ordine universale e
nella finalità che governa
il cosmo. I
platonici (non si
dice Platone) 4
ripo- sero le cause universali
in divinità secondarie,
specie di mini- stri alla prima,
che danno le
forme alle cose,
onde Averroè disse che
Platone in un
modo alquanto oscuro
aveva asserito che il
creatore fé' gli
angeli e ordinò
poi loro di
creare le altre cose
mortali, il che
veramente non si
dee prendere alla
lettera. Aristotile le forme
delle cose terrestri
volle, secondo che
pa- reva anche a Temistio,
fossero generate dal
sole e dal
suo giro. Alcuni ammisero
che le forme
fossero nella nostra
terra la- tenti, quali Anassagora,
Empedocle, Democrito. Altri
parla- rono di creazione. I
primi traggono le
cose dal caos,
i secondi vogliono invece
che Dio le
produca dal nulla.
E quest'ultima opinione induxit
loquentes trium legum,
quae hodie sunt,
dicere aliquid fieri ex
nihilo.... adeo quod
diciint quod homo
cum moveat lapidem expellendo, non
est movens,sed agens
illud creai motum.... Di tali sentenze
possiamo leggere in
Giovanni Filopono.... Ma tra
le due opinioni
opposte e' è
luogo per due
intermedie, anzi per tre,
che convengono nell'ammettere due
tesi: la ge- nerazione essere un
tramutarsi delle sostanze,
e niente pro- dursi dal niente.
Convengon in ciò,
ma si discostano
poi nel 4 L'osservazione è
meravigliosa ! Neanche
a farlo a
posta, Pietro cita subito
il Timeo, nominando
espressamente Platone: «
Quare, 12. Metaph. [comm.
44], Commentor: '
Plato suis obscuris
verbis dixit quod creator
creavit angelos manu....'».
Cfr.
sopra, p. 13.
Del resta alla diff.
71 si legge:
«Plato namque posuit
substantias separatas,_ quas ideas
appellavit ». modo di
pensare l'agente. L'una
pone che l'agente
crei la forma e
la dia alla
materia, sia poi
esso congiunto o
no con materia: opinione di
Temistio e lino
a un certo
punto di Alf arabi.
La seconda nega che
l'agente sia affatto
legato alla materia
e lo chiama dator
delle forme, come
pensarono Algazel ed Averroè
5. La terza
è quella di
Aristotele, che l'Afrodisio
giu- dicò non ambigua, e
alla quale non
si può non
assentire; l'agente non fa
se non il
composto di materia
e forma, mo- vendo la
materia finché ne
esca in atto
la forma che
vi giace in potenza....
La sentenza aristotelica
in qualche cosa
somi- glia a quella dei
creazionisti e in
qualche cosa ne
differisce.... ma è la
sola vera, perché
sol essa non
porta a conseguenze
im- possibili, come vi portano
le opinioni di
Platone e di
Anas- sagora, che furono da
Aristotele combattute vittoriosamente. Coloro che
invocano la creazione,
etsi verissimi lege
sint, in philosophia tamen
non sunt admittendi
» ^. Dopo questa
che vorrebbe essere
una parafrasi, invero molto
libera, di un
importantissimo passo del
Conciliator, il Ferrari scrive
ancora: «L'essenza della
materia rende inevi- tabile l'uso di
qualche mezzo o
strumento, per certe
produ- zioni, a Dio stesso.
In altre parole
Dio produce e
governa i cieli, gli
angeli, le anime,
ma nulla poi
potrebbe fare nei
regni inferiori delle cose
corporee senza il
loro mezzo, per
la troppa distanza tra
i due termini.
Gli è così
che per una
serie di me- diazioni, e con
armonia meravigliosa discende
alle infime cose terrestri
l'azione divina, passandosi
per gradi dalle
cose incorruttibili, anzi dall'imo
semplice ed immobile
agli esseri composti, variabili
corruttibili » i. Parrebbe,
dunque, a sentire
il Ferrari, i)
che Dio, sorgente prima di
tutte le azioni
del mondo celeste
su quello terrestre, avesse di
fronte a sé
un principio eterno
di passività che
sa- rebbe poi la materia;
2) che questa
materia fosse eterna
al pari di Dio
e non prodotta
^ ; 3)
che l'azione divina
sul mondo '^ Leggasi
Avicenna, e non
Averroè, il quale
ha sempre combattuta la
teoria del «
dator formarum ».
Le edizioni hanno
solo un' A.,
che ovunque è abbreviazione
d'Avicenna. Il Ferrari
un'altra volta legge Aristotele, arruffando
tutto il senso
di un passo
importantissimo della diff. 57.
Cfr. P. d'A.,
p. 347. V.
anche sopra, p.
11. 6 P. d'A.,
pp. 249-251. Il
luogo del Conciliator
qui parafrasato è stato
riportato per esteso
sopra, p. 16. 7
Ib., p. 251. 8
P. d'A., p.
351. 42 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI corruttibile non
potesse in nessun
modo esercitarsi se non
attraverso una serie
di mezzi, che
sono i cieli,
gli angeli e le
anime. Se gì'
inquisitori parigini e
padovani, che se
n' inten- devano, avessero lette
queste cose negli
scritti del maestro d'Abano, non
avrebbero aspettato ad
arrostire un cadavere, né
r imputato sarebbe
sfuggito loro dalle
mani. Il fatto,
in- vece, è che il
pensiero genuino di
lui è ben
diverso dall'esposi- zione
che ne
fa il Ferrari.
Vediamo dunque di
chiarirlo. Secondo lo schema
neo-platonico di Alfarabi
e di Avicenna
9, riassunto anche dall' Abanese, dalla
prima causa, che è mo- tore immobile e
quindi « idem
et stabilis permanet
», non può derivare
ciò che è
molteplice e mutevole
; ma « solum unum immediate »,
cioè la prima
intelligenza col primo
cielo. Da questa è
prodotta la seconda
intelligenza col secondo
cielo; e così di
seguito, di grado
in grado, secondo
un ordine di
ema- nazione discendente,
fino all' intelligenza
lunare, la quale produce
la così detta
« intelligenza agente
», « gubernantem quae sunt
in activorum et
passivorum spaerà simplicium
et compositorum», cioè tutte
le forme del
mondo infrahmare ^°. Pietro
d'Abano accetta in
parte questo schema,
ma v' intro- duce profonde modificazioni. Egli pone,
tra la causa
prima e la
materia, una serie
d' in- termediari che gli servono
a spiegare, come
a Dante ",
la con- tingenza nel mondo
inferiore; ma in
nessun luogo afferma
che la materia sia
eterna, come vorrebbe
farci credere il
Ferrari, per il quale
eterna vuol poi
dire non creata.
E sebbene dica, «
secundum Aristotelem et
Commentatorem, quod Deus
nihil potest in haec
[interiora] operari absque
medio «i^, è
evidente che egli intende
parlare, non di una necessità
di natura e 9
Pietro d'Abano come
gli scolastici del
suo tempo mette
con Avi- cenna anche Algazele.
In realtà questi
scrisse un'esposizione delle
dottrine di Alfarabi e
di Avicenna, alla
quale teneva dietro
la sua confutazione fatta dal
punto di vista
della teologia mussulmana
ortodossa. Fino ai tempi
del Nostro solo
la prima parte
era tradotta in
latino; la Destructio philosophorum si
conobbe assai più
tardi. Di qui
l'abbaglio. Cfr. M.
Asin Palacios, Algazel, Zaragoza,
igoi, pp. 141-143.
Il Duhem tuttavia crede che
quando Algazele scrisse
la prima parte
dell'opera, egli accet- tasse quelle dottrine
neo-platoniche che rifiutò
poi nella Destructio (Duhem, Le
système du monde
etc, Paris, 1914,
t. IV). 10 Conciliator,
diff. loi. Cfr.
sopra, pp. i4-iS- 11
Farad., XIII, 61-78;
XVII, 37-38; VII,
67-69. Cfr. il
mio saggio Dante e
P. d'A. (nei
Saggi di filos.
dant., pp. 50-55). 12
Conciliator, diff. assoluta, ma
di una necessità
conseguente a quella
a perfecta ratio ))
che è poi
la stessa sapienza
divina, la quale
ha volon- tariamente stabilito l'ordine
mondano; ordine che è sospeso alla
volontà divina la
quale è immutabile.
Ma se la
causa prima ha fissato
l'ordine cosmico, nel
quale gli eventi
del mondo infralunare dipendono
dal moto e
dalle ^'a^iazioni che accadono
nei corpi celesti,
intermediari tra i
due estremi dell'atto puro
e della pura
potenza —, non
ne segue logica- mente che non
possa, in quanto
è superiore a
quest'ordine da sé stabilito,
derogarvi. Anzi troviamo
esplicitamente as- serito il contrario:
« Potest.... primus
sua mera benignitate, cum sit
agens supernaturale, per
voluntatem, absque motu et
transmutatione in haec
in inferiora operari,
quicquid dicat
peripateticus))i3. Ora se
Pietro può pensare
ad un intervento diretto, anche
se fuori dell'ordine
naturale, della causa
prima sul mondo della
generazione e corruzione,
vuol dire che la
necessità degl' intermediari,
affermata da lui
sulla scorta di Aristotele
e del Commentatore,
non è la
necessità assoluta dei platonici
arabi, per i
quali è sempHcemente
impossibile, cioè AL secolo
XIV AL XVI anche
ancilla e jamula
della teologia, la
filosofia è riconosciuta indipendente da
quella e autonoma
entro la propria
cerchia di ricerche naturali.
Così, non ostante
tutti i tentativi
più o^ meno ingegnosi
per unificarle, quella
filosofia e quella
teologia non rimanevano meno
distinte, se non
opposte, per i loro
metodi propri di
ricerca e per
il loro spirito. In
questa distinzione, accettata
da tutti i
teologi medievali del tempo
di Pietro d'Abano,
era il germe
latente dell'eresia di cui
a torto si
vorrebbero render responsabili
solo i veri o
pretesi averroisti. Una
volta proclamata la
legittimità della ricerca razionale
e filosofica, per
mezzo di metodi
propri e di- versi da
quelli teologici, quale
autorità teologica in
terra avrebbe potuto più
mettere un freno
a coloro che,
intrapreso il cammino della
ricerca scientifica, intendevano
percorrerlo fino in fondo
? ^. E
infatti, si era
appena riconosciuta quella
distin- zione, che fu subito
avvertito il contrasto
tra filosofia e teo-
logia, contrasto che venne
sentito più o
meno da tutti
i pensa- tori scolastici, da
Sigieri di Brabante
come da Tommaso d'Aquino, da
Pietro d'Abano come
da Duns e
da Dante Ali- ghieri; e tutti
cercarono di risolverlo
con particolari e
diversi atteggiamenti
spirituali. Il contrasto, da
prima latente, doveva
portare, e portò,
al con- flitto fra i
rappresentanti delle due
principali facoltà degl'istitu- ti universitari, quella
delle arti e
medicina e quella
di teologia. Nella facoltà
delle arti si
leggevano e si
commentavano i libri d'Aristotele e le trattazioni
di Avicenna, d'Averroè,
di Galeno, di Tolomeo
e di numerosi
altri autori greci
ed arabi. E
vi ri- fiorirono così, e si accrebbero,
l'antica astrologia, la
matema- tica, la medicina, l'alchimia
e la magia,
tutte insomma le scienze
create o sviluppate
dal genio greco
ed arabico. Che queste
scienze fossero infestate
da inveterati pregiudizi
meta- fisici, non toglie che
il loro sviluppo
abbia concorso in
larga misura allo sviluppo
del sapere scientifico
e al progresso
dello spirito umano. Per
mezzo di esse
si inaugurò nell'occidente cristiano il
metodo della ricerca
filosofica, s' iniziò la
libera indagine delle cause
naturali dei fenomeni
del mondo ter- 8
E di porre
un freno si
tentò più volte,
ordinando, come a
Parigi nel 1272, agli
scolari della facoltà
delle arti di
astenersi dal determinare cantra fidem
quando avessero da
discutere di un
problema che /idem videatur attingere
simulque philosophiam. Cfr.
Carthularium University
Parisiensis] restre. Al pregiudizio
teologico si sostituì,
è vero, quello
astro- logico. Ma l'errore di
aver riposto le
cause dei fenomeni
na- turali in influenze astrologiche,
non è poi
così grave e
imperdo- nabile, se esso significava
anzitutto libera ricerca
di cause naturali, affermazione
di leggi ed
esclusione dell'arbitrario
dal mondo dell'esperienza. E
intanto quell'astrologia, quell'al- chimia, la vecchia
medicina e la
stessa magìa venivano
racco- gliendo da ogni parte
ed accumulando preziose
osservazioni ed esperienze, che,
nella Rinascenza, dovevano
portare al supe- ramento dei vecchi
pregiudizi e concetti
metafisici, e contri- buire direttamente al
rinnovamento della scienza. Al
quale non si
sarebbe mai giunti,
senza l' inaugurazione di quel
metodo razionale, la
cui legittimità era
stata procla- mata
all'unanimità dagli stessi
teologi scolastici, non
solo in teoria ma
anche in pratica.
Vediamo infatti Tommaso
d'Aquino esporre con intera
libertà e senza
prevenzioni le dottrine
di Aristotele, fino a
dichiarare, contro il
parere dei vecchi
teologi, che l'eternità del
mondo non implica
contradizione e che la
tesi della creazione
nel tempo non
può dimostrarsi colla
sola ragione. E Alberto
di Colonia insieme
al pensiero aristotelico esponeva quello
degh altri peripatetici,
greci ed arabi,
pur notando che non
di rado esso
cozzasse coi dommi
cristiani. Ora all'esempio di
Alberto si richiamavano
espressamente o tacitamente Pietro
d'Abano e Sigieri
di Brabante, quando dichiaravano di
trattare «de naturalibus
naturaliter », senza farla
da teologi 9. De
naturalibus naturaliter: ecco
il programma di
quegli ambienti laici, che
erano le facoltà
delle arti; laici,
s' intende, solo per i
metodi dell' indagine
scientifica e filosofica
in con- trapposizione con quelli
della teologia. Di
questi ambienti laici Pietro
d'Abano incarna perfettamente
lo spirito. In
questo spirito è la
sua vera, la
sua unica eresia;
un'eresia inconsa- pevole
che s'era già
insinuata nella coscienza
di tutti coloro che
avevan fatto buon
viso al rinascente
pensiero aristotelico, e che
era penetrata fino
nelle scuole di
teologia io. Senza
pre- stargli dottrine
eterodosse che negli
scritti a noi
noti egli ha 9
Cfr. il mio
studio La posizione
d'Alberto Magno di
fronte all'aver- roismo,
cit., pp. 197
sgg. 10 La filosofia,
infatti, questa povera
ancella della teologia,
aveva il compito di
stabilire i praeambida
/idei e dichiarare
il contenuto delle formule dommatiche.
Le opere teologiche
della Scolastica, compresa espressamente riprovate,
senza attribuirgli quel
continuo sdoppiamento di coscienza
che piace a
chi, per il
gusto di farne un
eretico, ne farebbe
volentieri un ipocrita,
pronto ad af- fermare il contrario
di quello che
in cuor suo
pensa, per sal- vare la
pelle dal rogo;
— le sue
audacie dottrinali, dal
punto di vista della
teologia imperante, sono
evidenti: maggiore di tutte
quelle intorno ai
miracoli e ai
fatti meravigliosi. Pietro d'Abano
è lo scienziato
forse più caratteristico di quel
periodo di cui
Tommaso d'Aquino fu
il maggior teologo, e
Dante Alighieri, il
sommo poeta. Per
la vasta erudizione, pur senza
essere un rinnovatore
e un precursore,
rappresenta la scienza della
fine del secolo
XIII e del
principio del XIV, in
tutti i suoi
molteplici aspetti, in
ogni sua tendenza.
L' idea centrale della scienza
di lui è
un' idea astrologica.
E i creatori della leggenda
popolare di un
Pietro mago, sebbene
non co- gliessero i
veri caratteri della
sua magìa (magìa
bianca, ben differente dalla
necromanzia), ci hanno
tramandato un' im- magine dell'uomo, che
forse è meno
difforme di quel
che non si creda,
dalla sua storica
personalità. la grande Summa
dell' Aquinate, son impregnate
di razionalismo; ra- zionalismo che si
afferma nettamente in
Raimondo Lullo. L'ancella cominciò ben
presto a farla
da padrona ! Ili Se
Pietro d'Abano non
fu un avverroista
nel senso vero e
proprio della parola,
avveroista fu invece
l'eremitano Paolo Nicoletti da
Udine, detto comunemente
Paolo Veneto, il
quale professò a Padova
un tipo d'avveroismo
guardingo, che forse «gli
vi portò da
Oxford e da
Parigi, se pure
non v'era già arrivato
da Bologna, e
che risente della
lettura dell'opera di Sigieri
di Brabante, De
intellectu ad jratrem
Thomam ', op- pure degli scritti
di Tommaso di
Wilton impugnati a
Bologna, ottantacinque anni prima,
dal francescano Guglielmo
di Alnwick -. Paolo \'eneto
era andato a
studiare a Oxford,
insieme a un suo
fratello germano, maggiore
di lui, fra
Paolo Fran- -cesco, anch'egli
eremitano, alla fine
d'estate 1390, e
v'era * Dal voi.
Sigieri di Brabante
nel pensiero del
Rinascimento italiano. Roma, Edizioni
Italiane, 1945, pp.
115-132, salvo una
modificazione fino al quinto
capoverso. ' Cfr. Sigieri
di Brab. ecc.,
pp. 18-23. Che
l'averroismo padovano abbia origini
bolognesi è ipotesi
verosimile; ma non
si può escludere un'origine oltremontana.
Che poi Averroè
fosse tenuto in
gran conto a Padova
assai prima di
P. Veneto, è
provato dagli affreschi
di Giusto de' Menabuoi
nella cappella Cortelieri
nella chiesa degli
Eremitani, anteriori al 1370,
e dei quali
ci resta la
descrizione di Hermann
Schedel di Norimberga che
era studente a
Padova dal 1463
in poi. Giunto aveva
raffigurato Averroè insieme
agli eremitani maestro
Alberto da Padova e
al beato Giovanni
da Bologna. Cfr.
J. v. Schlosser,
Giusto's Fresken in Padua
n. die Vorlàufern
der Stanza della
Segnatura, in « Jahrbuch
der Kunsthistor. Sammel.
des allerhòch. Kaiserhauses
», Wien, 1896, XVII,
pp. 17, 45,
47, 94; S.
Bettini, Giusto S. M. e l'arte
del Trecento. Padova, 1944,
P- n?- Paolo
doveva ben conoscere
quegli affreschi. 2 A. Maier,
Wilhelm v. Alnwicks
bologneser Quaestionen gegen
Aver- roismus [1323), in
« Gregorianum »,
XXX, 1940, pp.
265-308. 76 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI rimasto almeno
un triennio 3.
Il soggiorno di
Paolo in In- ghilterra non era
rimasto ignoto ad
Antonio Cittadini da Faenza,
che a Ferrara,
nel 1476, dettò
un commento polemico dei
Logica minora dell'eremitano, in
principio del quale
si legge: Ferunt autem quidam
non auctoritate indigni,
hunc libellum in Britannia,
ubi olim et
dialecticae et philosophiae
studia flo- ruerunt, in
antiquissimis litteris compertum
esse, ut ex
illis con- staret, prius
opusculum hoc extructum
fuisse quam Paulus
Ve- netus natus esset.
Quod eo magis
a non nulhs
creditur, quod certuni est
Paulum apud Britanos
visendorum gymnasiorum
gratia aliquando commoratum
esse, ac postea
in Italiani rever- tentem
multos libros secum
detulisse, quorum auctores
Italis penitus erant incogniti
4. Più tardi soggiornò
anche « in
tlorentissima universitate
Parisina », ove
fra Paolo espose
gli Antepraedicamenta di Aristotele
5. Nel 1408, egli
era lettore nella
facoltà delle Arti
a Padova, e quivi
compose quella Summa
naturalium nella quale
è esposta la dottrina
del libri fisici
e della Metafisica
d'Aristotele, con sobrie discussioni
dei problemi agitati
nelle scuole ^. Notevole
in questa Summa
il trattato, diviso
in 42 capitoli, concernente il
De anima, perché
in esso ritroviamo
le tesi fon- damentali del De
intellectu di Sigieri.
Ma di questo
scritto aristotelico Paolo Veneto
ci ha lasciato
un'assai più ampia esposizione che
non saprei dire
in quale anno
redatta, ma forse non
di molto posteriore
alla Summa naturalium
7. 3 Reg. Re. mi
Barth. Veneti, nell'Archivio
della Curia generalizia degli Eremitani
in Roma Dd.
3, f. 132
v. Cfr. il
mio studio sulla
Lette- ratura e cultura veneziana
del Quattrocento, nel
voi. « La
civiltà Vene- ziana del Quattrocento
». Firenze, Sansoni,
1957, PP- ^^^
^ i35"36- 4 Cod.
Urb. lat. 1381,
f. 2 r. 5
Ghiotta notizia, segnalatami
dal prof. Giulio
F. Pagallo, in una
annotazione al Cod.
452 della Bodleniana
di Oxford (cfr.
Catal. di H.O. CoxE,
P. Ili, Oxford,
1854, p. 775). 6
La data di
composizione della Summa
naturalium è fissata
al 1408 dal codice
marciano che ne
contiene solo tre
parti. Cfr. G.
Valentinelli, Bibliotheca
manuscripta ad S.
Marci Veneiiarum, t.
IV, Venezia, 1872, p.
24, Lat., Classe
XII, cod. 23. 7
Come non molto
posteriore è 1'
Expositio super odo
libros Physi- eorum Aristotelis
necnon super comento
Averois cum dubiis
eiusdem, la quale porta
la data del
30 giugno 1409. Cfr. P.
Duhem, Le niouvement absolu et
le mouvement relatif.
Extrait
de la «
Revue de philosophie
». Montligeon (Orne), 1907,
p. 143. Le
stesse variazioni che il Duhem
ri- Anche in questa
seconda opera l' influsso
esercitato sull'ere- mitano
dal trattato dell'averroista belga
contro San Tommaso, è
decisivo, come possiamo
convincerci dalla lettura
dei se- guenti brani che
per comodità del
lettore riferiamo.
Nell'esposizione del testo
23 del II
libro De anima,
frate Paolo Nicoletti si
pone, « ad
maiorem dictorum evidentiam
», alcuni « dubia
», il secondo
dei quali verte
sul problema « Utrum in
eodem animali plures
possint esse anime
totales », che
egli risolve nel modo
che segue, non
senza aver prima
confutate altre soluzioni ^ :
Circa liane materiam,
siint plures modi
dicendi. Primus modus est,
quod piante non
habent nisi unam
animam totalem, scilicet vegetativam; bruta
duas, scilicet vegetativam
et sensitivain; homines vero
tres, videlicet vegetativam,
sensitivam et intel- lectivam; non
tamen simul generantur,
sed successive per
tempus, ita quod primo
generatur vegetativa, deinde
sensitiva, tertio leva tra
quest'opera e la
Summa naturalium, si
posson notare anche
fra quest'ultimo scritto e
il commento Super
libros Aristotelis de
anima, che senza dubbio
rivela una maggiore
complessità e maturità
di pen- siero. Nel commento
al t.c. 11
del III libro,
a proposito del
quesito se gli universali
« sint in
rerum natura »,
l'autore dichiara d'averne
trat- tato quanto basta «
in alio opere
et in prologo
physicorum ». È pro-
babile che, dopo l'esposizione
sommaria delle dottrine
fìsiche e meta- fìsiche dello Stagirita,
il Nicoletti si
sia accinto a
commentare le singole opere
aristoteliche alle quali
si riferiva la
Summa, cominciando, come sappiamo, dagli
otto libri della
Fisica e proseguendo
poi col De
caelo, col De generatione
et coruptione, coi
libri Meteorologici, col
De anima e colla
Metafisica. Una vera
biografìa filosofica di
Paolo Veneto non è
concepibile senza aver
tolto in esame
tutte queste opere
che da parte del
Momigliano sono state
piuttosto ricordate che
vedute e lette.
Tornato a Padova nel
1428, dopo le
peripezie che lo
avevano costretto a
lasciare questa città nel
1420 o forse
qualche anno prima
o dopo, l'eremitano s'accinse a
commentare di nuovo
il De anima,
come ci attesta
fra Matteo da Ripalta,
piacentino, allora studente
nello studio padovano.
Questi si procurò nel
corso del 1429
una copia dell'esposizione completa
del- l'opera aristotelica,
poiché il maestro
che con tanto
grido era tornato a
leggerla non andò
oltre il capitolo
« de gustabili
» (libro II, t. e.
101-104, cap. IO del
testo greco, 422»
8-422Ò 15), essendo
stato colto dalla
morte all'alba del 15
giugno dello stesso
anno. Valentinelli, t.
IV, p. 57. 8
Pauli Veneti, In
libros de anima
explanatio cimi textu
incluso singulis locis, maxima
qiiidem diligentia a
vitijs mendis atque
erroribus quibus hacteniis ex
ignavia impressorum scatebat
purgata ac pristine
in- tegritati restituta etc. E nel
colophon : Scriptum super
librimi de anima. . . . ex proprio
originali diligenter emendatum
per clarissimum. artium
ac medicine doctorem. D.
magistrum Hieronymum Surianum,
filium pre- stantissimi
quondam artium ac
medicine doctoris, Domini
magistri lacobi. de Surianis
de Arimino.... Venezia,
Eredi di Ottaviano
Scoto, i nov. 1504,
libro II comm.
al t. e.
23, fol. 46,
col. 4-47, col.
2. 78 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI post completarti
organizationem membrorum generatur
intel- lectiva 9 Hic
modus dicendi est
superfluiis.... Secundus
modus dicendi est,
quod in quolibet
vivente est solum una
anima totalis; et
quod est ordo
in productione anima- rum,
quia fetus primo
vivit vita piante,
deinde vita animalis; tamen tales
anime simul non
manent in eodem,
sicut nec due figure,
sed in adventu
secunde corrumpitur prima,
et in adventu tertie corrumpitur
secunda 1°. Iste
modus est impossibilis,
quia tunc aliqua forma
per se ageret
ad corruptionem sui
ipsius..., Tertius modus dicendi
est, quod in
nullo nisi in
homine sunt plures forme
substantiales seu anime
totales, scilicet sensitiva
et intellectiva, quarum prima
educitur de potentia
materie per agens naturale,
secunda autem creatur
a deo, non
obstante quod ita bene
inhereat sicut prima,
adducendo illud philosophi,
16 de animalibus: «
intellectus venit deforis»". —
Sed hec opinio
in- cludit contradictionem, quia
si anima intellectiva
inheret materie, ergo educitur
de potentia materie
et generatur ad
generationera corporis
animati et corrumpitur
ad corruptionem eiusdem.
Item hec opinio non
est naturalis, quia
ponit intellectum creari;
et Aristoteles una cum
commentatore ponit ipsum
perpetuum et eternum. Deinde,
si anima intellectiva
inheret materie, ergo
in- tellectio et volitio
sunt subiective in
materia; quod est
centra philosophum et commentatorem
ponentes potentias rationales esse abstractas
a corpore, et
consequenter actus illarum. Quartus modus,
quem solum puto
rationalem, est iste,
quod pianta habet solum
unam animam totalem,
scilicet vegetativam,
compositam ex partibus
diversarum rationum; et
consequenter animai
imperfectum simpliciter, quod
non habet aliquem
sensum exteriorem nisi sensum
tactus, nec aliquem
motuin ad locum, sed
solum motum dilatationis
et constrictionis, habet
etiam solum unam animam,
scilicet sensitivam, que
propter sui imper- fectionem supplet
vices anime vegetative,
ita quod in
ostrea vel spongia marina
eadem anima est
sensitiva et vegetativa.
Animai autem perfectum habet
duplicem animam, scilicet
partialem vegetativam, in carne
vel osse vel
in aliquo proportionali, et 9
Questa teoria è
la seconda delle
opinioni da me
elencate in Giorn. Crii,
della Filos. Ital.,
XII, 1931, pp.
437-438, ed è
ricordata da Dante, Purg.,
IV, 1-6, come
« quello error
che crede ch'un 'anima
sovr 'altra in noi s'accenda
». 10 Questa dottrina,
già accolta dal
francescano fra Giovanni
della RocheUe, fu difesa,
com' è noto,
da S. Tommaso.
Cfr. lo stesso
Giorn. Crii., pp. 441-442,
sesta opinione. 11 Questo
«tertius modus», che
è una teoria
intermedia fra quella tomistica e
quella schiettamente averroistica,
non è altro
che la nona delle
opinioni da me
elencate, professata da
Alberto Magno, da
Gio- vanni Peckam e da
Dante. Cfr. Giorn.
Crii., pp. 445-456;
ib., XIII, 1932, pp-
45-56 e 81-102;
come pure il
mio voi. Dante
e la cultura
me- dievale, Bari, Laterza, 1949,
pp. 271 sgg.
Questa è anche
la tesi di En-
rico Bate; cfr. Sigieri,
nel pens. nnam sensitivam
totaleni, ut equus
vel asinus. Homo autem,
preter partiales animas,
habet duas totales:
cogitativam sensi- tivam,
generabilem et corruptibilem, inherentem
et informantem, et intellectivam
perpetuam et eternam,
informantem et non inherentem '-. Da siffatta
teoria risultano alcune
conseguenze a mò di
corollari : .... Tertio
sequitur quod homo
non est homo
precise per ani- mam
cogitativam, nec precise
per animam intellectivam, sed per
ambas simili.... Cogitativa
enim denominat hominem
esse animai, et intellectiva
denominat hominem esse
rationalem; sed homo est
diffinitive et convertibiliter animai
rationale; ergo ambe anime
concurrimt ad constitutionem hominis.
Quo dato, opor- tet
concedere quod, sicut
genus est prius
differentia et potentiale ad
illam, sicut universaliter
minus perfectum ad
maius perfectum, ita cogitativa
est prior intellectiva
in homine et
potentialis ad '2 Nella
Summa philosophie natura! is
o naturalium (Venezia.
Eredi di Ottaviano Scoto,
« Anno a
salutifera incarnatione tertio
et quingen- tesimo supra
millesimum. Idibus Martijs
»), V parte.
De anima, cap.
V, fol. 68, col. 4: «
Tertia conclusio: Necesse
est in homine
esse plures animas totales.
Probatur: nam sol
et homo generant
hominem, 2° physi- corum
(t. e. 26);
ergo homo generatur;
sed terminus generationis
est forma accipiens novum
esse, ut colligitur ex
sententia philosophi, 5°
phi- sicorum (t. e. 7);
ergo aliqua forma
hominis generatur; sed
non intel- lectiva, 3° de
anima (t. e.
5); ergo sensitiva
generatur. — Item,
philo- sophus, primo celi
(t. e. 102)
: « omme
genitum aliquando corrumpetur
»; ergo homo aliquando
corrumpetur; sed non
intellectiva, 3° de
anima (t. e. 19);
ergo sensitiva. Et ita necesse
est ponere in
homine duas ani- mas:
unam intellectivam, ingenerabilem
et incorruptibilem, secundum philosophum, et
aliam sensitivam, generabilem
et corruptibilem, quam Commentator vocat,
3° de anima
(t. e. 5),
cognitivam (sic, leggi
cogi- tativam). — Quarta conclusio:
Impossibile est in
aliquo vivente non intellectivo esse
plures animas totales.
Patet, quoniam si
in plantis vel in
brutis ponerentur plures
anime totales, unanecessario
super- flueret, quoniam illa
que est maioris
perfectionis totum actuaret,
sicut illa que est
minoris perfectionis, et
omnes operationes eius
exerceret, ex quo in
ea fundantur omnes
potentie inferioris anime.
Dicatur ergo quod in
plantis est solum
una anima totalis,
que est tota
in toto et pars
in parte, et hec est
vegetativa; in animalibus
autem imperfectis est solum
una anima totalis,
et illa est
sensitiva, supplens vicem
anime , que etiam
extenditur ad extensionem
subiecti; et in
ani- malibus perfectis sunt plures
vegetative [partiales] et una sensitiva totaUs, multiplicata
ad omnem partem
etherogeneam. Sed in
homi- nibus, preter formas
partiales vegetativas, sunt
due totales, scilicet sensitiva multiplicata
ad partes etherogeneas,
et intellectiva non
mul- tiplicata ad aliquam partem
illius individui, sed
bene ad omnia
indi- vidua speciei humane, eo
quod intellectus est
unus in omnibus
homi- nibus, iuxta intentionem
Aristotelis et determinationem Commenta- toris, 3"
de anima (t.
et e. 5) ». illam
13. — Quarto sequitur
quod idem individuum
est diversarum specierum essentialium.
Patet, quia homo
per animam cogita- tivam
sensitivam est alicuius
speciei generis animalium,
immo supreme speciei, quia,
secluso intellectu, per
cogitativam homo habet discursum
quodammodo rationalem, ratione
reminiscentie reperte in eo
et non in
aho; licet enim
memoria reperiatur in aliis
animalibus, non tamen
reminiscentia ; neque
reminiscentia competit
homini ratione intellectus,
sed ratione cogitative
vir- tutis, quia reminiscentia
est passio anime
sensitive, secundum
Aristotelem, in libro
de meìnoria et
reminiscentia H. Item,
quia intellectus humanus est
pura potentia in
genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio
huius, et per
consequens est primus gradus
illius generis ^5,
ideo per intellectum
constituit primam speciem intellectivoruni, sicut
per cogitativam constituit
ultimam speciem generis animalium. Nec
est inconveniens duos
gradus specificos esse immediatos,
quia species sunt
sicut numeri, 8 ine-
taphysice (t. e.
io). Et si
concluditur ex eodem
fundamento, quodlibet mixtum esse
diversarum specierum essentialiter, ra- tione forme mixti
et forme elementi,
negetur consequentia, quia forma
elementi non se
habet respectu forme
mixti nisi materialiter et potentialiter
per modum dispositionis
prefinientis in ma- teria formam mixti;
ideo non dat
mixto nomen specificum
nec diffinitionem
essentialem. Sed anima
cogitativa non se
habet tanquam dispositio prefiniens
animam intellectivam, cum
eque simul inducantur in
corpore, nec una
potest naturaliter esse
sine alia. Cogitativa tamen
dicitur esse prior
intellectiva et potentialis ad illam
propter suam imperfectionem ^^. Come
è facile vedere,
già in questo
luogo dell'esposizione del libro
secondo del De
anima, la tesi
caratteristica di Sigieri, 13
Anche Sigieri, come
sappiamo, affermava che
la cogitativa è or-
dinata « in intellectivam
», talché « nec potest
intellectus informare ma- teriam
non informante cogitativa..., nec
potest cogitativa informare materiam non
informante intellectu »;
cfr. Sigieri nel
pens., p. 18. 14
Cap. 2, 453^
14 sgg. «
Quella parte dove
sta memora »
chiama l'anima sensitiva anche
Guido Cavalcanti, nella
canzone « Donna
mi prega», tutta pervasa
di dottrina averroistica ; cfr.
il mio voi.
Dante e la cult,
medievale,'^ pp. 104-105,
137. Gli averroisti
negavano si la me-
moria che la reminiscenza
all'intelletto; cfr. il
mio voi. Nel
mondo di Dante, Roma,
Edizioni di «
Storia e Letteratura
», 1944, pp.
373-374- 15 Altra tipica
tesi di Sigieri
che Paolo Veneto
svilupperà, come ve- dremo
fra breve. 16 Allo
stesso modo anche
nella Summa naturalium,
1. e. fol.
69, col. I :
« Ad secundum
dicitur, quod anima
intellectiva non adv-^enit enti in
actu substantiali, quia
eque primo adveniunt
corpori sensitiva et intellectiva.
Item, dato quod
sensitiva precederet tempore
intel- lectivam, adhuc
advenit enti in
potentia, quia forma
sensitiva hominis dicitur potentialis
ad ulteriorem actum;
non autem anima
intellectiva. Hec ergo est
differentia inter formam
substantialem et accidentalem, quia forma
accidentalis advenit enti
in actu ultimato,
forma autem substantialis advenit
enti in potentia,
licet non in
pura potentia ». Ol che
r intelletto, pur
essendo in sé
una sostanza separata unica per
tutta la specie
umana, s'unisce ai
singoli con un vincolo
sostanziale, sì da
potersi dire forma,
atto e perfezione dell'uomo, è
accennata in modo
esplicito '7. Ma
1' influsso del brabantino sull'udinese
è ancora più
evidente nell'esposizione
del terzo libro,
del pari che
nei capitoU 35-37
della quinta parte della
Summa naturalium. In quest'ultimo
scritto, frate Paolo
tratta anzitutto della passività o
passibilità dell' intelletto
umano, formando queste quattro conclusioni: Quarum prima
est ista: Intellectus
humanus nullam habet de
se in actu
speciem intelligibilem, sed
ad quamlibet talem
est penitus in potentia.... Secunda conclusio:
Intellectus non est
aliqua una natura sed
solum habet possibilitatem recipiendi
omnes formas ma- teriales.... Pertia conclusio:
Intellectus possibilis humanus
ante intellectio- nem nullatenus est
actu.... Quarta conclusio :
Intellectus humanus est
immaterialis et incorporeus et
immixtus.... '8. Tutte e
quattro queste conclusioni
ritornano, con una
leg- gera variazione nel loro
ordine, in principio
dell'esposizione del terzo libro
De anima '9;
ma qui alla
terza conclusione, che corrisponde
alla seconda della
Summa, il maestro
pado- vano ricollega il problema
dell'unità dell' intelletto
che nella Summa è
discusso a parte
nel capitolo 37. 17
Tanto nella Summa
naturalium, 1. e,
f. 68, col.
4, Secunda conclusio, quanto nell'esposizione del
De anima, 1.
e, f. 47,
col. 3, combatte la
tesi sostenuta un
tempo a Oxford
da Roberto Kilwardby
e da Tom- maso di
Wilton, e accolta
anche da Giovanni
di Jandum, che
« in aliquo vivente possit
esse multitudo formarum
iuxta pluralitatem predicato- rum essentialium
«. Della qual
tesi nell'esposizione del De anima
egli dà questo riassunto
: « Tenentes
pluralitatem formarum in
eodem iuxta multitudinem predicatorum
quiditativorum, dicunt quod
prima forma Sortis est
illa qua ipse
est substantia, et
secunda qua est
corpus, et tertia qua
est corpus animatum,
et quarta qua
est animai, et
quinta qua est homo,
et sexta qua
est Sortes; et
ita de individuis
aliarum spe- cierum; et
imaginantur isti quod,
quantum ad animam
sensitivam, omnia animalia sunt
eiusdem rationis substantialis, a
qua sumitur hoc genus
« animai »;
et secundum formas
ulteriores specifìcas, sunt
homines, equi et canes
diversarum rationum substantialium; concedentes
omnes tales formas realiter
distingui et fundari
in materia inhesive,
ordine essentiali, secundum quod
taha predicata invicem
essentiahter ordi- nantur. Ista
opinio est impossibilis
». 18 Summa naturai.,
pars V, e.
35, f. 87,
col. 2. 19 In
libros de anima,
III, ad t.
e. 1-5, f.
128, col. 3-130,
col. 3. 82 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Sul modo
di concepire la
passività dell' intelletto
possi- bile e il concorso
dell' intelletto agente
e del fantasma
al- l'atto dell' intendere, l'eremitano
riferisce quattro opinioni,, l'ultima delle
quali è quella
d'Averroè: Quarta opinio est
Averroys intellectui possibili
nihil nisi passi- bilitates assignantis,
fantasmati vero activitatem
tanquam par- ticulari agenti,
et intellectui agenti
tanquam agenti universali; ita quod
ad primas intellectiones et
species intelligibiles concurrit fantasma tanquam
agens particulare, et
intellectus agens tanquam agens
vniiversale; ad omnes
autem conseguentes se
habet intel- lectus agens sicut
causa particularis, fantasma
autem sicut causa sine
qua non, intellectus
autem possibilis solum
recipit et nun- quam
agit -°. Da questa
opinione il nostro
dichiara di dissentire,
non per quel che
concerne le prime
intellezioni, nelle quali
l' intelletto possibile è totalmente
in potenza, e
quindi del tutto
passivo, sibbene per quel
che concerne le
intellezioni successive, alle quali,
essendo già attuato
dalle prime, è
in grado di
concor- rere attivamente, « semper
tamen virtute intellectus
agentis ». Di qui
la conclusione formulata
piti oltre, che
cioè: Intellectus ante actuationem
speciei intelligibilis aliter
est in potentia quam
post actuationem eius
21. Dopo aver affermato
l'essenziale passività dell'
intelletto possibile, fra Paolo
si pone nella
Summa naUiralmni il
quesito del rapporto da
stabihre tra questo
intelletto e il
corpo umano, intorno al
quale « tam
Inter veteres quam
modernos multa discrepantia fuit
» ^-. E
prima di tutto
ricorda quod Plato posuit
intellectum uniri corpori,
non ut formam materie, sed
ut motorem mobili,
eo modo quo
nauta unitur navi et
intelligentia orbi, non
per modum informationis, sed
per con- tactum virtutis
(alium) a contactu
corporeo. 20 7è., ad
t. e. 5,
fol. 131, col.
3. Il problema
fu a lungo
discusso fra le varie
scuole nella scolastica
della decadenza, senza
che ci si
rendesse ben conto della
sua gravità, poiché
è problema che
investe tutta la filosofia
antica fino a
Kant: come salvare
l'immanenza dell'atto del conoscere, se
esso ha bisogno
d'una causa esterna
che la produca
nel soggetto conoscente ? 21
Iv., ad t.
e. 8, fol.
133, col. 2. ^2
Summa naturai., V, e. 36. i Quanto
ad Averroè, il
nostro eremitano ne
espone il pen- siero in
questi termini: Secundo notandum
ex intentione Commentatoris, ij
de anima (comm. 5
et 36), quod
corporalis natura compatitur
secum spiri- tualem naturam,
et non cedit
ei organum fantasticum
seu imagi- native virtutis,
cum sit quid
corporale, intellectus autem
quid spirituale; organum predictum
non cedit intellectui,
et per con- sequens
illa eadem intentio
que informat virtutem
imaginativam, informat
intellectum materialem...; et
hoc dico quia
intellectus copulatur nobis per
formam suam. Copulatur enim nobis
per intentiones imaginatas, que
sunt eedem cum
intentionibus exi- stentibus in
intellectu possibili; et
ita unitur homini
per fanta- smata intellecta
in actu. Intentiones
enim imaginative, per
Com- mentatorem, ut informant
virtutem imaginativam, plurificantur, quia sunt
ibi cum conditionibus
materie; sed ut
informant in- tellectum possibilem fiunt
una intentio in
ipso, quia non
recipit cum conditionibus materie.
Et ideo
inquit Commentator, quod copulatur nobis
intellectus per continuationem intentionis
in- tellecte, quia eadem
est intentio informans
intellectum et virtutem imaginativam 23. Siffatta interpretazione del
pensiero del commentatore
di Cordova anzi che
da Sigieri è
suggerita invece da
Egidio Ro- mano, al quale
il confratello veneto
s'appella esplicitamente nel commento
al De anima: Secunda opinio
fuit Averoys dicentis
quod intellectus humanus non
unitur corpori ut
forma, sed per
fantasmata intellecta in actu.
Ad quod declarandum,
est notandum primo
secundum eum in hoc
tertio, iuxta expositionem
Egidij, quod corporalis natura compatitur
secum spiritualem naturam
etc. -4. All'opinione d'Averroè,
Paolo aggiunge quella
di Giovanni di Jandun
che, a mio
parere, egH non
ha ben compreso.
Ecco ad ogni modo
com'egli la riassume: Tertia opinio
fuit Ioannis de
ianduno dicentis quod
intellectus, secundum
Commentatorem, unitur corpori
humano, non ut
forma dans esse, sed
ut motor mobili
dans operari, eo
modo quo unitur intelligentia orbi
et nauta navi;
concedens consequenter quod datur
duplex homo: unus
qui componitur ex
corpore et anima cogitativa; et
alius qui componitur
ex intellectu et
toto residuo; 23 Ib. 24
In libros de
anima, 1. e.
f. 133, col.
4. Cfr. Egidio
Romano, Do intell. pass,
cantra Averr., Venezia,
1500, II parte,
fol. 92 col.
1-9. 84 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI quibus proportionaliter respondet
duplex intelligere, scilicet universale et
particulare ; homo
sumptus primo modo,
solum particularia
intelligit; et sumptus
secundo modo intelligit
solum universalia ^5. A queste
tre opinioni egli
oppone la tesi
d'Aristotele, se- condo il quale
l' intelletto è vera
forma sostanziale dell'uomo, cui dà
essere ed operare
^6. Ma com'egli intenda
il pensiero dello
Stagirita su questo punto,
c'è detto nella
Summa naturalium '^v. Tertia conclusio
: Anima intellectiva
non unitur corpori
humano per inherentiam. Patet
tripliciter: primo quia
ipsa est ingene- rabilis et
incorruptibilis, iij de
anima (t. e.
20) ; modo
nulla forma inheret materie per
transmutationem, scilicet materie
que non generatur et
corrumpitur, ut colligitur
a philosopho, primo
de genevatione, et a
Commentore, in libro
de substantia orbis
(cap. 4). Secundo, quia
intellectus est impassibilis
et intransmutabilis, iij de
anima; sed nulla
forma inheret materie
nisi per transmu- tationem et passionem.
Tertio, quia anima
intellectiva est indi- visibilis et
impartibilis per carentiam
partium integralium; nam quelibet
forma inherens materie
suscipit conditiones intrinsecas materie secundum
quas inheret; cum
ergo conditio materie, secundum quam
forma inheret, sit
habere partes integrales, licet non
partem extra partem,
quia hec est
conditio quantita- tis, etc. Quarta
conclusio: Anima intellectiva
unitur homini substan- tialiter per
informationem, ita quod
est forma substantialis
cor- humani, non solum
dans operari, sicut
intelligentia orbi, sed etiam
esse specificum et
essentiale. Probatur: differentia specifica constituens
aliquam speciem sumitur
a forma illius speciei, sicut
apparet ex intentione
philosophi, io metaphysice (t. e.
25), dicentis quod
contraria consequentia materiam
non faciunt differentiam in
specie, sed contraria
consequentia formam; modo differentia
propria hominis est
« rationale »;
ergo sumitur a forma
humana; sed «rationale
» sumitur ab
eo quod est
intel- lectivum; ergo intellectus
vel anima intellectiva
est forma cor- poris
humani. — Item,
« rationale »
ponitur in diffinitione
eius non tanquam additamentum,
sed tanquam differentia
eius, ut ponit Porphyrius
et Aristoteles ;
ergo " rationale
» est de
essentia hominis; sed nihil
est per se
rationale nisi per
aniinam intellecti- ^5 Ib.,
fol. 134, col.
I, cfr. Sigieri,
pp. 100-102. -6 Ib.,
fol. 134, col.
1-2: «Quarta opinio
fuit Aristotelis dicentis
in- tellectum esse veram
formam substantialem hominis....
Ideo est di- cendum
cum Aristotele et
alijs perypateticis veris,
quod intellectus est iorma
substantialis hominis, dans
sibi esse et
operari ». ^7 Parte
V, cap. 36. vam;
ergo etc. Unde
ex diffinitione anime
data a phylosopho, ij de
anima, convincitur hanc
conclusionem esse de
intentione sua. Arguitur enim
sic: Anima intellectiva
secundum ipsum est anima;
ergo «est actus
primus corporis »;
patet consequentia a dififinito
ad diffinitionem ;
ergo est forma
substantialis; patet
consequentia secundum phylosophum,
ij de anima
(t. e. 6), eo
quod actus primus
est forma substantialis
corporis; et nonnisi corporis humani;
ergo etc. — Deinde
anima intellectiva est
illud «quo primo intelligimus
»; ergo est
forma substantialis hominis; patet consequentia,
quia non est
alia ratio ad
probandum ani- mam vegetativam
esse formam substantialem
corporis vege- tantis, et
animam sensitivam esse
formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima
intellettiva dunque è,
sì, forma dell'uomo,
in quanto gli dà
l'essere e l'operare
di uomo, ma
non perché sia inerente
al suo corpo
alla stessa maniera
delle altre forme naturali. Su
questa differenza Paolo
Veneto ritorna anche
nel commento al De
anima -^: Intelligenda est differentia
inter informare et
inherere: quo- niam informare
est dare alteri
esse actuale et
hoc dicit perfectio- nem in
forma, imperfectionem in
materia, quia dare
dicit perfectio- nem; sed
inherere est ab
alio sustantificari, et
hoc dicit perfectio- nem in
materia et imperfectionem in
forma, quoniam sustanti- ficare dicit
perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam
a subiecto. Ex
isto notabili..., sequitur quod
anima intellectiva, licet
informet corpus humanum, non tamen
inheret illi, quia
non dependet ab
eo; quocumque enim
tali corpore dato, ante
illud fuit et
post illud erit
anima intellectiva, cum illud
generetur et corrumpatur,
anima autem intellectiva sit eterna....
Ouatuor rationibus arguitur
animam intellectivam non inherere
materie; quarum prima
est ista: anima
intellectiva non educitur de
potentia materie; ergo
sibi non inheret....
Se- cunda ratio: anima
intellectiva est prior
materia; ergo non
inheret illi.... Tertia ratio:
anima intellectiva est
impassibilis et intransmu- tabilis; ergo
non inheret materie....
Quarta ratio: anima
intellectiva est
indivisibilis et inpartibilis
per carentiam partium
integralium, secundum
philosophum et commentatorem, in
hoc tertio (t. e. 6) ;
ergo non
inheret materie. Anima sensitiva
o cogitativa ed
anima intellettiva son dunque,
per il maestro
padovano, due forme
totali che costi- tuiscono l'uomo nella
sua natura di
animale ragionevole. Ma pur
essendo due forme
distinte, sono unite
da un intimo ^^
In libros de
anima, III, ad
t. e. 6,
f. 132, col.
2-3. 86 legame talmente
stretto, che l'una
è fatta per
l'altra e l'una completa l'altra.
Per questa ragione
il Nifo, più
che due anime le
diceva 29 due
semianime costituenti, per
la lo- ro sostanziale unione,
una sola anima
umana; che è an-
che il pensiero di
Dante, il quale
ad esprimerlo si
serve della immagine del
« calor del
sole che si
fa vino, giunto
all'omor che dalla vite
cola » 30.
La tesi di
fra Paolo è
dunque identica in sostanza
alla tesi professata
da Sigieri nel
trattato in ri- sposta a
quello dell' Aquinate
contro gli averroisti
; ma d'ac- cordo col brabantino
il maestro padovano
non è nella
pretesa d'attribuire questa tesi
al commentatore di
Cordova; anzi egli riconosce
che è vero
il contrario: Cominentator tamen
diceret intellectum per
se subsistere, et ipsum
non uniri materie
ut formam; sed
non sui ipsius
{sic, leggi: sum ipsius)
opinionis 3'. Ma se
il nostro eremitano
dissente da Sigieri
su questo par- ticolare, non dissente
affatto da lui
nel ritenere che,
pur es- sendo forma dell'uomo,
l' intelletto possibile è
unico per tutti gli
uomini. E nella
Summa naturalium 32
ritiene sia questo
il pensiero non soltanto
d'Averroè, bensì quello
d'Aristotele: Unde secundum philosophum,
primo et tertio
de anima, na- tura nihil facit
frustra et non
abundat in superfluis,
nec deficit in necessariis;
cum igitur natura alicui
speciei non dederit
nisi unum individuum, et
alteri plura, hoc
est ideo, quia
una species in uno
individuo potest se
perpetuo preservare, et
non alia; ut species
angelica que perpetuo
preservatur in una
intelligentia, et non species
humana; sed ita
est quod species
anime intellective potest se
preservare perpetuo in
uno individuo, quia
anima in- tellectiva est
perpetua et eterna
sicut aliqua intelligentia
celestis, ergo frustra et
preter intentionem nature
ponuntur plures anime intellectuales solo
numero differentes. —
Item, intellectus venit de
foris, secundum philosophum,
xvj libro de
animalibus: aut ergo per
creationem, iuxta opinionem
fidei; aut per
motum a corporibus celestibus,
iuxta opinionem Platonis;
aut per introitum unius corporis,
aliud relinquendo, iuxta
opinionem Pictagore; aut per
novam actuationem unius
corporis humani, aliud non
relinquendo: nullus trium
priorum modorum potest
assi- gnari, quia intuenti
libros Aristotelis notum
est ipsum oppositum 29
Vedi Sigieri... nel
pens., pp. 13-20. 30
Purg., XXV, 76-78. 31
In libros de
anima, 1. e.
fol. 132, col.
3. 32 Parte V,
cap. 37, fol.
88, col. 3. opinari;
ergo est dare
quartum modum; et
cum in eodem
corpore non possint esse
plures anime intellective
simul, secundum omnes opiniones, sequitur
quod unicus est
intellectus in omnibus
homi- nibus secundum intentionem
Aristotelis. E più oltre: Quarta
conclusio: Intellectus non
numeratur numeratione
individuorum, sed est
unicus in omnibus
hominibus. Probatur:
pluralitas individuorum in
eadem specie non
est nisi per
mate- riam, per philosophum,
j celi (t.
e. 92), vij
et xij metaphysice (VII, t.
e. 28; XII,
t. e. 49),
ubi probat quod
non possunt esse plures
intelligentie separate solo
numero differentes, per
hoc medium : quecunque
conveniunt in eadem
specie et differunt numero, habent
materiam; sed anima
intellectivam non habet materiam scilicet
ex qua, nec
in qua per
inherentiam; ergo etc. Unde
arguitur sic: anima
intellectiva est ingenerabilis
et incor- ruptibilis, iij
de anima (t.
e. 20), et
non contingit dare
multitu- dinem infinitam, j
celi (t. e. 68) et
iij physicorum (t.
e. 40), et species
sunt eterne, j
posteriorum (t. e. 56)
et vii] physicorum (t. e.
57); ergo unica
est anima intellectiva
omnium. Patet con- sequentia, quia,
si anima intellectiva
mutatur mutatione indivi- duorum speciei humane,
aut ergo per
generationem et corruptio- nem, ut
posuit Alexander, et
hoc non, quia
repugnat prime parti antecedentis ;
aut per multiplicationem finitam
animarum re- cedentium et
advenientium, ut posuit
Plato vel Pictagoras,
et hoc iterum non,
quia omnes sciunt
oppositum scripsisse Aristo- telem; aut
per generationem vel
creationem et incorruptibili- tatem, ut
ponit fides, et
hoc iterum non,
quia repugnat secunde et
tertie parti antecedentis;
ergo oportet dare
unicum intellectum in omnibus
hominibus, secundum opinionem
et intentionem Ari- stotelis. La stessa
tesi Paolo Veneto sostiene
anche nell'esposizione del De
animaci, ma con
una piccola variazione:
nella Summa, la teoria
dell'unico intelletto in
tutti gli uomini
è detta sen- 33
In libros de
anima. III, ad
t.c. 5, fol.
130, col. 3:
« Secundo notan- dum,
secundum Commentatorem, eodem
commento, quod Illa
natura (intellectus) non est
hoc aliquid, nec
corpus nec virtus
in corpore, quo- niam,
si ita esset,
tunc reciperet formas
secundum quod sunt
diverse et individuales; et
si ita esset,
tunc forme existentes
in illa essent
in- tellecte in potentia,
et sic non
distingueret naturam formarum
secun- dum quod sunt forme,
sicut est dispositio
in formis individualibus, sive in
spiritualibus sive in
corporalibus. Intentio commentatoris
est, quod intellectus humanus
non sit aliquid
singulare vel individuum, ex quo
non est corpus
nec virtus in
corpore; quoniam materia
est ratio individuationis, a
qua separatur intellectus
humanus sicut et
quelibet intelligentia celi. Tria
ergo inconvenientia adducit,
concesso quod intellectus sit
hoc aliquid. Primum
inconveniens est, quod
intellectus z'altro
rispondere al pensiero
d'Aristotele « iuxta
impositionem Commentatoris » ; nel commento
invece è presentata
sempli- cemente come « intentio
» e « opinio Commentatoris
» : segno che
sul vero pensiero
d'Aristotele s'era forse
affacciato qualche dubbio alla
mente del maestro
padovano. Un'altra tesi tipica
di Sigieri consiste,
come sappiamo, nel ritenere
che l' intelletto agente,
tanto per Aristotele
quanto per il suo
commentatore arabo, sia Dio.
Nella Summa naturalium
34, fra Paolo
ritiene: quod intellectus agens
et possibilis non
separantur ab anima intellectiva, sed
sunt differentie illius
non substantiales..., sed accidentales.... Intellectus
agens est coniunctus
anime intellective per inherentiam
et fantasmatibvis per
presentiam et indistantiam. Per altro nella
risposta « Ad
primum (argumentum) » egli
accenna anche alla
tesi di Sigieri,
ma senza aderire
ad essa: Commentator autem
vult intellectum possibilem
esse essen- tiam anime
intellective, et intellectum
agentem esse primam
cavi- sam, vitaliter immutantem
ipsum intellectum possibilem;
sed hanc opinionem non
teneo ad presens. Invece, quando
scriveva l'esposizione al
De anima, egli
era ormai convinto che
la tesi di
Sigieri fosse la
sola vera, non soltanto
dal punto di
vista della filosofia
aristotelica, ma al- tresì da
quello teologico: Dubitatur, si
intellectus agens et
possibilis differunt tam
inter se quam ab
assentia anime, utrum
sint substantie vel
accidentia. In hac materia
fuerunt quatuor opiniones.
Prima fuit Avi- cenne
et Algacelis, dicentium
intellectum agentem et
possibilem esse substantias invicem
separatas loco et
subiecto, ita quod
se- cundum eum {sic)
intellectus possibilis est
forma hominis, et intellectus agens
est decima intelligentia
appropriata decime spere, a
qua nostra felicitas
dependet; sicut ergo iste unus
sol non reciperet nisi
formas individuales et
secundum quod sunt
diverse... Secundum
inconveniens: quod species
intelligibiles essent intentiones intellecte in
potentia et non
in actu; quod
est falsum, cum
sint univer- sales et
depurate a conditionibus
materialibus.... Tertium inconve- niens: quod
intellectus non poneret
differentiam inter formas
univer- sales et singulares,
sive ille forme
corporales sive spirituales ». E dopo
aver riferite quattro
obiezioni « contra
commentatorem », comincia la
sua risposta con
queste sintomatiche parole:
« Responsurus prò opinione Averroys,
dico...... 34 Parte V,
cap. 38, fol.
89, col. 1-4. totum
universum illuminat, per
cuius illuminationem possunt omnes
oculi videre, sic,
dicebant illi, est
aliqua una substantia separata irradians
super fantasmata omnium
hominum, per cuius irradiationem possunt
omnes homines intelligere. Hec opinio
est in parte
defectuosa, quia postquam
intellectus factus est in
actu nos intelligimus
quandocumque volumus,
secundum quod posuit
supra Commentator et
habetur ad expe- rientiam; sed
talis substantia separata
non videtur irradiare supra fantasmata
quandocunque volumus, sicut
nec sol illuminat oculum quandocunque
volumus; cum ergo
non intelligamus absque intellectu
agente, ergo intellectus
agens non est
talis intelligentia separata 35. Siffatta
critica della tesi
d'Avicenna, ci fa
presentire come la pensi
il nostro su
quest'argomento: se invece
di identifi- care r intelletto
agente colla decima
intelligenza celeste, che è
r infima delle
intelligenze separate, Avicenna
l'avesse iden- tificato con Dio,
questo certamente irradia
della sua luce i
fantasmi « quandocumque
volumus ». Il
difetto insomma di questa
teoria consiste nell'avere
identificato l' intelletto
agente con un
intelletto particolare, anzi
che con un
intel- letto veramente
universale. Dopo di che,
Paolo Veneto espone
e critica come
seconda opinione quella d'
Egidio, di S.
Tommaso e di tutti quegli antichi scolastici
che ritenevano l' intelletto
possibile ed agente facoltà accidentali
dell'anima. La terza
opinione, da lui
ri- ferita parimente
rifiutata, è quella
di Giovanni Eucliph, ossia Giovanni
WycHf, il cui
ricordo doveva essere
ancora ben vivo a
Oxford, quando vi
giunse il nostro
eremitano 56. Indi prosegue: 35
In libros de
anima, III, ad
t. e. 19,
fol. 142, col.
4. 36 La terza
opinione è così
riassunta (fol. 142,
col. 4-143, col.
i): « Tertia opinio
fuit Ioannis Eucliph
dicentis intellectum possibilem
et intellectum agentem esse
potentias anime inteUective,
non tamen esse substantias nec
accidentia; sicut enim
dicunt theologi quod
pater, filius et spiritus
sanctus sunt tres
persone realiter distincte,
non tamen tres substantie
nec tria accidentia,
sed una substantia
que est deus, ita
intellectus agens et
intellectus possibilis et
voluntas sunt tres
po- tentie realiter distincte,
non tamen tres
substantie, nec tria accidentia,
sed una
substantia que est
anima intellectiva ;
et sicut pater
non est filius, nec
spiritus sanctus, et
tamen est ille
idem deus qui
est filius et spiritus
sanctus, ita intellectus
agens non est
intellectus possibilis nec voluntas,
et tamen est
intellectus agens illa
eadem anima intel- lectiva numero, que
est voluntas et
intellectus possibilis. Opinio
ista non est tenenda
phylosophice nec theologice
» etc. Quarta opinio,
que tenenda est,
fuit Aristotelis ponentis
in- tellectum agentem et
possibilem esse virtutes
et potentias anime non
subtantiales nec accidentales,
sed intellectum possibilem esse accidens
proprium et inseparabile
anime intellective, quo recipit
omnes formas speculativas,
sicut materia prima
per suam accidentalem potentiam
recipit omnes forinas
naturales. Intel- lectuin vero
agentem voluit esse
substantiam primam, coniunctam intellectui possibili
non per modum
forme informantis nec
inhe- rentis, sed per
modum forme et
habitus presentis et
indistantis; nec aliqua intelligentia, preter
primam que deus
est, potuit esse intellectus agens,
quia, sicut potentialitati prime
materie respondet actus purissimus
in quo sunt
active omnes forme
naturales que sunt in
prima materia passive,
ita potentialitati anime
intellective competere (correspondere ?)
agens primum, in quo sunt
effective omnes forme speculative,
que passive sunt
in anima intellectiva, mediante intellectu
possibili 37. Si
enim aliqua intelligentia
depen- dens esset intellectus
agens, per istam
non posset intellectus
pos- sibilis intelligere primam
causam, quia intellectus
agens abstrahit intellecta et
agit ea, secundum
Commentatorem ; modo
nulla intelligentia inferior potest
abstrahere causam primam
nec in illam aliquo
modo agere, ratione
independentie
(suedependentie ?) et imperfectionis. Et
hec opinio non
solum est physica,
sed etiam a theologis
tenetur. Nel commento al
De anima, dunque,
ogni riserva è
sciolta, e fra Paolo
giudica la dottrina
che identifica l' intelletto agente colla
causa prima, cioè
con Dio, non
soltanto conforme al pensiero
d'Aristotele e d'Averroè,
ma senz'altro vera
in se stessa e
tenuta dai filosofi,
non meno che
da non pochi
teologi. La tesi di
Sigieri, intorno alla
quale aveva avuto
dei dubbi, aveva finito
per prendere il
sopravevnto nel suo
animo. Altrettanto non possiamo
dire d'un'altra tesi
del braban- tino, strettamente
connessa con quella
che concerne l' intel- letto agente, la
teoria cioè della
beatitudine per mezzo
del congiungimento della mente
umana coli' intelletto
divino. Su questo punto
Sigieri aveva fatta
sua l' interpretazione che il
Commentatore di Cordova,
nella celebre digressione inserita nel
commento 36 del
III libro De
anima, dava del 37
Allo stesso modo
per Dante, Conv.,
IV, xxi, 5,
l'anima in vita tratta
per virtù celestiale
dalla potenza del
seme, « incontanente
pro- dutta, riceve da
la vertù del
motore del cielo
lo intelletto possibile; lo
quale potenzialmente in
sé adduce tutte
le forme universali,
secondo che sono nel
suo produttore, e
tanto meno quanto
più dilungato da la
prima Intelligenza è
». Sul qual
passo, cfr. B.
Nardi, Dante e
la cultura medievale, pp.
267 sgg., e
Giorn. Crit. filos.
Hai., XIII, 1933,
pp. 54-56. QI pensiero
d'Aristotele. Anche l'eremitano sa
bene come la pensasse Averroè
: Commentator autem dicit
iij de annna
(t. e. 5
et 36), quod, cum
intellectus possibilis fuerit
intellectus adeptus, idest
actuatus omnium specierum materialium,
intelligit intellectum agentem per
essentiam propriam 38. Ma neppur
questa volta egli è dell'avviso
dell'arabo; e postosi il
quesito « Qualiter
intellectus noster intelligit
sub- stantias separatas », lo risolve
affermando che l' intelletto umano conosce
le sostanze immateriali
« non per
se et directe, sed
indirecte et reflexe
per cognitionem motus
celi» 39. Così nella
Summa naturalium. Ma
nell'esposizione del De anima
è anche più
esplicito, se fosse
possibile. Postosi di
nuovo il problema «
Utrum intellectus possit
intelligentias separatas
cognoscere », fa
questa osservazione che
è presa alla
lettera dal commento di
S. Tommaso: Istam questionem non
solvit hic philosophus,
dicens se deter- minaturum alibi,
scilicet in libro
metaphysice...; hec questio tamen
non invenitur soluta
per ipsum, quia
complementum illius scientie nondum
ad nos pervenit,
vai quia nondum
est totus liber translatus, vel
forte morte preoccupatus
librum non complevit
40. Ciò non di
meno egli espone
qual fosse il
pensiero d'Averroè e in
che differisse da
quello degli altri
interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla
fine della discussione,
egli ci fa sapere
« quod hec
opinio iam non
tenetur a theologis
vel phi- losophis »,
e ripete «
quod intelligentie separate
cognoscuntur ab intellectu possibili
non per se
et directe..., sed
indirecte et reflexe per
cognitionem motus celi » 41. Da
quanto precede, mi
pare risulti in
modo da non
lasciar dubbio, che Paolo
Nicoletti, quando nel
1408 insegnava a Padova,
aveva od aveva
avuto tra mano
per lo meno
lo scritto di Sigieri
in risposta al
trattato tomistico De
unitale intel- lechis. Questa
e verosimilmente altre
opere del brabantino circolavano già
fra i maestri
dello studio padovano,
o fu il 38
Summa naturai. ,Y, e.
41, f. 91,
col. 3. 39 76.,
cap. 42, f. 92, col.
i. 40 In libros
de anima. III,
ad t. e. 36, fol.
152, col. i,
Cfr. S. Tom- maso, De anima.] nostro eremitano
a portarvele, forse
da Oxford o
da Parigi ? Non
saprei che dire,
perché tanto l'una
che l'altra suppo- sizione, in mancanza
di dati sicuri,
è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche
nella letteratura manoscritta
concernente i maestri che
professarono a Padova
e a Bologna
nei secoli XIV e
XV, potranno gettare
qualche luce sulle
correnti d' idee che fervevano
in quei due
centri d'intensa vita
intellettuale 4^. Per il momento,
a noi basti
di ricordare quel
maestro Taddeo da Parma,
il quale insegnava
a Bologna intorno
al 1320, e che
nel suo commento
al De anima
accoglieva la tesi
difesa da Sigieri nelle
Quaestiones de anima
intellectiva'iì. Ma Taddeo, più
che l'opera del
brabantino sembra aver
letto le Quae- stiones di Giovanni
di Jandun, le
quali ebbero in
Italia dal secolo XIV
al XVI la più larga
diffusione e furono
trascritte e stampate in
parecchie edizioni, discusse
con vivacità e qualche
volta fraintese. Fraintesa
in particolare sembra
es- sere stata da Paolo
Veneto, e da
altri la dottrina
intorno al modo come
l'anima intellettiva è
forma del corpo,
la quale, come già
sappiamo è in
sostanza quella di
Sigieri, cui espHci- tamente accennava.
Il bisogno di
togliere alla dottrina
aver- roistica quello che
essa aveva d'eretico,
dopo che il
concilio di Vienne aveva
definito esser l' intelletto
forma del corpo umano,
dovette invogliare gli
averroisti italiani a
procurarsi quegli scritti nei
quali Sigieri s'era
difeso contro le
obiezioni di S. Tommaso,
e nei quali,
senza rinunziare alla
tesi dell'unico intelletto avea
tentato di dimostrare
com'esso s'unisse al- l'uomo con tale
intimo e sostanziale
legame, da potersi
dire forma dell' individuo
umano cui s'attribuisce
l'atto dell' in- tendere. L' insegnamento di
Paolo Nicoletti a
Padova è una inequivocabile testimonianza
che gli scritti
di Sigieri non erano
ignoti. Un'altra cosa questo
insegnamento ci attesta:
che la dot- trina averroistica poteva
esser liberamente discussa
ed esposta a Padova,
fin dal primo
decennio del secolo
XV, senza che
chi se ne faceva
sostenitore incorresse nella
taccia d'eretico; tanto vero
che frate Paolo
non sente neppure
il bisogno di 42
Cfr. sotto, il
saggio XI. 43 Cfr.
Sofia Vanni Rovighi,
Le Quaestiones de
anima di Taddeo da
Parma. Testo e
introduzione. Milano, Soc.
Ed. « Vita
e pensiero », 195 I,
P- 35 sgg. ripetere
la solita formale
protesta, che altri
averroisti avevano cura di non omettere,
cioè che essi
trattavano dallo spinoso argomento come
filosofi e non
come teologi. E
forse perché gli averroisti
padovani usavano senza
parsimonia di questa libertà, il
vescovo Barozzi d'accordo
coli' inquisitore locale proibì
« quovis quaesito
colore » le
dispute intorno all'unità dell' intelletto.
Ma il divieto
riguardava la diocesi
di Padova, e non,
per esempio, Bologna
e Pavia, ove si continuò
a dispu- tare con grande
spregiudicatezza. Non mi stancherò
mai dal ripetere,
per coloro che
han l'animo sgombro da
pregiudizi, che una
vera e propria
dot- trina della « doppia
verità » nel
medio evo e
nel Rinascimento non fu
mai sostenuta da
alcuno '. Molti
invece furon quelli che,
contro il concordismo
tomistico, posero in
rilievo l'oppo- sizione di fatto
fra la teologia
e la filosofia,
' intendendo per filosofia
la dottrina della
natura congegnata in
sistema da Aristotele, detto
perciò il «
filosofo « per
eccellenza, e svilup- pata dai suoi
commentatori greci ed
arabi. Il primo
a rendersi conto, in
modo chiaro ed
esphcito, di questa
opposizione, fu Alberto Magno.
Il quale, non
solo dichiarava apertamente
che « theologica cum
physicis principiis non
conveniunt » -, ma
giungeva fino a
sostenere, non doversi
far caso dei
miracoli che Dio opera
oltre il potere
della natura, quando
si tratta di conoscere
quello che è
il corso degli eventi
naturali 3. Perciò, egli
che s'era proposto
« totam Aristotelis
scientiam prò.... viribus explanare
», dichiarava di
rifuggire dall' interpreta- zione che del
pensiero aristotelico davano
i dottori latini: «
quoniam in istarum
quaestionum determinatione omnino *
Dal «Giorn. Crit.
di Filos. Ital.
», XXX, 1951,
pp. 103-118. 1 Vedasi
quanto ho detto
sopra, pp. 55-58,
71-75, e in
Dante e la cultura
medievale, 2* ed.
Bari, Laterza, 1949,
pp. 208-209, nonché
quanto ne ha scritto
E. Gilson, Etudes
de philos. médiév.,
Strasbourg, 1921, PP- 5i'75;
id., Dante et
la philosophie, Paris,
1939, p. sgg.
2 A.
Magno, Metaphys., XI,
tr. 3, e.
7. 3 A. Magno,
De gener. et
corrupt., I, tr.
i, cap. 22,
ad t. e.
14. Cfr. la mia
nota La posizione
di Alberto Magno
di fronte all'averroismo, in «
Riv. di Storia
d. Filos. »,
II, 1947, p.
197 sgg. q6 l'aristotelismo padovano
dal SFXOLO XIV
AL XVI abhorremus doctorum
latinorum verba »
4 ; fra
i quali è
sicu- ramente il suo confratello
italiano, frate Tommaso
d'Aquino 5. La pretesa
« teoria della
doppia verità »
non fu dunque una
« teoria «
né una «
dottrina », ma
la semplice constata- zione del disaccordo
o contrasto fra
la filosofia aristotelica
e il pensiero cristiano.
Ed era perfettamente
logico che gli
esposi- tori del pensiero aristotelico
diffidassero dei tentativi
concor- distici di Tommaso
e d'altri teologi,
e preferissero attenersi neir interpretazione d'Aristotele
ai principii fondamentali
della sua metafisica, senza
preoccupazioni teologiche, sia
che le conclusioni cui
giungevano s'accordassero o no coi
dogmi della fede, avendo
per altro cura
di dichiarare che
quello che affermavano come
filosofi, cioè come
interpreti d'Aristotele, non riguardava
né intaccava la
verità di fede,
cui essi prote- stavano di credere
come fa ogni
buon cristiano 6. Dal
punto di vista
logico e oggettivo,
questo atteggiamento degli averroisti
era perfettamente coerente
e non impHcava in
sé niente di
contradittorio, e tanto
meno costituiva quel- l'eresia che Tommaso
d'Aquino e alcuni
altri teologi vi
scor- sero. Il che compresero
bene non pochi
altri teologi ai
quali il tenta- tivo tomistico di
cristianeggiare la filosofia
aristotelica, per an- corare ad
essa il dogma,
non parve né
di buon gusto
né di 4 A.
Magno, De anima,
III, tr. 2,
e. i, ad t. e.
2 ; La
posizione d'A. M., p.
215. Il Pomponazzi,
che rifugge del
pari da questo
« fratrizzare, idest miscere
diver.-a brodia »
[Phys. Vili, t.
e. 76, Bibl.
Nation. di Pa- rigi, cod. lat.
6533, f. 568r),
loda anche lui
Alberto Magno, perché
a dif- ferenza degli altri
«fratres omnes», cioè
d'Egidio, di Tommaso,
di Scoto e di
Gregorio da Rimini,
s'è astenuto dal
« frateggiare »,
mescolando filosofìa e teologia.
Sicché « isti
fratres truffadini, dominichini,
fran- ceschini vel diabolini
habent bene rationem
comburendi Albertum, quia omnes
questiones sunt contra
fìdem nostram licet
dicat in fine, quod
ita dicit quia
ut philosophus loquitur,
et philosophica non
sunt miscenda cum theologicis;
et dicit quod
in theologia aliter
sentit; et dicit quod
est fatuum miscere
eredita cum physicis;
me autem vellent comburere» {Phys.,
Vili, t. e.
85. Arezzo, Fraternità
de' Laici, m.
389, f. 317»'. Cfr.
cod. Parig. cit.,
f. 584^). 5 Cfr.
il mio articolo
Alberto Magno e
S. Tomìiiaso, in
« Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXII, 1941, p.
36 sgg., e
La posiz. di
A. M., pp.
200, 210, 219. 6 Non va confusa
con questa tesi
la dottrina, svolta
più tardi da
Gior- dano Bruno, e anch'essa
d'origine averroistica, la
quale attribuisce alle «
verità di fede
» un valore
puramente pratico, che il filosofo
accetta solo come tale.
Dell'origine e dello
sviluppo di questa
teoria ho parlato n
«Giorn. Crit. d.
Filos. Ital.», buon
augurio. E in
particolare lo compresero
gì' inquisitori che sorvegliavano
con occhio sospettoso
le manifestazioni
dell'eretica pravità. A
questi ultimi importava
mediocremente di sapere come
la pensassero Aristotele
e Averroè sull'eternità del mondo
o sull'unione dell'intelletto all'uomo:
essi invece volevano essere
rassicurati sui sentimenti
personali dei com- mentatori cristiani d'Aristotele
intorno a questi
argomenti. E per esserlo,
bastaron loro, a
quanto pare, le
pubbliche di- chiarazioni che, neir
insegnamento e nei
loro scritti, gli
ari- stoteli si facevano
premura di non
dimenticare. Ciò spiega come
l'averroismo e l'alessandrismo abbiano potuto avere
una vita abbastanza
florida sino alla
fine del secolo XVI;
e com'essi fossero
apertamente professati a Pa-
dova, a Bologna ed
altrove senza che
per questo corresse sangue, come
fantasticava Francesco Orestano
2. Ch' io
sappia, neppure una goccia
ne fu versato,
a meno che
non fosse dal naso
nell'ardor delle dispute. E
nella libera discussione,
entro e fuori
le aule universi- tarie, a Padova
e a Bologna,
e non per
editti restrittiva, l'ari- stotelismo nelle sue
varie tendenze esaurì
la propria vitalità, quando si
comprese che i
problemi da esso
posti erano inso- lubih,
per esser mal
posti. Ma, intanto,
quella che s'usa
chia- mare « dottrina della
doppia verità »,
aveva ottimamente compiuto la
sua funzione storica,
di assicurare un'assai
ampia libertà d' indagine e
di critica, di
cui il pensiero
del Rinasci- mento s'
è avvantaggiato ^. A
questo punto nasce
per altro un
dubbio perfettamente
legittimo e stimolante:
erano poi sinceri,
averroisti e alessan- dristi, quando
dichiaravano di limitarsi
ad esporre quello che,
a loro avviso,
era il pensiero
d'Aristotele, ossia la
« ve- rità filosofica »,
senza aderirvi, ma
anzi ripudiandola, e di
credere alla verità
della fede ?
oppure si beffavano
in cuor loro degli
inquisitori, mettendosi al
riparo, per mezzo
di quelle dichiarazioni, contro
le pene canoniche
comminate agli eretici
? Un dubbio siffatto
solleva problemi delicati,
di difficilissima 7 Riesame
della « Beatrice
svelata », in
« Studi su Dante »,
IV, Milano, Hoepli, 1939,
p. 24; cfr.
il mio voi.
Nel mondo di
Dante, Roma, 1944, PP-
355-56. 8 B. Nardi,
Sigieri di Brabante
nel pensiero del
Rinascimento italiano, pp. 89-90.
Si veda anche
la voce Averroismo
nel II voi.
déW' Enciclope- dia Cattolica.] soluzione. Intanto
si deve constatare
che, in generale,
gì' in- quisitori si mostraron
piuttosto propensi a
credere alla sin- cerità di quelle
dichiarazioni e a
lasciare che, nel
foro inte- riore, ognuno s'aggiustasse
con Dio come
meglio credeva. Non tutti,
però: che noi
sappiamo della citazione
di Sigieri, di maestro
Bernieri di Nivelles
e di maestro
Gosvino de la Chapelle
da parte dell'
inquisitore di Francia,
il 23 novem- bre 12769; del
processo intentato a
Biagio Pelacani, maestro a
Pavia, dal vescovo
di questa città,
il 16 ottobre
1396 '°; e dell'editto emanato
il 6 maggio
1489 dal vescovo
di Padova e dall'
inquisitore del luogo,
col quale si
vietava ai maestri e
agli scolari ogni
pubblica disputa intorno
alla dottrina averroistica dell'
intelletto. Quanto al
primo caso, sappiamo tuttavia che
Sigieri e i
compagni interposero appello
alla curia papale avverso
la sentenza dell'
inquisitore di Francia, né
risulta che questa
fosse confermata. Il
processo contro Biagio Pelacani
dev'essere stato motivato
da espressioni veramente ardite
« contra fìdem
catholicam et sanctam
ec- clesiam », come
quelle che s' incontrano
nelle Quaestiones sul De
anima conservateci nel
Codice Chigiano O.
IV. 41, e discusse
nel 1385 quando
Biagio insegnava a
Padova ". Il maestro
si dichiarò «
male contentus »
del linguaggio da lui
tenuto, e dopo
aver chiesto perdono
« de commissis
», il ve- scovo di
Pavia « restituit
eum ad lecturam
et salarium so- lita »
12. L'editto invece di
Pietro Barozzi, vescovo
di Padova, e dell'
inquisitore fra Martino
da Lendinara merita
più lungo discorso.
Insegnava allora nello
studio padovano, come
lettore or- dinario di filosofia
naturale, Nicolò Vernia
da Chieti, che
per la sua piccola
statura era chiamato
ed egli stesso
si firmava Nicoleto, come
Pietro Pomponazzi, suo
alunno, sarà detto, per
la stessa ragione,
il Pereto (Nicoletto
e Perette son
forme italianizzate della schietta
forma dialettale padovana
Nicoleto e Pereto). Addottorato
in filosofia naturale
a Padova il 30
maggio 1458, dopo
avere studiato la
logica a Venezia
sotto 9 Cfr. Riv.
di Storia d.
Filos., 1947, P-
120 sgg. 1° Anneliese
Maier, Die Vorlàufer
Galiìeis in 14.
Jahrhundert, Roma, QQ Paolo
dalla Pergola, occamista,
e la filosofia
nello studio pa- tavino sotto Gaetano
da Thiene, averroista,
conseguì da veccliio anche
la laurea in
medicina, il 29
dicembre 1496. Nell'ottobre 1468,
quando successe a
Gaetano da Thiene come
ordinario di filosofia
naturale, doveva trovarsi
sulla quarantina, se nel
testamento fatto il
3 agosto 1499,
due mesi prima della
morte, accenna alla
sua età decrepita. In
questo testamento, pubbUcato
da P. Ragnisco
^3, accade di leggere
una dichiarazione, nella
quale il testatore,
nell' im- minenza della morte
che sentiva avvicinarsi,
vuol purgarsi dell'accusa che
pesava su di
lui, d'aver fatta
sua la dottrina averroistica dell'unità
dell'intelletto: Ego Magister Nicoletus
Vernias Theatinus antedictus,
publice legens in florentissimo
Gymnasio Patavino ordinariam
philoso- phiam naturalem sine
aliquo concurrente, quam
legi per annos triginta tres
elapsos, ac disputavi
ac tenui quod
opinio unitatis intellectus Averrois
fuerit opinio AristoteHs,
et post niultos
annos, duni vidissem et
graecos et arabes
doctissimos, repperi non
solum dictam opinionem alienam
esse a fide
nostra et veritate,
sed etiam ab intellectu
AristoteHs, prout in
quadam mea quaestione intulata Reverendissimo Dominico
Grimani ad plenum
declaro; et hoc feci
prò removendo nialas
opiniones, qiias /orlasse
habnerunt auditores mei; nani
Deum testor quod
numquam credidi tali
opi- nioni, et cum sim
in aetate decrepita,
et considerans quod
oinnes morimur secundum naturalem
cursum, et videns
incertitudinem temporis,
diei et horae,
et deliberans disponere
supra rebus meis, ut
possim consequi vitam
aeternam in altera
vita promissam bonis iuxta
legem nostram, et,
prout in supradicta
quaestione declaravi, etiam iuxta
opinionem philosophorum hic
non potest esse vita
beata, sed tantum
misera.... m. Fra coloro
che s'eran formata
una cattiva opinione
di maestro Nicoleto, oltre
ad alcuni suoi
scolari, era certamente
anche il vescovo Pietro
Barozzi'S. Fine spirito
d'umanista e, come
molti 13 Documenti inediti
e rari intorno
alla vita ed
agli scritti di
Nicoletto Vernia e di
Elia del Medigo,
in « Atti
e memorie dell'Accad.
di Scienze Lettere ed
Arti in Padova
», Anno 292
(1890-1891), N. S.,
voi. VII, disp. 3»,
p. 280. 14 E
cosi, a che
serviva tutta la
sua speculazione filosofica
intorno alla copulatio o
continiiatio dell' intelletto
possibile con l' intelletto agente, in
cui avrebbe dovuto
consistere la felicitas
dell' Etica Nico- machea
in questa vita ?
15 Intorno al
quale è da
vedere 1' introduzione
di Franco Gaeta, Il Vescovo
di Padova P.
Barozzi e il
trattato « De
factionibus extinguendis.
Fondazione Cini, Venezia-Roma.] patrizi veneziani
suoi contemporanei, animato
di religioso ardore, il
Barozzi fu vescovo
di Padova dal
1478 alla sua
morte nel 1507. Pastore
di anime e
maestro di vita
cristiana in una città
dotta, sede d'un
rinomato studio al
quale affluivano scolari da
tutte le parti
d' Italia e
d'oltralpe, non potè
mo- strarsi indifferente
alle rumorose dispute
la cui eco
si dif- fondeva lontano. Quel
battagliare intorno al
vero pensiero d'Aristotele, del
suo commentatore arabo
e degli interpreti greci, gli
pareva che inaridisse
le sorgenti della
vita e del pensiero
cristiano. Inoltre, l'accanimento
che molti dei
di- sputanti mettevano nel sostenere
le interpretazioni d'Ari- stotele più lontane
dal comune modo
di pensare dei
cre- denti, doveva
alimentare in lui
il sospetto, suscitato
da voci che correvano,
che qualche maestro
dello studio patavino, mentre si
dava l'aria di
essere un semplice
espositore della dottrina peripatetica,
in realtà avesse
finito per farla
sua propria fino a
negare i premi
e le pene
nella vita futura. L'editto episcopale
e inquisitoriale, pubblicato nellescuole di Padova
il 6 maggio
1489, dopo aver
citato alcuni passi scritturali, proseguiva: Et rursum
[memores] eorum que
ad Colossenses magis
ad rem de qua
in presentiam agimus
accomodate scribit [Apostolus], dicens :
' Videte ne
quis vos decipiat
per philosophiam et
inanem fallaciam secundum traditionem
hominum, secundum elementa mundi et
non secundum Christum
'. Et scientes
sic Inter disputan- dum
solere animos perturbar!,
ut interdum homines
quod falsum esse sciebant,
prò vero suscipiant
et defendamt.... Volentesque ut et
hi qui philosophiam
discunt, sic discant
ut christianam philosophiam, que
longe omnium prestantissima est,
non dedi- scant, et
hi qui docent,
dum se philosoplios
esse meminerunt, non obliviscantur se
etiam christianos existere,
ac venena disputa- tionum malarum
iuxta epulas philosophice
discipline non ponant.... Et
postremo existimantes eos
qui de unitate
intehectus disputant ob eam
potissimum causam disputare
quod, sublatis ita
tum premiis virtutum tum
vero supphciis vitiorum,
existimant se liberius maxima
queque flagitia posse
committere: mandamus ut nullus
vestrum, sub pena
excomunicationis late sententie quam si
contrafeceritis incurratis, audeat
vel presumat de
uni- tatis
intehectusquovisquesito colore
publice disputare ^^. Non
si trattava, com'
è chiaro, della
scomunica lanciata
personalmente contro il
Vernia, che della
dottrina dell'unità 16 Ragnisco,
Documenti, dell' intelletto
era, in quel
momento a Padova,
il piìi risoluto assertore; ma
di un provvedimento
che riguardava lui ed
altri, e
che sopratutto denunciava
una pericolosa moda
d' in- sincerità e doppiezza che
s'andava affermando ed
era nociva non meno
al costume morale
che alla pietà
religiosa. Può darsi che,
vietando ogni discussione
sull'argomento dell'unità
dell' intelletto, il
Barozzi e frate
Martino abbiano spiegato uno
zelo eccessivo ;
ma la mala
opinione che gli
alunni avevano concepito di
taluni maestri e
le voci che
sul conto di
essi cor- revano,
giustificano almeno in
parte il severo
ammonimento. Poiché a questo
in fondo si
ridusse l'editto episcopale;
né si sa che
esso desse luogo
a processi, né
che alcun maestro fosse
ridotto al silenzio.
Anzi è noto,
al contrario, che
Pietro Trapolino, alunno di
Nicoleto, continuò a
professare pubbli- camente
il suo
moderato averroismo anche
dopo la promul- gazione dell'editto. E lo stesso
fecero altri. Due soltanto,
eh' io sappia,
s'affrettaronoa cambiare in- dirizzo ai loro
pensieri e a
recitare la loro
palinodia: Agostino Nifo da
Sessa e Nicoletto
Vernia da Chieti,
in gara tra
loro. Il Nifo, com'egli
stesso e' informa
^7, aveva cominciato averroista della
corrente sigieriana; e,
prima di abbandonare definitivamente questa
posizione, deve aver
giocato d'astuzia da quell'uomo
scaltrissimo che era.
Alla fine del
De intelledu e del
commento al De
animae heatiUidine , pretende
d'aver portato a termine
queste due opere
a Padova nel
1492. Ma io penso
che su questa
affermazione bisogni fare
molta tara: poiché nella
dedica del De
inielleciu a Sebastiano
Badoèr, nell'edizione veneta del
1503, che è
la più antica
che si co- nosca, il
Nifo dice in
sostanza d'aver rimaneggiato
l'opera, costituita
originariamente da una
Quaestio de intellectu,
che gli avversari gli
avevano impedito di
pubblicare, avendolo
accusato d'eresia. Da
questa accusa era
riuscito a discolparsi, a quanto
pare, per l' intervento
del Barozzi stesso,
del Ba- doèr e di
teologi e filosofi
amici che ne
presero le difese.
Nella redazione del 1503,
l'autore non esita
a confessare d'essersi indotto a « pristinam
mutare sententiam » ; e
questo non sol- tanto per ciò
che concerne la
forma primitiva dell'opera, giacché egli
ammette: «placuit quaedam tollere,
mutare alia. 17 D»
intellectu, Venezia, 1503,
I, tr. 2,
capp. 8-9. I02 addere
plurima » '8, Rabberciato
alla meglio il
De intellectu e rifattasi
una verginità filosofica,
egli tentava, lontano
da Pa- dova, quella fortuna
che non manca
mai di arridere
agli uomini della sua
prolifica specie. Il Vernia
era noto in
tutta Italia, attraverso
i suoi numerosi discepoli, come
uno dei più
decisi averroisti. Per
noi è un po'
ditficile oggi ricostruire,
nel suo insieme,
la sua dottrina
in- torno ai diversi problemi
agitati nelle scuole
del tempo, perché non
sappiamo dove sono
andati a finire
i suoi scritti,
se dati alle fiamme
da lui stesso
prima di morire,
oppure se lasciati insieme alla
sua biblioteca al
monastero di S.
Bartolomeo in Vicenza, ovvero
al figlio adottivo
Nicoletto della Scrofa,
o ad altri. Nonché
le opere scritte
di suo pugno,
non ci son pervenute
nemmeno le reportationes
degli scolari che
pur non dovettero mancare.
Ci restano soltanto,
eh' io sappia, i
seguenti scritti a
stampa elencati dal
Ragnisco: I. la
Quaestio '^ « Dicaveram
tibi anno superiori
questionem meam de
intellectu.... Eamque, ne labores
iuventutis mee perditum
irent, imprimendam esse curavissem, nisi
emuli affuissent, qui
me hereseos accusassent.
Ac malui ad hoc
tempus pervenire morando,
quam huiuscemodi criminis culpam subire.
lam cessant accusationes:
emulorum iniquitas, sic mea
fide postulante, in
propatulo est. Ergo
suo tribuant commodo,
si quam utilitatem accepere
qui me insidiis
persequuti sunt, discantque interea diligentius
legere que volunt
criminari, ut cautius
egisse videan- tur. Sed
valeant isti, satisque
mihi sit Petrum
Barotium episcopum
patavinum, christianorum nostre
etatis decus et
splendorem, te cui non
minus in fide
quam in philosophia
tribuo, et quamplurimos
alios tum theologos tum
philosophos iudices ac
censores habuisse, qui
semper innocentie mee testes
eritis. Tractaveram hanc
nobilissimam mate- riam et
de fontibus omnium
antiquorum phylosophorum exhaustam, recenti stilo,
quod omnes fere
commendare visi sunt,
preter paucos, quorum precipuus
fuit Hieronymus Malclavellus,
tunc privatus scholaris, nunc nostre
academie diligens ac
iustus moderator; qui
ut est rectus ingenio, acer
iudicio, splendidus in
omnibus atque liber,
numquam ubi de honore
ac utilitate amicorum
suorum agit, assentari
novit. Hic cohortatus est
me, ut universum
opus in capitula
secarem, asserens antiqua stilo
esse antiquo tractanda.
Hac unica huiusce
viri ratione persuasus, licet
alias adduxerit quarum
illi copia est,
pristinam mutavi sententiam :
placuit quedam tollere,
mutare alia, addere
plurima. Nihil delevi quod
sit contra fidem
catholicam; non enim
potest destrui quod factum
non invenitur ».
Seb. Badoèr morì
il 30 giugno
1498 (cfr. i Diarii
di M. Sanudo,
I, 1004). La
dedica dunque e
il rabberciamento dell'opera sono
anteriori a questa
data, e probabilmente
dello stesso periodo nel
quale il Nifo
aveva preparato anche
l'edizione dei Col- lectanea
sul De anima,
usciti anch'essi nel
1503, presso la
stessa officina veneziana de
Quarengiis. Sembra pertanto
che l'edizione del
De intel- lectu, ricordata e
perfino citata da
taluno come uscita
a Venezia nel
1495, non sia mai
esistita ! an ens
mobile sii totitis
philophiae naturalis suhiectum
'9 del 1480; -
2. il prologo
alla Fisica col
titolo De divisione
philosophiae; - 3. la
Quaestio an medicina
nohilior ac praestantior
sii iure civili
^° del febbraio 1482
; - 4.
la Quaestio an
caelum sit animatum del
novembre 1491, nell'
infelice riportazione di
uno scolaro che forse
è Alessandro Sermoneta
^^ ; -
5. Quaestio an
deniur universalia realia --,
terminata il 17
febbraio 1492; -
6. la Quae- 19
Stampata a Padova,
nel 1480, nel
volume di commenti
d'Egidio Romano, di Marsilio
di Inghen e
d'Alberto di Sassonia
al De generatione et corruptione,
ed anche nell'edizione
scotina della stessa
opera (Venezia, 1521, fol.
129V-131V). Nell'edizione padovana
precede la dedica
a En- rico Languardo, vescovo
di Acerenza e
Matera. Ragnisco, Documenti, pp. 276-77;
Id., Nicoletta Vernia.
Studi storici sulla
filosofia padovana della 2» metà del
sec. decimoquinto, in « Atti
del Reale Istituto
Veneto di Scienze Lettere
ed Arti »,
t. 38°, serie
VII, t. II,
1890-1891, p. 625. ^°
Questa Quaestio e
lo scritto precedente
si trovano in
principio del volume: Gualterii
Burley, Expositio in
libros odo de
physico auditu Aristotelis stagerite,
emendata per me
nicoletum verniam thea- tinum
puhlice et ordinarie
legentem.... Venetiis, 1482,
15 aprile (La Quaestio
è stata ristampata
di recente da
E. Garin, La
disputa delle Arti nel
Quattrocento, voi. IX
dell' « Ediz. Naz.
dei Classici del
Pen- siero Italiano»,
Firenze, Vallecchi, 1947,
PP- 111-123). Precede
la de- dica a Sebastiano
Badoèr, censore di
Venezia, il quale,
come il Vernia, era
stato discepolo di
Paolo dalla Pergola,
ed era un
convinto scotista, qual erasi
rivelato a Nicoleto,
per averlo questi
udito argomentare con vigore
in una pubblica
disputa in occasione
d'un capitolo generale di
Frati Minori tenuto
a Venezia. In
questa dedica il
Vernia accenna anche ad
una amplissima quaestio
de inchoatione formarum
che avrebbe dovuto trovarsi
nello stesso volume,
ma che poi
è stata omessa.
L'ar- gomento per altro è
ripreso con certa
ampiezza nella Quaestio
an dentur universalia realia,
di cui sotto. 21
Pubblicata dal Ragnisco,
Documenti, pp. 285-291. ^^
In principio del
raro volume Urbanits
Averoista philosophus sumnius ex
almifico Servoritin Divae
Mariae, comentorum omnium
Averoys super librum Aristotelis
de physico audita
expositor clarissimus. Per
probum virum Bernardinum Tridinensem
de Monteferrato. Venetiis,
1492. Questa importante opera
dell'averroista bolognese dell'Ordine
dei Serviti, la quale
nel prologo dell'edizione
stampata porta la
data del 1334 (ma
v. sotto, p.
318), era stata
ritrovata, coperta di polvere
e corrosa dalle
tarme, nella biblioteca bolognese
dell' Ordine, dal priore
generale dei Serviti,
frate Antonio Alabanti,
che, compresone il pregio,
tanto più che
anch'egli si professava
averroista, ne scrisse,
il 7 maggio 1492,
al \'ernia, come
quello che aveva
sempre difeso le
parti d'Averroè, onde averne
il parere per
un'eventuale stampa; e
all'uopo gli mandò lo
scritto d'Urbano perché
l'esaminasse: «Ad te
igitur li- bellus noster
confugit: tu eum
paterno amplectaris amore;
et tandem tua censura
maturoque Consilio examinatum
censeas si dignus
est ut in claram
lucem professoribus perypatheticis ad
doctrinamque Averoys
aspirantibus emergere possit,
ad nosque rescribere
digneris. Quod si feceris,
ut speramus et
oramus, non minus
tibi et Urbanus
noster, operis conditor, quam
Averoys et qui
eius doctrinam sequuntur,
interstio de gravibus
et levihus, senza
data^s; - 7.
Del 1481 è la
Quaestio, rimasta sconosciuta
al Ragnisco, An
celum sit ex materia
et forma constitutum
vel non, che
termina: «Et sic
est finis huius questionis
compilate per me
Nicolettum verniam theatinum Padue
philosophiam publice legentem....
Anno domini. M.cccc.lxxxj. Ultimo
mensis Julii »,
e che si
trova in principio della
rara edizione veneziana,
curata dallo stesso Vernia, del
commento d'Averroè alla
Fisica, del 1483,
ove occupa ben dodici
colonne in-folio. Tutti questi
scritti sono schiettamente
averroistici ; e seb-
bene non riguardino alcuno
dei problemi scabrosi
pei quali gli averroisti
eran tenuti in
sospetto, tuttavia non
è difficile qua e
là imbattersi in
espressioni rivelatrici
dello spirito del loro
autore. Si prenda,
ad esempio, la
prima quaestio ricordata qui
sopra. Dapprima, secondo
lo schema familiare
al Vernia, sono addotte
le « opiniones
ab Aristotele et
suo commenta- tore deviantes », e in
primo luogo quella
di Tommaso che
egli, nativo di Chieti,
si compiace di
chiamare suo compatriota, poiché suddito
anche lui dello
stato napoletano. Tommaso appunto aveva
sostenuto, in principio
del suo commento alla
Fisica, « ens
mobile et non
corpus mobile, contra
Albertum merito cognomine magnum,
esse totius philosophiae
naturalis subiectum ». Poi
ricorda le critiche
mosse da Egidio
Romano ^1(05 ego quoque
minimus accedo, ingentem
immortalemque semper gratiam habebimus
» (nel voi.
cit., secondo foglio
non numerato). E il
maestro padovano gli
rispondeva il 29
dello stesso mese,
dando del- l'opera e dell'autore
questo giudizio :
« Vir ille
(ut dicam quod
sentio) cum omnibus bis,
qui Averoym ad
haec usque tempora
secuti sunt, certare mihi
visus est et
plurimos etiam vincere.
Nemini vero (ut
mea quidem fert opinio)
cedit. Cum enim
Averoys verba sensusque
perobscu- ros aperire illustrareque
aggreditur, nihil illius
explanatione enoda- tius, nihil
clarius, nihil denique
absolutius dici potest. Quaestiones
vero quae in naturali
phylosophia et plurimae
et gravissimae occurrunt, nequaquam dissimulat.
Sed ut est
acri iudicio praeditus,
ita acute subti- literque solvit,
ut ad rei
perfectionem nihil addi
posse videatur »
{ih). E mentre approva
il disegno della
stampa, informa che
a Padova nella biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara, esisteva un
altro codice dell'opera d'
Urbano, attribuito fino
allora a Giovanni
Marcanova (cfr. sotto, pp.
317-318), e promette
che, per far
meglio conoscere il
commento del servita, terrà
un corso sulla
Fisica. La quaestio
del Vernia sugli
universali occupa quattro fogli
non numerati, prima
del commento di
Urbano, ossia 12 colonne
intere e 2
mezze colonne. 23 Nel
voi. Acutissime questiones
super libros de
physica auscultatione ab Alberto
de Saxonia edite,
Venezia, 1504, f.
92va-94vb, con dedica al
filosofo e medico
Gerardo Bolderio da
Verona. alla tesi tomistica,
e il giudizio
di Giovanni di
Jandun sul- l'Aquinate, ritenuto
« melior expositor
inter latinos, unde per
excellentiam dicitur expositor,
sicut Averrois commen- tator
». Incappa infine
nella tesi degli
scotisti Giovanni Ca- nonico e
Antonio Andrès, i
quali s'eran permessi di
criticare Aristotele. Contro tanta
audacia egli insorge
ripetendo il giudizio, comune
a tutti gli
averroisti, sullo Stagirita: Ad
illa respondet Ioannes
Canoniciis, et similiter
Antonius Andreas, concedendo Aristotelem
male dixisse et
insufficienter ipsum philosophiam tradidisse;
philosophus enim tanquam
sacri- legus insufficienter et
erronee tradidit nt)bis
philosophiam natu- ralem, ut
Antonius inquit. Sed
minor de istis,
quod cum tam pauca
reverentia centra philosophorum
principem loquantur; ncque unquam
invenio Albertum Magnum,
sanctum Thomam aut doctorem
subtilem talia contra
Aristotelem dixisse. Unde beatus
Hieronymus, de eo
loquens, scribens ad
Eustochium, De vita nionachonim ,
ait: ' Absque
dubitatione prodigium fuit
gran- deque miraculum in
tota natura, cui,
ut pergit, pene
videtur infusum quicquid naturaliter
capax est genus
humanum ' 24. Cui
concordat Averrois, 3.
De anima, dicens:
' Ipse fuit
regula in natura et
exemplar quod natura
invenit ad ostendendum
ul- timam perfectionem possibilem
in materiis. Venendo poi
alla soluzione del
problema, il filosofo
chietinf) sostiene « de
intentione aristotelis et
sui commentatoris aver- rois cordubensis fuisse,
quod corpus mobile
est subiectum in scientia
naturali ».Ancora più
tipico è il
caso della Quaestio
aii medicina iio- bilior
ac praestaiitior sii
iure civili. È
notevole, anzi tutto,
che egli abbia lasciato
in pace i
canonisti, strettamente imparen- tati coi teologi,
gente, gli uni
e gli altri,
con la quale
è prudente non aver
briga. Per dimostrare,
dunque, la tesi
affermativa, che cioè la
medicina è da
più del diritto
civile, il nostro
si rifa -4 Lo
stesso passo dell'opera
pseudo geronimiana m'
è accaduto di trovar
citato nel De
pietate Aristotelis erga
Deiim et ìioinines
di Fortunio Liceto (Udine,
1645, libro II,
cap. 22), amico
e collega di
Galileo a Pa- dova. Costui, al
pari di Alfonso
Tostado, vescovo di
Avila, In librum paradoxorum (Venetiis,
1508, V, cap.
132, fol. 68ra),
e di Giovanni Genesio Sepulveda,
da Cordova {Opera,
Madrid, 1780, t.
Ili, Epist., VII, lettera
al teologo Fedro
Serrano, del 10
maggio 1554), pensava,
se non proprio a
una canonizzazione, che
fosse almeno altamente
verosimile la salvezza eterna
di Aristotele. Al
quale però il
Tostado ,da buon umanista, unisce
le anime di
Socrate, di Platone
e di siffatti
filosofi, che Cristo avrebbe
liberato discendendo al
limbo. I06 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI al concetto,
comunemente ammesso, che
la medicina nella sua
parte teorica rientra
nella « filosofia
naturale » ed
è scienza speculativa; il
che non può
dirsi dal diritto
civile. Ora nella speculazione intorno
alla natura Aristotele
aveva fatto con- sistere il fine
ultimo e la
perfezione suprema dell'uomo,
a cui si giunge
soltanto mediante l'apprendimento delle
scienze speculative,
coronato dal congiungimento o
copulatio con r intelletto
agente. Ex quo sequitur,
hominem equivoce dici
de homine rationali et
iurista, cum iurista
non sit nisi
equivoce, cum inrista
ultimo fine hominis sit
privatus. Et hoc
est quod Averrois
dicit in pro- logo libri Physicorum,
quod homo equivoce
dicitur de homine perfecto per
scientias speculativas et de homine
ignorante eas, sicut dicitur
equivoce de homine
vero et picto
^^ Ci sarebbe da
chiedersi se mastro
Nicoleto non fosse
per caso in vena
di scherzare, per
dar la baia
ai colleghi della facoltà
di diritto: ma
purtroppo egli non
fa che ripetere
cosa di cui tutti
gli averroisti erano
convintissimi; anzi taluni
di essi, come Alessandro
Achillini e Tiberio
Bacilieri^^^ pensavano che al
raggiungimento della suprema
perfezione e della
feli- cità cui l'uomo aspira,
bastassero i libri
bene interpretati di Aristotele
e d'Averoè, che
quelli ritenevano aver conqui- stato il più
alto grado di
felicità di cui
l'uomo è capace
in questa vita, non
ostante i sorrisi
ironici degli alunni,
e quelli del Pomponazzi -i.
Al cospetto della
morte, come abbiamo
visto, -5 Nel citato
voi. del Burley
sulla Fisica, Venezia,
1482, f. 3vb.
Il passo d'Averroè in
principio al prologo
della Fisica, al
quale accenna il Vernia,
è questo: «
Declaratum est in
scientia considerante in
opera- tionibus voluntariis, quod
esse hominis secundum
ultimam perfectionem ipsius et
substantia eius perfecta
est ipsum esse
perfectum per scien- tiam
speculativam; et ista
dispositio est sibi
felicitas et sempiterna vita. Et in hac
scientia manifestum est,
quod praedicatio nominis hominis perfecti
a scientia speclativa,
et non perfecti,
sive non ha- habentis
aptidinem quod perfici
possit, est aequivova,
sicut nomen hominis quod
praedicatur de homine
vivo et de
homine mortuo, sive praedicatio hominis
de rationali et
lapideo ». 26 Cfr.
il mio Sigieri nel
pens., p. 151. -7
Accade spesso al
mantovano di fare
dell'ironia sulla «copulatio» degli averroisti
« qui continuo
prandent cum deo et qui
habent intel- lectum adeptum
» (comm. al
I delle Meteore,
del nov. 1522.
Parigi, Bibl. Nat. cod.
lat. 6535, f.
i2or). E del
Bacilieri riferisce: «Ideo
Ti- berius iactatus solum
sibi defìcere quatuor
digitos, ad hoc
ut felicitatem istam pertingat
» (Comm. al XII della
Metaph., Arezzo, Frat.
Laici, ms. 389, f.
248r. Cfr. Parigi,
e. s., cod.
lat. 6537, f.
139V). ([uesta convinzione
abbandonava il filosofo
chietino, persuaso ormai, col
volger degli anni,
che non solo
secondo la fede, ma
« etiam iiixta
opinionem philosophorum, hic
non potest esse vita
beata, sed tantum
misera ». Evidentemente
nella sua giovinezza anch'egli,
come molti, aveva
ignorato la man- zoniana preghiera allo
Spirito divino: «Dona
i pensier che il
memore ultimo dì
non muta ». Averroista
era il Vernia
anche nella soluzione
del problema se il
cielo è animato,
e di quello
«sul moto dei
gravi e leggeri «^s. Anzi, su
quest'ultimo argomento, mentre
perfino molti aver- roisti
avevano finito per
scostarsi dalla dottrina
d'Aristotele e avevano accolta
la teoria nominalistica
degli impetus, il Vernia
segna un ritorno
puro e semplice
alla tesi dello
Sta- girita, seguita da
Averroè, da Sigieri
e da pochi
altri 29. La Quaestio
an denhir universalia
realia è invece
un tenta- tivo di mostrare
l'accordo tra Averroè
e Alberto Magno
sulla dottrina,
convenientemente
interpretata, della «
inchoatio formarum » ;
poiché gli universali
di cui qui
si parla, non
sono le intentiones primae
et secundae dei
dialettici, ma le
idee con- siderate come cause
della realtà, gli
universalia physica, come li
chiama il Vernia,
ossia le forme
delle cose 3°. 28
Nel voi. cit.
delle Acutissime questiones
di Alberto di
Sassonia, pp. 92 t'a-94
vb. ^9 Cfr. A.
Maier, Zwei Grundproblenie der
scholastichen Philosophie. Roma,
Ediz. di Storia
e Letter., 1959,
p. 295. 30 Nel
voi. di Urbano
Averroista, cit., col.
6: «Ex quo
patet error illorum qui
dicunt inchoativum secundum
commentatorem et Albertum esse
potentiam subiectivam [materie],
cum, ut visum
est, sit potentia formalis distincta
a potentia materie,
que est in
substantia forma
substantialis, imperfecta tamen,
cum omnis potentia
materie taUs, quam ponunt,
si distincta ab ea et
sit accidens Ex quo
sequitur dari universalia realia
ad mentem veriorum
philosophorum peripatheti-
corum, tum Grecorum,
tum Arabum, tum
latinorum; cum tales
essentie sint universalia physica
et in re,
ut visum ».
Il primo di
tali universali fisici è
per il ^'ernia
la « forma
corporeitatis » di
Avicenna, coeterna alla materia.
In proposito, abbiamo
questa informazione nel
commento del Pomponazzi al De substantia
orbis di Averroè
(Cod. Reg. lat.
1279, fol. yr). «Credo
quod haec responsio
fuerit Nicholeti; quia
etiam ipse tenebat ad
mentem commentatoris formas
corporales de praedica- mento substantiae
materiae primae esse
coaeternas. Et tunc
glosabat ipse commentatorem, hic
dum dicit quod
materia non habet
formam quae reponat eam
in esse specifico
et ultimo, quia
si materia prima baberet
formam ultimam specificam,
tunc non posset
ipsa materia aliam formam
recipere, quia, cum
ultimo non detur
ultimum, ipsa forma esset
in actu completo,
nam infra formam
ultimam specificam non sunt
[ nisi ]
individua; et in
hoc commentator dissentit
ab Avi- Io8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Anche in
questa Quaestio, terminata
il 17 febbraio
1492, non mancano accenni
alla dottrina averroistica
dell' intel- letto ; ma
sono accenni più
cauti 31. L'editto
episcopale era stato promulgato evidentemente
per qualche cosa.
Nel settembre del 1492
a Colze nel
vicentino, mastro Nicoleto
dovette pen- sare al modo
di dissipare i
sospetti d'eresia che
gravavano su di lui,
e, sebbene affetto
da oftalmia, prese
la penna e
cominciò a buttar giù
una specie di
confutazione dell'averroismo.
Nacquero così le
Quaestiones de pluralitate
intellectus cantra falsani et ah omni
ventate remotam opinionem
Averroys et de animae
felicitate. L' idea di
quest'opera gli fu
suggerita (« non iniussa
cano ! »)
da frequenti esortazioni
del doge di
Venezia, Agostino Barbadigo, e
dallo stesso Pietro
Barozzi, che, se da
una parte lo
minacciava di scomunica,
dall'altra cercava di adescarlo
con buone promesse.
La composizione dello
scritto non dovette procedere
molto rapida. Poiché
soltanto nel- l'estate del 1499
l'opera fu presentata
ai revisori ecclesiastici e al
vescovo per la
stampa r-. I revisori,
frate Antonio Trombetta,
Vincenzo Merlino e Maurizio
Ibernico, prodigarono all'autore
le più ampie
lodi, e il vescovo
Barozzi se ne
dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche
nel dare atto
del nuovo atteggiamento
assunto, ricorda le voci
che un tempo
correvano sul conto
di lui, e non
osa dichiararle infondate;
anzi lo stesso
paragone che egli
fa del chietino con
S. Paolo, il
quale di persecutore
del nome cri- stiano era divenuto
un ardente difensore
della fede, sem- brerebbe insinuare il
contrario: cenna qui ponebat
talem formarti specificam
ultimam; sed commen- tator
dicit, quod talis
corporeitas non est
forma specifica completa, sed
est forma generica
imperfecta; et sic
dicebat ipse [Nicholetus] quod materia
prima habet istam
formam genericam sibi
coaeternam, et in ipsa
etiam formam elementorum
». 31 Così, per
esempio, in principio
della 4* colonna:
«Et tu nota
hoc prò Averoy, quod
anima intellectiva non
dat esse corpori
humano; sed hoc quod
dicitur est mendatium
purum, ut in
3° ' De
anima ' de- clarabo
». E più
oltre (a metà
della stessa colonna)
: « Unde
intellectiva anima apud ipsum
non creatur, sed
est eterna; et
in hoc Albertus, et
bene sicut fidelis
christianus, ei adversatur,
volens ipsam de
novo fieri per creationem,
et hoc secundum
Aristotelem ». 32 La
quale apparve soltanto
postuma nel volume
già cit. delle Acidissime questiones
super libros de
physica auscuUatione ab
Alberto DE Saxonia edite,
Venezia. A. Calcedonio
da Pesaro, M.
D.iiii., ff. 83 y-92
ra. i Cum prius et
disputando et docendo
unum esse in
omnibus intellectum sic explicaveris,
ut totam pene
Italiani errare feceris, ut
aiunt malivoli tui
et minuti philosophi,
ut in epistula
tua ais, etsi istud
non senseris, fuisti
forte causa ut
alii hoc sentirent. Nunc opusculum
composuisti, quo sentire
te contrarium non solum
dicis verum etiam
probas. Quod cum
diligentia vidimus et approbamus.... Quo
circa, sive ita
senseris sive non,
opusculum istud componere precium
fuit, ut error
pessimus illius maledicti Averroys extirparetur.... Nihil
hac mihi re
gratius, nihil iis
qui te audiverant utilius,
nihil tibi, qui
apud miiltos ob
eam rem infamiam non
mediocreni excitaveras, honorificentius. Per purgarsi
di questa non
mediocre infamia e
per impedire che si
parlasse di un
voltafaccia, mastro Nicoleto
insisteva nel dichiarare che la difesa
un tempo da
lui assunta dell'averroismo non muoveva
da intima adesione
alla dottrina dell'unità
del- l' intelletto, ma era
fatta soltanto «
disputandi ac acuendi ingenii gratia
» 33. Era sincero
in questa sua
protesta, rinnovata con
solennità anche nel suo
testamento ? Per
il vescovo e
per l' inquisitore questo non
aveva importanza: ad
essi bastava il
fatto che, comunque l'avesse
pensata un tempo,
ora il sospettato
aveva fatto lodevole ammenda
del passato col
suo ultimo scritto contro l'averroismo. Ma tra
i suoi alunni
d'un tempo ve
n'era sicuramente qual- cuno che, assistendo
ai funerali e
alla tumulazione di
lui nella chiesa di
S. Bartolomeo a
Vicenza, e ripensando
al carattere del maestro,
doveva sorridere di
questa commedia e
ripensare in cuor suo
alla novella di
Ser Ciappelletto. Nicoleto Vernia
non era precisamente
quello che si
dice un cuor di
leone. Nello stesso
suo testamento revoca,
come giu- ridicamente nulla, una
donazione de' suoi
beni alla moglie, fatta
sotto la minaccia
di morte da
parte del cognato
Pietro de Salvato. Nel i486,
era stato richiamato
all'ordine dal Senato,
perché pare facesse i
suoi comodi, leggendo
senza concorrente e tra-
scurando di studiare «con
grande lagnanza degli
scolari» 34. Il Nifo, già
suo alunno, ci
narra di lui
due episodi che
pos- sono servire a lumeggiarne
il carattere. Il
primo è meglio 33
Nella dedica al
card. Domenico Grimani
[ib., f. 83r).
Cfr. sopra, p. 99. 34
Ragnisco, Nic. Vernia,
pp. 622-623. Cfr.
qui sotto il
saggio successivo. no riferirlo in
latino; Cum Nicoletus Theatinus,
praeceptor noster, sua
aetate peri- pateticus eximius,
ludibriis
ludificationibusqiie
oblectaretur, plu- rima
jecisse multi norunt.
Et inter prima,
cum Veronam peteremus, ut
baptizaremus puerum cuiusdam
communis discipuli, et
post crepusculum ad urbem
applicaremus, essetque caupo
prohibitus recipere iudaeos, qui
extra urbem hospes
erat, nobis hospitium conferentibus dixit:
— Te recipere
non possum, quia
prohibitus sum, — demonstrans
Nicoletum; — te
autem possum — ,
annuens me. Interrogantibus quare
respondit: — Quia
Iudaeos hospitari prohibitus sum.
— At praeceptor
subiecit: — Audi,
amice, a secretis. —
Et mox penem
praeputiumque ostendit. Quem
cum vidisset, hospitatus est
nos. Il Nifo aggiunge
che la mattina
dopo, sopraggiunti alcuni della
città ad incontrarli
e a riverirli,
l'oste chiese umilmente scusa, mentre
mastro Nicoleto non
si stancava di
raccontare a tutti, uomini
e.... donne, il
piccante episodio 35. L'altro
aneddoto si può
raccontare anche in
volgare, seb- bene sia assai
più sconcio del
primo, se è
vero. Narra dunque il
Nifo che, rimasta
vacante a Padova
una cattedra di
diritto canonico, per la
morte del titolare.
Agostino Barbadigo, che era
allora capitanio della
città, era sollecitato
dagli studenti a corpirla
con un dottore
di diritto canonico
siciliano. Il Bar- badigo annunziò che
aveva già pronto
l'uomo che faceva
al caso, e questi
era mastro Nicoleto.
— Ma Nicoleto
è un filo- sofo, —
osservarono quelli —,
e di diritto
canonico non se n'intende
— -. Montato su
tutte le furie,
il magistrato li
manda a farsi impiccare,
e chiamato a
sé Nicoleto gli
propose di legger diritto canonico
al mattino, per
300 ducati d'oro,
e di conti- nuare a legger
filosolia nel pomeriggio.
Il maestro non
si pe- ritò di accettare,
effondendosi in ringraziamenti. Se
fin qui la faccenda
era abbastanza sporca,
il peggio vien
dopo. Gli studenti malcontenti
andarono da Nicoleto
a pregarlo di voler
far capire lui
stesso al Barbarigo
che il diritto
canonico non era il
fatto suo. —
Che io vada
a fare una
dichiarazione del genere ad un uomo
che mi giudica
sommo in ogni
ramo dello scibile ? — Gli
studenti non si
scoraggiarono e lo
tenta- rono per un altro
verso: si che
non molto dopo,
« munusculis 35 A.
NiPHi, Opuscula moralia
et politica cum
G. Naudaei de
eodem auctore iudicio, Parigi,
1645, De re
aulica, I, e.
87, p. 335. III non
mediocribus acceptis ab
illis studentibus »,
si presentò al Barbadigo
e con ogni
rispetto lo pregò
di liberarlo da un
carico che, data
l'età, pesava troppo
sulle sue spalle
[36. Chi oserebbe insinuare
che l' idea di
conferire a lui
una seconda cattedra (e
un secondo stipendio)
fosse ispirata al
Barbadigo dal Vernia stesso
? Ma non meno
interessante, per la
religiosità e F
indole mo- rale di lui, è quel
che apprendiamo dalle
lezioni del Pompo- nazzi,
che, al pari
del Nifo, del
chietino fu alunno
e collega e, da
ultimo, successore sulla
cattedra di Padova.
Il ricordo del vecchio
maestro padovano e
del suo carattere
faceto e bizzarro accompagnò il
mantovano per tutta
la vita. Così
nella lezione 27 del
commento al De
sensu et sensato
37, tenuta nel
febbraio 1525, tre mesi
prima della morte,
accennando al modo
superfi- ciale col quale Pietro
d'Abano aveva trattato
un quesito in- torno ai
sapori, dice: « eo modo
quo dicebat Nicolettus,
prae- ceptor meus, sicut
mus super farinam
et gatta super
car- bones ». Un'altra
volta, a proposito
del noi usato
spesso da Averroè, ricorda:
«Dicebat Nicoletus: advertendus
est sermo; loquitur da
papa, ponendo numerum
pluralem38)). Nelle le- zioni sul
terzo della Fisica,
narra che il
Vernia aveva spacciata come sua
un'opinione che era
invece di Gaetano
da Thiene, come si
vide dopo la
stampa di questo
: « Magister
Nicoletus attribuebat sibi hanc
opinionem. Impresso Gaetano,
latro inventus est» 39. Un'altra
volta accennando alla
a via nomina- lium
», il Pomponazzi
aggiunge: «imo merdalium,
ut dicebat Nicholetus) »
40.In principio del
commento al VII
della Fisica, del
nov. 1517, accenna a
un dissidio tra
gli scolari sui
libri di quest'opera che il
maestro avrebbe dovuto
leggere: Unde lepidissinms vir
nicholetus qui, curti
versaretur discordia inter scolares
(sicut modo versatur
inter vos), an scilicet
primi an ultimi libri
physicorum essent legendi,
dixit: Non timeatis,
quia ego unica lectione
legam omnes 4or
primos 41. 36 ib.,
p. 336. 37 Bibl.
Nation. di Parigi,
Cod. lat. 6536,
f. sgr. 38 Ib.,
Cod. lat. 6537,
In XII Metaphys.,
f. 135V. 39 Arezzo,
Bibl. della Fraternità
de' Laici, Ms.
389, Super j°
Physi- corum, i. 3o6r. 40 Ih.,
Ms. 389, Super
I Phys., f.
28v. 41 Bibl. Nat.
Parigi.] Nello stesso commento,
in una lezione
del gennaio 1518, intorno
ai sottili accorgimenti
di Averroè per
salvare Aristo- tele, narra del
suggerimento dato dal
Vernia a uno
scolaro ignorante che doveva
affrontare un esame: =Credo
ergo quod commentator
voluit dicere hoc;
sed sibi accidit ut
cuidam scholari patavii,
qui volens disputare,
et nihil sciebat, fuit
ad Niccoletum, qui
eum doceret. Volebat
enim iste scolaris ingredi collegium,
et non poterat
nisi disputaret. Quare
magi- ster Nicoletus dixit:
— Dabo tibi
unam responsionem ad
omne argumentum; distingue enim
et dicas: Tuum
argumentum tenet propter quia,
et mea conclusio
propter quid. Et ita
vult dicere Averrois....
Tamen possemus dicere
ad omnia illa argumenta....
Oportet enim scaramuzare quandoque
4-. Sempre nelle lezioni
sul VII della
Fisica, incontriamo un altro
aneddoto, ove il
Vernia è alle
prese con Francesco
di Nardo, in una
disputa di moda,
« de intentione
et remissione formarum »,
che concerneva la
dottrina dei «
calculatores », particolarmente invisi
al Pomponazzi: Et ubi
Aristoteles in hoc
loco {Phys., VII,
t. e. 32) fuit
parcus, Entisbery in suo
tractatu et Calculator
fecerunt de hoc
magnos tractatus. Aristoteles enim
dimisit hec, quia
ille compositiones et ille
truffe spectant ad
matematicum; et calculatores
latenter vincunt ph^dosophos; interponunt
enim geometricalia. Sed
philo- sophus, ut phylosophus
est, non se
intromittit ad hec. Et isti
calculatores sophiste appellantur;
quare non se
debent intro- mittere in
phylosophia, sed in
geometria. Unde erat
magister Franciscus neritonius, (erat
enim vir doctissimus) , et
in uno ca- pitulo
fratrum erat etiam
Nicholettus, protesto ignorantissimus, et arguebat
domino francisco neritonio
in illa disputatione,
et in calculatione argumentabatur; et
dominus franciscus nesciebat respondere, quia
mathematica ignorabat. In
hoc enim argumento erat quater
fortassis totum alphabetum.
Dominus tamen fran- ciscus intrepide respondit
sibi, quod Nicholetus
fecerat ut conti- gerat
in suo capitulo
cuidam fratri, cui
prior comiserat ut
predi- caret de conceptione
virginis. Cum venisset
tempus predicandi, dixit ille
bonus vir qui
debebat predicare illa
die : O
domini audi- tores, ista
materia de conceptione
est tante difficultatis, quod non
poteritis numquam eam
percipere. Itaque, rogo
vos, ut loco istius
dimittatis me narrare
ystoriam sancti Alexandri,
quam 42 Arezzo, ms.
390, f. lygr.
Allo stesso episodio
il Pomponazzi aveva accennato anche
nelle lezioni In
I de anima
(nel cod. della
Bibl. Na- zionale di Napoli,
Ms. Vili, D.
81 fol. 97v),
che sono dell'autunno
1503, ed ivi fa
il nome dello
studente somaro, che
pare sia un
Baldassarre da Chiusi. promptissime capietis.
Sic etiain, dixit
dominus franciscus, con- tigit
domino Nicoleto :
qui dum in
hac materia quam
posuimus disputandam nihil intelligeret,
incepit nobis cum
suis argumentis
calculatoriis narrare ystoriam
beati Alexandri ! 43.
Ben più
grave è quanto
il Pomponazzi narrava
agli scolari, in una
lezione sul secondo
libro del De
caelo, tenuta a
Bologna il 28 novembre
1519. Stava esponendo
il testo 17,
e poiché taluni dicevano
che Dio e
le intelUgenze celesti
« prima in- tentione
agunt propter se
«, mentre le
cose generabili e cor-
ruttibili « prima intentione
faciunt propter alia
et secundario propter se
», ha il
coraggio di dire
apertamente che non è
vero: Non videtur verum;
imo videtur totum
oppositum; quia quicquid homines
faciunt, [faciunt] primo
propter se, secundario vero propter
alios. Verbi gratia,
homines student: prima
intentio eorum est hicrari
scientiam et fieri
perfecti et eiusmodi;
secun- dario vero ut illustrent
domuin suam et
patrem etc. Unde
Ari- stoteles numquam somniavit,
quod deberet fieri
bonum ut iretur in
paradisum, et evitari
malum ne iretur
in infernum; sed
bene dicit quod debemus
exponere vitam prò
patria et eiusmodi,
et potius mori quam
committere peccatum, ut
acquiramus illarn virtutem, sciHcet
fortitudinem. Ergo quicquid
homo facit, prima intentione facit
propter se, ut
in omnibus discurrere
potestis. Ideo videtur fatuitas
philosophorum dicere hoc
de genera- biUbus, scilicet
quod primo agant
propter alia, et
secundario propter se. Unde
Nicoletus, vir lepidus,
qui non credebat,
ut ita dicam, dal
tecto in su,
cum sepissime audiret
beatum Bernardinum de Feltro
predicantem et in
suis predicis dicentem
: ' O
tu, attende tibi; o
tu, attende tibi,
mulier luxuriosa '
44, bonus Nicolettus emebat bonos
pullastros, fasianos, et
si quis diceret
illi: ' Quid vis
tacere, o Nicholette
? ', respondebat:
' Volo attendere
mihi '. Item rapinabat
et eiusmodi, et
si dicebatur illi:
' Quid vis
facere ? ', dicebat:
'Attendere mihi volo'.
Omnia ergo faciebat
propter se 45. Lo
stesso ritratto morale
del « buon
Nicoleto », il
Pompo- nazzi tracciava negh stessi
termini agli scolari
bolognesi in una lezione
sul primo delle
Meteore tenuta il
15 novembre 1522: 43
Arezzo, 1. e, f. i68r. 44
Bernardino da Feltre
predicò la quaresima
a Padova nel
1492 (cfr. Wadding, Annui.,
XV, p. 7,
XV), e di
nuovo vi fu
nel 1494. quando «
Patavium.... profectus, in
Ecclesia Cathedrali, assumpto
ilio trito suo themate
' Attende tibi
', egregie populum
de rebus saluti
maxime necessariis instruxit «
[Ib., 66, XIV). 45
Parigi, Bibl. Nat.] Erat
Padue quidam frater
sancii Francisci de
observantia, qui dicebatur frater
Bernardinus de Feltro,
qui predicabat et in
predicatione semper dicebat:
' Attende tibi,
attende tibi '. Unde
Nicolettus, qui legebat
Padue, emebat perdices,
capones et multa bona.
Inde ipse erat
malus homo, et
prò uno quadrante perdidisset hominem,
et nullum habebat
prò amico. Unde,
eundo ad predicam, accepit
illud verbum '
attende tibi '
suo modo,scilicet: attende
tibi, idest sguazza
et triumpha. Ideo
emebat perdices etc.46. Tale è
il ritratto morale
del Vernia quale
fu conosciuto dal Peretto:
miscredente, crapulone, rapinatore,
che per un
quat- trino avrebbe rovinato un
uomo, senza amici.
Così giudicava il Pomponazzi
l'autore delle Quaestiones
sulla pluralità de- gl'
intelletti e sull'
immortalità dell'anima, nel
quale ai revi- sori ecclesiastici deputati
dal Barozzi e
al Barozzi stesso
era parso di ravvisare
il campione stesso
dalla fede, che
aveva debellato
definitivamente l'averroismo e
l'alessandrismo ! Tuttavia non
va dimenticato che
dall'estate del 1496
al- l'autunno del 1499 il
Peretto era stato
assente da Padova, in
seguito a dimissioni
dalla cattedra da
lui occupata e
sulla quale era stato
sostituito dal Nifo
47. Ora è sicuramente in questi
anni che la
crisi filosofica e
religiosa del Vernia,
ini- ziatasi nel corso del
1492, venne a
maturazione, se vera
crisi ci fu in
un uomo così
lepido e astuto.
E la testimonianza del Pomponazzi
non può aver
valore per gli
anni in cui
il man- tovano lo perse
di vista.Del resto,
queste oscillazioni tra
una spregiudicatezza quasi scettica e
il bisogno di
conformarsi all'ambiente religioso
e di accettarne il
formalismo, è tutt'altro
che alieno dall'
indole, piena di contradizioni, di un uomo
dell'età di papa
Borgia» 46 Ib., Cod.
lat. 6535, f.
jòyc. 47 Cfr. C.
Oliva, Note snW
insegnamento del Pomponazzi,
in «Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. Ritengo
che questo ameno
e spregiudicato maestro,
prima che a Padova,
si recasse adolescente
a Venezia, in
casa del Patrizio Sebastiano
Badoèr, nei cui
« lari era
stato educato » il
suo conterraneo e
parente Nicolò Manupello
da Chieti ', che,
addottorato in artibus
a Padova il
22 aprile 1444
-, vi s'addottorò anche
in medicina il 18 settembre
1450 3. Altri- menti non si
spiegherebbe come, nella
dedica dell'esposizione del Burleo
alla Fisica d'Aristotele
(Venezia, 1482), egli
po- tesse dire d'essersi affezionato
al Badoèr «
a teneris annis
», e come mostrasse
di conoscere così
a fondo la
storia leggen- daria di questa
famiglia. Dal testamento fatto
a Padova il
lunedì 2 novembre
1478, e pubblicato da
Paolo Sambin, si
conosce il nome
del padre, per esser
detto « clarissimus
artium et medicine
doctor dominus magister Nicolaus
filius honorabilis viri
ser Antonii de
civi- tate Theatina » 4.
E lo stesso
si legge nell'atto
di donazione * Dal « Giorn.
Crit. d. Filos.
Ital. », XXXIV,
1955, pp. 496-503- La
nota su Cristoforo
da Recanati è
inedita. I Expositio excel. mi
philosophi Giialterij de
burley anglici in
libros odo de physico
anditn Aristotelis stagirite
emendata per me
nicoletum verniam theatinimi publice
et ordinarie philosophiam
in gimnasio patti- vino
legentem Venetiis. M.cccc. Ixxxii.
die quintadecima mensis aprilis, dedicata
a Sebastiano Badoèr,
« censore del
comune di Venezia
»: Del Manupello si
legge appunto nella
dedica: « affinis
ac conterraneus meus clarissimus
phisicus et mediciis
Nicholaus manupellus Thea- tinus
in tuis laribus
fuit educatus ». ^
G. Erotto e
G. Zonta, Ada
graduum academicorum Gynnasii Patavini, ab
anno MCCCCVI ad
annum MCCCCL, Padova,
1922, n. 1825. 3 Ib.,
2437. 4 P. Sambin,
Intorno a N.
V., in Rinascimento,
III, 1952, p. 265,
docum. I. Il6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI de' suoi
libri al monastero
di S. Giovanni
in Verdara, del giovedì
i6 gennaio 1483
(se il 16
gennaio di quell'anno,
e non piuttosto il 17, fosse
caduto in giovedì
5). Dai quali
due docu- menti si rileva
che il buon
Nicoletto si lasciava
passare come « artium
et medicinae doctor
», quando dottore
di medicina non era !
Nella stessa dedica
al Badoèr si
legge : « cum enim
sub disci- plina clarissimi philosophi
pauli pergulensis essem,
a quo etiam tu
eruditus fuisti, pluries
ab eo audivi
te summum philosophum atque
theologum evasisse, nullumque
esse qui te in
docrina francisci de
marronis subtilisque doctoris
lohannis scoti antecelleret ».
Orbene: Paolo da
Pergola il 19
marzo 1442 era reggente
delle scuole annesse
in Venezia alla
chiesa di S. Giovanni
Elemosinarlo a Rialto,
nel quale anno
egli era anche piovano
di questa chiesa;
e reggente di
queste scuole restò fino
alla sua morte
nel 1455 ;
fu sepolto nella
chiesa di cui era
piovano 6, Tanto
Sebastiano Badoèr quanto
il giovane Nicoleto, e,
suppongo, anche Nicolò
Manupello, sono stati sotto
la disciplina di
Paolo a Venezia. Questa scuola
merita d'esser meglio
conosciuta, sia per gì'
insigni maestri che,
dopo il pergolese,
vi insegnarono, sia perché
nella seconda metà
del Quattrocento e
per tutto il Cinquecento essa
fu una specie
di succursale dello
Studio pa- tavino, nella quale
molti giovani veneziani
cominciavano gli studi di
logica e di
filosofia, che poi
andavano a completare
a Padova, ove s'addottoravano. Così
appunto sappiamo aver fatto
anche il giovane
chietino, il quale,
da Venezia, forse
dopo la morte del
pergolese, si recò
a Padova, ed
ivi, dopo essere stato
qualche tempo sotto
la disciplina di
Gaetano da Thiene, conseguì il
dottorato in artihus,
ma non in
medicina, il 30 maggio
1458, primo promotore
lo stesso maestro
Gaetano 7. Dopo questa
data, non si
hanno di lui
altre notizie fino
al- l' inizio dell'anno scolastico
1465-1466, quando fu
assunto alla lettura straordinaria di
filosofia. Dalla dedica
del Vernia 5 Ib.,
p. 266, docum.
III. 6 A. Segarizzi,
in Atti dell'
Istit. Veneto s.
1. a., LXXV,
1915-1916, p. 646 sgg. e la
breve notizia dello stesso
in Nuovo Arch.
Veneto, N. S., LXV,
1917, p. 232.
Cfr. anche il
mio studio già
cit. Letter. e
cultura veneziana del Quattrocento,
pp. 111-118. 7 P.
Silvestro da Valsanzibio
O. F. M.
Cap., Vita e
dottrina di Gae- tano di
Thiene, Padova, 1949,
pp. 13-14- I stesso ad
Enrico Languardo, arcivescovo
di Acerenza e Ma-
tera, del volume
di commenti di
Egidio Romano, di
Marsilio di Inghen e
d'Alberto di Sassonia
al De generatione
et corruptione, stampato a
Padova nel 1480,
veniamo a sapere
che dodici anni prima,
quindi nel 1468,
era stato chiamato
« ad legendum philosophiam in
locum quondam Gaetani
Thienei philosophi
celeberrimi » ;
carriera abbastanza rapida
che mal si
spieghe- rebbe senza
l'appoggio di potenti
patroni ch'egli aveva
a Venezia. L' intervento di questi
patroni a suo
favore si fece
palese, del resto, nel
maggio del 1469,
con l'edificante episodio
che traggo dagli atti
del «Sacro Collegio
dei Medici e
Filosofi» di Padova ^,
a solazzo dei
« laudatores temporis
acti », i
quali vanno dicendo che
certe soperchierie avvengono
soltanto ai nostri giorni. Ecco
dunque l'episodio. Ma,
prima di narrarlo,
bisogna sa- pere che al
Sacro Collegio dei
Medici e Filosofi,
che aveva un numero
limitato di membri,
erano aggregati solo
medici e filosofi padovani e
veneziani, in numero
limitato, dopo aver
conseguita la laurea in
artihus e in
medicina, e a
seconda della disponibilità dei posti.
Da sapersi è
altresì che soltanto
ai membri del
Collegio spettava di farsi
« promotori »
dell'ammissione di coloro
che ne fossero degni
al « tentativum
» e al
« privatum examen
» per il conseguimento
del titolo di
dottore « in
artibus » e in
medicina e al
primo « promotore
» toccava il
privilegio di conferire le
insegne del grado
al neo-dottore, previo
il giura- mento di rito.
Coloro che non
fossero cittadini padovani
o veneziani, ma fossero
maestri nello Studio
di Padova da molti
anni, sì che
non avessero più
bisogno di essere
« ballo- tati »
periodicamente, potevano essere
aggregati al Collegio, in
seguito al parere
favorevole dei membri
di questo e
con le cautele previste
dagli statuti. Ora sentite
questa. Un bel
giorno, e precisamente
il mercoledì 31 maggio
1469, il priore
del Sacro Collegio
dei Medici e
Filo- sofi di Padova, che
era il dottore
« in artibus
» Maestro Cri- stoforo da Recanati
(de rechaneto) 9,
udito il parere
dei con- siglieri, convoca il
Collegio in assemblea
straordinaria e tiene *
Arch. ant. dell'
Univ. di Padova,
S. Coli, de'
Med. e Filosof.,
voi. 312. b. 49r. 9
Su lui, v.
Facciolati, Fasti Gymnasii
Patavini, parte II,
p. 104. Il8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ai convenuti
questo discorso: Famosissimi doctores,
causa convocationis excellentiarum ve- strarum
est ista, quia
die heri quidam
officialis Magnifici domini pottestatis padue
mihi mandavit, ex
parte prefati magnifici domini pottestatis,
quatenus hodie convocare
facerem collegium ad instanciam
d. M. Nicoleti,
et, in executione
literarum serenis- simi ducalis domini]
dicto d. M.
Nicoleto, assignare debere
locum in collegio cum
conditionibus prout in
dictis literis continentur, et quod
unusquisque super hoc
dicat apparere suum
^°. L' intervento della Signoria
veneziana a favore
del filosofo chietino metteva
in serio imbarazzo
il Collegio, geloso
dei suoi diritti e
privilegi. Forestiero, laureato
nelle arti da
appena ii anni, lettore
di filosofia a Padova da
appena quattro, il
Vernia veniva imposto dall'autorità
politica centrale, senza
che il Collegio fosse
stato nemmeno interpellato
prima, e senza
una ragione di particolari
benemerenze che gli
dessero la precedenza su
altri. Che modo
di procedere era
questo ? Vero è
che anche Maestro Cristoforo
da Re e
anati era entrato
a far parte
del Collegio, di cui
egli era priore,
nel maggio 1464,
mentr'era « legens ordinarie
philosophiam naturalem »,
per l' intervento e l'imposizione
dallo stesso governo
veneziano e senza
il gra- dimento del Collegio
stesso ". IO Arch.
Ant. dell'Univ. di
Padova, voi. 312,
f. 4gr. " Maestro
Cristoforo Rappi (secondo
C. Benedettucci, Biblioteca recanatese, Recanati,
1884, p. 124)
da Recanati era
nato il 4
ottobre (giugno, sec. il
Benedettucci) 1423, ma
s'era addottorato in
artibus a Padova, il
3 febbraio 1454
(Arch. della Curia
Vescovile di Pa- dova, Diversovitìu, voi.
28, f. 23 v). Non
mi risulta la
data esatta del dottorato
in medicina, che
sicuramente ebbe luogo
pochi anni dopo. Ma
il 25 giugno
1462 ebbe dal
Senato veneziano un
aumento di stipendio come
professore di filosofìa
naturale da molti
anni nello studio patavino,
allo scopo di
impedire che egli
accettasse un invito fattogli dal
vicedomino di Ferrara;
« que res
universis scolaribus studii ipsius
molestissima est, non
sine incomoditate et
iactura nostri do- mini], quia si
recederet, omnes qui
illum audiunt, eum
sequerentur » (Arch. di St. di
Venezia, Senato-terra, Reg.
5, f. 12
r). Di queste
buone disposizioni del Senato
a suo riguardo
il Recanati non
tardò ad ap- profittare; poiché sotto
la data del 18 maggio
1464 si legge
{Ib., f. 79 r) : «
In studio nostro
paduano, ut notum
est, reperitur Clarissimus
doctor magister
Christophorus Recanatensis, legens
ordinarie philosophiam
naturalem. Qui, ut litere
Rectorum nostrorum et
rectoris Universitatis
Artistarum padue testantur,
neminem in Italia
habet parem. Et qui
vehementer optai prò
honore suo cooptari
in collegio Artistarum
et me- dicorum padue,
in locum scilicet
primi qui deficiet,
et multi prestan- tiorum doctorum
ipsius collegii hoc
velie et cupere
videantur. Vadit IIQ Ma
sentiamo come l'estensore
del verbale continua
a rias- sumere il discorso
dell'avveduto priore: Sed sibi
videtur, quod (
durum. est centra
stimulum calci- trare » [Actiis,
IX, 5; XXVI,
14]. Et quod
ipse non vult
in hac re nisi
quod vult totum
coUegium, ad quod
omnino oportet super
hoc providere: aut quod
ipse d. M.
Nicolletus acceptetur in
dicto colle- gio iuxta tenorem
literarum, aut quod
colligantur duo experti
qui sint doctores dicti
collegii, et quod
ipsi accedant ad
Magnifìcos dominos pretores [sic,
1. rectores] padue
et etiam ad
Serenissi- mum dominium, ad
deffendendum iura collegi]
contra dictum M. pars,
ut dictus magister
christophorus, quo, hoc
gradu honoris auctus, animatior et
promptior reddatur ad
perseverandum in sua
lectura, Auctoritate hiiius consilii
cooptetur in dicto
Collegio, in locum
scilicet primi qui quoquo
modo deficiet. De
parte, 88; de
non, 12; non
sinceri 2 ». Ritengo
che di parere
contrario dovesse essere
Ser Vitale Landò,
dot- tore e milite, non
che « Sapiens
terre firme »,
il quale ammoni
« quod serventur promissiones
facte collegio doctorum
medicorum et artistarum padue »,
evidentemente col rispettarne
i privilegi e
gli statuti. Anche allora
il Collegio aveva
pestato i piedi
e masticato amaro, ma
poi aveva finito
per rassegnarsi. Simili
ingerenze del governo
ve- neziano nelle faccende del
Collegio non erano
una novità: che
anche quando di Lauro
Quirini, veneziano e
« doctor artium
» da cinque
anni, pose la sua
candidatura per essere
accolto nel Collegio
padovano, ove i veneziani
avean diritto a
un certo numero
di posti, la
decisione si trascinò per
oltre un mese,
finché la domanda
fu respinta con
9 « ba- lote
» contro 8
(Arch. Ant. dell'
Univ. di Padova,
Sacro Coli, degli Artisti, voi.
309, ff. 122
v-r27 V, 15
apr. i maggio
-1845). Dopo la morte
di maestro Gaetano
da Thiene (18
luglio 1465), Crist. da
Recanati fu chiamato
dal Senato veneto
con voto unanime
del 9 sett. 1465
(Senato-terra, Reg. 5,
f. 134 v)
a succedergli nella
prima lettura ordinaria di
filosofia. Morì il
30 marzo (gennaio,
sec. il Bene- dettucci) 1480
a 56 anni,
e fu sepolto
nella chiesa delle
monache di S. Francesco
dell' Osservanza, «
in vico pontis
Altinatis », in un'arca
di pietra «
cum doctoris effigie
dormientis », e
un epistaffio che
lo rac- comandava ai posteri
come « medico
celeberrino et philosophorum inclyto, quem
universae Italiae Gymnasia
peripateticae scholae prin- cipem
luxerunt » (lac.
Salomonius, Insc. ript.
Urbis patav. Padova, 1701,
p. 211, n.
20). Io, purtroppo,
non conosco se
non le Quaestiones recollectae super
Calciilationes sub magistro
Chistophoro de Recaneto, huius artis
principe, die sabbati
mensis novembris 1469,
in festo sanctae Catharinae ».
Ma il Coxe,
Catal. Mss. Bibl.
Bodl., Ili, Oxonii,
1854, segnala l'esistenza di
un'esposizione Magistri Christofoli
de Reganato super de celo
et niundo ad
instanciam Magistri.... Yeronimi
de Cam- marino, e
forse anche sul
De physico auditu
(n. 279, col.
644-45), non- ché di certe
pillulae magistri Christophori
Rechanatensis (n. 488,
5, col. 810). È
un po' poco
per giudicare delle
lodi che gli
tributarono i con- temporanei. Ad ogni
modo, è inesatto
quello che scrive
il Facciolati, Fasti Gymnasii
Patav., II, p.
104, che egli
« primus averroi
auctori- tatem in Gymmasio
Patavino conciUasse dicitur,
eius commentarla in philosophando unice
secutus ». Prima
di lui c'erano
stati Paolo Veneto e
Gaetano da Thiene,
di cui il
recanatese era stato
discepolo. I20
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Nicoletum, et petere
quod diete littere
revocentur, tanquam impetrate et
concesse contra formam
statutorum dicti collegi],, ipso collegio
et iuribus suis
inauditis. Et super
hoc factis multis
sermonibus et arengationibus, prefatus dominus
prior posuit ad
partitum, quod quibus
placet quod acceptetur in
collegio d. M. Nicolectus
iuxta tenorem lite- rarum
Serenissimi domini], ponat
suffragia sua in
pisside rubea; quibus vero
placuerit quod defensentur
iura collegi] contra
dictum Magistrum Nicoletum [per]
expertos dicti collegi],
ponat balotam suam in
pisside viridi. Et
facto scrutinio cum
bussolis et balotis, invente fuerunt
balote quinque in
pisside rubea, in
favorem dicti M. Nicoleti,
et balote xv]
in pisside viride,
quod defensentur iura collegi]
contra dictum Magistrum
Nicoletum ^~. Cinque contro
sedici costituisce un
bello scacco per
ser Nicoletto. Tuttavia è
notevole che cinque
membri del Collegio si
mostrassero disposti, fin
dal primo momento,
a incassare il colpo,
non ostante l'affronto
al corpo. Lo
facevano per sim- patia verso il
filosofo chietino, o
perché eran persuasi
anch'essi che « durum
est contra stimulum
calcitrare » ?
Si trattava ora di
eleggere coloro che
dovevano assumersi la
difesa dei diritti del
Collegio al cospetto
dei rettori della
città e del
go- verno della Serenissima.
Deinde posuit [prior]
ad partitum, de
consensu dominorum
consiliariorum, quod quibus
placet quod elligantur
d. M. Nicolaus de
Sancta Sophia, d.
M. Ioannes Michael
[de Bredepalea], d. M.
lacobus [f. q.
mag. Gratiadei] de
Veneti]s et d.
M. Ioannes Petrus de
carari]s, qui accedant
ad Magnificos pretores
[/. rectores] padue et
ad Serenissimum dominium
Venetiarum, ad deffen- dendum iura
et statuta dicti
collegi] contra d.
M. Nicoletum et literas
per ipsum impetratas,
ponat balotam suam
in pisside rubra; quibus
vero non placet,
ponat balotam suam
in pisside viride. Et
facto scrutinio invente
sunt balote xx]
in pisside rubra, et
balote due in
pisside viridi negante.
Et sic fuerunt
ellecti. In questo verbale
v' è un
piccolo dettaglio che
potrebbe fa- cilmente
sfuggire. Il messo
del podestà aveva
detto, a nome di
questo, che fosse
riunito il Collegio
e che ogni
membro di- cesse la sua
intorno alla faccenda
: « et
quod unusquisque super hoc dicat apparere
suum ». E
l'estensore del verbale
ci assicura che furono
fatti dai convenuti
molti « discorsi
e ar- ringhe » in
proposito e a
sproposito. Gli animi
della maggio- 12 Arch.
ant. delI'Univ. di
Padova, voi. 312,
f. 49 v. I ranza
s' infiammarono nel denunciare
l'affronto fatto al
Sacro Collegio e ai
suoi statuti, e
infiammati.... si suggestionavano a vicenda
sino a prendere
le decisioni che
presero quel merco- ledì 31 maggio. Ma
tornato a casa,
ognuno di quelli
che avevano gridato piti
forte contro la
soperchieria che si
perpetrava da parte della
Serenissima Signoria, si
sarà messo a
riflettere che anche le
mura della chiesa
di S. Urbano,
ov'eran raccolti, avevano orecchie, e
probabilmente più d'uno
si sarà morsa,
un po' tardi, la
lingua. Fatto sta che
il venerdì 2
giugno il Sacro
Collegio fu di
nuovo convocato dallo stesso
priore, non più
nella chiesa di
S. Urbano, ma «
in palatio Episcopali,
hora xxij ».
Il priore si
fece eco delle considerazioni che
due giorni di
riflessione avevano ma- turato nell'animo dei
suoi magnanimi colleghi,
e parlò un
lin- guaggio più circospetto.
Illico et immediate
prefatus prior dixit:
famosissimi domini doctores, vos
vidistis Mandatum mihi
factum nomine collegij [/.
Potestatis], ut accipere
debeamus omnino in
collegio, in exe- cutione
literarum ducalium, d. M.
Nicoletum, prout in
literis ducalibus
continetur. Mihi videtur,
ne videamur esse
inobedientes et rebelles Hteris
Serenissimi domini] Venetiarum,
quod bonum esset ipsum
d. M. Nicoletum
acceptare in dicto
collegio ad ul- timum
locum, cum protestacione
quod non intendimus
ipsum acceptare in preiudicium
iurium et statutorum
nostrorum, et quod reservamus
nobis ius prosequendi
iura nostra centra
dictum d. M. Nicoletum
et petendi revocationem
dictarum literarum tanqviam indebite,
collegio nostro inaudito,
concessarum et com- missarum
dicto d. M.
Nicoleto. Et ita
satisfaciemus Voluntati
Serenissimi dominij impune
et absque alio
inconvenienti et schan- dalo
dicti collegij. E COSÌ
fu deciso. Un
paio di settimane
dopo, e precisamente dal martedì
20 giugno ^3,
«Nicoletus» comincia a
figurare in coda alle
liste dei membri
del Collegio; poi,
man mano che altri
membri entrano a
farne parte, il
suo nome dall'ultimo posto passa
al penultimo, e,
su su, in
una ventina d'anni
di- venta uno dei primi,
e comincia ugualmente
a figurare in quelle
dei promotori nei
verbali di dottorato.
Della protesta e della
riserva cui accennava
il priore del
Collegio, l'egregio 13 Ib.,
f. 52 V. dottore
in artihus Maestro
Cristoforo da Recanati,
non si parlò più,
ritenendosi che il
fatto ricadesse sotto
l' impero di quello che
i giuristi pisani
chiamavano 1' «
ius mengicum seu gengicum
de praescriptione », e che
molti filosofi molto
filo- soficamente ritengono
un « precipitato
storico della giustizia eterna » !
Nove anni dopo,
esattamente il lunedì
2 novembre 1478, il
povero Nicoletto, sano
per grazia di
nostro Signor Gesù Cristo
« mente et
sensu », era
tuttavia « corpore
languescens »; e pare
si trattasse di
malattia piuttosto seria,
se in quel
giorno provvide a far
testamento, disponendo dei
suoi averi a fa-
vore del monastero di
S. Giovanni in
\'erdara a Padova
'4. Da questo documento
confrontato col testamento
del 1499, pubblicato dal
Ragnisco ^S appare
che nel 1478
egli a Padova abitava «
in contrata burgi
Capellorum » e
non ancora « in
contrata S. Lucie»,
come nel 1483,
se questa data
è esatta ^^, né
ancora «in contrata
putei Bonelli», come
nel 1499 '7;
risulta parimente che non
era ancora cittadino
di Vicenza, che
non disponeva dei possessi
di Colze, e
non si sa
se ancora avesse avuto
a che fare
con la famiglia
vicentina Dalla Scrofa.
Questi rapporti sono strettamente
connessi con l'acquisto
poco chiaro della cittadinanza
vicentina e della
villa di Colze,
quando i suoi guadagni
erano aumentati assai.
Su tutti questi
punti potrebbero far luce
ricerche negli archivi
notarili di Padova e
di Vicenza. Ad ogni
modo, parrebbe che
le sue fortune
cominciassero a prosperare, scapolato
alla morte, dopo
il 1481; ed
anche al- lora con l'appoggio
di autorevoli patroni.
Dal primo dei
tre documenti pubblicati da
R. Persiani ^^,
si rileva che
l'amba- 14 Cfr. P.
Sambin, /. e.
Sui rapporti del
Vernia coi canonici
Regolari Lateransi del monastero
di S. Giovanni
in Verdara a
Padova gette- ranno luce le
ricerche dello stesso
Sambin sulla biblioteca
di questo monastero. Uno
studio sulla tomba
del Vernia e
sui rapporti di
lui con gli stessi
Canonici Lateranensi del
monastero di S.
Bartolomeo a Vi- cenza sta
per dare in
luce negli Atti
dell'Accademia vicentina, il
prof. Antonio della Pozza,
direttore della Bertoliana. 15 In
«Atti e Memorie»
dell'Accad. di Se.
Lett. ed Arti
di Padova, Anno 292, 1890-1891, N.
S., voi. VII,
disp. 3^, p.
280. V. sopra,
p. 000. 16 Poiché
il 16 genn.
1483, non cadeva
in giovedì, come
nel docum. Ili pubblicato dal
Sambin, ma in
mercoledì. Quindi o
è sbagliato l'anno, oppure il
giorno. 17 Ragnisco, /.
e, p. 284. 18
In La Riv.
Abruzzese di Se,
Leti, ed Arti,
Vili, 1893, pp.
211-212. sciatore
napoletano, Dott. Aniello
Arcamona, s'adoprava in quest'anno
presso il Senato
veneziano, perché il
famoso dot- tore Maestro Nicoletto
da Chieti, che
da più anni
leggeva a Padova la
filosofia ordinaria «
cum maxima elegantia
et suf- ficientia ac
contentamento omnium »,
fosse confermato in detta
lettura « ita
ut non subiaceat
de cetero ulli
ballottationi ». Era già
aggregato al collegio
! La domanda
fu accolta con
122 voti favorevoli, e
uno solo contrario. Molto più
importante è il
secondo documento pubblicato dallo stesso
Persiani, del 13
dicembre 1487. Da
esso si rileva che
ser Nicoletto, ottenuta
la stabilità a
vita, aveva messo
su boria, e «sub
pretextu quod non
habeat ccncurrentem sibi parem,
obtinuit pridem a
dominio nostro litteras,
per quas ei concessum
fuit ut legere
possit bora extraordinaria, quo fit
quod venit eo
modo carere concurrente
». Quanto al credersi
superiore ad ogni
altro professore che fosse
a Padova, e
magari sotto la
cappa del cielo,
il Vernia fu buon
maestro ad Agostino
da Sessa, che
si riteneva « il
primo homo dil
mondo », com'ebbe
a dichiarare al
console veneziano a Napoli,
Lunardo Anselmi '9. In questo
sì il maestro che
lo scolaro eran
ben lontani dalla
modestia del Peretto
man- tovano che preferiva di
confessare con Socrate
: « Hoc
unum scio, quod nihil
scio » -°. Ed
anche questa volta
ser Nicoletto era
riuscito ad otte- nere r
insolito privilegio con
lettera della Signoria
veneziana. Ma egU non
aveva fatto i
conti con gli
studenti, che, per
quanto chiassosi, erano anche
allora i migliori
giudici della capacità dei
loro professori. E
gli studenti appunto
protestarono per r immeritato
privilegio e per
la flagrante violazione
degli statuti accademici da
parte di coloro
che avrebbero dovuto esserne i
vigili tutori. L' istituto della
concorrenza a Padova
esigeva che per ogni
materia professata i
lettori ordinari fossero
due, e che leggessero e
commentassero gli stessi
testi negli stessi
giorni e alla stessa
ora. Gli studenti
potevano ascoltare la
lezione dell'uno o dell'altro
concorrente, scambiandosi poi
gli appunti e le
impressioni, e avviare
discussioni, sollevando obiezioni 19
M. Sanuto, Diarii,
VII, 678. 20 Giorn.
Crii. d. Filos.] alla
fine della lezione,
e continuando le
discussioni, avviate entro l'aula,
al circolo dei
filosofi, che più
tardi ebbe la
sede sotto il portico
del podestà, a
pochi passi dal
Bò. L' intento perseguito con l'
istituto della concorrenza
era quello di
obbli- gare i professori a
tenersi al corrente
ed a studiare
: « Et hoc
ut fiant
dihgentissimi coactique sint
studere, et ex
conse- quenti satisfacere habeant
scolaribus audientibus ». Ora
Mastro Nicoletto, ottenuto
il privilegio di
leggere senza concorrente, «
hora extraordinaria »,
scelta a suo
piacimento, dice il documento
pubblicato dal Persiani,
« minime curat studere, fitque
negligens cum magna
murmuratione scolarium, qui, hanc
ob causam, relieto
studio, venerunt ad
presentiam nostri domimi et
indolentes {sic, 1.
dolentes) supplicantur ut forma
et continentia ipsorum
statutorum superinde loquen- tium
sibi observetur ». Non saprei
se fra quei
cari studenti v'era anche
il Pomponazzi, il
quale si laureò
in artihus appena qualche mese
prima che il
Senato obbligasse il
maestro chie- tino a rispettare
gli statuti sul
fatto della concorrenza
e a rinunziare al
privilegio abusivamente concessogli
(13 dicem- bre 1487). Ultimo
aneddoto della vita
padovana del Vernia
è il suo dottorato
in medicina avvenuto
un po' alla
chetichella il 29 dicembre
1495. L' 8
settembre dello stesso
anno, dopo trent'anni d' insegnamento della
filosofia naturale, in
ricono- scimento dei suoi meriti,
la Signoria veneziana,
con l'appro- vazione di tutto
il Consiglio, gli
aveva finalmente concesso il
raro privilegio che un tempo
era stato concesso,
per le loro benemerenze, a
Gaetano da Thiene
e a Maestro
Cristoforo da Recanati, di
leggere senza concorrente.
Parrebbe che ormai non
dovesse avere altra
aspirazione che quella
di portare a compimento
le Quaestiones de
pluralitate intellectus contra falsam
et ah onini
ventate remotam opinionem
Averroys, per riguadagnarsi la
stima del vescovo
di Padova e
per ottem- perare all' invito
del doge Agostino
Barbarigo, dimostrando falsi e
calunniosi i sospetti,
che si susurravano
« in angulis
», di una sua
adesione all'averroismo. Doveva
essere sulla set- tantina. Eppure alla
distanza di trentasette
anni dal dottorato in
artihus non esitava
a sottoporsi agli esami per
conseguire il titolo di
dottore in medicina.
Promotori furono i
suoi col- leghi Giovanni Aquilano,
Lorenzo da Noale
e Girolamo da Verona;
testimoni i patrizi
veneziani Lorenzo Donato
e Vincenzo Quirini,
e i maestri
dello Studio Pietro
Pomponazzi e Antonio Francanziano -^ Che
cosa l'avrà spinto
a procacciarsi il
titolo di medico
a quell'età ? e
a che cosa
poteva giovargli ?
La risposta forse potremo
trovarla in questa
notizia che si
legge nei Diarii di
Marin Sanudo --,
« a di
2 zener »
[1499]. Vene li miedigi
di collegio di
questa terra [Venezia],
expo- nendo, conzò sia che a tempo
di le vachation
maestro Zuan de l'Aquila,
maestro Nicoleto, maestro
Hironimo da Verona et
maestro Gabriel Zerbi,
medici, legevano a
Padoa, venissero a miedegar
in questa terra;
per tanto chiedevano,
nel tempo ste- vano
dicti medici qui,
facessero le angarie
come Ihoro, sì da
pagar il
medico in armada
etc. E li
fu concesso, et
cussi per la Signoria,
consulente collegio, fo
terminato in scriptura. Ecco a
che cosa doveva
servire la laurea
in medicina: ad andare
« a miedegar
» a Venezia
durante le vacanze,
facendo concorrenza ai medici
del luogo, sia
col fatto di
essere maestri di medicina
dello Studio patavino,
sia perché questi
padovani non facevano «
le angarie »
che dovevano fare
i medici vene- ziani «
sì da pagar
il medico in
armada ». Lo
stipendio di 180 fiorini
non pareva abbastanza
al filosofo chietino,
che, al dire del
Pomponazzi, «prò uno
quadrante perdidisset hominem» -3, e doveva
invidiare i guadagni
che i colleghi
medici traevano, nel periodo
delle vacanze, a
Venezia, dall'esercizio della
loro arte. Due di essi,
Giovanni Aquilano e
il veronese Girolamo della Torre,
erano stati suoi
promotori, ed entrambi
godevano di onorata nominanza
a Padova e
altrove per la
loro perizia nel «
miedegar », sì
che la loro
opera era molto
ricercata. Ma di gran
lunga più celebre
era Gabriele Zerbi,
anch'esso vero- nese,
anatomista e avversario
di Iacopo Berengario
da Carpi, ■che gli
muove gravissime accuse,
forse infondate o
almeno esagerate. Appena sei
anni più tardi,
nel 1505, morì
di morte •efferata, nel
viaggio di ritorno
dalla Turchia, ove
la sua fama di
medico era giunta,
recatavi dai veneziani. 21 Padova,
Arch. d. Curia
Vesc, Acta graduum,
voi. 44, f.
290 r. V. sotto,
p. 162. " I,
314- 23 V. sopra,
pp. 114. 120 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Coiraiuto compiacente
di questi e
altri colleghi, il
29 di- cembre 1495, il
filosofo chietino ebbe
dunque le insegne
di dottore in medicina,
conferitegli da Giovanni
Aquilano, e quattro anni
dopo lo troviamo
a Venezia «
a miedegar », in
sieme a
Giovanni Aquilano, a
Gerolamo da Verona
e Ga- briele Zerbi, ai
quali la piacevole
compagnia del faceto
filo- sofo non doveva riuscire
ingrata. Ma bel gioco
dura poco. Ed
il primo ad
abbandonare il quartetto fu proprio maestro
Nicoletto, il quale
fece appena in tempo
a preparare per
la stampa il
libro che lo
faceva tor- nare nelle buone
grazie del Barozzi.
Il 3 agosto
1499, a Vicenza, dettava le
sue ultime volontà,
e due mesi
dopo trovava pace nella
tomba presso i
Canonici Regolari Lateranensi
della stessa città -4. 22
Sotto al bel
monumento sepolcrale che
ora trovasi nella
cap- pella dell' Ospedale Civile
di Vicenza, e
già da me
riprodotto in « Giorn. Crit.
d. Filos. Ital.
», XXXVI, 1955,
pp. 496-97, si
legge questa iscri- zione, in cui è fatta
speciale menzione della
sua ultima opera:
« Ni- co[letus], Phi[losophus]
Cla[rissimus], De animi
plu[ralitate] ac fel[i- citate] edito
libro, Pat[avina] in
Acca[demia] anni[s] XL
flor[uit]. Obiit III Nonas
Octobris M. CCCC.
LXXXXVIIII. Comunemente,
quando si parla
oggi d'averroismo, vien
fatto di pensare alla
dottrina dell'unità dell'
intelletto possibile per tutta
la specie umana;
la quale dottrina
vien designata, con un
vocabolo moderno che
si direbbe coniato
apposta per ac- crescere la confusione,
«pampsichismo». Ma rari
sono coloro che dell'averroismo mettono
in evidenza quella
tipica dottrina mistica che
fu uno degli
argomenti maggiormente discussi, fra
gli averroisti e i loro
avversari, dalla fine
del secolo XIII a
tutto il XVI.
E, ciò che
è più strano,
ne tacciono sia
il Man- donnet che
il Van Steenberghen
nelle loro massicce
diffuse monografìe dedicate a
Sigieri di Brabante. Eppure la
mistica averroistica era
stata fatta oggetto
di ampia discussione da
parte di S.
Alberto Magno, di
S. Tommaso e di
Sigieri. Sebbene non
fosse stato ancora
tradotto in latino il
trattatello De animae
beatitudine, essi conoscevano bene il
commento e l'ampia
disgressione d'Averroè sul
testo XXXVI del terzo
libro del De
anima, assai più
importante di quel piccolo
trattato, e per
chiarezza e per
compiutezza. In questo testo
del De anima,
s'accenna al problema,
se è possibile che l'
intelletto unito al
corpo arrivi a
conoscere le sostanze separate.
Ivi Aristotele promette
che questo argo- mento sarà discusso
più tardi '
; a noi
per altro non è giunto alcuno
scritto dello Stagirita,
nel quale il
problema ora ac- cennato sia risolto.
S. Tommaso, dopo
aver dubitato che Aristotele, sorpreso
dalla morte, fosse
mai pervenuto a
trat- * Dal volume
Umanesimo e Machiavellismo dell'
« Archivio di
Filo- sofia », Padova, Editoria
Liviana, 1949. I Arist.,
De Anima, III,
t. e. 36,
e. 7, 43ib
18-19. 128
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI tare delle sostanze
separate -, finì
per credere che
il problema fosse risolto
dallo Stagirita in
un'opera non ancora
tradotta in latino che
gli era stata
mostrata 3. Anche
Alberto Magno, che a
questo problema dedica
il suo trattato
De intellectu et intelligibili, ritiene
che quest'opera, rimasta
sconosciuta a lui, era
ben nota a
molti dei discepoli
d'Aristotele, i quali
si sarebbero ispirati ad
essa in quei
numerosi scritti che
Alberto ben conosceva e nei quali
credette di trovare
il fior fiore
del- l' insegnamento
aristotelico 4. Neil' intento
di chiarire il
pensiero di Aristotele
su questo punto, commentatori
greci come Alessandro
d'Afrodisia e Temistio, o
arabi come Alf arabi,
Avicenna ed Abu
Baker Avenpace, avevano cercato
negli scritti dello
Stagirita quale, a loro
avviso, dovesse essere
la soluzione di
quel problema, conforme ai
principi della filosofia
peripatetica. Averroè, venuto dopo
costoro, aveva intrapreso,
nel detto commento al
testo XXXVI del
terzo del De
anima, una vivace
critica delle loro teorie,
in parte rigettandole
e in parte
sforzandosi di correggerle.
Alessandro d'Afrodisia aveva
ritenuto che l'uomo
potesse arrivare alla conoscenza
del mondo immateriale
mediante la « copulatio
» dell' intelletto
potenziale con l' intelletto
agente. L' intelletto
potenziale è, per
l'Afrodisio, una semplice
pre- parazione o
disposizione dell'organismo vivente
di vita sen- sibile. L' intelletto agente
invece è la
causa prima di
tutte le cose, la
quale, irraggiando la
luce dell' intelligibilità sulla
ma- teria, la plasma e trae dalla
potenzialità di essa
tutti gli esseri del
mondo corporeo. Questi
imprimono le loro
qualità dapprima sui sensi
esterni ; e
per mezzo di
queste prime impressioni
susci- tano l'attività dei sensi
interni e particolarmente dell'
imma- ginativa. L'attività
conoscitiva degli animali
inferiori al- l'uomo
s'arresta qui. Ma
l'organismo umano, sviluppatosi sotto l'azione
dell' intelletto agente,
è dotato d'un
principio vitale più perfetto
che tende più
su. V è in
esso una capacità
o disposizione che,
per quanto le- gata all'organismo vivente,
lo porta ad
aprirsi una veduta
sul 2 S. Tommaso,
De anima, III,
lez. 12 in
fine. 3 S. Tommaso.
De imitate intellectus
cantra averr., ed.
L. W. Keeler, Roma, Pontificia
Univ. Gregoriana, 1936,
Cap. I, 42,
p. 27. 4 Alb.
Magno, De intellectu
ed intelligibili, I
tr. i, e. i.
mondo intelligibile. Questa
capacità o disposizione
è ciò che Aristotele avrebbe
chiamato l' intelletto in
potenza. Soltanto la luce
inteUigibile dell' intelletto
agente, la quale
avvolge € vivifica tutta
la natura, può
trarre all'atto questa
pura potenziaHtà. Ma la
luce divina dell'
intelletto agente attua r
intelletto potenziale per
gradi : prima
per mezzo degl'
intel- ligibili astratti dai fantasmi
dell' immaginativa ; poi per
mezzo delle scienze speculative
; finalmente, quando
l' intelletto umano è intelletto
in atto o
in abito, l' intelletto
agente, cioè la luce
divina, lo riempie
di sé, lo
informa e lo
rende capace di contemplare
in se stesso
il mondo divino
dei puri spiriti. Siccome in
questo stato l' intelletto
contempla Dio per
mezzo di Dio stesso,
esso è detto
« intelletto acquisito
». La teoria d'Alessandro, con la sua graduale
ascesa della mente umana
a Dio, che
nell'ultimo grado della
sua elevazione finisce per
essere deificata, sembra
aver sedotto Averroè. Il
quale, per altro,
ne scorge acutamente
le difficoltà. Se il
punto di
partenza di questa
ascesa verso il
divino è l' intel- letto in potenza,
e se questo
è semplice attitudine
dell'anima sensitiva
essenzialmente legata all'organismo
del quale su- bisce le
vicende, bisognerebbe ammettere
che una virtù
or- ganica, generabile e corruttibile,
vincolata cioè dalle
condi- zioni dello spazio e
del tempo, fosse
capace d'elevarsi alla conoscenza di ciò che
è universale, libero
cioè dallo spazio
e dal tempo, ossia
dalle condizioni della
sensibilità o, come si
diceva nel medio
evo, della materia.
Si può bene
intendere, fino ad un
certo punto, che
la causa prima
operi, come causa agente,
sul mondo materiale
e sull'intelletto potenziale; ma non
si riesce a
capire in che
modo l' intelletto agente
possa farsi forma d'una
virtù organica e
renderla simile a
sé. L' « in-
telletto acquisito» è concetto
che non è
punto chiaro. In
quanto « acquisito »
parrebbe qualcosa di
diverso dal soggetto
che lo acquista; ma non si
vede come un
soggetto corruttibile possa acquistare e
far suo l'eterno. Per
queste ragioni parve
ad Averroè che l'
intelletto poten- ziale non dovesse
essere « ncque
corpus ncque virtus
in corpo- re »;
in altri termini,
la natura di
siffatto intelletto vuol
essere sciolta da ogni
intrinseco legame colla
materia. Sostanza se- parata esso stesso,
l' intelletto possibile diviene
capace di quella ascesa
al mondo delle
sostanze separate, mediante
la « copulatio »
coir intelletto agente. 9 130 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Anche Abu
Nasar Alfarabi s'era
fermato a meditare
sul problema posto da
Aristotele e sulla
soluzione che ne
aveva dato Alessandro. E
nella sua opera
intorno all' Etica
Nico- machea, avendo accettata
la dottrina del
commentatore greco suir intelletto
possibile, s'era limitato
a considerare l' intel- letto agente come
causa attiva del
passaggio di quello
dalla potenza all'atto, e non come
forma che s'unisce
ad esso. In- vece, nel
trattato De intellectu
et intelligibili , Alfarabi
ammise che r intelletto
possibile, già pienamente
attuato dagl' intel- ligibili tratti del
mondo sensibile, diventa
soggetto d'una più intima
unione coli' intelletto
agente, dal quale
riceve una più copiosa
illuminazione che gli
dischiude la vista
del mondo sovrasensibile. In
questa unione coli'
intelletto agente, cui serve
di preparazione l'acquisto
delle scienze speculative,
e che anche Abu
Nasar chiama «
intelletto acquisito «
{intel- lectus adeptus), consiste
la suprema perfezione
della mente umana e
la beatitudine finale
dell'uomo 5. Ma
Averroè e' in- forma, nel De
animae beatitudine ^, che il
povero Abu Nasar, giunto
al fine de'
suoi giorni con
la ferma convinzione
di po- tere arrivare a
questo alto grado
di perfezione, cui
s'era appa- recchiato
procacciandosi tutto il
sapere a lui
accessibile, come s'accorse che
non c'era arrivato,
ebbe a dichiarare
im- possibile e vana l'aspirazione
a congiungersi con
le sostanze separate, ritenendo
ormai favole da
vecchierelle le descri- zioni puramente immaginarie
che taluni facevano
dell'uomo pervenuto a tale
sovrumana altezza.
Quest'umile riconoscimento della
limitatezza del sapere umano
fatto da Alfarabi,
ormai sul passo
estremo, non aveva per
altro scoraggiato Abu
Baker Avenpace. Il
quale, dice Averroè 7,
s'adoperò a lungo
a risolvere l'arduo
problema, senza perderlo di
vista un batter
d'occhio. Oltre che
nel suo commento al
De anima, Avenpace
tratta di questo
argomento in « molti
altri suoi libri
», di due
dei quali conosciamo
i titoli: 5 Alpharabii,
De intellectu, nell'edizione
di Avicenna, Opera....
per canonicos emendata. Venezia,
eredi di Ottaviano
Scoto, 1508, fol.
68, col. 4. Il
trattatello è stato
ristampato nella traduzione
latina da E. GiLSON,
in Archives d'
hist. doctr. et
litt. au moyen
8ge, 1929. Cfr.
B. Nardi, introduzione a S. Tommaso
d'Aquino, Trattato sull'unità
del- l'intelletto contro gli averroisti,
Firenze, Sansoni, 1938,
p. 32. 6 Capp.
3-4; cfr. A.
Nifo, In Averrois
de animae beatitudine,
Venezia, eredi dì O.
Scoto, 1520, I,
testo 59, e
II, t. 11. 7
Avere., De Anima,
III, comm. 36,
digress., parte II
e III. r Epistula
de perfectione 8, e il
Tractatus de copulatione.
Anche la teoria di
questo pensatore si
ricollega strettamente a
quella di Alessandro e
d'Alfarabi, per quanto
concerne la natura dell'
intelletto potenziale e
nel ritenere che
alla conoscenza delle sostanze
separate si possa
giungere per mezzo
del sapere speculativo, ossia
della progressiva attuazione
dell' intelletto, in potenza.
L'atto col quale
l' intelletto umano dal
sapere scientifico s'eleva alla
conoscenza dei puri
intelligibili separati,
potrebbe dirsi un
atto di superastrazione, col
quale dai con- cetti astratti, ricavati
dalla realtà sensibile,
si astrae quella pura
essenza intelligibile che
è semplice e
identica per tutte le
menti: «Et cum
philosophus ascenderit alia
ascensione, considerando in intellecto
inquantum intellectum, tunc
in- telliget substantiam abstractam
» 9. Sembra,
per altro, che Abu
Baker si mostrasse
alquanto perplesso in
merito a questa suprema ascesa,
che dovrebbe coronare
gli sforzi di
chiunque è giunto in
possesso di tutto
lo scibile filosofico;
e che egli, nell'Epistola de
perfectione, la ritenesse
possibile non tanto per
lo sforzo della
natura umana, quanto
piuttosto per un aiuto
divino: « intellectio
istius intellectus est
de possibilitate divina, non
de possibilitate naturae
» '". Ad ogni
modo, la maggiore
difficoltà, che travaglia
anche la teoria di Alf
arabi e
d'Avenpace, consiste nel
punto di par- tenza, cioè nell'aver
considerato l' intelletto potenziale
gene- rabile e corruttibile, come
l'aveva ritenuto Alessandro
d'Afro- disia. Non così possiamo
dire di Temistio.
Per questo parafraste bizantino d'Aristotele,
com' è stato
inteso da Averroè,
l' in- telletto potenziale è immateriale,
uno ed eterno,
al pari del- l' intelletto agente
che n' è
la forma. Il
problema che concerne Temistio, è
un altro. Se l'
intelletto potenziale è
uno e inge- nerabile, ed uno
e ingenerabile è
l'intelletto agente; e
se il primo è
tratto dalla potenza
all'atto e diventa
intelletto spe- culativo per r
informazione del secondo,
non si riesce
a vedere come il
concorrere di due
cause eterne possa
dar luogo ad un
effetto generabile e
corruttibile, qual' è
il mio individuale atto d' intendere,
susseguente, in particolari
contingenze di 8 MuNK,
Mélanges de philosophie
juive et arabe,
Parigi, 1859, p.
393 sgg. 9 AvERR.,
/. e, parte
III. '0 AVERR., ib. 132 tempo
e d'ambiente, al
non intendere, e
diverso dall'atto col quale
altri intende quel
che non intendo
io. Nel pieno
con- giungimento dell' intelletto potenziale
con l' intelletto agente consiste anche
per Temistio il
più alto grado
di perfezione raggiungibile dall'uomo;
ma il bizantino
non spiega perché questo
congiungimento avvenga soltanto
alla fine e
non al principio dello
sviluppo intellettuale dell'uomo;
egli cioè non spiega
perché l' intelletto agente,
fin dal primo
momento della sua unione
all' intelletto possibile,
non attua tutta
intera la potenzialità di
quest'ultimo, se è
vero che gì'
intelligibili, come pensa Temistio
con Platone, anzi
che tratti dalle
imma- gini sensibili, sono irraggianti
dall' intelletto agente
su quello potenziale. A risolvere
le difiìcoltà contro
le quali urtava
da un lato la
teoria d'Alessandro e
dall'altro quella di
Temistio, il com- mentatore di Cordova
pose questi fondamenti.
Anzi tutto, l'intelletto che
è soggetto del
pensare, in quanto
questa fun- zione
conoscitiva si differenzia
dal sentire, non
può essere e
quindi al «
privatum examen »
per ottenere il dottorato
in medicina. Ecco
il verbale di
quest'ultimo atto,, rimasto ignoto
al Ragnisco il
quale, confondendo col
Vernia Nicolò Manupello, egli
pure da Chieti
e parente del
Vernia, riteneva che questi
si fosse laureato
in filosofìa il
22 aprile 1444 e
in medicina forse
nel 1458: A nativitate
Domini nostri Jesu
Christi 1496 {sic).
Indictione 14, die martis
29 decembris, in
loco solito examinum. Privatum examen
et Doctoratus in
facilitate Medicinae Cla- rissimi
Artium doctoris Domini
Nicoleti Verniatis, theatini, ordinariam philosophiae
legentis absque concurrente,
examinati per Sacrum collegium
Artium et Medicinae
doctorum, corani ve- nerabili Domino presbytero
Antonio de Malgarinis,
cathedralis ecclesiae
paduanae Mansionario, in
hac parte Vicario,
in assi- stentia spectabihs
domini Leonardi Butironi,
Rectoris, appro- bati unanimiter
et concorditer ac
nemine penitus discrepante, sub promotoribus
Domino Joanne Aquilano
qui de dit
insignia prò se ac
Dominis Laurentio de
Noali et Hieronymo
de Verona. [Testes]. D.
Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius
Quirino, artium scholaris. D.
M. Petrus de
Mantua / D. M.
Antonius T^achantianus \
In questo atto
da me veduto
(Arch. d. Curia
Vesc, voi. 44, cot.,
f. 2gor) e
gentilmente trascrittomi dal
Rev.mo Mons. A. Barzon,
il dottorato in
medicina di Maestro
Nicoletto è fissato al
martedì 29 die.
1496. Ma che
si tratti d'un
semplice lapsus
dell'estensore è provato
dal fatto che
l'atto immedia- tamente
precedente (f. 289V)
è del 23
dicembre 1495, e il
f. 29ir
porta la data
del 2 gennaio
1496. Inoltre, il 29 dicem- bre 1496, cadeva
in giovedì, e
non martedì come
il 29 dicem- bre 1495. Infine,
il 29 dicembre
1496 il Pomponazzi
non pc- teva fare
da testimone, perché
nell'ottobre aveva lasciato Padova, e
vi fece ritorno
solo dopo la
morte del Vernia
nel 1490, Ma forse
non si tratta
di errore, bensì
dell'aver computato il principio
del 1496 «
a nativitate Domini
», cioè dal
25 di- cembre. Notevole nell'atto
riferito è poi
la presenza, fra
i testimoni, di Lorenzo
Donato e di
Vincenzo Quirini. Il
primo era un pa-
trizio veneziano, e a
lui, questore a
Padova, il Nifo,
alunno del Vernia, dedicherà,
nel 1497, il
prologo d'Averroè alla Fisica,
stampato in fine
del commento dello
stesso Nifo alla Destructio destructionum
dello stesso Averroè.
Del secondo, al quale
il Nifo a
Padova e da
Salerno ostentava il
suo partico- lare e interessato
attaccamento, faremo cenno
piìi giti. Ma potrebbe
anche darsi che
il motivo che
spinse il filosofo chietino ad
addottorarsi in medicina
fosse un altro.
Leggiamo infatti nel Sanudo
(II, 314) che
i medici veneziani
il 2 gennaio 1499
si lagnarono in
Collegio perché Giovanni
Aquilano, (( maistro Nicoleto
», Girolamo da
Verona e Gabriele
Zerbo, medici che leggevano
a Padova, durante
le vacanze andavano «
a miedigar in
questa terra »,
cioè, a Venezia,
e non applica- vano ai clienti
le « angarie
» di legge
che dovevano far
pagare i medici di
Venezia, a prò
del medico dell'armata
(v. sopra, pp. 125-126).
Pare che a
quei tempi l'esercizio
della medicina desse guadagni
più vistosi della
filosofia; e a
« maistro Nico- leto »
dovevano far gola. Ma
col 1496 comincia
per la filosofia
padovana un periodo di
crisi che coincide
con la partenza
del Peretto. Questi,
messo a dura prova
dalla concorrenza del
Nifo, dovette sentirsi spronato ad
accogliere un invito
che gli era
fatto, di andare
a stabilirsi alla corte
di Alberto Pio,
a Carpi. E
nella prima metà d'ottobre 1496
egli rinunziò alla
cattedra e chiese
licenza d'an- darsene, adducendo a
motivo i suoi
personali interessi. Questo risulta dal
decreto del Senato
veneziano, in data
16 di quel mese
(Venezia, Arch. di
Stato, Senato terra,
Reg. 12, f.
ijjr) : Renuntiavit niiper
eximius doctor D. Petrus de
mantua lecturae ordinariae philosophiae
gymnasij nostri patavini,
cuius retinebat primum locum;
et hoc impulsus
privatis suis negotijs. Sicché i sapienti
del Consiglio e
della Terra ferma,
nella necessità di provvedere
per l'anno scolastico
1496-1497 alla cattedra rimasta
vacante, nominarono a
succedergli Ago- stino Nifo, (( qui erat
concurrens ipsius. D.
Petri de mantua secundo loco
», promovendolo al
primo, col salario
di 90 fiorini, e
dandogli come concorrente,
« ad secundum
locum », il fa-
moso e a
tutti gratissimo dottore
Antonio Fracanzano, vicen- tino, « de
cuius sufficientia et
doctrina litterae Rectorum
no- strorum Paduae dant
amplum testimonium »,
coll'annuo salario di 80
fiorini. Ma il Nifo
non valeva il
Pomponazzi, e d'altra
parte risulta che nel
corso dell'anno scolastico
1497-1498, non sappiamo per
quali ragioni, se
per motivi di
stipendio o per
attriti co] 164 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Fracanzano, ad
un certo momento
tagliò la corda.
Sì che il Senato
veneziano, in seguito
a rapporto del
rettore degli Ar- tisti di
Padova, considerando che
maestro Nicoletto «
ob suam ingravescentem etatem
continue non potest
legere, quamvis ob eius
sufficientiam est valde
gratus omnibus scolaribus, et quoniam
illam lectionem alias
legebat D. Augustinus
de sessa cum florenis
90 in anno,
vir apprime sufficiens
et gratus illis scolaribus,
qui libenter veniret
ad legendum »,
decide che il Nifo
sia condotto di
nuovo con fiorini
120, ed abbia
a con- corrente lo stesso
Fracanzano (Ib., Reg.
13, f. ^yr,
ig giugno 1498). Questi s'era
addottorato in artibus
nel maggio 1489;
nel- l'autunno del 1492 era
stato assunto alla
lettura della logica, e
questa cattedra occupava
ancora il 21
luglio 1494 (Padova, Arch. della
Curia, Acta grad.,
voi. 44. f.
246V); nel 1495
aveva conseguito la laurea
in medicina, e
quindi assunto alla
cat- tedra straordinaria di filosofia
che occupava il
29 dicembre 1495 (Arch.
d. Curia, 1.
e, f. 290r).
L'anno successivo, fu
pro- mosso, come abbiamo visto,
alla cattedra ordinaria
« secundo loco ». Ben
poco ci è
noto anche del
suo indirizzo filosofico.
Di scritti di lui a stampa
non conosco che
le otto «
Quesiiones in consecutiones Stradi
ac de sensu
composito et diviso,
pubbli- cate nel volume del
faentino Benedetto Vittori,
In Tysberum de sensu
composito ac diviso
cum eiusdem collectaneis
in sup- positiones Pauli
Veneti. Nec non
Tractatus Alexandri Sermo- nete,
Bernardini Petri de
Landìtciis, Pauli Pergulensis
et Baptiste da Fabriano
in eundeni Tysberum.
Item qiiestiones Frachan- ciani Vicentini
in consecittiones etc.
(Venetiis, impensa heredum q.
Oct. Scoti. 5
dicembre 1517, ff.
56ra-65v), e dedicate
ad Alessandro Sermoneta. Esse
appartengono senza dubbio
al periodo nel quale
il Fracanzano fu
lettore di logica.
Di opere manoscritte ne
conosco invece due.
Una è nel
cod. Ashburn 1048, nella
Laurenziana di Firenze,
ff. ir-38v con
questo titolo:
Excellentissimi Doctoris Domini
Antonii fracantiani
Vicentini de casu
et fortuna fatoque
quaestiones incipiunt (9 capitoli,
oltre il proemio).
L'altra è nel
codice Vat. lat.
10728, e porta questa
intestazione: Tractatus proportionalitatum Domini antonii
fracantiani Vicentini di
ff. io. È
divisa in tre trattati
ed è scritta
di mano d'un
allievo, che probabilmente è Girolamo
Accorumboni o Accoramboni
da Gubbio. Ecco quanto
scrive questo alunno
: « Finis
Tractatus proportionum
Fracantiani, praeceptoris mei,
qui legit patavii
ordinariam philosophiae ; obiit
mo cccccvi, die
28 aprilis. Ego
vero eram tum bacchalarius
ordinarius in studio
patavino. Pontifex erat prope
bononiam cum exercitu,
ut dominum iohannem
expel- leret ». Niente
son riuscito a
sapere del commento
inedito In VII Physicorum
di cui parlano
i Memorabili di
Giovanni da Schio (ms.
nella Bibl. Bertoliana
di Vicenza, lettera
F) e che era
posseduto dal canonico
Fulvio Querengo. Interessante è quanto
riferisce Marin Sanuto
(II, 485), come
il 24 giugno 1499
furon ricevuti a
Venezia in Collegio
« maestro de
Star- niti » (? !)
teatino et maestro
Gabriel Zerbo, doctori,
lezeno a Padoa in
philosophia et medicina,
insieme col retòr
di scolari artista, con
commission dil collegio
di doctori; et
forno alditi in contraditorio
con maestro Antonio
Fraganzan, dotor vicentin, leze
in philosophia, qual
non voria haver
conco- rente inferior a
lui, né vorìa
essi doctori esso
in nel collegio di
doctori. Or fo
gran parole, et
scrito ai retòri
di Padoa, dagi Information
>>. Non conosco l'esito
di questa bega;
ma è certo
che l' inse- gnamento della filosofia
a Padova versava
in gravi condi- zioni. Il Nifo
se n'era andato,
e non farà
più ritorno a
Padova, ove non gli
mancavano gli appoggi
di potenti amici,
ma dove aveva dovuto
cozzare altresì contro
l'avversione di maestri e
scolari. Il 4
ottobre poi era
morto maestro Nicoletto,
che il 3 agosto
a Vicenza aveva
fatto l'ultimo suo
testamento, e con
lui spariva dalla scena
padovana la figura
forse più nota
fra gli stu- denti di
filosofia e più
popolare per le
sue bizzarrie (v.
sopra, sag- gi IV e V)
. Nessun
maestro di qualche
rilievo occupava più
le cat- tedre di filosofia.
Di ciò ebbe
a preoccuparsi il
Senato veneziano nella seduta
del 31 ottobre
(Senato terra, Reg.
13, f. 97r). A
succedere al Vernia
fu perciò richiamato
« Magister Peretus de
Mantua, vir singulari
doctrina preditus et
studentibus gratus », per
la durata di
due anni, con
180 fiorini di
salario »; per concorrente
gli fu assegnato
il Fracanzano, « vir doctis- simus, qui
iam per annos
septem legit »
(dunque dall'autunno del 1492,
quando fu nominato
lettore di logica)
; e poiché
il vicentino ricusava l'ufficio
di concorrente col
salario di 80 fiorini,
fu deciso di
portarlo a 130,
onde « possit
legere contentus et facere
bonam concurrentiam ».
Alla cattedra straordinaria di filosofia
fu accettato il
bolognese Tiberio Bacilieri,
disce- l65
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI polo, amico e
collega di Alessandro
Achillini, del quale
portò a Padova le
dottrine. Egli aveva
dovuto lasciare la
città natale, in seguito
alla sospensione per
un quinquennio inflittagli
da quel Collegio dei
medici e filosofi
(cfr. sotto, pp.
226-27). E forse
il Bacilieri dovette fare
da concorrente al
Peretto, quando il
Fra- canzano entrò per
tre anni al
seguito del nuovo
cardinale Marco Corner, che,
elevato alla sacra
porpora a diciott'
anni, aveva an- cora bisogno d'andare
«a Padoa a
studia» (M. Sanuto,
II, 929). Ma ritornato
sulla sua cattedra
il Fracanzano nel
1502, e ri- preso il
suo posto di
concorrente del Pomponazzi,
il Baci- lieri l'anno successivo
lasciò Padova per
Pavia (cfr. il mio
voi. Sig. di
Brah. nel pens.
del Rinasc. ital.,
pp. 132-152). Nella stessa
delibera del 31
ottobre 1499 si
trova ancora: Demum legit
in dicto Gymnasio
iam annos sexdecim
[dunque dall'anno scolastico 1483-1484,
quando il Trapolin
salì sulla cat- tedra di
filosofia quale straordinario] Magister
Petrus trapolino, qui iam
est senex et
onustus ingenti numero
filiorum, et habet
flo- renos 250 de
salario in anno,
quod exiguum est
respectu laborum quos sustinet
in legende. Ideo
captum sit quod
dicto magistro Petro addantur
floreni quinquaginta, ita quod habeat
de salario trecentos in
anno et ratione
anni, attento presertim
quod eius concurrens [che
era Gabriele Zerbo]
habet fiorenos sexcentos
de salario in anno. Con
questa delibera del Consiglio veneziano
che vigilava sulle sorti
dello Studio patavino
la crisi della
filosofia pado- vana era avviata
a una felice
soluzione. Intanto venivan su
ottimi elementi nuovi,
alunni dei vecchi maestri, che,
appena addottorati e
taluno anche prima,
sa- livano giovanissimi
sulla cattedra. Così
il 17 agosto
1499, s'addottorò /;/ artihus
Lorenzo dal Molino,
da Rovigo, già alunno
del Pomponazzi e
del Trapolin che
al giovane dottore conferì le
insegne, e nel
verbale di dottorato
troviamo anno- tato che egli
era già stato
deputato « ad
lecturam dialecticae » (Arch.
d. Curia Vesc,
voi. 46, f.
71). Il 21
maggio 1500, s'era addottorato in
artihus il veronese
Gianfrancesco Burana {Ib., voi.
47, f, 106),
e un anno
dopo lo troviamo
ordinario di logica {Ib.,
f. i62r). Il
veronese Bernardino Plumazio,
già alunno del Nifo,
fu chiamato «
ad extraordinariam philoso- phiae lecturam
» {Ib., f.
248r). Anche Francesco
Trapohn, al quale conferì
le insegne di
dottore in artibus
il padre, il 6
ottobre 1501, troviamo
che « electus
est ad lecturam
publicam logice » [Ih.,
f. i68r). L'anno
scolastico 1503-1504 fu
promosso straordinario di filosofia
naturale. E dopo
la laurea in
medi- cina, conseguita il 4
marzo 1506, anche
questa volta «
promo- tore.... D. Petro Trapolino
genitore suo qui
dedit insignia » (e
fra i testimoni
era Gaspare Contarini),
passò alla seconda scuola di
medicina, collega del
padre e, come
questo, colle- giato. Il 14 novembre
1500 s'addottorò in
artibns Giacomo Filippo delle
Pelli Negre da
Troia in Puglia,
promotore Pietro Trapolin, ed
anche egli era
già stato eletto
« ad moralem
philo- sophiam publice legendam
» {Ih., voi.
47, f. 135).
Il 1° febbraio 1501
s'addottorò in medicina
Girolamo Bagolino, di
cui ab- biamo udito l'elogio
fatto da Girolamo
Avanzo [Ih., f. 146
v) e del
quale è ben
nota la carriera
scolastica. Il 6
agosto s'ad- dottorò in artihus
M. A. Zimara,
promotore ancora P.
Trapolin, e l'anno seguente cominciò
a insegnare prima
logica, poi fi- losofia [Ih., f.
i62r). Il 5
nov. 1502 conseguì
il dottorato in artihus
Girolamo Fracastoro, anch'egli
già « ad
lecturam logice deputatus »
{Ih., f. 225r). Proprio in
questi anni, affluiscono
a studiar filosofia
a Pa- dova giovani delle
più ragguardevoli famiglie
patrizie vene- ziane. Primi fra
tutti Vincenzo Quirini,
Marco Gradenigo, Girolamo Taiapietra,
Santo Moro, Cristoforo
Marcello, Ga- spare Contarini, Nicolò
Tiepolo, Antonio Surian,
M. A. Con- tarini, Lorenzo Venier.
Il Quirini, ancora
« artium scholaris
», figura in vari
atti di dottorato
come testimone fin
dal 1495; ma recatosi
a Roma, vi
sostenne le «
conclusion » nella
chiesa dei Santi Apostoli,
il 29 maggio
1502, presenti Pietro
Bembo e l'oratore veneziano
Marin Zorzi, e
fu addottorato in
artihus da papa Alessandro
VI. Il suo
esempio seguirono anche
il Taiapietra e il
Tiepolo, addottorati essi
pure a Roma,
dopo avervi disputato le
loro brave «
conclusion », il
primo nella primavera del
1506, il secondo
nell'estate 1507, da
Giulio II (M. Sanudo,
III, 278; VII,
116; P. Bembo,
Opp., t. Ili,
Ve- nezia 1729, p. 3i4r).
Invece Cristoforo Marcello,
che il 17 ot-
tobre 1500 aveva sostenute
ai Frari, a
Venezia, « alcune
con- clusion » (M. Sanudo,
III, 978), s'addottorò
in artihus a Pa-
dova, promotore P. Trapolin,
il 20 ottobre
1501, e gli
fecero da testimoni M.
A. Foscarini, vescovo
di Città Nova
e ancora studente di
diritto canonico, Girolamo
Barbarigo, primicerio di S.
Marco, e Pietro
Pomponazzi (Arch. di
Curia Vesc, voi.
47, f. lògr). Del
dottorato in artihus
di Andrea Mocenigo,
discepolo l68
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI del Pomponazzi, trovo
questo verbale {Ib.,
f. 256): Anno Nativitatis
dominicae 1503, indictione
sexta, die Sabati XII
Augusti. Privatum examen
in Artibus, in
loco solito exami- num,
per Venerandum Collegium
Artium et medicinae
doctorum, et comprobatio unanimiter
et concorditer ac
nemine penitus discrepante, in
assistentia Spectabilis. D.
Pauli Zerbo Rectoris, coram Reverendo
d. Ludovico de
rugerijs vicario. Et
deinde in medio cathedralis
ecclesiae, assistentibus M.
cis et CI.
imis dominis Thoma Mocenigo praetore,
patruo, et Paulo
Trivisano equiti, praefecto urbis, avunculo,
et aliorum praestantissimorum docto- rum scholarium civium
et praelatorum corona,
per R.mum D. Epi- scopum, eius
domino Vicario recitante,
pronuntiatus fuit Doctor in
Artibus M. cus
et doctissimus vir.
D. Andreas Mocenigo,
natus M. ci et CI.
mi D. Leonardi,
fili] olim Serenissimi
principis Vene- tiarum D. Joannis Mocenici,
post longas lucubrationes
et scho- lasticos labores
et publicas disputationes
ac varia virtutis
et doctrinae suae experimenta.
Cui
tradita fuerunt insignia
per Excell.mum artium et
medicinae doctorem, D.
Magistrum Pe- trum trapolinum
prò se ac
Dominis Magistris Ioanne
de Aquila, Symone Estensi,
Hieronymo de foelicibus
ac Bernardino Spirono. Testes: D.
Laurentius Venerio, D.
Antonius Suriano, D.
Gaspar Contareno, artium scholares. È
notevole che anche
qui s'accenni a
pubbliche dispute, tenute verosimilmente a
Padova e a
Venezia, delle so- lite «
conclusion ». L' 11 settembre
dello stesso anno,
s'ad- dottorò in artibus Marco
Gradenigo, ed ebbe
a testimoni il Magnifico
G. Batt. Memo,
suo zio e
podestà di Padova
{Ib., f. 258r). Il 4 luglio
1504, s'addottorò in
artibus Sebastiano
Foscarini, promotore Bartoloneo
da Montagnana {Ib.,
f. 287r) ; un
anno dopo, il
14 giugno 1505,
fu eletto lettore
di filosofia nelle scuole
di Rialto a
Venezia, al posto
di Antonio Giustinian nominato ambasciatore,
e questa cattedra
egli tenne fino
alla sua morte nel
1552 (M. Sanudo,
VI, 185). L'
8 agosto dello stesso
1504 s'addottorò parimente
in artibus Lorenzo
Venier, « el Gobeto
», del quondam
Marino procurator di
S. Marco, e gli
furon testimoni Giorgio
Corner, padre del
Cardinale e podestà di
Padova, Paolo Trevisan,
capitanio, Antonio Surian e
Girolamo Polani (Arch.
Cur. vesc. cit.,
f. 29or). Prima
del dottorato a Padova,
egli aveva tenuto
le sue «
conclusion », il 12
giugno, ai Frari
in Venezia, disputando
per più giorni con
Lorenzo Bragadin, lettore
di filosofia, con
Giovanni Ba- doèr, dottore
e cavaliere, con
Marin Zorzi, anch'egli
dottore, e con alcuni
frati (M. Sanudo,
VI, 31). Il
21 maggio 1505
fu la volta di
Santo Moro di
Marino, che ebbe
a testimoni Alvise Molin,
podestà di Padova,
Angelo Trevisan, capitanio,
i due celebri scotisti
francescani Antonio Trombeta
e Maurizio Ibernico, lettori
nelle scuole del
Santo, e Pietro
Pomponazzi (Arch. Cur. Vesc,
cit., f. 417^).
L' 11 maggio
anch'egli aveva tenuto «le
conclusion ai Frari,
qual'è impresse» (M.
Sanudo, VI, 163). E
finalmente Antonio Surian,
nipote del patriarca dello stesso
nome, dopo una
disputa pubblica di
due giorni a Padova
e di un
giorno ai Frari
a Venezia [Giorn.
Crii. d. Filos. Hai.,
XXXI, 1950, p.
312), il 9
luglio 1506 ebbe
le insegne di dottore
in artibus da
Bernardino Speroni, « prò se
ac Dominis Magistris Ioane
de Aquila, Benedicto
de Odis, Petro
Trapolino, Victore
Maripetro, Antonio de
Faenza, Francisco ab
Equis, Petro de Mantua,
Antonio Carrano et
Carolo de lanua
com- promotoribus suis »
(Arch. Cur. Vesc, cit.,
f. 371 v).
Dal qual verbale appare
che Pietro Pomponazzi,
forestiero, era stato, dopo
quindici anni di
soggiorno padovano, aggregato
al Col- legio dei medici
e filosofi di
Padova, Dallo stesso Archivio
della Curia Vescovile,
(voi. cit., f.
38ór) si rileva che
xA.ntonio « D.
Petri Trapolini »,
il 19 dicembre 1506, ricevve
la prima tonsura
dalle mani del
vescovo Pietro Barozzi, il
quale venne a
morte di lì
a poco, il
io gennaio 1507. Questo
figlio del Trapolino
fu avviato allo
studio del diritto, e,
dopo alcuni anni
di vita dissipata,
rimessosi sulla buona strada,
professò Decretali e
Diritto Civile a
Padova fra il 1526
e il 1528.
Ma morì giovane il
6 settembre 1529,
se sono esatte le
notizie raccolte dal
Facciolati {Fasti Gymnasii
Pata- vini, parte III, pp.
106, 109, 128,
130, 131). Divenuto un
fiorente centro di
intesa vita intellettuale, lo studio
di Padova attirava, oltre
la nobiltà veneziana
e stu- denti di molte
parti d' Italia, molti
studenti d'oltralpe, spe- cialmente dalla Germania
e dalla Polonia.
Fra coloro che vi
sostarono per più
anni, è da
ricordare Nicolò Copernico,
che, già studente di
diritto e quasi
certamente anche delle
Arti a Bologna fra
il 1496 e
il 1500, a
Padova fu studente
di me- dicina dall'autunno del
1501 forse sino
alla primavera del 1505,
e a Padova
certo non può
aver trascurato lo
studio della matematica e
dell'astronomia. A Padova avevano
insegnato queste scienze
il Peurbach e il
Regiomontano, ossia Giovanni
Muller di Kònigsberg,
e dipoi Francesco Capuano
di Manfredonia, i
quali avevano discusso le
osservazioni di Tolomeo
e quelle di
Albategni in rapporto ad
una revisione, che
si rendeva ogni
giorno più necessaria, delle Tavole
Alfonsine. Si parla
anche della fama
di profondo matematico goduta
da Pietro Trapolin,
considerato niente- meno che «
il primomatematico del
suo tempo »,
sì che per questa
sua fama accorrevano
a Padova, «
avidi d'ascoltarlo, scolari d'ogni
nazione » (G.
Vedova, Biogr. d.
Scrittori Padovani, II, p.
361). Alunno del
Trapolin e del
Pomponazzi era stato il
mantovano Benedetto del
Tiriaca che s'addottorò
in artihus il 20
dicembre 1494, promotore
il Trapolin che
gli conferì le insegne,
e testimone il
Peretto suo concittadino.
Dal 1498 al 1506
egli tenne la
cattedra di matematica
e astronomia con tanto
plauso che, avendo
dato le dimissioni,
bandito il concorso per
dargli un successore,
quando gli studenti
seppero i nomi degli
aspiranti a quella
lettura presero ad
agitarsi e chiesero che il Tiriaca
fosse richiamato sulla
cattedra, come fu fatto
con deliberazione del
Senato veneziano in
data 7 settembre 1508.
È arduo pensare
che fra il
1501 e il
1505 il giovane Copernico,
che era tra
i ventotto e
i trent'uno anni d'età,
non l'abbia avvicinato
e si sia
disinteressato dell' in- segnamento del giovane
maestro di forse
due o tre
anni più anziano. Un confronto
dei ritratti dell'astronomo polacco,
e spe- cialmente
dell'autoritratto, col giovane
matematico seduto e intento
a tracciare un
disegno nel quadro
del Giorgione «
i tre filosofi »,
m' ha indotto
a credere che
questo giovane sia pro- prio Copernico, studente
a Padova. Volgendo
le spalle a To-
lomeo e all'arabo Albategni,
egli è rappresentato
dal pittore di Castelfranco
Veneto, al centro
ideale e prospettico
del quadro, nell'atto di
scrutare la natura
che ha dinanzi
e di volgere le
spalle ad un
sapere che stava
per tramontare. Il 20
aprile 1506 Pietro
Trapolin era a
Venezia, presente alle solenni
esequie fatte a
Marco Antonio Sabellico
nella chiesa di S.
Stefano. Gian Battista
Egnazio fece l'orazione
funebre dell'amico umanista deceduto
(M. Sanuto, Vili,
329). Il Pomponazzi, circondato
dalla stima e
dall'affetto dei suoi alunni
e dei colleghi,
il 15 ottobre
1504, aveva rinnovato
l' in- gaggio « per tres
annos de firmo
et unum de
respectu » ;
e in quell'occasione il
Senato gli aveva
portato lo stipendio
dai 180 ai 250
fiorini, motivando l'aumento
con la singolare
dot- trina del filosofo e
coi bisogni della
numerosa famiglia da À mantenere (Venezia,
Arch. di Stato,
Sen. terra, Reg.
15, f. 37r). Quanto
alla numerosa famiglia,
sappiamo che sotto
Natale del 1500 egli
s' era sposato
con Cornelia di
Francesco Dondi dell' Orologio,
dalla quale aveva
avuto una o
forse già due figliolette. Per
parlare di numerosa famiglia,
bisogna pensare che egli
avesse a carico
altri parenti. Tanto
più che lo
stesso motivo del bisogno
in cui versava
per la famiglia
numerosa sarà addotto dal Peretto
per chiedere un
nuovo aumento di lì
a tre anni,
in occasione del
rinnovo dell' ingaggio.
Lo sti- pendio questa volta
gli fu portato
a 370 fiorini,
e il manto- vano s'impegnò «per
annos septem proximos
» (Ib., f.
185V). Le cose dello
Studio patavino procedevano
dunque a gontie vele,
e quando, nel
novembre 1506, ad
Alessandro Achillini
costretto a fuggire
da Bologna, per
la caduta dei
Bentivoglio dei quali era
fautore, fu offerta
la cattedra di
filosofia natu- rale, « secundo
loco », che
era stata del
Fracanzano, morto, come abbiamo
visto il 28
aprile ; si
che il bolognese
si trovò ad essere
per un biennio
concorrente del Pomponazzi.
E in di- sputa tra
loro al circolo
dei filosofi, al
portico pretorio, fra il
palazzo della ragione
e il Bò,
li ritrasse ambedue
al vivo Paolo Giovio,
il quale nel
1506 era alunno
del Peretto, e
a Padova rimase fino
alla primavera del
1507, quando fece
ritorno a Pavia. Ma la
serenità che Bologna
invidiava a Padova
non durò a lungo
e un violento
uragano si abbatté
su questa, nel
1509, quando, per il
furore « totius
fere Europae virium
in Rem Venetam conspirantium
», come con
bella frase si
legge sulla tomba del
doge Loredan nella
chiesa di San
Zane e Polo, Venezia
corse pericolo mortale
e le milizie
imperiali occupa- rono
Padova il 6
giugno. Sembra che
proprio lo stesso
giorno dell'entrata dei tedeschi
in Padova, morisse,
non saprei in quali
circostanze, Pietro Trapolin,
in età di
58 anni e
venti giorni. E fu
certo ventura per
lui che, giacendo
nella pace del chiostro
di S. Francesco,
ov'era la tomba
della famiglia Tra- pohna
(nella stessa chiesa
riposa il Roccabonella), non
ebbe a vedere lo
scempio della città,
il saccheggio della
sua casa e la
sciagura dei suoi
congiunti ed amici.
All'avvicinarsi del nemico, il
5 giugno, i
rettori della città
e il consiglio
cittadino, formato di 16
deputati, discussero a
lungo se arrendersi
o resistere. « Et
parlò Alberto Trapolin,
che si voleno
tenir per la Signoria,
e non si
dar al re
di romani, si
non vedono mazor exercito eh'
1 nostro a
preso Padoa, ben
non voleno danno, ni
el nostro campo
entri in Padoa
», dice M.
Sanuto. (Vili, 352). Ma le
difese veneziane eran
deboli, e Padova
cadde. Vi fu un
principio di saccheggio,
ma una grida
rassicurò i cittadini; fu
formato un governo
provvisorio di otto
notabili padovani, e l'ordine
fu ristabilito (M.
Sanudo, Vili, 366-7).
Di questo governo fece
parte anche Alberto
Trapolin, Bertuzzi Baga- roto,
lettore di diritto
canonico e Lodovico
Conte. Qualche settimana dopo
il numero di
otto deputati fu
portato a sedici. Insieme ai
predetti fece parte
di questo nuovo
governo prov- visorio anche un
altro dottore padovano,
Giacomo da Lion (M.
Sanudo, Ih., 439). L'ordine relativo
che regnava in
Padova consentì che i
professori dello Studio
continuassero a svolgere
i loro corsi e
a fare esami.
Così mi risulta
che il Pomponazzi
il 2 luglio
1509 era promotore nel
dottorato di Alvise
da Brescia (Arch.
ant. dell' Univ., Sacro
Collegio dei medici
e filosofi, n.
220, f. 30 v). Ed
altri esami si
tennero anche nei
giorni successivi. Ma i
veneziani mal si
rassegnavano alla perdita
di Padova, anche perché
sapevano che non
pochi padovani non
se la pren- devano poi tanto
calda per Venezia,
e ricordavano che
nel tentativodi Marsilio da
Carrara, del 1435,
non pochi l'avevano favorito, e
la Signoria per
dare un esempio
memorabile, aveva fatto impiccare
nel 1437 una
sessantina di persone,
fra le quali l'avo
di Alberto e
di Pietro Trapolin.
Perciò si affret- tarono a ricuperare
la città, affidando
l' impresa ad Andrea Gritti. Entrate
in Padova, il
17 luglio, le
milizie veneziane si dettero
a saccheggiare, nei
giorni seguenti, le
case dei fratelli Trapolin e
di altri padovani,
compromessi o sospetti,
mentre Alberto, col fratello
Roberto e con
Ludovico Conte, s'asser- ragliò nel palazzo
del Capitanio, ove
fatto prigione fu
mandato a Venezia, coi
suoi compagni, per
render conto del
suo con- tegno verso la
Signoria. È appunto
col ritorno dei
veneziani che cominciarono i
maggiori guai per
Padova. Nell'elenco delle case
saccheggiate che menziona
M. Sanudo (Vili,
523, 453), figurano quelle
dei fratelli Alberto,
Roberto e Nicolò Trapolin, e
quella di Francesco
loro nipote, e
figlio del u
quon- m dam maistro
Pietro, medico ».
La stessa casa
di maestro Pietro, ove
viveva la vedova
Maria, coi figli
Giulio, Alessandro ed Alba,
non fu risparmiata,
e pare che
in questo saccheggio andassero distrutti
per intero le
opere manoscritte e
i corsi di lezioni
da lui tenute.
M. Sanudo poi
e' informa (IX,
52) che il 14
agosto anche «
Julio Trapolin, fo
fiol di missier
Piero », fu fatto
prigioniero e dal
capitanio di Padova
spedito a Ve- nezia con
altri 14 compagni
per esser giudicato. Ma
anche ripresa dai
Veneziani, Padova rimaneva
sotto la minaccia degli
imperiali che ne
occupavano i dintorni
imme- diati e alla fine
di settembre tentarono
di fare di
nuovo irru- zione in città.
Soltanto ai primi
di ottobre i
tedeschi levarnoo il campo. Intanto l'università
aveva ricevuto un
fiero colpo: maestri e
studenti nel mese
di luglio ed
agosto cominciarono a
prendere il largo, e
taluni non vi
ritornarono piìi, altri
soltanto più tardi. Fra
quelli che non
ritornarono, è il
Peretto Mantovano,
nonostante l' ingaggio per
sette anni preso
da lui un
anno prima. A dir
il vero, il 3 aprile
gli era morta
la moglie ed era
rimasto con due bimbette ancora
in tenera età.
Nel luglio o nell'agosto,
forse dopo essersi
in fretta riammogliato
con Ludovica del nobile
Pietro da Montagnana,
cittadino pado- vano che ritengo
abitasse nella contrada
di S. Lucia,
lasciò Padova con la
famiglia, forse per
riparare a Mantova,
portando con sé il
ricordo dello Studio
patavino, delle battaglie chev'avevacombattuto, degli
alunni che a
lungo gli attestarono la loro
devozione, primi fra
tutti Lazzaro Bonamico
da Bas- sano, Gaspare
e Marcantonio Contarini,
e dei colleghi,
e in particolare di
quello che era
stato suo maestro
e poi caro amico,
Pietro Trapolin. Invece
Marcantonio Zimara da S.
Pietro in Galatina
già alunno e
poi fiero avversario
del Pom- ponazzi, dopo
aver girovagato in
patria, a Salerno
e a Napoli, vi
fece ritorno per
tre anni solo
nel 1525. Non è
esatto per altro
che lo Studio
venisse chiuso per
otto anni, fino al
1517, poiché dagli
Ada graduimi dell'Archivio della Curia
Vescovile risulta che,
per esempio, 1'
8 maggio 15 io fece
il dottorato in
artibiis Matteo Binno
de' Tomasi figlio di
Maesto Jacopo chirurgo
veneziano, ed ebbe
le insegne da Nicolò
Genua (voi. 49, f. 4V)
; il 2
dicembre 1511 s'addottorò ugualmente in
artibus Girolamo Oldoino,
e fra i
testimoni era Marcantonio Genua
figlio del dottore
Nicolò (f . 84V) ;
il 13
ottobre 1512 ebbe
le insegne di dottore pure
in artibus il Magnifico
e generoso Francesco
del fu Chiarissimo
Ga- briele Morosini,
promotore lo stesso
Nicolò Genua, e
testi- moni i Magnifici
Giambattista Spinelli partenopeo,
dottore.] cavaliere, conte di
Cariato e oratore
massimo di Sua
Maestà Cattolica, Pietro Duodo,
podestà di Padova,
Alvise Emo, Capitanio, nonché
i Reverendi Leonardo
Contarini, dottore in artibus,
in teologia e
in decreti, e
Girolamo Giustinian,
canonico patavino (f.
I2ir). Ed altri
dottorati ebbero luogo,, come
può vedersi negli
stessi Ada della
Curia Vescovile e in
quelli più volte
ricordati dell'Archivio antico
dell' Uni- versità, per quanto
lacunosi. Certo è,
per altro, che
la at- tività dello Studio,
sia per il
minor numero degli
alunni, sia per scarsità
di buoni maestri,
fu assai ridotta
fino alla ripresa del
1518. Nel quale
anno, al io
giugno (voi. 52,
senza numero dei fogh),
troviamo il dottorato
in artibus di
Spero- nello figlio dello
Spettabile ed esimio
dottore Bernardino Speroni, nobile
padovano, presenti come
testimoni i Ma- gnifici Paolo Donato,
podestà, e Marcantonio
Loredan, de- gnissimo
capitanio, non che
i tre nobili
veneziani Almorò Donato, Pietro
Venier, Giacomo Loredan. Dopo la
deportazione a Venezia
dei fratelli Alberto
e Ro- berto Trapolin, del
loro nipote Giulio,
lìglio di Pietro,
e degli altri che
s'erano compromessi nei
fatti di Padova,
« più di 100
per sospetto, oltra
li ritenuti» (M.
Sanudo, IX, 73),
fu fatto il processo
a carico di
Alberto Trapolin «
fratello di misier Piero
dotor excellentissimo, el qual Alberto
era di XVI al
governo di Padoa,
homo di gran
inzegno, et anche
suo avo fo apicato
a Padoa a
tempo di la
novità di misier
Marsilio di Carrara dil
1437 », di
Lodovico Conte, «
fato cavalier per r
imperator presente novitev
», di Bertuzi
Bagaroto, « dotor, qual
lezeva publice in
iure canonico a
Padova et havia
300 ducati a l'anno
di la Signoria,
era richo e
famoso », e
di Gia- como da Lion
« dotor, el
qual fé' la
oration a l' imperator (cioè poco
dopo il 6
giugno; l'orazione è
riportata da M. Sa-
nudo, Vili, 468-469) quando
se deteno padoani,
ne la qual dice
gran mal de'
venitiani ». Il
Consiglio dei X
con la Zonta fu
implacabile con questi
quattro padovani, che
vennero im- piccati il sabato,
1° dicembre 1509.
M. Sanudo, IX,
358-359, che ci dà
alcuni particolari della
loro impiccagione, e'
informa anche che i
loro beni furono
confiscati, e aggiunge:
« Restane a spazar
li altri padoani
»! Della fine d'Alberto
Trapolin e dei
suoi compagni parla anche
il vicentino Luigi
da Porto, che
assistè al supplizio {Lettere storiche....
dall'anno i^og al
1528.... per cura
di Bressan. Firenze,
Le Monnier, 1857,
lettera ad Antonio
Sa- vorgnan, del 18
dicembre 1509, pp.
147-153). Del Trapolin dice
« che era
profondissimo filosofo e
teneva alquanto del- l'epicureo », sì
che « pareva
che non accettasse
con tanta ri- verenza, né con
tanto desìo le
cose sante dette
da' religiosi con quanto
gli altri facevano;
ma taciturno, ovvero
dicendo alcuna fiera parola
contro i Viniziani,
aspettava l'ora del fine
suo». E dinanzi
alle forche, «voltato
messer Bertucci al Trapelino
disse: ' Ecco
il legno della
nostra croce '.
' Ecco — rispose
egli — il
luogo dove la
nostra innocente vita
da una ingiusta morte
sarà terminata ' ».
Pare invece che
Roberto e Nicolò,
altri fratelli di
Pietro, e il figlio
di questo, Giulio,
se la cavassero
a buon mercato. Poiché di
Nicolò ci vien
narrato (Papadopoli, Hist. gymnasii patav.
t. II, 210,
n. 85) che
andò in Germania
al seguito dell' Imperatore
Massimiliano, da cui
ebbe onori, e quindi
si mise al
servizio di Carlo
V, prese parte
all'espu- gnazione di
Tunisi, della quale
scrisse la storia;
infine si ricon- ciliò, già vecchio,
con Venezia, e potè ritornare
a Padova, ove morì a 94
anni nel 1559.
Di Roberto Trapolin
consta (Padova, Arch. di
Stato, Estimo 1518,
voi. 288 (289),
Polizze della Città, Polizza
49, presentata il
29 sett. 1518)
che nel 15 18 si
trovava ad « bavere 5
fioli, 4 menori,
de li quali.... tre
fiole da maridare
». e che
egli era « confinato in
Venetia, dove sto — egli diceva
— cum spesa,
né posso veder
li fatti miei et
convegno pagar uno
fator et ogni
cosa me va
in ruina ». Il
31 luglio 1543
egli era già
morto poiché, Trapolin
de' Tra- polin suo figlio
presenta a nome
degli eredi, a
questa data, la prescritta
dichiarazione all'ufficio dell'estimo.
Di Giulio con- sta che
nell'ottobre 1515, insiem.e
al fratello Alessandro,
ebbe procura dalla madre.
Maria del fu
Francesco de' RoselH,
nella causa che questa
aveva intentato per
l'eredità paterna. Gli stessi
Giuho e Alessandro
compaiono ancora insieme
alla madre nel contratto
di nozze, del
7 giugno 1518,
della loro sorella Alba
col nobile padovano
Gaspare del fu
Daniele Buzacarini, abitante nella
contrada di S.
Agnese (Padova, Arch. di
Stato, Sez. notar.,
Not. Alessandro Bragadin,
voi 1391, f. 48ir).
Ma Giulio morì
a 44 anni
nel 1529, cioè
l'anno stesso in cui
sarebbe morto l'altro
fratello, Antonio, secondo
il Fac- ciolati, e
fu sepolto a
S. Francesco, insieme
al padre, prima che
la tomba di
famiglia dei Trapolin
divenisse proprietà dei 176
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI nobili De Lazzara,
figli di Marina
Trapolina, che non
è detto in quali
relazioni di parentela
fosse col filosofo
e i suoi
eredi (lac. Salomonio, Urbis
patav. Inscriptiones, Padova,
1701, p. 343, n.
102). Alessandro invece
era ancora vivo
nel 1548, quando, insieme
a M. Antonio
e Pietro, nipoti
del filosofo, provvide a far trasportare
nella chiesa dei
Carmini le ossa del
padre e della
madre e di
altri suoi maggiori,
in una tomba che
avesse da accogliere
lui e tutti
i suoi, come
si legge nel- r
iscrizione riportata dagli
storici di Padova
(PapadopoU, Hist. gymnasii patav.,
I, p. 293,
n. 30); anzi,
dalla già citata Polizza 49
dell' Estimo del
1518 risulta ancor
vivo il 3 mag-
gio 1569. E Francesco Trapolin,
che sull'esempio paterno insegnò
a Padova prima la
logica, indi la
filosofia naturale, e
di poi la medicina
? I documenti
padovani tacciono di
lui, dopo il
sac- cheggio della sua casa
nel luglio 1509.
Può darsi ci
sia qualcosa di vero
nella notizia raccolta
anche dal Portenari,
Della jelic. di Padova,
p. 251, che
egli andasse a
legger medicina a
Firenze. G. Cesare Scaligero,
De subtilitate, CLII,
dist. i, pretende
di sapere che «
Francesco Trapolin, precettore
di Pietro Pom- ponazzi,
che anche un'altra
volta lo Scaligero
chiama suo precettore, morì
per aver mangiato
un intingolo ove
la do- mestica aveva messo
della cicuta invece
di prezzemolo. Se non
che precettore del
Pomponazzi non fu
Francesco Trapolin, ma Pietro,
il padre. Lo
Scahgero, o meglio
Giulio di Benedetto Bordone, addottorato
in artihus a
Padova il 22
giugno 1519, mostra, anche
per questa confusione,
di riferire dopo
molti anni una voce
raccolta per sentito
dire. Certo è
invece, per l'attestazione dell'Estimo
citato (Polizza 51),
che la «
nobele Madonna Maria Trapolina
» era, nel
settembre 1518, « tu-
trize et
gubernatrice de i
fioli del q.
messer Francesco Tra- polin, q. m.
piero.... )>. A
questa data dunque
Francesco era morto. E
forse suo figlio,
se non di
Alessandro o di
Giulio, potrebbe essere quel
Pietro Trapolin che
figura come nipote nell'epigrafe sepolcrale
dei Carmeni e
fa denuncia dei
suoi beni all'ufficio dell'
Estimo il 30
marzo 1569 (Polizza
52, f. 7). Costui
è sicuramente l'autore
delle 21 lettere
originaH scritte fra il
7 aprile 1556
e il 2
marzo 1574, a
Gian Francesco Mus- sato nel
Ms. 619, 2,
della Biblioteca del Seminario di
Padova. A questo figliuolo
Pietro Trapolin aveva
trasmesso, col con- ferimento delle insegne
dottorali in filosofia,
e in medicina
il meglio della sua
arte, ed egli
avrebbe dovuto custodirne
l'ere- dità spirituale. Invece l'oblio
colse il figlio
anche prima del padre.
Poiché se di
quello resta appena
il nome nelle
carte sbiadite della Curia
Vescovile e dell'Archivio
antico dell' Uni- versità di Padova,
di questo ci
son pervenuti almeno
i pochi frammenti menzionati
in principio, insieme
alla gloria d'es- sere stato ricordato
dal suo grande
discepolo ed amico
Pietro Pomponazzi come suo
precettore (Prologo al De incantatio- nihiis) :
« Dicisque ulterius
te quandam responsionem
alias a Petro Therapolino
patavo, nostro communi
praeceptore, audivisse, quam ipse
Alberto ascribebat.... ». Queste
parole sono rivolte
a Ludovico Panizza, cui
il Pe- retto indirizzava
la sua opera;
sebbene dalle stampe
non ap- paia, è attestato
però dal codice
Ambrosiano di essa.
Ludo- vico Panizza,
mantovano, era studente
a Padova negli
ultimi anni del Quattrocento
e nei primi
del Cinquecento; e nel
voi. 47,
più volte citato,
di quella Curia
Vescovile (f. 278V),
c'è anche il verbale
del dottorato «
in artibus et
Medicinis D. M.ri Ludovici
panicia Mantuani, filij
D. Dominici de
panici] s », ov' è
detto che dell'uno
e dell'altro grado
accademico « habuit insignia a
D. M.ro Petro
trapolino ». Fra
i testimoni figura al
primo posto Pietro
Pomponazzi, « artium
doctor, ordina- riam philosophiam legens
». Il Paniza
è autore di
tre opere a stampa:
di una Qnestio
de phlebotomiis fiendis
(Venetiis, per Bernardinum Benalium,
M. D. XXXII),
dedicata al duca Federico
Gonzaga, e di
un Commentarium de
venae sectione per sex
egregios et praeclaros
iudices diindicatum, cui
si trova ag- giunto dello stesso
autore il Lihellus
de minoratione ex
visce- ribtts.... ad Herndem
Gonzagam Principem iustissimum
et Cardinalem amplissinitmi (Venetiis,
MDXLV). Quest'ultimo volume
ha in principio
un bel ritratto
dell'autore e una
ta- vola raffigurante i sei
medici e filosofi
in atto di
giudicare e approvare la
sua opera. Nella
Qnestio de phlebotomiis , scritta contro un
chiarissimo medico del
quale non è
indicato il nome, accade
al Panizza di
ricordare l'antico maestro
che gli aveva conferite le
insegne dottorali. Accennando
ad Avicenna che fu
il migliore seguace
d'Aristotele, dal quale
discorda solo «in paucissimis
admodum rebus», egli
continua (f. e. 4r;
Sectio II, cap.
7): Ideo Trapolinus, preceptor
meiis, sue etatis
philosophorum ac medicorum gloria,
autoritate Girardi bolderii
Veronensis, 12 lyS
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI hanc dicebat profitentibus
arteni: ' Insequimini
Avicennam, primo;
insequimini Avicennam, secundo;
insequimini Avicen- nam,
tertio !
'. E un po'
più giù (f.
g. 2v cap.
24), a proposito
d'un'argo- mentazione « subtilissima
et tota.... metaphisicalis »,
osserva: Ex quo non
mirum si medici
ista non intellexere,
artifices sensitivi
grossique cum sint;
stat enim in
abstractis a materia.... Sed ex
sententia perspicui speculatoris
Petri trapolini, artifices huius artis
res tales e
suis expellere mentibus
tenentur, cum me- dicina sit de
immersis in materia
et quandoque feculenta
et turpi. Ma se
il Paniza ricorda
il Trapolin come
insigne medico, M. Antonio
Genua, figlio di
Nicolò che del
Trapolin era stato collega
per molti anni,
continuò a ricordarlo
(sicuramente l'aveva conosciuto da
ragazzo) anche come
filosofo di tendenze moderatamente averroistiche, insieme
al Pomponazzi, nel commento
al De anima,
stampato postumo (a
Venezia nel 1576), ma
composto almeno un
ventennio prima. Altre notizie
su questo maestro,
amico e collega
del Peretto Mantovano non
sono riuscito a
rintracciare, ed ho
riunite quelle che ho
trovato per chi,
come dicevo e
come mi auguro, vorrà
intraprendere più ampie
ricerche sullo Studio
patavino nel Rinascimento. Intanto
son lieto di
potere annunziare che altre
notizie e documenti
sulla famiglia Trapolin,
coinvolta nelle vicende di
Padova al momento
della guerra per la lega di
Cambrai, il lettore
potrà trovare nella
A Criticai Edition of
the « Lettere
Storiche » 0/
Litigi da Porto,
a cura di
Cecil H. Clough, in
corso di stampa
presso 1' University
Press di Oxford. vili I QU
OLI BETA DE
INTELLIGENTIIS DI ALESSANDRO ACHILLINI
* I. - Se
a Padova il decreto episcopale
del 6 maggio
1489, vietava di disputare
« quovis quaesito
colore », sotto
qualsiasi pretesto, della dottrina
averroistica dell' intelletto,
meno che per combatterla,
e maestro Nicoletto
da Chieti e
il suo discepolo Agostino
Nifo da Sessa
si affrettavano a
recitare la loro palinodia,
e la penna
a impugnare l'averroismo
brandiva anche lo scotista
francescano Antonio Trombetta
i, a Bologna, sotto la
liberale signoria dei
Bentivoglio, Alessandro Achillini potè liberamente
discutere, al capitolo
generale dei francescani tenuto in
questa città, sotto
il generalato di
Francesco San- * Dal
voi. Sigieri di
Brab. nel pens.
del Rinasc. Ital.,
cit., pp. 45-90. I
II francescano frate
Antonio Trombetta, ordinario
di Metafìsica invia Scoti
a Padova, aveva
scritto, prima del
Vernia, un Tvactatiis
de humana- ruiìi animarmn
plurificatioiie coìitra Averroistas,
che sarà poi
pubblicato a Venezia, per
Bonetum Locatellum, nel
1498, col quale
scendeva in lizza
in difesa della proibizione
del vescovo P.
Barozzi. Il Wadding,
Scriptoves Ordinis Minornni, Roma,
1906, p. 30,
e' informa che
taluni, anzi che col
nome volgare di
Trombeta o Trombetta,
preferivano « cultu
quodam latino » di
chiamarlo con quello
di Tubefa; e
Antonio Tubefa è
chiamato anche
nell'epitaffio sepolcrale nella
chiesa di S.
Antonio a Padova, che
il Wadding riporta.
Sul finire delle
Questione s de pliiritate
etc, cominciate nel settembre
1492 e pubblicate
nel 1499 (v.
sopra, p. 108), il
Vernia scriveva (f.
92) : «
Si quis vero,
per resolutionem ad immediata
et per divisionem
ad minima, argumentationes contra Averroym, in
hoc quinto [commento] philosophice
discipline depra- vatorem, videre
desiderat, videat, opus
contra ipsum reverendi
sacre pagine magistri Antoni]
Trombetta, philosophi integerrimi
et theologi excellentissimi, provincie
sancti Antoni] Patavini
ministri meritissimi. Nam frustra
visum est mihi
tangere que ab
eo mihi amicissimo
sunt optime declarata ».
E il Trombetta,
che è il
primo dei tre
revisori del- l'opera del \
ernia, rende testimonianza, a
sua volta, al
sapere del col- lega e
alla fede di
lui, si da
procacciargli l'approvazione del
sospettoso Barozzi. l8o
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI sone, il primo
giugno 1494, presenti
forse il Nifo
e Giovanni Pico della
Mirandola, i suoi
Quoliheta de intelligentiis ^, in
difesa della sua
interpretazione sigieriana della
dottrina aver- roistica, portata
alcuni anni più
tardi a Padova
dal suo «
fìdus Achates », Tiberio
Bacilieri, e da
lui stesso, e
a Padova pro- fessata da Geronimo
Taiapietra e da
Lorenzo Venier 3,
quando ormai il Nifo,
che n'era stato
propugnatore fin dai
primi anni del suo
insegnamento padovano -,
l'aveva apertamente ri- pudiata. In quest'opera
l'Achillini è sigieriano
da principio alla fine,
sebbene egli, secondo
un costume molto
diffuso, non faccia mai
il nome dell'averroista brabantino
né d'alcun altro, tranne
si tratti di
Aristotele o d'Averroè
o d'altra auto- rità pari a
queste. E, cosa
notevole, le opere
di Sigieri cui
egli attinge, sono quelle
stesse dalle quali
il Nifo prende
le citazioni che ho
riferito nel volume
su Sigieri di
Brahante nel pensiero del
Rinascimento Italiano: il
che si presterebbe
a varie con- getture. Come sappiamo,
le tesi difese
da Sigieri nel
suo trattato De intellectu, scritto
in risposta al
De imitate intellectiis
di S. Tom- maso,
erano queste: i) r
intelletto possibile è,
in sé stesso,
l' infima delle so- stanze separate, ed
è unico per
tutta la specie
umana 4; 2) l'anima
intellettiva dell'uomo risulta
dall'unione del- l'
intelletto possibile, separato
ed eterno, colla
«cogitativa» che 2 Alexandri
Achillini bononiensis de
intelligentiis quolibeta in quibus
quid commenta[for] et
Aristoteles senserint et
in quo a
veritate deviaverint
continetur. Anno domini
Mcccclxxxxiiij Kalendis iuniis
in capitulo generali minorum
edita et impressa
Bononie impensis Bene- dicti
Hectoris [Faelli] Bononiensis,
illustrissimo Ioanne secundo
Ben- tivolo reipublice Bononiensis
habenas felicitar moderante.
La seconda edizione, fatta
presso lo stesso
editore Faelli, porta
la data del
5 marzo 1506, ed
è dedicata al
conte Annibale Rangoni,
che giovinetto aveva udito
l'Achillini disputare intorno
agli argomenti trattati
nel libro ed aveva
preso attiva parte
alle dispute. Intorno
al Rangoni, cfr.
G. Ti- RABOSCHi, Biblioteca
Modenese, t. IV,
1783, pp. 252-256. 3
Per il Taiapietra,
vedi più oltre
il saggio X.
Per Lorenzo Venier, allievo del
Bacilieri, è da
vedere il volume
di Nicolò Bonet,
Metaphys., naturai. Philos., Praedicam.,
necnon Theol. natur.
Recogn. ... per
magnif. dom. Laurentium Venerium....
Venetiis, Eredi di
Ottav. Scoto, 1505, con
lettera del Bacilieri
al Venier, e
dedica di questo
al doge Leonardo Loredan. Le note marginali
del Venier risentono
dell' insegnamento del suo
maestro bolognese. 4 Nifo,
De intellectu, I,
tr. 3, e.
18; tr. 4,
e. io; II,
II, tr. 2,
e. 11; De anime
beatit., I, comm.
53; cfr. Sigieri
ìiel pens. è la
più alta delle
facoltà di cui
sia dotata l'anima
sensitiva dei singoli 5 ;
3) in
questa unione coi
singoli l' intelletto, uno
in sé, acquista un'esistenza
individuale e molteplice,
pari al numero dei
singoli ^ ; 4)
mercé questa unione,
l'anima intellettiva può
dirsi forma sostanziale «inerente»
all'uomo, e non
soltanto forma «assistente»; sì
che da essa
l'uomo trae il
suo essere specifico
di animale ragionevole 7 ;
5) r
intelletto possibile è
pura potenza priva
di ogni atto sostanziale; soltanto
grazie all'azione dell'intelletto agente la
sua potenza è
gradualmente attuata 8; 6)
r intelletto agente
è Dio ;
ma esso può
dirsi parte della anima
umana in quanto
concorre all'atto dell'
intendere umano e alla
fine dello sviluppo
intellettuale dell'uomo s'unisce all'intelletto possibile
come forma 9; 7)
r intelletto umano
può arrivare a
conoscere le sostanze separate e
Dio per unione
intenzionale colla loro
essenza '". Nel «
libello » De
felicitate, poi, l'averroista
del Brabante aggiungeva quest'altre tesi: 8)
nell'atto intellettuale col
quale l' intelletto possibile intende nella
sua essenza V
intelletto agente, cioè
Dio, con- siste formalmente la
suprema felicità dell'uomo
in questa vita"
; 9) al pari
dell' intelletto umano,
anche le altre
intelli- genze separate
conseguono la loro
beatitudine nell'atto col quale
intendono l'essenza divina
i- ; 5 NiFO,
De iutell., I,
tr. 3, e.
18; De anima,
comm. ad III,
t. e. 5;. cfr.
Sigieri, pp. 15-ig. 6
NiFO, De intell.,
I, 3, e.
18 e 26; De a>iima,
comm. ad III,
t. e. 5: cfr.
Sigieri, pp. 15-20. 7
NiFO, De ititeli.,
l, tr. 2,
e. 8; tr.
3, e. 18
e 26; De
anima, comm. ad III,
t. e. 5;
cfr. Sigieri, pp.
15-20. 8 NiFO, De
intell., I, tr.
3, e. 18; tr. 4,
e. io; De
anima, collect. ad III,
t. e. 14; cfr. Sigieri,
De anima intell.,
IX (Mandonnet, Sig. de
Brabant et l'averr.
latin, llème partie,
Louvain, 1908, p.
171), e la quarta
delle sei Qitaestiones
naturales edite dallo
Stegmùller, in Rech. de
tìiéol. anc. et
méd., III, 1931,
pp. 179-180. Cfr.
Sigieri, pp. 17,
21, 28. Vedasi anche
Giorn. Crit., XX,
1939, pp. 467-471. 9
NiFO, De intell.,
I, tr. 4,
e. io; II,
tr. 2, e.
17; cfr. Sigieri,
pp. 24-26. 10 NiFO,
De intell., II,
tr. 2, e.
11; De anime
beatit., I, comm.
53; V. Sigieri, p.
21. " NiFO, De
intell., II, tr.
2, e. 2; De anime
beat., II, comm.
21; V. Sigieri, pp.
24-27. 12 NiFO, De
intell., II, tr.
2, e. 2
e 17; De
anime beatit., II,
comm. 21; De anima,
collect. ad III,
t. e. 14; v. Sigieri.] o)
sì per r
intelletto umano, sì
per le altre
intelligenze separate,
«intellectio qua Deus
intelligitur est ipse
Deus» '3. Ora tutte queste
tesi son difese
dall' Achillini nei suoi
Qtioli- heta de intelligentiis; anzi
la massima parte
di quest'opera del maestro
bolognese è dedicata
alla trattazione di
questi dieci punti svolti
negli scritti di
Sigieri, dei quali
il Nifo ci
ha ri- velato l'esistenza; il
che m' ha
recato, quando ho
potuto ren- dermene conto, non
poca sorpresa. La trattazione
dell'Achillini verte intorno
a questo problema fondamentale :
« Utrum latitudo
intellectuum sit uniformiter difformis ».
Per intendere l'esatto signiiìcato
di questo pro- blema, giova ricordare
alcune cose. È
noto che Anassagora,
a spiegare l'origine del
movimento fisico che
separa i semi
delle cose dal \ny\La.
nel quale eran
tutti confusi, e
per dar ragione dell'ordine che
s'osserva nella natura,
sentì il bisogno
di porre una mente
ordinatrice, «non mista
perché dominasse ))i4. Ma parve
a Platone e
ad Aristotele che,
pur avendo affer- mato un così
operoso principio, Anassagora
non ne traesse tutto
il vantaggio che
poteva e non
gli attribuisse quella causalità che
gli sarebbe spettata
nell'ordinamento delle cose. Perciò,
il primo ad
ogni specie di
cose nel mondo
sensibile fece corrispondere una
propria idea nel
mondo del pensiero; ed
il secondo pose
tante menti separate
quanti, a suo
modo di vedere, sono
i movimenti celesti.
Anzi che un
solo intelletto, abbiamo così
per Aristotele una
gerarchia d' intelhgenze, com- prese fra due
termini estremi: l'intelletto
umano in basso,
e la mente del
primo Motore immobile,
puro pensiero, al
vertice. Come le idee
dei generi e
delle specie hanno
una maggiore o minore
estensione, così questi
intelletti hanno una
maggiore o minore capacità
d' intendere, in rapporto
alla funzione che ad
essi è riservata
come motori; poiché
non va mai
dimenti- cato che solo per
mezzo del movimento
Aristotele, al pari
di Anassagora, era giunto
ad affermare l'esistenza
d'una prima Mente motrice
dell'universo e di
altre menti intermedie
fra quella e il
mondo della generazione,
aventi l'ufficio di
adattare r impulso che
viene dal primo
Motore, a particolari
fini su- bordinati al fine
supremo. Perciò la
prima Mente è
intelli- genza al massimo grado,
mentre gli altri
intelletti, giù giù ^3
Luoghi cit. nella
nota preced. 14 ARisT.,
De anima, di
cielo in cielo,
fino all' intelletto
umano, possiedono una capacità
d' intendere sempre più
limitata. Rappresentandosi r intelligenza
a guisa d'una
qualità, per esempio,
d'un colore, di cui
s' hanno molti
gradi d' intensità, da
quello piìi cupo a
quello più chiaro,
gli scolastici dal
secolo XIV al
XVI solevano chiamare latitudo
l'estensione compresa fra
la cosa che
pos- siede quella data qualità
nel minimo grado,
e la cosa
che la possiede nel
grado più alto
e più intenso:
perciò la latitudo dell'intelligenza non è altro,
come dice l'Achilliniis, se
non la gerarchia stessa
degl' intelletti, avente
il grado più
basso o più dimesso
nell' intelletto umano,
e il grado
più alto o
più intenso neir intelletto
divino. Chiedersi se
la latitudo degl'
intelletti sia « uniformiter
difformis », significa
per lui domandarsi
se le varie intelligenze
differiscon fra loro
per gradi uguali
op- pure no 16. Ma
per risolvere siffatto
problema, è necessario vedere qual' è
la natura propria
dei singoli intelletti
compresi nella 15 «
Latitudo intellectuum est
ipsi intellectus ordinati
secundum quod ex se
sunt ordinabiles ».
De intelligentiis, quol.
I, in Alex.
Achil- LiNi, Bononiensis, philophi
celeberrimi. Opera omnia
in iDium collecta.... cum annotationibus excell.
doctoris Pamphili Montij,
Bononiensis, scholae
Patavinae publici professoris.
Venetijs, apud Hieronymum Scotum, MDXLV,
fol. i, col. i.
A questa edizione
mi riferisco anche nelle
citazioni successive, per
ragioni di comodità. 16
In un trattatello
De latitudinibus formarum,
più volta stampato dal
i486 in poi
sotto il nome
di Nicolò d'Oresme,
si leggono in
principio queste definizioni che
giova tener presenti
: « Latitudo
uniformis est illa que
est eiusdem gradus
per totum ».
« Latitudo difformis
est que non est
eiusdem gradus per
totum ». Questa
si divide come
segue: « Latitudo secundum
se totam difformis
est cuius nulla
pars est uni- formis »; «
latitudo non secundum
se totam difformis
est illa cuius
aliqua pars est uniformis».
La «latitudo uniformiter
difformis» è una
sotto- specie della « latitudo
secundum se totam
difformis », ed
è precisamente quella «
cuius est equalis
excessus graduum Inter
se equaliter distan- tium
» {Tractatus de
latidinibus formarum secundum
Reverendum dodo- rem magistrum
Nicholaum Horen, Venezia,
1505, [fol. 27]).
Sul- l'autore di questo piccolo
trattato, l'eremitano Iacopo
di San Martino, detto anche
Iacopo da Napoli,
il quale riassunse
e schematizzò, non
del tutto fedelmente, un
più ampio trattato
di Nicolò d'Oresme,
come sul sommento di
Biagio Pelicani da
Parma che insegnò
anche a Padova
e a Bologna, e
in generale sul
tentativo di costituire
verso la metà
del sec. XIV un
metodo matematico per
il calcolo dell'
intensità delle qua- lità non
solo corporee ma
anche spirituah, completa
luce ha fatto
la Dott. Anneliese Maier,
nella sua opera
An der Grenze
von Scholastik iind Naturwissenschaft. Roma,
Ediz. di Storia
e Letter., 1952.
pp. 257-384, che è
uno dei più
seri e documentati
contributi allo studio
della filosofia della natura
nel secolo XIV,
condotto con rara
conoscenza delle fonti manoscritte, e
perfetta intelligenza dei
problemi trattati. 184 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI latitudo di
quella perfezione o
qualità che dicesi
intelligenza: e segnatamente se
il primo e
più alto intelletto
sia intelligenza infinita. Nel
qual caso, è
evidente che la
latitudo dell' intelli- genza sarebbe infinita. Occorre pertanto
chiedersi in primo
luogo se il
primo Mo- tore, cioè Dio,
muova l'universo con
vigore o virtù
intensiva- mente infinita, e sia
perciò di vigore
intensivamente infinito. Per intendere
il significato del
qual problema, è
necessario ricordare che l'argomento
principale, col quale
Aristotele era salito a
Dio, è quello
del moto, come
abbiamo già osservato: Dio è
essenzialmente il primo
Motore immobile dell'
universo, è l'universo è
il mosso. Ora
l'universo, per Aristotele
come pei Pitagorici, è
una sfera di
raggio finito, avente
per centro assoluto la
terra e per
limite esterno il
cielo delle stelle
fisse. Finito nella mole,
il mondo si
muove con moto
finito in ve- locità, e
infinito soltanto in
durata, poiché l'universo
è eterno. Dall' intensità
del moto dell'universo
non si può
dunque ar- guire ad un'
infinità intensiva della
virtù o vigore
con cui Dio- muove
il mondo. Ed
infatti Averroè dice
espressamente in più luoghi
17, che v'
è proporzione tra l'
intensità di vigore
nel movente e la velocità del
mosso; sì che un'azione
d'intensità infinita e d' infinito
vigore non può
esser ricevuta in
un corpo di grandezza
finita. Se il
primo Motore movesse
il cielo con virtù
intensivamente infinita, questo
dovrebbe muoversi con velocità
infinita in un
solo istante. S.
Tommaso credette di potersi
sottrarre alla conclusione
cui era giunto
Averroè, con- cedendo che tutto
ciò è vero
dei motori naturali
che mettono nel muovere
tutta la forza
di cui sono
capaci; ma non
è vero dei motori
che agiscono con
intelletto e libera
volontà, qual è Dio.
Il primo Motore
dell'universo, per l'Aquinate,
appunto perché dotato d' intelligenza e
di libero volere,
comunica al mondo quel
tanto di movimento
che meglio si
conviene, in rapporto al
fine che si
propone di raggiungere
e alla capacità limitata del
mosso; ma questo
non implica che
vi sia una proporzione necessaria
tra la quantità
di movimento ricevuta dal
mondo e la
virtù del primo
Motore, l' infinità della
quale può dimostrarsi per
altra via i^. 17
AvERR., Phys., Vili,
comm. 79; De
caelo, II, comm.
38-39, 63, 71 ;
Metaph., XII, 41;
De substantia orbis,
cap. 3. 18 S.
Tommaso, Phys., La
proposizione 29^ delle
219 condannate a
Parigi nel 1277, suona
così: Quod Deus est
infinitae virtutis in
duratione, non in
actione, quia talis infinitas
non est nisi
in corpore finito,
si esset. E di
nuovo la proposizione
62^: Quod Deus est
infinitae virtutis, non
quia facit aliquid
de nihilo, sed quia
continuat motum infinitum
'9. La condanna di
queste due proposizioni
è sicura prova
che, anche su questo
punto, gli averroisti
parigini accettavano r interpretazione che
Averroè aveva dato
del pensiero d'Ari- stotele. Era di
questo avviso anche
Sigieri ? «
De ista quae- stione
», — e'
informa Giovanni di
Jandun -o —
« credunt magni viri
in philosophia, Philosophum
et maxime Commen- tatorem veritati
catholicae adversari ». Che egli
alluda a S. Tommaso
non è possibile,
poiché l'Aquinate scagionava
Ari- stotele da quest'accusa d'opporsi
alla verità della
fede su quest'argomento. Doveva
dunque trattarsi d'averroisti.
Ora « vir magnus
in philosophia »
è titolo che
troviamo dato a Sigieri.
Parrebbe dunque che
Sigieri accettasse l' interpreta- zione averroistica della
dottrina aristotelica in
proposito. Il che è
confermato anche dall'ultima
citazione che del
bra- bantino abbiamo trovato
nel De primi
Moforis infinitate del Nifo.
A quanto ci
fa sapere il
suessano, Sigieri e
Giovanni di Baconthorpe «
petunt.... primum Motorem
esse universi mobilis celestis formam
perficientem et non
constitutam » e
che esso è «
prima illius perfectio
», sì da
potere affermare che,
almeno per accidens, si
muove insieme al
cielo -i. Siccome la
quistione concerneva direttamente
l'onnipotenza di Dio e la sua
trascendenza, s'era accesa
in proposito un'ap- passionata e interminabile
controversia che si
protrasse fin oltre il
secolo XVI, poiché
troppo premeva ai
teologi aver dalla loro
parte Aristotele. Soltanto
quando si comprese
che la filosofìa aristotelica
non era tutta
la filosofia, l'ardore
della controversia cominciò a
venir meno --. 19
Denifle e Chatelain,
Chart. univ. Paris.,
I, 544 sg. -0
Quaestiones super Averrois
sermonem de substantia
orbis, q. 12. -I
V. Sigieri, p. 41.
22 Giovanni di
Jandun, oltre che
nelle Quaestiones sul
De substantia or- bis,
discute il problema
« utrum primum
Principium sit infiniti
vigoris » lS6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI L'Achillini, da
quel buon averroista
ch'egli è, ci dà del problema
questa soluzione: «
Primum, mens Philosophi
fuit deum esse finiti
vigoris. Secundum, ad
oppositum est veritas
». Provata la prima
parte della tesi,
riferisce le obiezioni
« centra Philosophum »,
alle quali fa
seguire la risposta
d'Aristotele. Ma nel far
questo, che è
un procedimento generale
seguito in tutti e
cinque i Quolibeta,
l'Achillini si mette
al riparo da
ogni accusa d'eresia con
questa tipica dichiarazione, fatta
una volta per sempre
: « Ad haec praemitto
quod ubi Philosophum introducam respondentem,
non teneo responsionem
illam»^!. Dopo ben cinque
fitte colonne di
serrate schermaglie dialet- tiche e di
citazioni di testi,
sì da darci
l' impressione che egli la
pensi proprio come
Aristotele e il
suo « ottimo
commen- tore », eccolo a
dichiararci: Sed quia haec
opiiiio in phiribus
errat, ut patet
consideranti ea in quibus
introducitur Philosophus
respondens, ideo, ea di-
missa, pone secundum
dictum principale :
Deus est infiniti
vigoris in essendo et
operando in tempore
et actione. Ex
quo sequitur infinitam esse
intellectuum latitudinem 24. E
le prove di
questa tesi ?
Nessuna, tranne quel
patet, che non è
affatto una prova.
Seguono invece quattro
obiezioni anche nelle Quaestiones
sulla Metafisica (XII,
q. 15) e
in quelle sulla Fisica
(Vili, q. 22) : e
tutte e tre
le volte con
molta ampiezza. Lo
stesso problema è ventilato
da Duns Scoto,
Qiiodl., q. 7,
da Giov. di
Bacon- thorpe. In I
Seni., dist. 44-45,
da Gregorio da
Rimini, In I
Seni., dist. 42, q.
3, a. I,
e più tardi,
ma anche con
maggior copia, dal
Nifo, dall' Achil- lini, da
Tommaso de Vio,
detto il Cardinal
Gaetano, che nella
sua Subti- lissima quaestio
de Dei gloriosi
infinitate intensiva, terminata
a Pavia, il IO
settembre 1499, credo
abbia raggiunto il
primato della prolissità (è
stampata in appendice
al commento tomistico
della Fisica, Ve- nezia, 1573, pp.
316-335), si da
superare lo stesso
Elia del Medigo,
detto altresì Helias Cretensis,
il quale tratta
di quest'argomento nella
sua interminabile De primo
Motore acutissima quaestio
(in appendice alle Quaestiones di
G. di Jandun
sulla Fisica, Venezia,
1552, f. 133,
col. 1-4) e nelle
Annotationes in dictis
Averrois super libros
Physicorum- {ib., fol. 153,
col. 4,-f. 155,
col. 4). Vedasi
anche M. A.
Zimara, Theoremata, 61, e
Fr. Piccolomini, De
caelor. motoribus, 33-35.
Giordano Bruno, nel primo
dialogo De l'infinito,
universo e mondi
(in Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze,
1958,, pp. 387-88), accenna all'
« importantissimo ar- gomento, per il
quale — dice
Elpino — è
stato ridutto Aristotele
a negar la divina
potenza infinita intensivamente ».
La soluzione che
del problema affaccia Filoteo,
il quale dall'
infinità di Dio
ha dedotto r infinità
dell'universo, consiste nel
cambiarne i termini,
si da mo- strarlo definitivamente superato. 23
AcHiLLiNi, De intell.,
ql. contro quest'asserto, alle
quali il filosofo
bolognese fa del
suo meglio per rispondere
in una mezza
colonna, osservando, alla fine,
che « rationes
philosophorum super dictis
ab eis fundantur; ideo
non difficile est
eas solvere» =5.
Ma intanto non le
risolve. A questa che
è la quaestio
principale del primo
Quolibetum. tengon dietro tre
duhia, coi quali
si tende a
precisar meglio il concetto
aristotelico-averroistico di Dio
e a porre
in evidenza taluni postulati
della soluzione data
al problema principale. Il primo
di questi dubbi
consiste nel chiedersi
« utrum tantum deum
deus intelhgat »,
cioè se Dio
conosca soltanto sé
stesso oppure anche le
cose inferiori ad
esso e segnatamente
quelle del mondo sublunare.
Anche su questo
punto l'Achillini è averroista: Respondeo per
duo dieta. Primuni:
opinio Aristotelis est,
quod sic. Secundum: illa
opinio non est
vera -6. La prima affermazione
è provata con
ben sei gruppi
di argo- menti, che in
tutto assommano a
venticinque. La conclusione dei quali
è la seguente: Ex
his de mente
Philosophi habentur quinque;Primum, deus intelligit
se et non
aliud. Et si
dixeris: verum est
recipiendo, sed aliter non -7;
dicam quod non
potest aliquid intelligere
aliud a se, nisi
recipiendo; ideo non
potens recipere, non
potest intel- ligere aliud. Productio
autem vilium non
infert passionem in agente;
ideo quamvis deus
non intelligat vilia,
producere tamen potest. Secundum,
aliae intelligentiae in
actu intelligunt se et
perfectius se et
nihil vilius eis.
Tertium, intellectus possibilis ^5 Ib.,
f. 2, col.
3. 26 Fol. 2,
col. 3. 27 Così
appunto dicevano i
teologi: Dio non
intende le altre
cose di- verse da sé,
nel senso che
la mente divina
sia attuata da
un qualche altro intelligibile
diverso dalla sua
stessa essenza, e
dinanzi al quale esso
sia in potenza;
Dio conosce le
altre cose conoscendo
se stesso, e quindi
senza niente ricevere.
La condanna che
il vescovo di
Parigi, Stefano Tempier, fece
nel 1270 di
tredici proposizioni averroistiche, e che
è il primo
sicuro documento dell'
esistenza d'una corrente
averroi- stica a Parigi,
colpisce queste due
proposizioni: «Quod Deus
non co- gnoscit singularia
« e «
Quod Deus non
cognoscit alia a se >>.
Cfr. De- NiFLE e
Chatelain, I, pp.
486-487. Tuttavia, leggendo
attentamente il commento d'Averroè,
Metaph., XII, comm.
51, e la
Desfriictio de- structionum, disp.
VI, dub. 3-4,
nasce il sospetto
che il suo
pensiero non sia stato
ben compreso. Si
veda in proposito,
Giov. di Baconthorpe, In I
Sent., dist. 35
e 39; M.
A. Zimara, Theoremata.] intelligit se
viliora et nobiliora.
Quartuin, nullus intellectus, nisi forte
possibilis, intelligit aliquid
extra se. Quintum,
deus est simpliciter primo
notum; sed primum
principium complexum, de quo
quarto Metaphysicae, commento
octavo, est notissimum nobis 28. Ai
venticinque argomenti coi
quali è provata
la tesi averroi- stica, se ne
contrappongono sedici ;
ma, mentre i
primi restano insoluti, ai
secondi è data
una soluzione dal
punto di vista averroistico. Dopo
di che l'Achillini
s'affretta a concludere: Sed propter
multa falsa, quae
sequuntur ad hanc
positionem, eam cum auctoritatibus eius
dimittamus. Tenemus igitur
quod Deus cognoscit omnia;
ex quo sequitur
quod non omnis
intellectus intelligens
aliud a se
patitur ab eo.
Sequitur secundo, quod
non omnis intellectio, qua
materialia intelliguntur, est
collecta ab intellectu agente
ex singularibus. Ex his duobus
fundamentis solvuntur rationes philosophorum,
quia super oppositis
corol- lariorum fundantur 29. Il secondo
diibium concerne la
causalità efficiente del
primo Motore. Aristotele 3°
aveva detto che
la prima Intelligenza muove le
intelligenze preposte al
movimento dei singoli
cieli, come bene supremo
da esse conosciuto
e desiderato, ossia come
fine ultimo cui
tutte le cose
tendono. Il problema
che pone il maestro
bolognese, « utrum
prima Forma, quae
est ultimus Finis, sit
primus Motor »,
verte non sull'
attrattiva che Dio esercita
sugli esseri in
quanto « amor
che muove il sole
e le altre
stelle », bensì
sul movimento rotatorio
della prima sfera mobile.
Secondo un' interpretazione del
pensiero d'Aristotele e del
suo commentatore di
Cordova, Dio muove i
cieli soltanto per
mezzo d'un motore
appropriato, cioè d'un'
in- telligenza, la quale è
mossa dal desiderio
di assomigliare al primo
Motore 31. Secondo
un'altra interpretazione, invece, Dio
muove il primo
cielo mobile immediatamente v-
; e poiché il
primo mobile rapisce
col suo impeto
tutti gli altri
cieli, ne 28 ACHILLINI,
fol. 3, col.
2. 29 Fol. 4, CI.
30 Metaph., XII,
e. 7, 10720
2-4 (t. e.
37). 31 Giov. DI
Jandun, Quaestiones sup. Metaph., XII,
q. 17, Quaest. sup.
Phys., Vili, q.
21. 32 Cfr. M. A.
ZiMARA, Quaestio de
triplici cansalitate intelligentiae (in appendice
alle Quaestiones di
G. di Jandun
sulla Metafisica, Venezia, 1525, fol.
170, col. 2-4);
Theoremata viene che il
primo Motore esercita
su tutto l'universo
una vera e propria
azione di causa
efficiente e non
soltanto di causa
finale. Sigieri, a quanto
sappiamo dall'ultima citazione
del Nifo, ri- teneva che il
primo Motore fosse
addirittura forma e
perfe- zione del cielo, a
tal segno che
si muove per
accidens insieme ad esso
; nel che
egli non faceva
se non ripetere
una dottrina d'Averroè, il
quale in più
luoghi insiste sul
concetto che il primo
Principio è tale
in quanto è
fine, forma e
motore del- l'universo 33.
L'Achillini risolve il
dubbio, dimostrando con
quattordici argomenti che Dio
imprime al mondo
un movimento effettivo come primo
Motore di esso;
né questa volta
ha bisogno di distinguere tra
l'opinione di Aristotele
e la verità,
poiché « Philosophus in hoc quaesito
non recedit a
veritate », quanto all'asserto della
causalità efficiente ;
ma osserva che
si discosta dal vero
in un particolare:
« sed bene
in circumstantia: quia dictum
est de mente
eius, quod Deus
est motor immediate
et appropriate movens caelum,
et quod nulla
alia intelligentia ab ipso
movet primum caelum;
sed hoc non
est verum etc.))34. Ed
infatti la tesi,
che il moto
del primo cielo
derivi immedia- tamente da Dio,
si basa sul
concetto che Dio
è forma del primo
cielo. Ora questo
concetto è schiettamente
averroistico, ed è uno
dei presupposti della
teoria che dalla
finita grandezza del moto
celeste deduce, come
abbiamo visto, il
vigore finito del primo
Motore. Questo necessario reciproco
rapporto tra Dio
e il mondo si
scorge anche meglio
nella discussione del
terzo dubbio :
« Utrum Deus libere
moveat caelum ».
Neil' interpretazione averroi- stica del
pensiero d'Aristotele, se
Dio è necessario
a spiegare l'esistenza del
moto, e, diciamo
pure, l'esistenza del
mondo stesso, è altrettanto
vero che, posta
l'esistenza del primo
Mo- tore e della prima
Causa efficiente, questa
e quello agiscon come
natura anzi che
come libera volontà
creatrice. « Sigieri non
sembra aver concepito
la possibilità d'una
vera libertà creatrice, che
a lui pare
esclusa tanto dall'
immutabilità divina quanto dalla
necessità delle specie »3\
Posto Dio come 33
AvERR., Metaph., X,
comm. 7; XII,
comm. 5-6, 36,
38, 41, 44; De
subst. orbis capp.
1-2. 34 AcHiLLiNi, fol.
4, col. 4. 35
F. Van Steenberghen,
Les oetivres et
la doctrine de
Siger de Bra- bant,
Bruxelles, 1938, p.
128; Sig. de
Brab. d'après ses
oeuvres inédites, igo.] prima Causa
motrice del mondo,
questo ne risulta
necessaria- mente, come la conseguenza
dalle premesse d'un
sillogismo. Aristotele aveva ben
fermato la sua
attenzione sugli eventi che
si dicon contingenti
e fortuiti; ma
anzi che dedurre
la contingenza di tutti
gli esseri creati
dall'essenziale libertà del pensiero
divino, aveva imposto
allo stesso pensiero
divino e all'atto creatore
la necessità del
suo astratto formalismo logico, e
la contingenza e
il caso aveva
limitato al mondo
su- blunare, spiegando l'una e
l'altro per mezzo
del concetto delle '(
cause impedibili »
e dell' «
indisposizione della materia
» che spesso è
sorda a rispondere
all' intenzione dell'arte.
Pur tra- scendente o «
separato », il
primo Motore resta
così prima forma e
prima perfezione dell'universo, al
quale è intimamente
unito non come forma
« constituta per
subiectum », bensì
come forma « constituens
subiectum » 36. Per
dimostrare la tesi,
che secondo Aristotele
Dio muove il cielo
per sua natura
e non liberamente,
sì da poter
non muo- verlo o mutarne
la velocità e
la direzione, l'averroista
bolo- gnase argomenta così:
tutto ciò che
si muove per
un principio essenziale che è in
esso, si muove
per sua natura;
ma questo è il
caso del cielo;
dunque esso è
mosso naturalmente 37. Se il
primo Motore potesse
non muovere oppure
muovere in modo diverso
da quel che
fa, il mondo
potrebbe esser diverso
da quello che è,
e anche non
essere. Ma tutte
queste conseguenze sono impossibili
per Aristotele, che
dall' immutabilità del primo
Motore deduce la
necessità e l'eternità
dell'universo, come d'un effetto
connaturale e inseparabile
dalla sua causa. Puro
atto senza alcuna
potenza, Dio causa
dall'eternità il II voi.,
Louvain, 1942, p.
607. Tale è
il pensiero di
Siglari in tutti
gli scritti intestati a
lui dai codici.
Per attribuirgli con
qualche fondamento la tesi
opposta, bisogna supporre
che siano sue
le Quaestiones sulla Fisica
edite dal Delhaye
(cfr. Giorn. Crii.,
XXIV, 1943, pp. 85-90). Ma
per farlo manca
ogni serio indizio
esterno, e le
prove interne sono troppo
deboli. 36 Si veda
il passo del
Nifo riportato in
Sigieri.... p. 41.
Su questa distinzione ricavata
da diversi luoghi
di Averroè, cfr.
dello stesso Nifo il
commento al De
anima, III, ad
t. e. 5,
già riferito in
Sigieri, p. 15. Vedasi
anche l'Appendice nello
stesso volume, pp.
175-176. 37 AcHiLLiNi, Quol.
I. dub. 3,
fol. 5, e.
i « Omne
quod movetur per principium quod
est in eo,
movetur per naturam,
octavo Physicorum, t. e.
27. Intelligo in
subiecto maioris: per se primo,
et non secundum accidens; et
tunc patet propositum
ex diffinitione naturae,
secundo Phy- sicorum, t. e. 3. Sed
caelum movetur per
principium etc, ut
vult Com- mentator Aristotelem
declarasse in principio
septimi Physicorum, etc.
». I '( mondo con
ordine e moto
necessario. Dal che
« sequitur nullam esse
in rebus libertatis
contingentiam, ad quas
non concurrit homo » ; poiché
la ragione della
contingenza dell'umano ar- bitrio consiste nel
modo di conoscere,
essenzialmente discor- sivo,
che è
proprio dell'uomo; di
guisa che la
mente umana, procedendo per
composizione e divisione
di concetti, «
potest aftìrmativam vel negativam
[partem] concludere, et
conse- quenter ad utramque
partem possibilis est
assensus ». Or questo
non accade né
nelle altre intelligenze
superiori all'umana, né, tanto
meno, nella prima
Intelligenza 38. Necessario a
render ragione della
realtà dell'universo, dei movimenti
celesti e di
ogni accadere, il
primo Motore d'Ari- stotele non ha
altra realtà, per
l'averroista, all' infuori
di questa, né altra
ragione di essere
che questa: senza
il mondo da esso
causato e mosso,
il primo Motore
non sarebbe nulla. Perciò
Dio e mondo
formano un binomio
indissolubile, come amore e cuor gentile
nella canzone guinizelliana, come
il sole e il
suo risplendere: ch'adesso che
fo il sole sì
tosto lo splendore
fo lucente, né fo
avanti il sole. Contro
questa dottrina del
Filosofo, qual'era intesa
ed espo- sta dal Commentatore
di Cordova, l'Achillini
riferisce ben diciotto argomenti,
avendo però cura
di farci sapere
che cosa gli averroisti
rispondevano. Dopo di che conclude,
secondo il suo costume
: His praetermissis, ad
veritatem revertamur, et
dicamus Deiim ad extra
mere libere et
contingenter agere. Concedanius
insuper quod in Deo
esse et agere
sunt idem, et
tamen non, si
necesse est Deum esse,
necesse est Deum
agere ad extra.
Dicamus tertio quod, licet
necessitas sit melior
conditio essendi, non
tamen est melior conditio
operandi ad extra.
Ncque immutabilitas divina toUit
novitatem in effectu,
quia ab aeterno
determinavit Deus agere nunc.
Ideo contra philosophos
dicamus, quod ab
antiqua vohmtate potest aliquid
novi poni in
esse, sine mutatione
operan- tis, aut remotione
impedimenti etc. Addo
insuper, licet necesse sit
Deum esse productivum
ad extra, non
tamen necesse est
ipsum producere ad extra.
Concedo etiam nullam
rem quae est
Deus esse contingentem ;
dimitto naturam assumptam,
et tamen de 38
ib., fol. 5,
col. 1-2. ig2 Dee formabiles
sunt propositiones per
accidens et contingentes, propter connotationem
extrinseci. Neque
propter hoc quod
Deus multa producibilia potest
producere, quorum nullum
producet, concedendum est potentiam
divinam frustrari, quia
reduci potest et in
aliquo illius generis
reducta est in
actum 39. Con queste
proteste di attaccamento
all' insegnamento teologico, ha
termine il primo
qiiolibetum che tratta
dell' in- telletto del primo
Motore, la cui
latitudo è dunque
finita com' è finita
la grandezza del
mondo e del
movimento. L'opposizione fra la
tesi averroistica e
quella teologica non
è che un
aspetto particolare fra la
concezione aristotelica del
mondo e l' intui- zione cristiana. Per
Aristotele, come l'espone
Averroè, Dio è principio
teleologico e causa
prima efficiente della
natura; la natura alla
sua volta è
effetto necessario ed
eterno dell'at- tualità
divina. Dio è
principio in quanto
dà origine a
un prin- cipiato; esso è
l'atto che precede
logicamente ogni potenza. L'ordine cosmico
riflette la necessità
e l' immutabilità della
sua prima causa. Dio
insomma è complemento
necessario della natura ed
è esso stesso
natura: è la
stessa natura intellettua- lizzata, cioè considerata
platonicamente sub specie
aeternitatis. Neil'
intuizione cristiana del
mondo, invece. Dio è spirito, cioè
libera volontà creatrice,
infinita potenza, infinita
sapienza, infinito amore. Il
mondo e' è,
ma potrebbe non
esserci, o esser diverso; e c'è, per
un atto di
liberalità divina. La
necessità delle leggi di
natura non è
assoluta, ma relativa
al decreto della volontà
divina che liberamente
le ha stabilite
e può mutarne il
corso. Così la
contingenza è alla
radice stessa del- l'ordine cosmico; il
miracolo è affermazione
e prova della
con- tingenza della natura e
delle leggi fisiche.
Con siffatta dottrina il
cristianesimo liberava l'uomo
dalla tirannia del
fato cui dovea piegarsi
la volontà dello
stesso Giove. Al
posto degli inesorabili decreti
dell' Ananche si sostituiva
la libera e
onni- potente volontà di Dio,
che ha dato
all'uomo il potere
di coo- perare ai suoi
eterni disegni. Libero
e artefice del
proprio de- stino, l'uomo si
sente così simile
a Dio. Dopo quello
che Agostino e
lo Pseudo Dionigi
e Pier Da- miani e
il Cardinal Cusano
avevano speculato intorno
alla natura divina, mentre
nel rinnovato platonismo
cristiano del Rinascimento covavano
i germi che
sarebbero esplosi nei 39
Iv., fol. 5,
col. 4-f.6, col.
i. I dialoghi De
la causa e
De V infinito,
la dottrina averroistica
su Dio, anzi che
un progresso, dove
sembrare la ricaduta
in una delle più
anguste forme di
naturalismo già da
molto tempo sorpassate. Ad
un superamento definitivo
occorreva, per altro, eliminare quella
ristretta visione cosmologica
alla quale il concetto
di Dio era
legato, e che
è merito delle
nuove scoperte astronomiche aver
per sempre dissipato. 2. -
Il secondo qiiolihetum
tratta delle intelligenze
separate, intermedie fra 1'
Intelligenza divina e l'
intelletto possibile, proprio della
specie umana. Queste
intelhgenze son sostanze separate preposte
ciascuna al moto
d'uno dei cieli
inferiori alla prima sfera,
che è mossa
immediatamente dal primo Motore. L'Achillini comincia
coll'affermare che, secondo
la dottrina d'Aristotele, siffatte
intelligenze non sono
state prodotte, e per
conseguenza sono eterne;
ma che, secondo
la verità della fede,
è tutto il
contrario. La prima
parte della tesi
è dimostrata con quattordici
argomenti; con altrettanti
la seconda; colla differenza, che
gli argomenti in
favore della prima
parte non hanno risposta,
mentre degli argomenti
in contrario abbiamo la
soluzione. Per quel che
concerne la dottrina
d'Aristotele, il lettore poco
esercitato potrebbe rilevare
una divergenza tra
l'averroista bolognese e Sigieri
su questo punto:
che, mentre quello
dice le intelligenze celesti
non prodotte, questo
al contrario le
dice tutte causate immediatamente o
mediatamente da Dio
che dà l'essere a
tutte le cose 40.
In realtà, la
divergenza è soltanto nel
modo d'esprimersi e
non nel pensiero. Perché le
intelligenze celesti non
si posson dire
prodotte ? Perché non
sono state tratte
dalla potenza all'atto,
quasi che ci fosse
una loro potenza
ad essere, la
quale precedesse, anche soltanto logicamente,
il loro atto
di essere. Esse
sono natural- 40 Sigieri
di Brab., Impossibilia,
I (ed. Mandonnet,
Sig. de Brab. et
l'averr. latin au
XlIIème siede, Ilème
Partie, Louvain, 1908,
pp. 76-77) ; De
necess. et conting.
caus. (Mandonnet, pp.
111-112); Aletaph., II, 8
(ediz. a
cura di Cornelio
A. Graiff,
Sig. de Brab.
Questions sur la Me-
taphysiqiie. Texte inédit.
Louvain, Édit. de
1' Institut Super,
de Phi- losophie, 1948,
pp. 46-51), III,
7-8 {ib., pp.
93-103). Cfr. Van
Steen- BERGHEN, S. d.
B. d'après
ses oeuvres inédites.] mente e
necessariamente, per il
fatto stesso che
esiste la prima Causa
che le fa
essere, a quel
modo che l'esserci
il sole fa sì
che ci
sia lo splendore.
Esse son certamente
causate dalla prima Intelligenza,
ma non prodotte
alla maniera delle
cose che possono essere
e non essere.
L'atto non s'aggiunge
in esse alla potenza,
né l'essere sopravviene
all'essenza: sono puri atti
per loro natura,
ed atti eterni,
come eterno e
necessario è l'Atto primo
che le causa
41. Strettamente connesso con
questo problema è
il primo dei tre
duhia: «. Utrum
ponenda sit creatio
». Anche a
questo quesi- to il giovane
maestro bolognese risponde,
essere opinione d'Ari- stotele che non
si dà creazione;
ma soggiunge che
la tesi dello stagirita non
è vera. Secondo
la dottrina aristotelica,
la causa agente ha
sempre bisogno d'una
materia su cui
esercitare la sua azione,
e dalla cui
potenza trae quello
che essa produce. Ora
la creazione implica
una produzione dal
nulla, senza pas- saggio dalla potenza
all'atto 4^. Allo
stesso modo Sigieri,
par- lando dell'anima
intellettiva (e il
discorso vale per
tutte le intelligenze e
altresì per i
corpi celesti), afferma
che, sebbene essa possa
dirsi fatta, nel
senso che è
causata e dipende,
al pari delle intelligenze
celesti, dal primo
principio d'ogni essere, tuttavia non
può dirsi che
è stata fatta
dal niente, ma
anzi che essa « de se
est semper ens,
ab alio tamen
», poiché « in
eius ratione seu
defìnitione est semper
esse, cum careat
ma- teria ». Se non
che, pur essendo
« de se,
seu de sui
ratione, semper ens »,
non ha questo
suo essere «
ex se effective,
sed ab alio ».
Per questa ragione,
essa è certamente
causata ed essenzialmente dipendente
da Dio, «
sed non est
verum eam esse factam
ex nihilo » 43.
41 AcHiLLiNi, Quol.
II, f. 2,
col. I : « Orane
agens extrahit id
quod est in potentia
ad actum: sed
in intelligentiis non
est potentia extrahi- bilis ad
actum (intelligo de
potentia distante ab
actu, et de
actu infor- mativo eorum aut
potentiali, ex quo
et alio fiat
una intelligentia) : ergo
in eis non
est agens. Ratio
tota est Commentatoris, 12
Metaph., comm. 44. Ex
hoc sequitur quod
intelligentiae non componuntur
ex esse et essentia,
tamquam ex doubus
principiis intrinsece componen- tibus intelligentiam ». 42
AcHiLLiNi, Quol II,
dub. I, fol.
7, col. 4. 43
Sigieri, De anima
iniellect., V (ed.
Mandonnet, pp. 160-161). AcHiLLiNi, ib.,
fol. 8, col.
2: « Potentiale
non potest esse
sine actu. Est autem
deus actus vitalis
intelligentiarum et finis,
et caeli est
forma et finis, corruptibilibus autem
dat esse et
conservat movendo. Primo
enim Metheororum :
Est autem ex
necessitate continuus iste superioribus
I Ancor più
evidente è l' influenza
della dottrina di
Sigieri sulla soluzione del
secondo dubbio che l'
Achillini si pone
: « Utrum intelligentiae inferiores
intelHgant superiorem ».
L'averroista italiano formula in
proposito tre tesi,
il significato delle
quali ci è chiarito
da un luogo
dei CoUectanea del
Nilo sul De
anima 'i'^, riferito da me altra
volta. Colla prima
tesi egli si op-
pone alla teoria di
coloro che, al
dire del Nifo,
il quale sicura- mente riassume da
Sigieri citato un po' più
oltre, sostenevano che « Deus multiplicat
lumen quod est
quoddam accidens spirituale existens
in mentibus intelligentiarum, per
quod elevantur intellectus illi
ad intelligere primum
» ; la
qual teoria il Nifo
nel commento al
De anime beatitudine
attri- buisce a S. Tommaso
e la combatte
appoggiandosi a Sigieri
45. La prima tesi
dell'Achillini, dunque, suona
come segue:Primum: intelligentia
inferior non intelligit
superiorem per aUquod accidens,
ut species, actus,
vel habitus etc.
Probatur primo, quia in
intelligentiis non est
aliquod accidens. Patet
quo- libeto 3. —
Secando, omne compositum
est novum; sed
in in- teUigentiis non
est novitas; ergo
neque compositio. Maior
est Commentatoris, 12 Metapliysicae, comm.
39, sive sit
compositura substantiale,
sive accidentale, sive
in intelHgentiis, sive
non; ea enim probat
ibi Commentator, quod
intellectio non est
accidens in deo; coehim
autem, quia subiectum
est accidenti, novitatem habet, sciUcet
motum, 8 Pliysicoriim,
comm. 15. —
Tertio, si sic, cum
secunda intelHgentia intelHgat
se per essentiam,
3 De anima, comm.
13, perfectior esset
intellectio secundae de
se, quam in- tellectio secundae de
prima, et sic
secunda intelligentia esset felix
cognoscendo se, et
non primam; vel
intelligentia duas intel- lectiones habens
felicitaretur intellectione imperfectiori.
— Quarto, lationibus, ut
omnis eius virtus
gubernetur inde. Ideo,
primo remoto, omnia destruuntur;
ideo duodecimo Metaphysicae,
textu et commento 38;
Ex tali igitur
principio caelum et
natura dependet. Et
primo Caeli, commento 100:
A primo quidem
ente datum est
esse et vivere;
bis quidem clarius, bis
vero obscurius. Et
in libro De
substantia orbis,, versus finem:
Ex quo verificatur,
quod dator continuationis motus
est dator esse omnibus
aliis entibus ».
Così anche nelle
Qiiestiones sulla
Metaphysica, ed. CTraiff,
luoghi citati. Invece
l'autore delle Quaestiones super libros
Physicorum , edite dal
Delhaye come opera
di Sigieri. sostiene senza
alcuna esitazione la
tesi « quod
necessarium est aliquid fieri
ex nihilo »
(I, q. 24,
pp. 53-54), sebbene
ritenga che alcuni
esseri non sian prodotti
da Dio immediatamente. È
un altro punto
sul quale il dissenso
dagli scritti di
sicura appartenenza a
Sigieri è troppo
evidente. Per attribuire queste
Quaestiones al maestro
brabantino occorrerebbe una qualche
testimonianza sicura che
non s' ha,
fino ad oggi, 44
III. ad t.
e. 14; cfr.
Sigieri.... nel pens.,
pp. 27-28, 45 V.
Sigieri, pp. 26-27. 196 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI si sic,
tunc scientia earuin
non esset scitum;
consequens est centra determinata quolibeto
primo, et tertio
De anima, comm. 14: « Intellectus
in formis abstractis
est idem cum
intellecto » ; et
incidentaliter 8 Physicorum,
comm. 40 : «
In abstractis intellectus et intellectum
[idem] sunt. —
Quinto, quia tunc
intellectio, qua secunda intelligentia
intelligeret primam, et
intellectio qua se- cunda
intelligentia intelligeret se,
essent alterius generis,
quia una esset substantia
et alia accidens
46. Risulta da questa
prima affermazione, che
l'atto col quale
le intelligenze inferiori conoscono
la prima Intelligenza,
cioè Dio, è un
atto sostanziale al
pari di quello
col quale conoscon se
stesse. Anche in
questo l'Achillini è
d'accordo con Sigieri, per
il quale l' intendere
è perfezione essenziale
dell' intelletto possibile, sì che «
ponere.... substantiam esse
in actu in
genere intellectualis
naturae et non
intelligentem in actu,
est ponere contraria et
impossibilia vel incompossibilia » 47.
La seconda tesi
dell' Achillini consiste nel
negare che le intelligenze inferiori
conoscano la prima
Intelligenza come loro causa,
in quanto avvertono
che la loro
natura ha essere da
quella 48. Così appunto
pensavano taluni filosofi,
come rife- risce il
Nifo: Dixerunt quod intelligentia
interior intelligit superiorem
per essentiam inferioris; essentia
enim inferioris est
causata ab in- tellectu
superiori, et omne
causatum ducit in
cognitionem cause; ergo intellectus
interior per essentiam
sui intelligit superiorem. Oportet enim
imaginari essentiam inferiorem
esse obiectum ade- quatum
sui intellectus; et
sic tanquam obiectum
adequatum intelligitur solum a
semet. Et quoniam
illa essentia est
effectus 46 Achillini, Quol.
II, dub. 2,
fol. 8, col.
3. 47 Sigieri, Quaestiones
naturales (ed. F.
Stegmùller, Nenaitfgcf.
Quaestionen des Sig.
v. Br., in
Rech. de Théol.
ancienne et médiév.,
Ili, 1931 pp. 179-180);
De anima intell.,
IX (ed. Mandonnet,
p. 171). Cfr. Giorn.
Crii. d. FU.
Ital., XX, 1939,
pp. 467-471. Un'attività
acci- dentale dell'
intelletto è invece
l' intendere per l'anonimo
autore delle Questiones in
libros Arist. de anima, II,
q. 8 (ed.
Van Steenberghen, Sig. d.
Br. d'après ses
oeurres inédites, I
voi., pp. 67-69), III,
q. 8 (pp. 135-137);
ma quanto più
il chiaro editore
s'affanna a dimostrare che l'autore
di esse è
Sigieri, tanto più
evidente appare che
non lo è. Si
noti poi che
nella terza delle
Quaestiones naturales edite
dallo Steg- mùller, il maestro
brabantino insegna che l'
intelletto possibile ha il
suo atto
primo ed essenziale
per l'unione all'
intelletto agente, e che
questo e
quello son due
sostanze separate; la
qual dottrina ha
non poca importanza per
quello che siamo
per dire. 48 Achillini,
fol. 8, col.
3. 1 I superioris, etiam
continet saltem instrumentaliter essentiam
su- perioris; et sic
intellectus ille per
essentiam illius secundario intelligit superiorem. Il Nifo
stesso riferisce quattro
dei « molti
argomenti » che Sigieri
opponeva a siffatta
teoria 49. Gli
stessi argomenti quasi alla
lettera oppone alla
stessa teoria anche
l'Achillini: Secundum dictum :
intelligentia inferior non
intelligit superio- rem per essentiam
inferioris. — Probatur
primo, quia tunc
scientia non esset scitum.
Patet consequentia, quia
tunc secunda esset scientia ipsi
secundae de prima
etc. — Secundo,
nulla res distincta a
perfectiori est sufficienter
repraesentativa perfectioris; sed secunda
non est ita
perfecta sicut prima;
ergo etc. —
Tertio, si sic, tunc
non dependeret intelligentia
inferior in suo
intelligere a prima; et
sic secunda esset
actus purus, quia
non esset poten- tialis
respectu alicuius perfectivi
eius formaliter. —
Quarto, quia tunc intelligentia
inferior beatiiìcaretur in
seipsa tanquam in obiecto
repraesentativo omnium intelligibilium ab ea, aut
felici- taretur in obiecto
secundarie cognito. —
Quinto, quia tunc
aliqua cognitio dei dependeret;
quia omnis intelligentia
inferior dependet; et omnis intelligentia inferior
esset cognitio dei
per te. —
Sexto, quia tunc nulla
esset compositio in
intelligentiis, nisi forte
ex perfectione et defectu
eius; de qua
non loquor nunc.
— Septimo, quia non
salvaretur efììcientia dei
super motu proveniente
ab inferioribus
intelligentiis 5°. Anche per
quel che concerne
la terza tesi,
l'Achillini ripete alla lettera
quello che, secondo
il Nifo, si
leggeva « in
quodam tractatu
intelligentiarum et beatitudinis
» di Sigieri: Tertium dictum:
intelligentia inferior intelligit
superiorem per essentiam superioris.
— Probatur primo
a sufficienti divi- sione. — Secundo,
quia in abstractis
intellectus et intellectum sunt idem.
— Tertio, quia
intelligentiae abstractae perficiuntur per se
invicem; ergo una
est alterius forma,
et non nisi
quia una est alterius
scientia vel amor.
Antecedens patet, 12
Metaph., commento 44 :
« Perfectio uniuscuiusque
moventium unumquemque orbium perficitur
per primum motorem
omnium »; sed
non ef- fective, ncque
materialiter, sed finali
perfectione coincidente cum forma.
— Quarto, necesse
est in omni
intelligentia intelli- gente
aliud esse aliquid
simile formae et
aliquid simile materica; et
si non, non
esset multitudo in
formis abstractis, tertio
De anima, commento 5
; quia, posita
multitudine, una est
potentialis alteri. Est autem
secunda simile materiae,
ideo recipiens, et
prima si- 49 Nifo,
De anima, Venezia,
1522, III, coUect.
ad t. e.
14, f. 171, col.
3. 50 AcHiLLiNi, /.
c; Nifo, /.
e; cfr. Sigieri,
pp. 27-28. 19^ l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI mile formae,
ideo recepta. —
Quinto, in intelligentiis est
compo- sitio, et non
est alia quani
ex intelligente et
intellecto, deside- rante et desiderato;
ergo etc. Maior
patet, 12 Metaph.,
com- mento 51: Quod est
minoris compositionis est
nobilius in ilio genere,
donec deveniatur ad
simplex. Patet minor,
12 Metaph., com- mento 44: «Tantum
illic est causa
et causatum», secundum
quod intellectum est causa
intelligentis. Sed intellectum
non est causa efEectiva intelligentis, ncque
materialis, ncque finalis
tantum, sed formalis et
finalis simul, vel
formalis tantum. Ideo
subdit Commentator, « non
inconvenire unum esse
causam plurium, secundum quod
a pluribus intelligitur
», perfectius tamen
a per- fectioribus, et
imperfectius ab imperfectioribus. Et hoc patet Commentatore, 3
De anima, commento
5 : «
Essentia primae formae est quidditas eius;
aliae autem formae
diversantur in quidditate et
essentia, quoquo modo
». Loquitur Commentator de essentia,
ut fecerat 2
De anima, comm.
147: Pomum « est
indivisibile subiecto, et
divisibile secundum essentiam
diversam in eo, secundum
quod habet colorem,
odorem et saporem
», licet in multis
sit differentia etc.
Ex hoc patet
intelligentiarum compo-
sitio, quae cum
aliis est, et
earum simplicitas, quia
non compo- sitio ex
aliis; ideo, 3
De anima, comin.
9: « Res
abstractae sunt simplices, et non compositae.
Ex his habetur
quod, cum supe- riores
intelligentiae sint in
inferioribus, adhuc potest
intelligentia interior intelligere superiorem,
non intelligendo tamen
aliquid extra se. Patet
etiam quod, cum
intelligentia superior sit
intel- lectio inferiori, quod
potest superior principiare
motum productum ab inferiori,
eo modo quo
intellectio est principium
operationis ab intelligentia productae
» i'. Giunto alla
fine della discussione,
l'Achillini si domanda se
una tale teoria
non contradica alla
verità teologica; e ri-
sponde di no, anzi
dichiara di trovarla
in tutto conforme
a quello che la
fede insegna in
proposito 5% E
veramente anche S. Tommaso
è del parere
che, nell'atto della
visione beatifica, l'essenza divina
non è soltanto
oggetto conosciuto, «
id quod intelligitur »,
ma altresì forma
intelligibile per mezzo
della quale la stessa
essenza divina è
conosciuta, « forma....
qua intelligitur» 53. Questa forma
attua bensì l'intelletto
umano reso capace per
grazia, ma l'attua
solo idealmente, «
in in- telligendo », non
sostanzialmente, poiché l' intelletto
umano ha già un
suo atto sostanziale
anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina
54. Non così
per l'Achillini e
per Sigieri* 51 AcHiLLiNi,
/. e, col.
3-4; NiFO, /.
c, 3-4; cfr.
Sigieri, p. 28. 52
ACHILLINI, fol. 9,
col. 3. 53 S.
Tommaso, S. theol.,
Suppl. Questi non fanno
alcuna distinzione fra
l'ordine naturale e lo
stato soprannaturale concesso
per grazia, fra la conoscenza che compete
alle intelligenze separate
per loro natura
e la visione beatifica
di cui parlano
i teologi. Inoltre,
l' intendere delle
intelligenze create, tanto
nell'ordine naturale quanto nell'ordine soprannaturale, è,
per l'Aquinate, una
operazione accidentale che s'aggiunge
alla loro natura
sostanziale già costituita in
atto 55, e
il loro stesso
intelletto è una
potenza altra dalla loro
essenza 56. Per l'Achillini
e per Sigieri,
invece, l'essenza stessa di
qualsiasi intelletto, sì
di quello umano
come di quelli celesti,
come vedremo anche
meglio in seguito,
con- siste in un atto
sostanziale d' intendere, dovuto
alla loro vmione coli'
intelletto agente che,
per essi, è
Dio. Fra l' intel- letto umano e
le intelligenze celesti
v' è solo
questa differenza, che r
intelletto agente s'unisce
al primo per
gradi, e comple- tamente solo al
termine del suo
sviluppo; alle seconde
invece è eternamente unito
come forma che
attua tutta insieme
la loro capacità. GÌ'
intelletti inferiori a Dio hanno
essere sol- tanto in quanto
intendono la prima
Intelligenza, che sola è
da sé e
per sé. Dio
così è il
sole del mondo
intelhgibile ; le altre
intelligenze ne sono
lo splendore. In
questo eterno rag- giare dalla prima
Luce intelligibile e
in questo eterno
riflet- terla per diversi gradi,
consiste l'essere delle
menti inferiori alla prima
Mente. Per questo nell'
intelletto non v'
è memoria, che
è ritorno del passato.
Siffatto ritorno del
passato non è
concepibile là dove è
solo un eterno
presente senza mutamento.
I teologi medievali, compreso
S. Tommaso, potevano
attribuire agli angeli la
memoria, in quanto
attribuivano ad essi
un conoscere puramente naturale
e accidentale distinto
dal conoscere « in
Verbo »
; non gli
averroisti, pei quali
le intelligenze conoscono solo in
quanto sono informate
dall'essenza divina. Ed
è sicu- ramente sotto r
influenza di questa
dottrina averroistica che Dante
rimprovera ai teologi
di avere attribuito
la memoria agli angeli^?;
che è un'altra
delle tante tracce
dell'influsso dell'avveroismo
sul pensiero del
nostro poeta. 55 S.
Tommaso, 5. rheol.,
I, q. 54,
art. 1-2. 56 Ib., a. 3. 57
Par., XXIX, 76-81.
Si
veda in proposito,
N., Nel mondo di Dante,
Roma. Il Quolihetum concernente
le intelligenze celesti
si chiude con un
terzo duhiuni, nel
quale l'averroista bolognese
si chiede se le
intelligenze intermedie distino
dalla prima Intelligenza con certo
ordine, ossia seguendo
una qualche proporzione: «Utrum ordine
quodam recedant intelligentiae mediae
a prima». Il problema
è risolto da
lui coll'affermazione che
così è per Aristotele, non
però secondo verità
58. Anche questo è un problema
tipicamente averroistico, e trae
origine da quel
passo del commento
d'Averroè al dodi- cesimo della Metafisica,
che dice: Quoniam vero
ordinatio istorum moventiiuTi
a primo motore oportet ut
sii secundum ordinem
stellarum et orbium
in loco, manifestum est
etiam; prioritas enim
in loco eorum
et in magni- tudine
facit eos priores
in nobilitate 59. Qual
fosse il pensiero
di Sigieri su
questo argomento, non sappiamo.
Ma conosciamo quello
d'un averroista a
lui abba- stanza vicino e
che, come il
brabantino, insegnava a
Parigi nella scuola delle
Arti; voglio dire
Giovanni di Jandun.
Questi discute il problema
« Utrum motores
corporum celestium sint ordinati
secundum ordinem corporum
celestium in magni- tudine et in
loco » nelle
Qiiaestiones sulla Metafisica,
e lo ri- solve
in senso affermativo
^°. La soluzione che
del problema ci
dà il bolognese,
è sostan- zialmente identica a.
quella dell'averroista di
Jandun: posto che v'
è tra le
intelligenze celesti un
ordine gerarchico fondato sul
differente grado di
perfezione, egli stabilisce
una corri- spondenza fra questo
e l'ordine dei
cieli, in quanto
essi si differenziano per
grandezza e velocità: Primus est
ordo secundum gradum
perfectionis essentialis
earum (intelligentiarum) sic
quod, quanto una
intelligentia est perfectior alia,
tanto est primo
propinquior, non tainen
secundum proportionem
geometricam; patet quolibeto
5. Hic autem
ordo, qui rationes formales
intelligentiarum
consequitur, causa est aliorum
ordinum qui sequuntur.
— Secundus est
ordo caelorum secundum magnitudinem
eorum, secundum quam
caelum maius continet caelum
minus. Perfectiore igitur
intelligentia caelum maius regitur
et gubernatur. Oportet
enim informabile corre- 58
AcHiLLiNi, Quol. II,
dub. 3, fol.
9, col. 2. 59
AvERR., Metaph., XII,
comm. 44. 60 IoANNis
DE Ianduno, Quaestìofies
in Metaph., XII,
q. 19. I spendere
formae sic, quod
altieri caelo altior
intelligentia api)ro-
priatur.... — Tertius
est ordo velocitatis
in motu. Caelum
enim maius velociori motu
movetur, distinguendo inter
movere et cir- cuire. Huius sententiae
fundamentum ponit Commentator,
se- cando Caeli, commento 58
: super (semper
?) eorum
intelligen- tiarum
intellectus est fortior
et desiderium est
fortius; ideo ab eis
motus est velocior
61. Se
il cielo è
il soggetto informabile
e l' intelligenza è
la sua forma, e
se le intelligenze
non hanno altra
funzione che quella di
motori dei diversi
cieli, ne segue
che dal numero
dei cieli e dei
moti celesti si
debba dedurre, come
aveva insegnato Aristotele (>-,
il numero delle
intelligenze. Ora cieli
in senso vero e
proprio possono dirsi
soltanto quelli in cui brillano una
o più stelle.
Perciò otto e
soltanto otto sono
le intelli- genze motrici. La
più alta di
esse è Dio, che muove
immedia- tamente il cielo delle
stelle fisse, «
quod secum rapit
alia corpora caelestian^B. Le
altre sette muovono
ciascuna uno dei cieli
planetari, nell'ordine stabilito
dagli astronomi. L'Achil- lini, come
respinge con Averroè
la teoria degli
eccentrici e degli epicicH,
così sembra rifiutare
il nono cielo,
comunemente ammesso
sull'autorità di Tolomeo:
« Or bis
stellatus est finis corporum quae
sunt intra, quoniam
extra ipsum nihil
est»; esso è il
primo e più
perfetto di tutti
gli altri cieli
; « ideo
caelum stellatum deo informatur
» 64. Se non
che i moti
planetari non sono,
per Aristotele, m^oti semplici; sibbene
la risultante di
più movimenti che
richiedono più sfere. Così
Aristotele, a render
ragione del moto
di ogni pianeta, aveva
dovuto, sull'esempio di
Eudosso, scindere ogni cielo
planetario in un
gruppo di più
sfere, ciascuna delle quali
aveva un diverso
movimento. Dalla composizione
dei loro moti risultava
il moto apparente
del pianeta. Una
sola intelligenza, secondo l'avviso
dell' Achillini, presiede al
moto 61 Achillini, Quol.
II, dub. 3,
fol. 9, col.
2. Il passo
d'Averroè nel luogo citato
suona cosi :
« Quod igitur
magis propinquum fuerit
primo orbi, habebit maius
desiderium, quoniam propinquitas
in loco illic est
similis propinquitati essentiarum
ad invicem, quae
est propinquitas in scientia
et in inteUectu
rationali; quanto enim.
magis intellectus primi moti
erit fortior, tanto
magis desiderium erit
perfectius; et quanto magis
desiderium erit perfectius,
tanto motus eius
erit velocior ». 62
Metaph., XII, t.
e. 43-48, e.
8, 1073» 37-1074»
16. 63 Achillini, fol.
io, col. i. 64
Achillini.] di Ogni pianeta
; ma ognuna
delle sfere che
formano quel gruppo planetario è
mossa da una
sua particolare anima
che è causa efficiente di
moto, mentre l' intelligenza che
presiede al gruppo è
soltanto causa finale
a cui le
anime celesti obbediscono
65. Si hanno così
otto intelligenze: la
prima è Dio,
motore del cielo stellato
e quindi di
tutto l'universo: ad
essa obbediscono le sette
intelligenze planetarie, più
o meno nobili
secondo che sono più
o meno vicine
al primo Motore.
Ciascuna delle sette intelligenze
planetarie presiede a
un gruppo d'anime celesti, quanti
sono i moti
dei quali il
moto di ogni
pianeta è la risultante. Tutto questo,
pensa il filosofo
bolognese, si ricava
da Ari- stotele e dal
suo commentatore di
Cordova: ma secondo
la verità della fede,
fra la prima
Intelligenza, che è
infinita, e le intelligenze inferiori,
non può stabilirsi
alcuna proporzione, poiché queste,
per quanto più
o meno perfette,
sono tutte ugualmente distanti
dall' infinità della
Prima. Ciò non di
meno, anche secondo
la fede, esiste
fra le intelligenze
angeliche un ordine basato
sulla loro diversa
perfezione. Con questa osservazione, mentre
sta per mettere
il piede sulla
soglia della teologia, «
in ianuis theologiae
», l'Achillini pone
fine al se- condo
quolibeto. Ma mentre il
filosofo averroista sentiva
il dovere di
arre- starsi sul limitare della
teologia, il teologo
al contrario non sentiva
ritegno di portare
l'abito del ragionamento
filosofico sul terreno della
verità rivelata e
di contaminare, come
spesso avveniva, i dogmi
della fede colle
lucubrazioni della filosofia. Tale è
il caso, fra
i molti che
si verificarono dal
secolo XIII in poi,
della speculazione teologica
intorno agli angeli. L'angelologia ebraico-cristiana era
solidamente costituita nei suoi
capisaldi teorici, come
ne' suoi elementi
rappresentativi e
fantastici, assai prima
del suo incontro
colla filosofia aristo- telica. Ma poi
che, per opera
dei filosofi maomettani
ed ebrei l'aristotelismo prese
contatto colla rivelazione,
e a poco a
poco alla primitiva
e rozza cosmologia
biblica si soprappose quella dotta
dei greci ^^^
anche l'angelologia subì
un'uguale contaminazione. « Omnes
gentes quae concedunt
Deum esse, 65 ACHILLINI, fol.
IO, col. I. ^^
Cfr. il molto
interessante e istruttivo
studio di G.
Ricciotti, La cosmologia della
Bibbia e la
sua trasmissione fino
a Dante, Brescia,
« Mor- celliana conveniunt in
hoc, quod caelum
est locus Dei
et aliorum spi- rituum
qui vulgariter dicuntur
Angeli», osservava Averroè^?; e
come lui pensavano
Avicenna, Isacco Israeli
e Moisè Maimo- nide.
Il problema da
risolvere, per i
teologi cristiani, era
quello di trovare nella
gerarchia angelica, fissata
dallo pseudo Dio- nigi Areopagita o da S.
Gregorio Magno, il
posto preciso ove collocare
le intelligenze motrici
d'Aristotele e dei
suoi commen- tatori. Così, mentre
Tommaso assegna la
funzione di intel- ligenze motrici ad
alcuni angeli dell'ordine
delle Virtù, il do-
menicano Maestro Teodorico di
Vriberg fa delle
intelligenze di cui parlano i
filosofi, un ordine
a parte che
precede l'ordine costituito dalle
anime dei cieli
e quello degli
angeli ^^. Per Dante,
le intelligenze motrici
dei cieli sono
quelle stesse « le
quali la
volgare gente chiamano
Angeli» 69; ma
non tutti gli Angeli,
sibbene quelli che,
in ciascuna gerarchia
ed ordine, sono stati
deputati alla vita
attiva, cioè al
governo del mondo, anzi
che alla pura
vita contemplativa 7°.
E secondo la
nobiltà dei diversi cieli
essi appartengono a
gerarchie e ordini
diversi?' ; sì che
il poeta, al
pari degli averroisti,
può stabilire un
rapporto tra la perfezione
dei cieli e
quella degli ordini
angelici disposti in nove
cerchi concentrici intorno
a Dio: Li cerchi
corporai sono ampi ed arti
secondo il più
e '1 men
della virtute che si
distende per tutte
lor parti. Maggior bontà,
vuol far maggior
salute; maggior salute maggior
corpo cape, s'elli ha le parti
igualmente compiute. Dunque costui
che tutto quanto
rape l'altro universo seco,
corrisponde al cerchio che
più ama e
che più sape. Per
che, se tu
alla virtù circonde la
tua misura, non
alla parvenza, delle sustanze
che t'appaion tonde, tu
vederai mirabil conseguenza di maggio
a più e
di minore a meno
in ciascun cielo,
a sua intelligenza
7^. 67 De
caelo, I, comm.
22. Cfr. C.
Baeum ker, Witelo,
in Beitr. z.
Gesch. d. Philosophie d.
Mittelalters, III, 2,
1908, pp. 537
sgg. 68 E. Krebs,
Meister Dietrich, in
Beitr. z. Gesch. d.
Philos.d. Miti., V, 5-6,
1906, pp. 88*-9i*. 69
Dante, Convivio, II,
iv, 2. 70 Ib.,
II, IV, 10-13. 71
Ib., II, v,
13-15. 73 Par.] Così non
ragionava certamente Tommaso;
così ragionavano invece Averroè
e gli averroisti,
pei quali le
intelligenze motrici son forma
delle rispettive sfere,
come forma del
cielo stellato è Dio
stesso. 3. - Il
terzo quolibeto tratta
dell' intelletto possibile,
che occupa r inlìmo
posto tra gì'
intelletti e costituisce
la « tertia et
ultima pars latitudinis
intellectuum ». A
proposito di esso l'Achillini stabilisce
questa tesi: «
Intellectus possibilis est intensissimum materialium
et remississimum abstractorum
», ossia è la
più intensa delle
forme unite alla
materia e la
meno attiva delle forme
separate 73. Poiché,
come vedremo, l' intel- letto umano, per
lui, è una
sostanza separata, unica
per tutta la specie
umana, e, nello
stesso tempo, forma
sostanziale degl' individui ai
quali è unito
per sua natura. Intorno a
questa tesi, son
discussi quattro dubia,
il primo dei quali
concerne la teoria
d'Alessandro d'Afrodisia, esposta e
combattuta da Averroè
74, secondo la
quale l'intelletto pos- sibile sarebbe una
virtù organica tratta
dalla potenza della materia. L'averroista
bolognese confuta questa
dottrina con undici argomenti
tolti dagli scritti
del commentatore arabo. Ma
se r intelletto
possibile non è
una « virtus
materialis », al modo
delle forme che
hanno essere solo
per la materia a
cui sono unite
e dalla quale
sono individuate, se
esso ha una sua
propria realtà indipendente
dalla materia, ne
consegue che in se
stesso sia unico
per tutti gli
uomini. Questa è ap-
punto la tesi che
l'Achillini sostiene d'accordo
con Averroè, discutendo il
secondo dubbio :
« Utrum [unum]
intellectum. possibilem
habeat omnis homo
» 75. Fra gli
argomenti a sostegno
della tesi averroistica
vi sono questi, desunti
dalla natura della
conoscenza intellettuale:
Si sic
[cioè, si intellectus
possibilis esset multiplicatus
ad nu- merum hominum),
contingeret ut res
intellecta apud te
et apud me sit
unum in specie
et duo in
individuo; ratio patet
supra. — Secundo, si
sic, procederetur in
infinitum in coiiceptibus; quia 73
AcHiLLiNi, f. IO,
col. 1-2. 74 De
anima, III, comm.
5, digress. pars.
III. Cfr. S.
Tommaso, Trat- tato
sull'unità dell'intelletto contro
gli averroisti, Firenze,
Sansoni, 1938, pp. 19-20,
40-42. 75 AcHiLLiNi, fol.
IO, col. 4-f.
II, col. I. I
conceptus essent numero
diversi, et ab
omni per se
intelligibili numeraliter
multiplicato abstrahibilis est
conceptus; ideo ab
illis conceptibus essent alii
conceptus abstrahibiles ;
patet supra. — Tertio,
unus est conceptus
essentialis omnium individuorum eiusdem speciei;
ergo unus est
intellectus possibilis omnium
ho- minum. Questi tre
argomenti non sono
in sostanza che
uno solo, cioè quello
di cui già
facevano uso gli
averroisti, coi quali polemizza Tommaso
nel De unitate
intellectus, e a
capo dei quali era
Sigieri: Adhuc autem ad
munimentum sui erroris
aliam rationem inducunt. Quaerunt
enim utriim intellectum
in me et
in te sit unum
penitus, aut duo
in numero et
unum in specie.
Si unum intellectum, tunc
erit unus intellectus.
Si duo in
numero et unum in
specie, sequitur quod
« intellecta habebunt
rem intellectam « :
quaecumque enim sunt
duo in numero
et unum in
specie, sunt unum intellectum,
quia est una
quidditas per quam
intelligitur; et sic procedetur
in infinitum, quod
est impossibile. Ergo impos- sibile est quod
sint duo intellecta
in numero in
me et in
te; est ergo unum
tantum, et unus
intellectus numero tantum
in omnibus 1^. 76
S. Tommaso, Traci,
de un. intell.
cantra averr.,ed. Keeler,
Roma, 1936, § 106,
pp. 68-69; cfr.
il mio commento
alla traduzione di
questo opuscolo tomistico, Firenze,
Sansoni, 1938, p. 175, nota
2. L'argomento che deriva
da Averroè {De
anima, III, comm.
5, digress. pars
V, sol. ^ae quaestionis), è
ampliato da Egidio
Romano nel suo
trattato De plur. inteìlectus possibilis,
Venezia, 1500, parte
I, fol. girò,
ed è la sesta delle ragioni
colle quali Averroè
« positionem suam
roborat et vult
osten- dere quod intellectus,
qui dicitur possibilis,
est unus numero
», in questo modo:
«Si potest estendi
quod una et
eadem species intelligibilis in- format
omnes intellectus, tunc
sequitur quod sit
unus intellectus in omnibus
numero. Unde licet
non sequeretur quod
eadem res videretur ab
oculo omnium hominum,
si unus esset
oculus omnium, bene
tamen valeret quod, si
una species informaret
oculum cuiuslibet hominis, quod
unus esset oculus
cuiuslibet hominis. Ergo a simili:
si igitur una species
informat intellectum omnis
hominis, omnes homines
habent unum intellectum. Quod
autem una species
informet intellectum omnis hominis, patet;
nam possibile est
quod plures homines
intelligant la- pidem. Tunc
ergo quero: aut
est per imam
^peciem lapidis, aut
per aliam et aliam.
Si per unam,
habeo intentum; si
per aham et
aliam, tunc ille due
species oportet quod
differant numero, et
communicent in forma, cum
ducant in cognitionem
unius naturae. Sed
quotiescunque aliqua dicunt differentiam
in numero seu
in specie, tunc
nullum eorum habet intellectum
in actu, et
habet tantum intellectum
comm.unem; ideo nulla illarum
specierum est in
intellectu in actu,
sed habebunt intellectum communem.
Et
tunc quero de
ilio intellectu comuni,
cum possit intelligi, utrum
intelligatur per eandem
speciem vel per
aliam; sed non est
abire in infinitum;
standum est igitur
in primis, quod
una species potest informare
intellectum plurium hominum
et pari ra- 206 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Nel corso
della discussione delle
obiezioni contro la
tesi dell'unità, l'Achillini inserisce
addirittura un brano
di Sigieri, che noi
conosciamo attraverso una
citazione del Nifo
e che questi dice
preso dal trattato
De intellectn, «
misso Thome in responsione ad
illum Thome» 77. Giova
riportarlo, per un
con- fronto con quanto scrive
il suessano: Ad, haec
supponamus quod iste
terminus « homo
» significat compositum ex
corpore et intellectu,
et quod «
homo » est per se unum,
directe reponibile in
praedicatione substantiae, sub
« ani- nali »,
intrinsece denoininatum intellectione
etc. Secundo, non potest
intellectus informare materiam
non informante cogitativa quia non
stat materia sino
forma constituta in
esse per eam;
et non potest intellectus
informare sine sua
proxima dispositione et ultima,
quae est cogitativa.
Et sic patet
cogitativam ordinari in intellectivam, quamvis
cogitativa non sit
forma generica. Ex quo
patet quare operatio
cogitativae et intellectus
possibilis se co- mitantur,
ut tangit Commentator,
2 De anima,
comm. 15. Ncque potest
cogitativa informare, non
informante intellectu, quia, dato
informabili ultimate disposito
et informativo, ponitur
in- formatio. Est autem
materia informata cogitativa
informabile propinquum et ultimate
dispositum ad recipiendum
intellectum; et sic potest
una forma substantialis
esse dispositio ad
aliain, dummodo illa forma
praeparans non sit
materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil
mali dictum est78.
Tertio, praemittendum apud Averroim
quod intelligentiae sunt
haec et individuae
individua- tione non repugnante
esse universali, quia
esse earum in
anima et extra animam
est idem, 3
De anima, comm.
9, et 7
Metaphy- sicae, commento 41:
«In abstractis non
differt quidditas ab eo
cuius est ».
Est autem intellectus
possibilis de genere
intelligen- tiarum, ideo non
repugnat intellectum dare
esse hoc, quamvis etiam
sit universalis. Ideo
concedo Sortem habere
suum esse hoc ab
intellectu. Sed a
materia, divisa informabili cogitativa. tione omnium;
igitur omnes homines
habent unum intellectum
numero »^ Appare evidente
da questo testo
d' Egidio e
da quello di
Tommaso, come si sia
ingannato il Fiorentino,
di solito attento
e accurato, quando ha
creduto di ravvisare
nel terzo argomento
dell'Achillini, qui sopra riportato, «
due mutazioni sostanziali
» dell'averroismo {Pietro
Pom- ponazzi. Studi storici
su la scuola
bolognese e padovana
nel sec. XVI. Firenze,
1868, pp. 254-255).
Il « conceptus
essentialis omnium indivi- duorum eiusdem
speciei » è l'
intellectum, cioè il
votjtÓv aristotelico,
l'universale che è
certamente unico per
tutti gì' individui
d'una stessa specie. Dall'unità
dell' intellectum Averroè
e, con lui,
l'Achillini dedu- cono l'unità
dell' intellectus possibilis. 77 Nifo,
De intellectu, 1,
tv. 3, e.
18; cfr. Sigieri,
p. 18. 78 Questa
frase che nel
riassunto del Nifo
manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e
mostra che questi
ha un testo
dinanzi a sé. I 20/
informante mediante dimensionibus, oritur
possibilitas multi-
plicationis individuorum sub
eadem specie; quae
omnia, secundum
Commentatorem, propter esse
universale intellectus, informari possunt ilio
et ab ilio
sumere suum esse
hoc et unum,
et verius unum quam
bruta a sensu,
quia mediantibus dimensionibus unitur sensus
materiae, sed non
intellectus 79. Parrebbe dal
confronto di questo
brano con quanto
ci è fatto sapere
dal Nifo, che
l'Achillini abbia fatto
sua una pa- gina dello scritto
di Sigieri in
risposta al De
unitale intellectus dell'
Aquinate. Come vedremo
più oltre, non
è questo l'unico caso
da rilevare. Dopo aver
sostenuta con sedici
argomentazioni la tesi dell'unità dell'
intelletto possibile, attribuita
ad Aristotele, ed aver
risolto le quattro
obiezioni contro di
essa, il bolognese conclude affermando
che la tesi
d'Aristotele e d'Averroè
è falsa, e, contro
il metodo finora
seguito, fa vedere
che cosa si può
rispondere ai sedici
argomenti a prò
di essa. Indi passa
a discutere un
terzo dubbio, e cioè «
Utrum intel- lactus possibilis
sit pure potentialis
». Il problema
era stato posto almeno
due volte da
Sigieri di Brabante,
e tutte e due
le volte
risolto allo stesso
modo: l'intelletto possibile,
prima dell'atto dell' intendere,
non ha alcun
atto, né può
dirsi so- stanza se non
in potenza. Affermare,
come facevano Tommaso ed
altri, che esso
sia una sostanza
in atto «
in genere intellectua- lis naturae
», prima dell'atto
d' intendere, « est
ponere con- traria et impossibilia
vel incompossibilia»8o; per
questa ra- gione appunto Aristotele
aveva detto e
quod intellectus ante intelligere nullam
naturam habet nisi
istam quod possibilis»^'. L' intelletto possibile
diviene atto e
sostanza « in
genere intellectualis naturae »,
soltanto per l'azione
su di esso
del- l' intelletto agente, che
è una sostanza
separata, la quale, come
ormai sappiamo, per
Sigieri è Dio. Identica
è la soluzione
che di questo
problema dà l'Achil- lini: r intelletto
possibile è sostanza
puramente potenziale « in
genere intelligibilium»^'-, e
quello che lo
trae dalla potenza 79
AcHiLLiNi, fol. II,
col. 2-3. ^0 Sigieri,
Qiiaestiones naturales, ed.
Stegmùller, III, pp.
179-180. ^i Sigieri, De
anima intellectiva, ed.
Mandonnet, IX, p.
171. Cfr. Giorn. Crii.
d. Filos. Hai.,
XX, 1939, pp.
467-471. 8i AcHiLLiNi, Quol.
Ili, dub. 3,
fol. 12, col.
i-fol. 13, col.
4. 2o8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI l'atto è
r intelletto agente
che, anche per
1' averroista ita- liano, come vedremo
esaminando il quarto
quolibeto, è Dio: Componitur enim
intellectus possibilis agenti;
tali tamen com- positione quod
remanent dnae substantiae
separatae in actu. Ideo,
3 De anima,
comm. 20, istae
substantiae sunt duae
uno modo, et unum
alio modo. Sunt enim duae
per diversitatem actio- nis;
et sunt unum,
quia intellectus materialis
perficitur per agen- tem.
Et
secundo De anima,
comm. 74, et
3 De anima,
comm. 36, omnis actio
attributa alieni propter
aliqua duo existentia
in eo, necesse est
ut unum sit
materia et aliud
forma; sed nos
intelli- gimus per intellectum
agentem et possibilem,
3 De anima, comm.
18; et sic
aliquo modo intellectus
agens est forma
nobis, ut patet 3
De anima, comm..
36. Se r intelletto
possibile non è
un atto prima
d' intendere, ma semplice potenza,
ne segue che l'
intellezione che attua questa
potenza, sia essa
l'atto sostanziale dell'
intelletto, poiché la pura
potenza non è
mai soggetto immediato
d'ac- cidenti. Perciò l'atto d' intendere,
del pari che
l'abito della scienza, è
perfezione essenziale dell' intelletto
possibile e atto che
costituisce la sua
sostanza quando pensa
e ragiona ^3. Anche
in questo egli
è perfettamente d'accordo
con Sigieri ^4 Unico
per tutta la
specie umana, l' intelletto
possibile è eternamente congiunto
coli' intelletto agente
che ne attua
la potenza, e possiede,
grazie a questo
congiungimento, un atto di
pensiero eterno in cui consiste
la sua stessa
natura. Di abiti e
di atti accidentali
si può parlare
non in rapporto all'
intelletto in sé,
ma solo in
rapporto ai fantasmi
sensibili ai quali l' intelletto
possibile s'unisce nei
singoli individui della specie
umana. Questo, s' intende,
dal punto di
vista averroistico, in quanto
s'ammette un unico
intelletto per tutti gli
uomini. Ma ciò
non è più
vero, se si
rifiuta come falsa la
tesi dell'unicità dell'
intelletto possibile.
L'ultimo dubbio del
terzo quolibeto verte
sul problema: « Utrum
intellectus possibilis sit
forma dans esse
hominem ». Giacomo Zabarella,
un secolo più
tardi, faceva le
sue mera- viglie perché l'Achillini,
dopo aver sostenuto
l'unità dell' in- telletto, non avesse
visto la contradizione
che e' è
ad affer- mare che lo
stesso intelletto, unico
per tutta la
specie, è forma ACHILLINI, fol.
13, col. I. Cfr.
Sigieri, nei luoghi
cit. I informante,
e non soltanto
assistente, sì da
costituire l'uomo nel suo
essere di uomo
^5. Ma il
filosofo padovano non
sapeva che anche in
questo il bolognese
segue da presso
il maestro brabantino. Del
quale è appunto
la tesi, a
quanto e' informa il
Nifo 86, che
r intelletto, pur
essendo unico in
sé stesso, è «
forma costituens hominem
et hunc hominem
: hominem in esse
specifico, et hunc
hominem in esse
hoc ». Anzi
il Nifo ci fa
sapere che Sigieri,
nell'opera della quale
il suessano riferisce alcuni tratti
che son riportati
alla lettera anche
dall'Achillini, come abbiamo visto
a proposito del
secondo dubbio di
questo terzo quolibeto, riteneva,
al pari del
bolognese, dottrina con- forme alla mente
d'Averroè quella che
afferma esser l' intel- letto possibile forma
sostanziale dell'uomo. Come
Sigieri, anche l'averroista italiano
poneva nell'uomo due
forme: la cogitativa tratta
dalla potenza della
materia, e l' intelletto. Ma la
prima è ordinata
al secondo, e
questo è complemento e
perfezione di quella
87 ; sì che la
materia già informata
dalla cogitativa è 1'
« informabile ultimate
dispositum ad recipien- dum
intellectum))88, che ne
è la forma
ultima. Il Nifo
ad espri- mere questo intimo
e sostanziale rapporto
fra la cogitativa e
r intelletto possibile,
s'era servito del
termine di «
semianime o semiforme ».
Il termine nell'Achillini non s'
incontra, e non credo
s' incontrasse nemmeno nello
scritto di Sigieri
al quale il suessano
si riferiva: ma
il concetto e'
è, sì nell'uno
che nell'altro 89. Forma sostanziale
che dà all'uomo
il suo specifico
essere di 85 Iacobi
Zabarellae, Liber de
mente hiimana (nel
voi. De rebus naturalibus, Venezia,
1590, pp. 641-684,
e nei Commentarii
in tres Arist. libros
de anima, Venezia,
1605, dopo il
commento al t.
11, del libro
II), cap. 3 e
II. 86 De inteUectu,
I, tr. 2,
e. 8, tr.
3, e. 18;
De anima. III,
comm. ad t. e.
5; cfr. Sigieri....
nel pens., pp.
14-20. Anche il
Card. Gaetano, nel
suo commento al De
anima, stampato a
Firenze, lui vivente,
nel 15 io, dopo aver
detto che Averroè
separò l'anima intellettiva
dal corpo, osserva in
margine che questo
è « contra
alexandrum achiUinum, quolibeto
30, et subgerium in tractatu
ad S. Thomam,
qui volunt quod
intellectus uniatur secundum esse,
apud averroem, et
sit unicus »
(III, cap. 2, fol. 59,
col. 3). 87 ACHILLINI,
fol. 15, col.
I. 88 AcHiLLiNi, fol.
II, col. 3. 89
In Sigieri anzi
il concetto s' incontra
fin nelle Quaestiones
super iertio de anima
del Merton College,
cod. 292; cfr.
«Giornale Crit. d. Filos.
Ital. », XXXI,
1950, pp. 317-25.
Lo stesso concetto
appare anche nelle Quaestiones
de anima intellettiva,
ed. Mandonnet.] uomo, r
intelletto non è per altro
« forma constituta
in esse per materiam
», sì da
dipendere da questa,
come accade per le
forme che son
tratte dalla potenza
della materia, poiché ha
un proprio essere
di forma separata
al pari delle
intelli- genze celesti, che pur
son forme dei
rispettivi cieli 9°. Ed
anche in questo concetto
l'accordo dell'Achilhni coll'averroista belga è
perfetto. Forma e perfezione
del primo cielo
Dio, forma e
perfezione dei cieli inferiori
al primo le
intelligenze motrici, forma
e perfezione dell'uomo l' intelletto
possibile, che è l'
infima delle intelligenze. Resta
ora da vedere
come Dio sia
forma anche degl' intelletti
e ragione di
ogni intelligibilità. 4. -
Il quarto quolibeto
è dedicato all'
intelletto agente. Se r
intelletto possibile è pura potenza,
l' intelletto agente è puro
atto senz'ombra di
potenza; perciò esso
possiede, fra tutti gì'
intelletti, il massimo
grado d' intensità nell'
intendere. Esso dunque è
Dio. La identità
dell' intelletto agente
con Dio, che il
Nifo attesta essere
stata sostenuta da
Sigieri, è dimo- strata
dall' Achillini con questi
argomenti: Primo, omnis felicitas
est deus; sed
intellectus agens est
feli- citas; ergo etc.
Maior et minor
in secundo dubio
et tertio decla- rantur. —
Secundo, omnis intellectus
qui est. omnia
facere est deus; sed
intellectus agens est
intellectus qui est
omnia facere, 3 De
anima, textu comm.
18, etc. Patet
maior, quia esse
omnia facere est ad
omnia receptibilia in
intellectu possibili, ad hoc
ut in
eo recipiantur, effective
concurrere, vel est
ad omnia facti- bilia
effective concurrere, vel
omnia facere, idest
purus actus; et quomodocumque intelligatur,
soli deo competit.
— Tertio, illud cuius
substantia est sua
operatio omnimode, est
deus; sed intel- lectus agentis substantia
est illius operatio
omnimode, 3 De
anima, comm. 19: «Et
est in sua substantia actio
», idest, non
est in eo potentia
ad aliquid. —
Quarto, omne quod
est primum educens formam de
materia, est deus;
patet ex quolibeto
primo. Sed in- telligentia agens
est primum educens
etc, 2 De
aniìna, comm. 59. —
Quinto, omne quod
animae nostrae infundit
intellectum, est intellectus agens;
sed deus animae
nostrae infundit intellectum. Patet maior,
quia intellectum speculativum facit
intellectus 90 Achillini, fol.
15, col. 2; cfr.
Quol. Ili, dub.
3, contra, ad i,
fol. 12,
col 3. Nifo,
De intell., 1,
tr. 2, e.
8; De anima,
III, comm. ad t.
5; V. Sigieri,
pp. 14-20. I agens
esse in intellectu
possibili, faciendo de
potentia intellectis actu intellecta.
Minor est
Aristotelis exemplum, 3
Rhetoy'icorum: « Intellectui deus
lumen accendit in
anima ». Ex hoc patet
quare Commentator, 3
De anima, comm.
20, dixit se differre
a Themistio, in
modo ponendi intellectum
agentera, et convenire cum
Alexandre; quia Themistius
voluit intellectum agentem non
esse Deum, quia
animae nostrae est
pars; sed Alexan- der voluit intellectum
agentem esse deum:
patet ex 3
De anima, comm. 36,
ubi Commentator, recitando
opinionem Alexandri dixit: «
Intellectu s agens est
prima causa agens
intellectum ma- terialem))9i.
Il primo
di questi argomenti
è preso da
Sigieri?-, come ve- dremo anche meglio
fra poco. Il
secondo e il
terzo son ricavati dal
testo aristotelico del De animai,
ov' è detto
che è proprio dell'
intelletto agente rendere
intelligibili tutte le
cose, e che lo
stesso intelletto agente
è atto per
sua natura, senza
alcuna mescolanza, sì che
« non intende
ora sì ed
ora no »,
ma intende sempre, senza
intermissione; le quali
cose son proprie
sol- tanto di Dio. Importante
poi è l'osservazione concernente
la dichiarazione di Averroè,
il quale approva
Alessandro d'Afro- disia,
per avere identificato
l' intelletto agente colla
causa prima che trae
dalla potenza all'atto
l' intelletto possibile o hylico. Dopo
di che l'Achillini
riporta ben nove
obiezioni che so- levano farsi alla
tesi da lui
sostenuta; l'ultima delle
quali è questa: «
Nono, sequitur deum
esse partem animae
nostre, quod non videtur
etc», giacché Aristotele 94
aveva detto che tanto
r intelletto agente
quanto quello possibile
bisogna che siano due èv t-^
^u/y^... Sia9opaL Alla
quale obiezione il bo-
lognese risponde semplicemente così:
«Ad nonum, declaratum est supra
quomodo deus est
pars animae nostrae,
et quomodo non )).
Ed infatti in
un passo del
quolibeto III, dub.
3, che abbiamo già
riferito altra volta
95, egli aveva
detto che, pur essendo
l' intelletto possibile ed
agente due sostanze
diverse, s'uniscono nell'atto dell'
intendere di guisa
che in qualche modo
« intellectus agens
est forma nobis
». 91 AcHiLLiNi, Quol.
IV, dub. I,
f. 16, col.
I. V. sopra,
il saggio VI. 92
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 17; cfr.
Sigieri, p. 25. 93
II, e. 5,
43oa 15, 18,
22. 94 De anima. ] Ma
in che modo
Dio s'unisca all'
intelletto umano come forma,
è detto più
ampiamente nella discussione
del secondo dubiuni del
IV quolibeto, ove
si pone lo
stesso problema che s'era
posto Sigieri nel
Libey de felicitate
9^, « Utrum
felicitas sit deus »,
e lo risolve
allo stesso modo
del brabantino. Dio è
il fine
supremo di ogni
intelligenza, nel cui
conseguimento consiste la beatitudine,
perché Dio è
ciò che è
« simpliciter perfectum quod secundum se
est eligibile semper
», è «
opti- mum, pulcherrimum,
delectabilissimum », è
quello che «
nullo indiget » ed
è « principium
honorum et causa
ipsorum ». Sol- tanto Dio, dunque,
« est felicitas
sibi aut aliis
intelligentiis aut homini, quia
solum ipse est
perfectissimum intelligibile et appetibile
propter se », e solo
in lui «
eminenter reperitur ratio obiecti
intellectus et voluntatis
» 97, Si dirà
che la felicità
è un atto
che è in
noi, mentre Dio non
è in noi.
L'Achillini risponde che,
come nel primo
quoli- beto aveva concesso « deum esse
intellectionem intelligentia- rum,
nunc conceditur deum
esse intellectionem intellectus possibilis et
hominis » 9^. Ma
s'obietta ancora: Tertio, nullum
obiectum operationis quae
est felicitas est
illa operatio quae est
circa illud obiectum;
patet ex differentia
Inter obiectum operationis et
operationem. Sed deus
est obiectum operationis quae
est felicitas; patet
io Ethicorum, cap. io: « Per- fecta
felicitas est operatio
speculativa optimorum ».
Ergo etc. A questa
obiezione l'Achillini risponde
negando la mag- giore : Ad tertium
negatur maior, quia
sufficit inter operationem
et obiectum distinctio rationis.
Dico igitur quod
felicitas (non in- telligo
polica[m] quae est
usus virtutis, septimo
Politicorum, sed
contemplativa [m], quae
secundum Philosophum, decimo Ethicorum, cap.
8, est secundum
nobilissimum habitum qui
est sapientia, et secundum
eundem, septimo Politicorum,
est melior quam politica)
non est actus
qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati:
quia si sic,
tunc non tenderent
intellectus et vo- luntas
in félicitatem tamquam
in ultimum finem.
Secundo, quia ille actus
non est perfectissimum. Tertio,
quia oporteret ponere ¥>
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 2 e
17; cfr. Sigieri,
pp. 24-26. 97 AcHiLLiNi,
fol. 16, col.
3-4. 98 ACHILLINI, fol.
16, col. 4. I
« duas felicitates:
imam formalem et
intrinsecam, et aliam
obiecti- vam et extrinsecam
; et sic
Aristotelem et Commentatorem
indi- stincte processisse in
aequivoco, cum dixeriint
felicitatem esse ultimum fineni
et operationem animae.
Quarto, quia ex
quolibeto tertio non datur
accidens inhaerens intellectui.
Concludo igitur quod tantum
una est felicitas,
et quod ea
omnia vere felicitabilia felicitantur; et
ista est deus.
Hanc sententiam ponit
Commen- tator, IO Etliicoritm,
capite 8: in
Deo esse felix
est in speculatione sui, in
nobis esse felix
est in eo
in quo est sibi, prout
nobis est possibile 9"). Allo stesso
modo Sigieri sosteneva
che, come «
Deus Deo per essentiam
beatificatur », così
l' intelligenza a lui
più vi- cina « essentia
Dei ut forma
felicitatur », «
et consequenter omnes residui
intellectus; adeo quod intellectus hominis essentia Dei
felicitatur, quemadmodum Deus
essentia Dei»ioo. Sebbene distinti
nella loro natura,
l' intelletto causato non potrebbe
intendere Dio, se
Dio non lo
informasse di sé,
giacché, tanto per l'Achillini
quanto per Sigieri,
« intellectio qua
Deus intelligitur est ipse
Deus»; l'operazione colla
quale Dio è inteso
da parte dell'intelletto causato
e l'oggetto inteso formano, nell'atto
dell' intendere, una
cosa sola. In
quest'atto, Dio, informando di
sé gì' intelletti
inferiori, fa ad
essi dono di se stesso.
« Ex quo
patet — osserva
il bolognese — quod
felicitas est optimum
deorum donum, quia
non est donum excellentius quam
donare seipsum, et
praesertim si donatum sit
perfectissimum entium. Hinc
apparet quam commode potuit Aristoteles,
13 De animalibus,
substantiam hominis divinam appellare
» '"i. Principio di
siffatta beatitudine è,
pertanto, il congiungi- mento della mente
um.ana con Dio
nell'atto dell' intendere. Perciò la
felicità consiste formalmente
in un atto
d' intelli- genza, poiché
solo nell'atto dell'
intendere avviene il
congiun- gimento dello
spirito causato coli'
intelletto primo :
la beatitu- dine è il
più alto grado
della vita speculativa,
come con Ari- stotele aveva detto
Averroè 'o-. A questo
punto giova chiarire
qual era il
pensiero di Si- gieri intorno ad
una questione dibattura
specialmente fra i 99
ACHILLINI, fol. IO,
col. 4-fol. 17,
col. I. 100 NiFo,
/. c; V.
Sigieri, p. 25. loi
AcHiLLiNi, fol. 16,
col. 4. Cfr.
Arist., De part.
animai., IV, e. IO,
686» 27-28. "•- Eth.
Xiconi., X, comm.
al e. 8,
11 jS 20
sgg.; De anima,
III,comm.] teologi. Questi solevano
chiedersi se l'esser
beato si fonda, come
dice Dante ^°3,
nell'atto che vede
oppure in quel
ch'ama; in altri termini,
se la heatitudo
risieda formalmente in
un atto di conoscenza
del quale è
soggetto l' intelletto, ovvero
in un atto d'amore
che risiede nella
volontà. Ed è
noto che, mentre i
teologi del vecchio
indirizzo agostiniano e
i francescani po- nevano la
beatitudine in un
atto di volontà
al quale precede la
conoscenza, Tommaso e
la sua scuola
la facevano consi- stere essenzialmente in un atto
d' intelligenza, d'accordo in questo
cogli averroisti, al
quale atto d' intelligenza tien
dietro l'atto d'amore da
parte della volontà.
Se non che
l'una e l'altra teoria presuppongono
una troppo netta
distinzione fra l' in- telhgenza e
il volere. Sigieri
supera il problema,
negando la distinzione reale
fra queste due
« facoltà ».
Ciò risulta da un
importante luogo del
Nifo, che prima
m'era sfuggito. Dopo aver
riassunto « que ex libello
Subgerii.... excipiun-
tur"4)), intorno al
problema dell'identità della
beatitudine con Dio, il
Nifo prosegue: Ut igitur
positio huius philosophi
intelligatur, oportet accipere quod
sicut unum precise
est intellectum et
volitum sub diversis rationibus, intellectum
quidem ut perficiens
intellectum ipsum absolute, volitum
ut perficiens illum
sub indifferentia fuga
aut consensus; ita una
numero est intellectio
et volitio, sed
differunt quoniam
intellectio est intellectum
absolute, volitio est
intellectum ut acceptum vel
fugitum; sic unamet
res est voluntas
et intel- lectus 105
: intellectus quidem,
ut perficitur ac
formatur ab intel- ligibili sub ratione
forme absolute; voluntas
autem ut perficitur ratione fuge
vel prosequele, ut
superius diximus. Ergo
intellectus et voluntas sunt
unamet res simpliciter
absolute, licet sint
di- verse rationes; et inde
videmus Aristotelem et
Averroem nuUam facere differentiam
inter ea, nec
tractatus diversos, nec
capitula diversa, ut in
libro De anima
visum est. Ex quo
sequitur, quod unamet
felicitas est intellectio
et vo- litio, ac unainet
essentia est intellectum
et volitum; est
enim in abstractis intellectio
rei idem quod
ipsa res, ac
volitio rei idem etiam
cum re volita.
Ergo si Deus
erit felicitas. Deus
erit intel- lectio et volitio
insimul; et etiam
simul est volitio
quod felicitas, et intellectio
quod volitio et
felicitas etc. Amplius sequitur
quod ociosa est
questio querens utrum
fe- 103 Pa»'., XXVIII,
109-111. '04 Nifo, De
intelL, II, tr.
2, e. 17;
cfr. Sigieri, p.
26. i°5 Così anche
I'Achillini, Quol. Ili,
dub. 3, fol.
13, col. 4: «Ad
primum, voluntas et
intellectus sunt idem
re, licet secundum
esse vel rationem differant
». I licitas principalius sit
intellectio quam volitio,
an econtra; cum volitio
et intellectio non
differant nisi nomine
vel ratione; nisi questio
fiat sub ratione
respectiva hoc modo,
scilicet utrum fe- licitas
sit Deus sub
ratione qua intellectio,
an Deus sub
ratione qua volitio vel
amor ^°(>. A questa
felicità, dichiara l'Achillini,
noi tendiamo per
na- tura, né può darsi
che il desiderio
naturale resti inappagato in
tutta la specie.
Perciò, considerato in
rapporto alla specie umana
che è eterna,
anche l' intelletto umano,
come insegna Averroè, è
eternamente felice, perché
eternamente congiunto con Dio e colle
intelligenze separate '07.
Ma non felici
son tutti gli uomini,
singolarmente presi, poiché
non tutti arrivano, in
questa vita, a
questo segno. Giacché
per l'Achillini, come per
Sigieri, si tratta
appunto della felicità
alla quale è
concesso all'uomo d'arrivare in
questa vita, mediante
l'acquisto della scienza: «
Felicitatem autem in
alia vita, quam
non potuerunt philosophi naturali
ratione inquirere, theologis
relinquimus considerandam » ^°^. Ma
può l'uomo arrivare
in questa vita
a conoscere le so-
stanze separate ? Tale
il problema che
il nostro bolognese
si pone subito dopo,
col terzo dubbio.
Nella soluzione di
esso egli fa uso
dell'argomento di Sigieri,
riferito dal Nifo
e da Francesco de'
Silvestri: Secundo, si impossibile
esset intellectum possibilem
intelligere substantias
abstractas, ociose egisset
natura, quia fecisset,
quod est in se
naturaliter intellectum, non
intellectum ab aliquo.
Ratio est Averrois, secundo
Metaphysucae, comm. primo.
Suppono in hac ratione,
quod omnis intellectio
conveniens intellectui pos- sibili convenit homini,
sic quod non
est possibile quod
intellectui competat, quin homini
conveniant: hoc voluit
Aristoteles, primo De anima,
textu commenti 64, et
hoc proposito negato,
clauditur via Commentatori ad
ostendendum caelum intelligere.
Ideo, si possi- bile est substantias
separatas intelligi ab
intellectu possibili, possi- bile est substantias
separatas intelligi ab
homine. Hoc stante, arguo
sic : Ouandocumque est
aliqua forma non
apta recipi in maxime
receptivo alicuius generis,
illa non est
receptibilis in minus reciptivo
illius generis; sed
intellectus possibilis in
genere intelligentiarum est maxime
receptivus; patetexquolibeto tertioio9; 106 Nifo,
ib., e. 18. 107
AcHiLLiNi, fol. 17,
col. I. Cfr.
AvERR., De awf/Ma,
III, comm. 36. 1°^
ACHILLINI, ib. i°9 V.
sopra, pp. 207-208. 2l6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI ergo, si
primam formam non
est possibile intellectum
possibilem recipere, non est
possibile alium intellectum
recipere primam. formam; et
sic iam frustrarentur
intelligentiae mediae ab
hoc fine, qui est
deum gloriosum intelligere.
Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus
non potest intelligere
interiora, ut quolibeto primo dictum
est esse de
mente Averroismo; sed
nulla intelli- gentia media
potest primam intelligere,
ut ex ratione
superiori sequitur; ergo nulla
intelligentia potest intelligentiam mediam intelligere; sed
ncque deus potest
intelligentias medias intelligere, secundum Averroim,
ut patet quolibeto
primo; neque intellectus possibilis potest
eas intelligere per
te; ergo intellectum
naturaliter in se non
est intellectum ab
aliquo. Patet consequentia
de intel- ligentiis mediis:
quia non a
Deo, qui est supra; non
a seipsis, ut sequitur;
neque ab intellectu
possibili, qui est
infra, per te intelliguntur; et non est
alius intellectus ab
istis. Et sic
patet alia ociositas in
natura et maxima;
et sic patet
quod, quamvis non sit
homo finis intelligentiarum, tamen,
si non sunt intelli-
gibiles ab homine,
frustrantur a suo
fine; et sic
ociose sunt in- telligibiles etc.
Ilaec omnia ex
modis intelligendi dei,
intelli- gentiarum et
intellectus possibilis supra
declaratis sunt evidentia'". Passando ad
esporre i fondamenti
filosoiìci sui quali
si basa la tesi
che attribuisce all'
intelletto umano il
potere di ele- varsi a
conoscere le sostanze
separate, l'averroista bolognese distingue, come
aveva già fatto
Giovanni di Jandun
"2, la conoscenza speculativa
acquisita per mezzo
dello studio delle discipline filosofiche,
dalla conoscenza intuitiva,
« qua cogno- scimus
substantias separatas per
earum essentias proprias
» ; e in
quest'ultima fa consistere
la felicità suprema
dell'uomo. Sì che la
beatitudine non è
raggiunta coll'acquisto delle
scienze speculative, ma dopo
il loro apprendimento. L'acquisto
per altro delle scienze
è una condizione
indispensabile e sufficiente a
rendere la mente
umana preparata e
disposta al congiungi- mento coir intelletto
agente, che sappiamo
ormai esser Dio. Ma,
oltre a ciò,
è necessario che
alla perfetta conoscenza
spe- culativa tenga dietro la
pratica delle virtù
morali: Cum igitur fuerit
homo secundum virtutes
morales sufficienter
habituatus, sic quod
cessaverit discordia inter
sensitivum appe- titum et
intellectivum; sic quod
rationi regimen tributum
erit 11° AcHiLLiNi, Quol.
I, dub. I.
Questo luogo, nella
stampa veneziana, è evidentemente
difettoso. "I
AcHiLLiNi, Quol. IV,
dub. 3, fol.
17, col. 1-2;
NiFO, De intell., II,
tr. 2, e.
II ; In
Averroys de anime
beatitudine , I, comm.
53; cfr. Sigieri, pp.
22-23. "2 De anima.
III, q. 36;
Metaph., II, q. 4.
I «
sine intrinseco repugnanti;
sic quod veruni
erit dominium ra- tionis
super viribns sensitivis,
tunc continuabitur intellectus
possibilis, secundum quod
est felix, homini
et denominabit homi- nem felicem. Ex
quo patet quod
quia in habituatione
hominis secundum virtutes et
scientias magnum tempus
vitae hominis labitur "3. Unito al
corpo umano da
un legame intrinseco,
l' intelletto possibile trae dall'esperienza sensibile
le forme immerse
nella materia e rese
immateriali per un
processo d'astrazione. Quando, attuato
da queste forme
divenute intelligibili e dal-
l'abito delle scienze filosofiche,
l' intelletto umano si
trova congiunto coli' intelletto
agente nell'atto della
beatitudine, alla stessa beatitudine
parteciperanno in tal
modo le cose
del mondo materiale, fatte
intelligibili; sì che
l'uomo verrà ad essere
anello di congiunzione
fra il mondo
superiore e il
mondo inferiore, « nexus
superiorum cum inferioribus,
ultra hoc quod forma
hominis sit intelligentia » "4.
Anzi, siccome Dio nell'atto
della beatitudine è
forma dell' intelletto
beato, e questo è
forma del corpo
umano, ne segue
che anche la
stessa materia partecipa alla
beatitudine; di guisa
che attraverso l'uomo la
beatitudine si diffonde
su tutto il
mondo inferiore "5. Ma
poiché l' intelletto agente
è la suprema
Intelligenza, cioè Dio, mentre
l' intelletto possibile è l'
infima, questo non può
unirsi immediatamente alla
prima Intelligenza, sibbene mediante le
intelligenze intermedie. Sì
che nell'atto stesso e,
potremmo dire, coll'atto
stesso col quale
s'unisce all'uomo r intelletto
agente come forma,
s'uniscono all' intelletto
pos- sibile anche le altre
intelligenze ad esso
superiori già informate dalla prima
Intelhgenza: Cum intellectus agens
sit suprema intelligentia, et
intellectus possibilis sit intima,
non potest naturaliter
uniri intellectus agens intellectui possibili
immediate, quia aliae
intelligentiae naturaliter
mediant. Ideo oportet
quod aeque cito,
sicut incipit intellectus agens esse
forma et intellectio
istius hominis, incipiat
quaelibet alia intelligentia media
informare hunc hominem.
Ex hoc pate- bunt
apud Aristotelem et
Commentatorem novem gradus
feli- citatis, sicut novem
sunt apud eos
intellectus felicitabiles, quorum 113
AcHiLLiNi, fol. 18,
col. I. "4 76. "5 Ib.,
fol. 18, col.
2. Per questa
teoria della beatitudine,
v. sopra il saggio
VI, dedicato alla
mistica averroistica.] prinius et
maximus dee convenit,
nonus vero et
intìmus intellectui
possibili, medij vero
medijs intelligenti] s
aptantur ordinate etc, quia
intellectus cognoscens deuni
per plura media
remissius cognoscit et imperfectius.
Ideo prima, quae
est sua cognitio
per essentiam, se perfectissime
cognoscit. Secunda autem
intelli- gentia recipiendo cognoscit
primam, licet immediate
eam recipiat. Tertia vero
mediante secunda; et
sic gradatim descendendo
"6. In questo senso
dice Sigieri, come
ci attesta il
Nifo, che r intelletto
possibile dell'uomo, «
ut habet esse
intentionale, est materia omnium
intellectuum separatorum »
"7. Nell'ultimo dubbio di
questo quarto quolibeto,
l'Achillini riassume e schematizza
quanto ha detto
in questo stesso
quo- libeto e nel terzo,
circa il congiungimento {copulatio,
continuatio) dell'uomo coli' intelletto.
I congiungimenti, a
dir vero, son tre,
e non uno
solo: il primo
è quello dell'intelletto possibile col
corpo umano di
cui è forma
; il secondo
è quello dell'
in- telletto agente coli' intelletto
possibile ; il
terzo è il
congiungi- mento dell' intelletto agente
coll'uomo. Il primo congiungimento è
duplice. Anzi tutto,
l' intelletto possibile s'unisce all'uomo
secundum esse, cioè
come forma sostanziale che
dà all'uomo il
suo essere specifico
di uomo, e ciò
fin dal momento
in cui l'uomo
comincia ad essere
uomo. Indi s'unisce a
lui secundum operationem,
quando l'uomo comincia a
far uso dell' intelligenza "8,
Questo duplice con- giungimento era già
esplicitamente distinto da
Sigieri, secondo la testimonianza
del Nifo "9. Anche il
congiungimento dell' intelletto
agente coli' intel- letto possibile è
duplice : dapprima
l' intelletto agente s'unisce all'
intelletto possibile come
causa agente dell'
intendere, concorrendo
all'astrazione del concetto
dall' immagine o fantasma
sensibile, e promovendo
lo sviluppo intellettuale
per mezzo delle scienze;
indi, al termine
dello sviluppo intellet- tuale, s'unisce all'
intelletto possibile, acconciamente
disposto e preparato, come
forma che ne
attua tutta la
potenzialità e gli dà
la beatitudine '=o.
Siffatta distinzione è
d'Averroè '^i. "6 Ib.,
fol. i8, col.
2. "7 Nifo, De
intelL, I, tr.
3, e. 18;
cfr. Sigieri, p.
19. "8 AcHiLLiNi, Ib.,
fol. 19, col.
3. 119 De intelL,
1, tr. 3,
e. 26; De
anima, III, comm.
ad t. 5;
cfr. Si- gieri, pp. 15
e 20. 121 AcHiLLiNi,
ib., col. 3-4. 120
AvERR., De anima.
III, comm. 36. I
" Ed essa vale
anche per il
congiungimento dell' intelletto agente con
l'uomo. Giacché dapprima
l' intelletto agente,
trovando l' intelletto possibile
già unito secundum
esse al corpo di
quest'uomo particolare (per
esempio, di Socrate), illumina della
sua luce i
fantasmi della cogitativa
di lui, di- versi dai
fantasmi di altri
uomini, e ne
trae quelle specie
in- telligibili che sono intese
in questo particolare
momento da Socrate. Piìi
tardi, quando l' intelletto
di Socrate, conve- nientemente attuato dagl'
intelligibili tratti dalla
sua parti- colare
cogitativa, si sarà
arricchito di una
sempre più varia e
complessa esperienza, l' intelletto
agente gli dischiuderà, se n' è degno,
il mondo splendente
della pura luce
che emana da sé,
come da sole
d'ogni intelligibilità '-^ Come
in Sigieri, così anche
nell'Achillini s'avverte lo
sforzo per superare
la difficoltà maggiore dell'averroismo, già
avvertita dallo stesso filosofo di
Cordova, consistente nel
bisogno di conciliare l'universalità del
conoscere e il
valore della personalità
umana individuale. La grande
obiezione che S.
Tommaso fa, dal punto
di vista strettamente
filosofico, alla dottrina
d'Averroè, è appunto questa:
posta l'unità dell'
intelletto, come può esser
vera la proposizione
: « hic
homo intelligit »
? "3 Alla fine
del diibimn «
utrum felicitas -^it
deus >>, l'Achillini si domanda
se l'uomo che
in questa vita
abbia avuto il
pri- vilegio d'arrivare a congiungersi
coli' intelletto agente
come a sua forma,
può perdere volente
o nolente questa
sua beati- tudine. La sua
risposta è incerta
e imbarazzata, anche
perché concerne uno dei
più scottanti problemi
che, non molti
anni dopo, sollevò gran
clamore di dispute,
voglio dire il
problema dell' immortalità personale.
Già S. Tommaso
avea notato che, tolta
tra gli uomini
ogni diversità d' intelletto, ne
segue che, dopo la
morte, niente rimanga
della coscienza indivi- duale'=4. L'averroista
bolognese, pur ritenendo
con Sigieri che r
intelletto possibile è
forma del corpo
umano, e che
nel suo atto d' intendere
è essenzialmente legato
ai fantasmi della cogitativa, pensa
che all'eternità dell'
intendere e della
bea- titudine non sia necessario
un legame col
singolo, bastando il 122
ACHILLINI, fol. ig,
col. 4. 1^3 Cfr.
la mia introduzione
a S. Tommaso,
Trattato sull'ìtniià dell'in- telletto, pp.
43-50. 1-4 Tratt. sull'unità
dell' intell.] legame colla
specie, la quale
nella successione dei
molteplici individui dura eterna: Testatur enim
Aristoteles, quinto Ethicorum,
capite 13: u
Multa enim et natura
existentium scientes et
operamur et patimur, quorum nulluni
neque voluntariuni neque
involuntarium est, puta senescere
vai mori ».
Conditio enim suae
naturae, quam scit esse
mortalem, non patitur
nolle, et quia
mors non est
finis neque bonum, 2
Physicotum, textu et
commento 23, ideo non vult
felix mortem. Neque desiderio
naturali permanentiam sempiternam appetit in
individuo, sed in
specie, secundo De
anima, comm. 34, et
primo Physicoruni, comm.
81. Et propter
hoc in proem.io
octavi Physicorum dixit Commentator,
fortunitatem ultimam esse
se- cundum fatuos vitam
aeternam. IMulta autem
mala felicitas hominis compatitur,
quae felicitati dei
aut intelligentiarum re- pugnant.
Est enim, inter
veros felicitatis gradus,
humanus intì- mus. Ideo,
primo Ethicorum, capite
14: « Sapientem
omnes exti- mamus fortunas
decenter terre ».
Felicitatem autem in
alia vita, quam non
potuerunt philosophi naturali
ratione inquirere, theo- logis
relinquimus considerandam 125. Il
Pomponazzi, sebbene abbia
dell' intelletto possibile
un concetto così diverso
da quello dell'Achillini, sul
tema dell' im- mortalità personale è
perfettamente d'accordo con
lui: tranne che per
il mantovano solo
l' intelletto agente è
veramente im- mortale per essere
una sostanza separata,
come volevano anche Temistio
e gli averroisti
^'^. 5. - Visti
quali sono i
diversi gradi d' intelligenza, compresi fra
la mente Prima
che è puro
atto e l' intelletto
possibile che in sé
è pura potenza,
l'Achillini affronta il
problema che s'era posto
da principio, e
cioè « utrum
latitudo intellectuum sit uniformiter
difformis ». Un
siffatto problema era
nato, come dicevamo, dal
tentativo di applicare
a misurare i
gradi d' intensità dell' intelligenza
il metodo delle
calcidaiiones matematiche,
che s'usa per
misurare l' intensità delle
quahtà materiali, come la
velocità, il colore,
la temperatura e via
dicendo. Qualcosa di
simile è stato
tentato nella psicologia moderna per
misurare l' intensità della
sensazione ; e
già 1*5 AcHiLLiNi, Quol.
IV, dub. 2,
fol. 17, col.
I. 126 p Pomponazzi, De
immortai . animae, cap.
io. I e Nicolò
d' Oresme aveva
esteso il metodo
al calcolo del
dolore e del piacere
^-7. Appiglio a porsi
siffatto problema nei
riguardi dell' intelli- genza dev'essere stato
quel che si
legge nel Liber
de causis, che è
un estratto della
Elenientatio theologica di
Proclo: In primis Intelligeiitiis est
virtiis magna, quoniam
sunt vehe- mentioris unitatis,
quam Intelligentiae secundae universales inferiores; et
in Intelligentiis secundis
inferiores sunt virtules debiles, quoniam
sunt minoris unitatis
et pluris multiplicitatis. Quod est
quia Intelligentiae quae
sunt propinquae Uni
puro, sunt maioris quantitatis
et maioris virtutis;
et Intelligentiae quae sunt
longinquiores ab ipso,
sunt minoris quantitatis
et debilioris virtutis. Et
quia Intelligentiae propinquae
Uni puro sunt
maioris quantitatis, accidit inde
ut formae quae
procedunt ex Intelli- gentiis primis procedant
processione universali unita;
et nos quidem abbreviamus
et dicimus, quod
formae quae veniunt
ex Intelligentiis primis in
secundas, sunt debilioris
processionis et vehementioris separationis
i-^. Allo stesso modo
Alberto Magno: Omnes.... formae
ab ipsa totius
universitatis natura largiuntur; quo autem
magis ab ea
elongantur, eo magis
nobilitatibus suis et bonitatibus
privantur; et quo
minus recedunt eo
magis no- biles sunt
et plures habent
bonitatum potestates et
virtutes 1^9. Siffatto modo
d'esprimersi sembra fatto
a posta per
invo- gliare ad applicare il
metodo del calcolo
matematico all' in- telligenza. E l'Achillini,
dopo essersi chiesto
se la latitudo degli intelletti
sia « uniformiter
difformis », si
pone altresì il quesito
« utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio
at- tendatur penes appropinquationem summo
». Esula dall'
in- tento che ci siamo
proposti in questa
ricerca, il seguirlo
nella critica che egli
fa della pretesa
di stabihre un
rapporto quanti- tativo fra i
vari gradi d' intelligenza, e
perciò ci hmitiamo
a segnalare la soluzione
negativa che egli
dà dei due
problemi, a chi avesse
ancora in proposito
delle fìsime del
genere 13°. 127 A.
Maier, An der
Grenze, pp. 324-325;
cfr. altresì a
pp. 258-259. 128 Liber
de causis, prop.
X; cfr. Proclo,
Institutio theologica,
CLXXVII (l'opuscolo era
stato tradotto in
latino da Guglielmo
di Moerbeke nel 1268,
col titolo di
Elenientatio theologica).
"9 Alberto Magno,
De intellectu et
intelligibili, I, tr.
i, e. 5. 130
ACHILLINI, Ouol. ]Dalle pagine
che precedono sembra
intanto potersi con- cludere che solo
la prima Intelligenza
è fonte di
sapere e di luce
intellettuale. S. Tommaso
agli averriosti che
dall'univer- salità del conoscere avevano
preteso di dedurre
l'unità del- l' intelletto per
tutti gli uomini,
obiettava che, se
mai, se ne dovrebbe
concludere, secondo il
loro modo di
vedere, « che debba
esservi un solo intelletto
non soltanto per
tutti gli uomini, ma
in tutto l'universo;
sì che il
nostro intelletto non è
soltanto una qualsiasi
sostanza separata, ma
è Dio stesso
«'ji. L'Aquinate aveva ragione.
Né Sigieri e
l'Achillini gli danno torto
: che per
essi Dio è l'
intelletto agente che
effettua sì nella mente
umana sì nelle
intelligenze celesti l'atto
dell' in- tendere e s'unisce
all'una e alle
altre come forma,
a tal segno da
fare in qualche
modo una sola
sostanza con ciascuna
di quelle. Soggetto assoluto
di pensiero e
sorgente d'ogni intelli- gibilità. Dio causa
col suo intendere
altri intelletti, nei
quali l'atto dell' intender
divino si particolarizza per
gradi, fino all' intelletto
della specie umana
che, informando i
vari corpi dotati di
sensibilità, mentre comunica
ad essi la
sua superiore individualità spirituale,
ne assume l' individualità contin- gente e caduca,
per farla partecipe
dell'atto divino del
cono- scere. Si rileva altresì
dalle pagine precedenti,
che l' interpreta- zione
sigeriana del pensiero
aristotelico doveva apparire
al- l'Achillini un' interpretazione organica,
sistematica in tutti i
suoi particolari, e
sostanzialmente diversa da
quella tomi- stica ispirata dal
bisogno di abbreviare
la distanza fra
la « filo- sofia »
e la fede,
quasi che la
fede non avesse
in se stessa
una filosofìa che la
giustificava appieno. Liberi
da questa preoccu- pazione apologetica, gli
averroisti potevano discutere
in piena indipendenza di
spirito e con
grande spregiudicatezza intorno a
quello che era
il genuino pensiero
d'Aristotele, s'accordasse o non
s'accordasse colla fede. Giustamente dice
il Laurent, parlando
del domenicano Bartolomeo Spina
avversario del Pomponazzi
: « Per
lui che non ha
subito l' influsso del
rinnovamento che 1'
Umanesimo ha introdotto nella
teologia, affermare che
Aristotele nega r immortalità
dell'anima, equivale ad
affermare che tale 131
S. Tommaso, Traci,
de unit. intelL,
ed. Keeler, §
107; cfr. la mia
traduzione e relative
note, Firenze, Sansoni] dimostrazione è
filosoficamente impossibile. Basta
leggere alcune pagine del
suo lavoro per
rendersi conto dei
principi che han diretto
le sue critiche.
Il vecchio binomio:
Aristo- tele = Verità, è
il sottinteso, starei
per dire, d'ogni
riga del suo volume....
Non bisogna perciò
stupirsi delle invettive
che lo Spina rovescia
sui suoi avversari:
i termini più
virulenti ricorrono sotto la
sua penna» n-. E
la stessa osservazione
il Laurent ripete a proposito del
tomista del cinquecento,
Fran- cesco Silvestri da Ferrara
'33, Trasportiamo questa osservazione
all' inizio della
polemica averroistico-tomitica, e sarà
finalmente chiarito il
significato della così detta
« teoria della
duplice verità »,
della quale qualche storico
della filosofia s'
è scandalizzato anche
più di quel che
non abbian fatto
nel passato gì'
inquisitori del- l'eretica pravità,
talora, se non
sempre, meno irragionevoli di certi
storici della filosofia
'34. Che l'aver
rivendicato il diritto alla
libertà della ricerca
storica nell' interpretazione del
pen- siero aristotehco,
prima che all'
influsso dell'umanesimo, si deve
all'averroismo. E anche
in questo l'Achillini
è buon discepolo di
Sigieri, nel tenere
cioè costantemente distinto il
pensiero del Filosofo
dalla verità della
fede. La quale, forse,
ha subito maggior
danno che non
van- taggio dall' impegno che
taluni hanno messo
a mostrarne la troppo
intima aderenza ad
un particolare sistema
filosofico. 132 M.-H. Laurent,
Le Commentaire de
Cajétan sur le
« De anima
», in principio a
Thomas De Vio
Cardinalis Caietanus, Scripta
Philo- sophica: Comment. in
De anima Aristotelis,
ed. l. Coquelle,
voi. I, Roma, Angeliciim, 1938,
p. XLIII. 133 Ih.,
p. XLIX. 134 Intorno
al significato storico
della dottrina della
« doppia verità
», si veda quel
che ne ha
scritto il Gilson,
Études de philosophie
medievale, Strasbourg, 1921, pp.
51-75; Dante et
la philosophie, Paris,
IQ39, pp. 258 sgg.
; cfr. (:ui
sopra, pp. 55-58,
ji-j^, 95- )8, e
il mio volume
Dante e la cultura
medievale, Bari, Laterza,
1949, pp. 207-211,
nonché 1' in- troduzione a S.
Tommaso, Trattato sull'unità
dell' intelletto. Quando N. ha ad
occuparsi dell'avverroista bolognese
ACHILLINI (si veda), lo fa
unicamente per i suoi
Quoliheta de intelligentiis e
per le tracce
evidenti in essi di
dottrine sigieriane i.
Ma per il
momento non mi
detti cura di far
ricerche sul curricolo
della sua vita,
bastandomi la data del
1494, quando i
Quoliheta furono disputati
nel capitolo generale dei
frati minori tenuto
quell'anno a Bologna
e per l'occasione stampati.
Successivamente ho raccolto
alcuni dati biografici che
credo utile far
conoscere a chi
voglia occuparsi a fondo
di questo non
comune maestro bolognese,
tenuto ai suoi tempi
in altissima considerazione, e
degno anc'oggi d'esser ricordato
sotto diversi aspetti. I.
- Secondo le
notizie raccolte da
Serafino Mazzetti, di solito
accurato e preciso,
nel suo Repertorio
di tutti i
professori antichi e moderni
della famosa università.... di
Bologna 2, A. Achillini,
figlio di Claudio
che dicesi fosse
oriundo di Bar- berino in Val
d' Elsa 3,
e coprì più
volte cariche pubbliche, sarebbe nato
a Bologna il
20 ottobre 1463.
Questa data presa dal
Tractatus astrologicus di
Luca Gaurico, non
sempre bene informato, dovrebbe
però essere anticipata
di due anni
se- * Dal «
Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXIII, 1954, PP-
67-108. 1 B. Nardi,
Sig. di Brab.
nel pensiero del
Rinascimento italiano, Roma, 1945,
pp. 45-90 (vedi
saggio precedente). 2 Bologna,
1848, n. 15,
p. 11. •
3 B.
Carrati, Genealogie di
famiglie nob. bolognesi, Bologna,
Ar- chiginnasio, Ms. B. 699,
tav. 2. 15 226 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI condo la
cifra degli anni
ch'egli aveva quando
venne a morte il
2 agosto 1512,
quale si trova
nell'elogio che di
lui si legge nel
Libro segreto del
Collegio delle Arti
e di Medicina
e che riferiremo più
giù. Ma la
cifra di XXXXXI
anni è corretta
su rasura e con
altro inchiostro. Inoltre
il fratello Giovanni
Fi- loteo Achillini, nel
suo Viridario 4,
compiuto nel 1504,
ci assi- cura che Alessandro,
in quell'anno, in
cui egli stava
scrivendo il X canto
del poema, aveva
varcato d'un lustro
« il mezzo
ca- min )) della
vita. Parrebbe dunque
che il Gaurico
avesse ragione. 11 Mazzetti
inoltre e' informa
che fu laureato
in filosofìa e medicina
il 7 settembre
1484, e che
lo stesso anno
cominciò a insegnar logica
a Bologna, nel
quale insegnamento durò
fino al 1487. L'anno
innanzi, a 23
anni d'età, era
stato ritratto da Francesco
Francia ^. Dall'autunno
1487 all'estate del
1494, insegnò filosofìa; dall'autunno
1494 all'estate del
1497 passò a medicina;
ma dal novembre
1497 all'ottobre 1506
resse en- trambe le cattedre,
cosa non comune,
spiegabile solo col
fa- vore di cui godeva
presso i colleghi
e presso i
Bentivoglio dei quali fu
sempre caldo fautore.
D'un insegnamento tenuto
dal- l'Achillini a Padova,
prima di questo
momento, non mi
pare dunque si possa
parlare. Il Gaurico
accenna anche ad un
soggiorno abbastanza lungo
dell' Achillini a Parigi,
del quale purtroppo non
abbiamo altra testimonianza, e
d'altra parte non si
riesce a trovare
un periodo della
sua vita nel
quale collocarlo. A Bologna
ebbe sicuramente ad
alunno il bolognese
Tiberio Bacilieri o de
Bazaleriis, il quale
fu approvato «
in artibus )> il
lunedì 3 luglio
1492 ^ e « in
artibus et medicina
» il 4
febbraio 1496, « nemine
discrepante ». Fra
i promotori al
dottorato era l'Achillini che
« dedit insignia
» al neo
dottore 7. Il
9 di- cembre 1499, il
Bacilieri fu aggregato
in sopranumero ai
col- 4 II Viridario
di Gioanne Philotheo
secondo figliolo di
Claudio Achillino Bolognese. Impresso
in Bologna per
Hieronymo di Plato
Bo- lognese, nel M.D.XIII. Sotto
la f. m.
di N. S.
Leone Decimo, 24 di-
cembre. Dedica al Papa.
Fol. 184 v
sg. I vv.
che riguardano Alessandro son riportati
più giii, p.
251. 5 II disegno
del Francia è
posseduto dagli Uffizi
di Firenze. Fotogr. Alinari, più
volte riprodotta. Se
l'Ach. era nato
nel 1463, il
disegno è del i486;
se no, di
qualche anno prima. 6
Libro Segreto del
Collegio [delle Arti
e della Medicina']:
dall'anno- 1481 al 1500
(Bologna, Archivio di
Stato, busta 217);
f. 91 r.
Dal libro dei Partiti.
XI, f. 902,
24 die. 1493
(Arch. di Stato),
risulta che il
Baci- lieri riscuoteva già 100
lire bolognesi annue
«prò stipendio lecture
».. 7 Ib.. f.
41 r. legi bolognesi
delle arti e
della medicina ^.
Ma non era
passato un anno dalla
sua aggregazione, che
fu sospeso per
un quin- quennio dall'uno e
dall'altro collegio, con
decisione del 9 luglio
1500 confermata cinque
giorni dopo, «
propter nonnulla demerita et
facinora.... facta et
commissa ». Fra
questi « fa- cinora
» pare fossero
anche « parole
ignominiose e turpi
» nei riguardi dei
suoi colleghi. La
punizione fu inflitta
con otto fave bianche
contro una nera.
Fra i votanti
era anche l'Achillini 9. Questa
la ragione perché
il Bacilieri proprio
in quest'anno dovette lasciar
Bologna, e recarsi
a Padova 'o, e
quindi a Pavia ove
rappresentò l'averroismo della
corrente sigieriana che aveva
assimilato alla scuola
dell' Achillini". Il i»
ottobre 1505, scaduto il
quinquennio della sospensione,
egli fu riammesso
a far parte dell'uno
e dell'altro collegio,
per unanime consenso, senza che
ci fosse bisogno
di porre ai
voti la proposta
'-. I Quolibeta de
intelligentiis, preparati per
la disputa del 1494,
rappresentano dunque il
pensiero filosofico dell'Achil- lini nel
primo periodo del
suo insegnamento della
filosofia naturale prima che
passasse all' insegnamento
della medi- cinateorica. In
quest'opera, come ormai
sappiamoci, si ritrovano, inserite negli
schemi del metodo
calcolatorio, divenuto di moda
anche a Bologna
come a Padova,
tutte le tesi
fonda- mentali dell'averroismo,
concernenti Dio, le
altre intelligenze separate, e
in particolare l' intelletto
possibile e la
copulatio di questo con
1' intelletto agente;
tesi tutte, specialmente
quelle riguardanti l' intelletto umano,
desunte dai tre
scritti di Si- gieri,
che, secondo l'attestazione del
Nifo, si leggevano
ancora alla fine del
secolo XV. Ma qui
accade di doverci
porre un piccolo
problema. Nessun dubbio sulla
data di pubblicazione
dei Qnolibeta dell'Achil- lini, che
nel 1494, trentunenne,
si esibiva campione
della dottrina sigieriana in
una pubblica disputa
alla quale erano intervenuti dotti
di varie tendenze.
È per caso
in questa cir- costanza che Giovanni
Pico e il
Nifo si trovarono
a far viaggio 8
Ib., f. 54 r-
9 Ib.,
f. 57r-v; ff.
59 r-62 v. 'o
V. sotto, p.
288. " Cfr. il
mio Sigieri, cit.,
pp. 132-152. '^ Libro
Segreto, cit.; n.
3, dall'anno 1504
a tutto il
1575, f. 4 r.
'3 Cfr.
saggio prec. 228 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI insieme, diretti
a Bologna, disputando
tra loro come
l'unità del- l'intelletto
potesse conciliarsi con l'
individualità e la
sopravvi- venza dell'anima del singolo '4?
Il Nifo ci
fa sapere di
essere stato averroista sigieriano
prima del 1492,
e pretende d'aver composto nell'estate
di quest'anno, poco
più che ventunenne, il Tractatus
de intellectu nel
quale la dottrina
sigieriana è combattuta. Ho
già espresso piìi
volte i miei
dubbi sulla veri- dicità del Nifo,
il quale aveva
troppo interesse ad
acconciare il racconto della
sua vita in
modo da meritarsi
le grazie del vescovo
di Padova, Pietro
Barozzi^S. Il piccolo
problema che vorrei porre,
e che non
sono in grado
di risolvere, è
questo: chi portò a
Padova o a
Bologna gli scritti
di Sigieri ricordati dal
Nifo ? Fu
Paolo Veneto che
certamente dimorò a
Oxford e a Parigi
? Fu Giovanni
Pico ? Fu
l'Achillini stesso, se mai
fosse vero, come
pretende il Gaurico,
che anch'egli soggiornò a
Parigi ? Del
resto, gli scambi
fra le due
università italiane e quella
parigina erano frequenti,
e, come sappiamo
di fran- cesi che durante
il Quattro e
il Cinquecento erano
venuti a studiare a
Padova e a
Bologna, sappiamo del
pari che Pietro e
Lorenzo Pasqualigo, patrizi
veneziani, erano stati
a studio a Parigi,
e il primo
anzi nel 1494
vi aveva sostenuto,
ventiduenne, ben due mila
conclusioni i^. 2. -
Nell'estate del 1498,
quando all' insegnamento
della medicina teorica aveva
riunito quello della
filosofìa naturale,
l'AchilUni fece stampare
la sua seconda
opera De orhihus
in quattro libri '7. Nel
primo libro ritroviamo
tutte le grandi tesi
della fisica celeste
di Aristotele, nella
più rigida interpre- tazione averroistica, fino
al punto che
è ritenuta assurda
la teoria tolemaica degli
eccentrici e degli
epicicli, che aveva 14
A. Nifo, In
libriim Destvuctio Destructionum
Averrois comment., I, dub.
8; cfr. ib.,
IV, dub. 7;
cfr. sotto, pp.
31Q, 376-77 e 451.
15 V.
sopra, pp. 101-102
e sotto, p.
311, n. 52. 16
V. sotto, p.
289. 17 « Hoc
secundum opus in quatuor libros divido
». Il che
esclude l'esistenza di quel
trattato De proportionibiis niotuum,
che secondo lo Hain,
n. 71, sarebbe
stato stampato a
Bologna « per
Benedictum Hecto- ris 1494
». Questo trattato,
composto più tardi,
usci postumo, come diremo
più giù, nel
15 15. SÌ il grande
merito di salvare
le apparenze dei
moti planetari assai meglio
che non la
teoria delle sfere
concentriche, ma che mal
si conciliava coi
principi della fisica
aristotelica. E l'Achil- lini, come
in generale tutti
gli averroisti, ci
teneva alla fedeltà ai
testi che egli
s'era assunto l' impegno
di esporre. Nel
se- condo libro di quest'opera
si parla invece
delle intelligenze motrici, cioè
di Dio, primo
motore immobile, e
quindi dei motori preposti
al governo di
ciascun cielo. A
questo punto il maestro
bolognese si chiede
se, oltre alle
inteUigenze separate,
esistano altresì dei
dèmoni. La credenza
nei dèmoni e
nelle loro opere prodigiose
non era diffusa,
alla fine del
Quattro- cento, soltanto nel popolino,
ma anche nei
ceti colti, presso i
quali la demonologia
cristiana era rincalzata
da quella neo- platonica. L'Achillini nel
suo rigido averroismo
non sa con esattezza
ove collocare siffatte
nature ibride, di
spiriti imbe- stiati, e
quale funzione propriamente
assegnare ad esse.
Am- messa per fede, l'esistenza
dei dèmoni è
relegata tra le
opi- nioni volgari i8. E
quanto ai fatti
meravigliosi che ad
essi vengono attribuiti, il
bolognese è d'avviso
si possano spiegare con
l'arte umana o
per mezzo di
cause naturaH, a
dir vero, non meno
meravigliose, come farà
più tardi il
Pomponazzi, e come aveva
fatto molto prima
Pietro d'Abano. Dopo questa
parentesi, egli torna
a parlare dell'
immuta- bilità di Dio, ingenerabile,
incorruttibile,
inalterabile, non soggetto a
movimento locale né
a mutamento di
pensiero, poiché tutto atto
senza potenza. Di
questa divina immuta- bihtà
partecipano anche le
altre intelligenze celesti,
sebbene in queste sia
qualche potenzialità, in
quanto ogni intelUgenza di sotto
subisce l'azione di
quella di sopra,
sì che questa
è intelletto agente per
rapporto a quella
che vien dopo,
e quella che vien
dopo può dirsi
intelletto possibile per
rapporto alla precedente, come
già sapevamo dai
Qiioliheia de intelligentiis '9. Primo
intelletto agente che
immediatamente o mediatamente informa di
sé tutte le
intelligenze inferiori, è
Dio. Ma le
intel- Ugenze inferiori sono
informate da quelle
di sopra senza
su- bire cangiamento nel tempo,
bensì con atto
eterno, che fa i8
De orbibus, II,
diib. i, fol.
37 rb (secondo
l'edizione degli Opera omnia,
curata da Panfilo
Monti, Venezia, 1545,
alla quale per
comodità mi richiamo) . '9 Ib.,
dub. 2, Secundo
principaliter, Septimum dictum,
fol. 39 va. Cfr.
Qiiol. de intell.,
V, dub. 3,
f. 18 rb;
e qui sopra,
pp. 197-198 e 217.
230 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI dire talora
ad Averroè che
esse sono atti
puri senza potenza, cioè
puro intendere senza
mutamento. Ultima delle intelligenze
è l' intelletto umano
che propria- mente si disse
possibile o potenziale,
poiché non ha
altra na- tura che quella
di essere in
potenza. Questo intelletto,
unico per tutta la
specie umana e
forma che dà
all'uomo il suo
essere specifico di uomo,
non passa dalla
potenza all'atto del
cono- scere se non è
coadiuvato dall'esperienza sensibile.
In quanto passa dal
non conoscere al
conoscere le cose
del mondo sen- sibile, che sono
il suo oggetto
proprio, esso è
soggetto a mu- tamento o
alterazione. Questa alterazione
era intesa comu- nemente come modificazione
dell' intelletto stesso
ad opera delle specie
intelligibili o rappresentazioni in
esso delle cose conosciute. L'Achillini
respinge questa teoria,
appoggiandosi a un famoso
testo del VII
della Fisica aristotelica -o, che
aveva già richiamato l'attenzione
d'Averroè, e coglie
l'occasione per ribadire un
concetto già da
lui affermato alla
fine del terzo Qttolib.
de iìitelligentiis -i.
Aristotele aveva detto
che nella parte intellettiva
dell'anima non si
dà né generazione né alterazione
vera e propria:
l'atto conoscitivo non
importa un mutamento qualitativo
intrinseco all' intelletto,
ma una semplice variazione
del rapporto fra
questo e le
forme del mondo sensibile
che la mente
conosce in sé
stesse senza bi- sogno che
una rappresentazione o « specie
intelligibile », di- stinta dalla realtà
conosciuta e dal
soggetto conoscente, venga a
inserirsi fra l'una
e l'altro. Un
mutamento qualitativo e intrinseco
subiscono invece le
facoltà sensitive e
con esse la cogitativa, cui l'
intelletto s'unisce nell'atto
d'apprendere le forme del
mondo sensibile. L' intelletto
in sé stesso
è immu- tabile, come i
principi logici e
come le forme
a priori di
Kant; senza di che
nessun giudizio certo
sarebbe possibile; il
muta- mento e l'alterazione sono
soltanto nel contenuto
del cono- scere, e soltanto
per denominazione estrinseca
s' attribuiscono all' intelletto.
Perciò l'Achillini distingue
con Sigieri l' intel- letto dall'anima razionale:
quello è unico
in sé stesso
per tutta la specie
umana; questa invece,
risultando dall'unione del- l' intelletto con
la cogitativa, è
individuale al pari
di quest'ul- tima e diversa
in ogni uomo;
e a questa,
propriamente, e non -°
T. e. 20, e. 3,
247 b I sgg.
-^ Diib. 3,
f. 13 ra:
Hic aliquantulum morabimur. a
quello, spetta la
funzione raziocinativa e
discorsiva, consi- stente
appunto nell'applicazione delle
immutabili forme del pensiero
alla mutevole esperienza
sensibile. Merito dell' Achil- lini è
appunto questo, che
a lui spetta
per altro in
quanto ha ripreso un
motivo di alcuni
pensatori della prima
metà del secolo XIV
--, d'aver capito
che la dottrina
delle specie intelligibili finisce
per offuscare la
conoscenza della realtà, ricacciata al
di là della
rappresentazione che attua
il soggetto conoscente. L'atto
conoscitivo è possibile
solo in quanto
il reale conosciuto è
presente per se
stesso al soggetto
che l'ap- prende. Vero è che, per
l'Achillini, le cose
del mondo fisico
hanno un « esse
reale » fuori
del soggetto che
le pensa, e
non possono essere in
questo se non
per il loro
« esse intentionale
»; di guisa che
lo sdoppiamento fra
realtà in quanto
appresa e realtà
in sé risorge e
rende plausibili le
obiezioni che altri
aristotelici e averroisti ebbero
a rivolgere al
filosofo bolognese. E primi
fra tutti il
Pomponazzi e Marcantonio
Zimara. Il Pomponazzi si
dichiarò « contra
modernos pedagogos, qui tenent
secundum Averroem quod
intellectus possibilis nihil de
novo recipit »,
fin dal 1500,
mentre commentava a
Padova il De anima
-3. I «moderni
pedagoghi» dai quali
dissentiva erano il Nifo,
l'Achillini e il
suo fido Achate,
Tiberio Bacilieri, che, per
le ragioni accennate
più su, era
diventato collega del mantovano
nello studio patavino.
Questo è confermato
da una nota in
margine al codice
napoletano che ci
ha tramandato il commento
del Peretto: «
Nota contra socios
Achillinum Tybe- riumque bononienses
» -4. Più
tardi, mentre commentava
a Padova la stessa
opera aristotelica, nel
corso dell'anno scola- stico 1504-1505, il
maestro mantovano dedicò
una quaestio speciale a
esporre e combattere
« opinionem noviter
repertam quae tenet nullo
pacto dari species
intelligibiles ». Veramente questa opinione
non era proprio
« noviter reperta
», come 22 Vedasi
il mio libretto
Soggetto e oggetto
del conoscere nella
filosofia antica e medievale,
Roma, Edizioni dell'Ateneo,
1952, pp. 2555.23
Bibl. Naz. di
Napoli, mss. Vili.
D. 81, f.
52 r, e
Vili. E 42,
f. 195 r. -4
Ib. La nota
nel ms. napoletano
Vili. D. 81,
f. 52 r
parrebbe di mano di
Antonio Surian che
trascrisse il testo
della riportazione, di cui
forse è autore
quel Marco da
Otranto che è
Marcantonio Zimara, il quale
ne avrebbe fatto
copia a Basilio
Troiano e questi
a Gian Bene- detto Caravegi da
Crema, dal quale
l'ebbe il Surian.] del
resto ben sapeva
il Pomponazzi ^s;
ma nuova poteva
sem- brare per il modo
come la presentavano
e per il
vigore col quale la
difendevano i due
«pedagoghi» bolognesi. Ma
nuova o no, il
Peretto non esitava
a giudicarla «
abominevole, fatua e bestiale
» : Et dico
primo quod opinio
ista est abominabilis,
fatua et be- stialis
et nihil boni
ab ea potest
capi. Ego enim
nihil intelbgo de opinione
ista. Isti contra
se adducunt duo
miUia auctoritatum et totam
ecclesiam doctorum, ipsosque
glosantes totaliter dilaniant et
lacerant. Vide in
scriptis suis ~^. Che
il mantovano non
avesse presa per
il suo verso
e non avesse capito
l'opinione d'Averroè e
dell' Achilhni, non è da
stupire, dato l'orientamento del
suo pensiero quale
doveva rivelarsi anche meglio
in seguito. Così
anche nell'esposizione del VII
della Fisica, fatta
a Bologna nell'anno
scolastico 15 17-15 18,
giunto al commento
del testo 20,
sul quale si
fon- davano gli averroisti della
corrente dell'Achillini, torna
a ripetere : Ista est
pars dignissima in
qua aut ego
erro aut omnes
aiii maxime erraverunt; sed
credo quod potius
iUi decipiantur quam ego;
sed in hoc
constituam vos iudices.
In ista ergo
parte commen- tator ponit
unum documentum, ex quo traxit
Burleus, quod est de
mente commentatoris, cum
anima sit unica
in omnibus hominibus, ipsam
nihil capere {ins
capit) de novo,
ncque acquirere [ms aquirit)
scientiam per species
de novo advenientes,
sed scientia est substantia
animae. Et non
possum [non] mirari
de istis mo- dernis,
qui faciunt se
inventores et autores
huius viae, cum
vi- deant Burleum ante
se de hoc
iam expresse loqui.
Imo, ante Burleum Henricus
de Gandavo tenuit
hoc idem esse
de mente commentatoris; et
etiam Thomas ascribit
hoc commentatori, Hcet propter
aham rationem 27. Non
meno aspro, contro
l' interpretazione che l'Achillini aveva sostenuta
del pensiero d'Averroè,
è il giudizio
di Mar- 1 25
Infatti nel ms.
napoletano Vili, E. 42, f.
1951, si legge:
«Pro quo, domini, debetis
scire quod insurgit
nova phylosophia, immo
an- tique; quare Burleum videatis:
expresse super textu
commenti 2oi septimi physicorum
dicit intellectum speculativum
esse eternum et non
dari species intelligibiles commentatoris; hec
etiam tenet augustinus sessa, Alexander
Achylinus et multi
alii insequentes i
tos.... ». 26 Ms.
napol. VIII. D.
31, f. 83 r.
27 In
VII de phys.
auditu, Bibl. Nation. di
Parigi, ms. lat.
6533, f. Jj 330
r (ad t. e. 20);
cfr. ms. 45
della Biblioteca del
Collegio Campana di 9
Osimo] c'antonio Zimara da
Otranto, in una
sua quaestio «
Utrum ad mentem Averroys
intellectus possibilis recipiat
species intelligibiles
subiective ». Esposta
e criticata la
dottrina del- l'Achillini, della
quale vorrebbe far
rilevare l'assurdità dal punto
di vista aristotelico
ed averroistico, egli
conclude: Et in veritate
opinio istius hominis
adeo est erronea,
ut me pudeat amplius
arguere centra ipsvim.
Ipse enim ignorat
adhuc quomodo forma materialis
generatur. Item habet
fateri quod formae materiales
secnndum suum esse
formale accipiantur in sensibus
interioribus, quia non
est maior ratio
quare in intellectu possibili materiales
formae sint secundum
esse formale, et non
in ipsa
cogitativa et imaginativa.
Quantum autem ista
sint incon- venientia, non
solum sapientibus, sed
etiam yulgaribus sunt novissima [1.
notissima]. Unde licet
mihi dicere de
isto homine, quod dixit
commentator de Avicenna,
in tertio Celi,
comm. 67, quod videlicet
parvitas exercitationis ipsius
viri in naturalibus et bona
confidentia in proprio
ingenio deduxit ipsum
ad maximos errores^S. A risolvere
le obiezioni mosse
alla tesi dell'Achillini bisogna tener
costantemente presente la
distinzione fra anima
razio- nale e intelletto in
sé. L' intelletto possibile,
in sé considerato e
in quanto unico
per tutta la
specie umana, non
è modificato da alcuna
rappresentazione che gli
venga dal mondo
sensibile. Invece, in quanto
unito alla cogitativa
individuale di Socrate e
di Calila, con
la quale forma
l'anima razionale composta
di ciascuno individuo umano,
esso è certamente
soggetto a mu- tazione e
ad alterazione, non
per il mutare
di qualcosa in esso,
ma per il
mutare dell' immagine
sensibile che è
nella cogitativa cui è
unito. Che se
l'Achillini dice l' intelletto
pos- sibile pura e nuda
potenza senz'atto di
sorta, prima dell'atto d' intendere, questo
va inteso per
rapporto all' intelletto -8
M. A. Zimara
de sancto Petro
de Galatinis Terrae
Hj^drunti, ar- tium doctoris,
Quaestio qua species
intelligibiles ad mentem
Averrois defenduntur ad Magnificum
patritium \'enetum Antonium
Surianum; s. 1., a cura di
Francesco Storella, pridie
idus lanuarii 1554.
La stessa « quaestio
» fu pubblicata
dal francescano Girolamo
Girelli, professore di teologia
nello studio di
Padova, in principio
del suo Tractatus
adversus quaestionem M. A.
Zimarae de speciebus
intelligibilibus ad mentem
an- tiqiioritm Averrois praesertim.
Venetiis, 1561. Il
passo riportato è al f
. 7
V. Il Girelli,
che aveva studiato
a Padova, ov'era
stato alunno del Pomponazzi, cita
l'Achillini (f. 23
r e 26 v), ma
si rifa specialmente
a Enrico di Gand
e al carmelitano
inglese Giovanni di
Baconthorpe, noti avversari delle
«species intelligibiles.] agente che
è tutto atto
senza potenza ed
è la scienza
in atto, al cui
possesso tende l' intelletto
possibile. Il III libro
del De orhihus
s'apre col settimo
dubbio del- l'opera: « an
intelligentia sit forma
dans esse caelo
». Anche su quest'argomento l'Achillini
si sforza di
mantenersi fedele ad Averroè:
ogni cielo è
composto di materia
e di forma;
il corpo sferico di
esso è la
materia, l' intelligenza
motrice è la sua
forma. Per questa
unione ciascun cielo
è un animale
vi- vente, non di vita
vegetativa o sensitiva,
come pretendeva Avicenna, ma di vita
intellettuale. Le sfere
celesti sono perciò quegli
animali immortali ed
eterni di cui
parlano Aristotele nel IV'
dei Topici -9 e
Porfirio nella sua
Isagoge alle Categorie
3°. Animali viventi di
vita intellettuale, l'atto
dell' intendere e del
volere si predica
dei cieli, di
cui le intelligenze
son forme sostanziali, a
quel modo che si
predica dell'uomo di
cui è forma sostanziale
l' intelletto possibile, che è l' infima
delle intelligenze separate.
Sebbene i corpi
celesti siano dotati
di spazialità e
di movi- mento al pari
dei corpi del
mondo inferiore, essi
son « corpi spirituali »,
immuni da composizione
di materia e
di forma, poiché il
loro essere è
costituito dall'unione immediata
con la propria intelligenza.
Questo concetto averroistico
di una « cor-
poreità spirituale e immateriale»,
che piacque anche
al Ficinosi, fu oggetto
di lunghe controversie
fra gli averroisti
e le altre scuole
aristoteliche, e fra
gli averroisti stessi. Dio
è la prima
delle intelligenze separate;
e come ognuna
di queste è forma
sostanziale del proprio
cielo, ch'essa avviva di
vita intellettuale e
a cui imprime
movimento, così anche Dioè
forma sostanziale del
primo cielo mobile
al quale, insieme al
primo moto, imprime
la propria perfezione
intellettuale 3^ Con ciò
il bolognese non
fa che sviluppare
un concetto già chiaro
nella sua precedente
opera, Quol. de
intelligentiis, I, dub. 2. L'
idea di
Dio, quale emerge
da siffatto modo
di ve- dere, è r
idea di un
Dio strettamente legato
al mondo finito ^9
Arist., Top., IV,
e. 2, i22b
14: tcov ^cóoiv
xà jjièv ■8-VY]Tà
xà •^'à-B-àvaTa. 30
Porfirio, Isagoge et
in Arist. Categor.
comni. ed. A.
Busse, nei Commentaria in
Arist. graeca, voi.
IV, De differentia,
p. io, 11
sgg. 31 Argmn. in
Platon. Theol. ad
Laurent. Medicen [in
Opera, Basilea, 1561, t.
I, Epist. lib.
II, p. 707). 3-
De orbibìts, III,
dub. i, f.
47 rb-vb. i di Aristotele,
come forma e
motore non mosso
della prima sfera celeste, e
anima del primo
« corpo spirituale
» che contiene
e racchiude entro di
sé le altre
sfere animate e
immortali, fino al cielo
lunare, che racchiude
nella sua concavità
la « sphaera activorum et
passivorum », ossia
i quattro elementi
e quelle cose che,
sotto r influenza
celeste, «di lor
si fanno». Forma
e motore di un
mondo finito, è
evidente che di
siffatto Dio non si
può dimostrare l' infinità
né l'onnipotenza né
la libera azione creatrice. Del resto,
per ciò che
concerne l'animazione dei
cieli, v'erano teologi disposti
ad ammetterla. L'Achillini
lo sa bene;
ma os- serva che da
parte dei teologi
esistono difficoltà non
facilmente superabili ad accogliere
simile teoria. Per
essi, infatti. Dio creò
le intelligenze «
in statu merendi
et demerendi ; viatrices enim aliquantulum
fuerunt », durante
quella « morula
» con- cessa loro da
Dio per potere
scegliere liberamente il
bene o il male
33. Ora che
cosa sarebbe accaduto
se l'anima del
primo cielo avesse peccato
? Il primo
cielo sarebbe stato
dannato. Eppure esso avrebbe
dovuto accogliere i
beati, a meno
che Dio non avesse
preparato per sé
e per i santi un
altro luogo più adatto,
o che non
avesse predestinato l' intelligenza di quel
cielo alla beatitudine
eterna ! Ma
il maestro bolognese taglia corto
su questo e
altri problemi sottili
e imbarazzanti: per lui,
secondo la verità
della fede, non
può ammettersi che Dio
sia unito come
forma ad un
cielo; ciò ripugna
alla sua infinità e
al potere che
ha di trarre
le cose dal
nulla 34. Tutto questo,
per altro, riguarda
i teologi e
non la filosofia, se
per filosofia s'
ha da intendere,
come quasi tutti
allora in- tendevano, il sistema
aristotelico della natura,
cosa che non tutti
gli storici della
filosofia han sempre
avvertito. E problema tutto
teologico è quello
discusso nel dubbio ottavo
dell'opera, che è
il 2° del
terzo libro, intorno
alla crea- zione dal niente
e al cominciamento
o novitas del
mondo nel tempo. In
oltre venti fittissime
e uniformi colonne
in-folio, interrotte da appena
due capoversi, la
dottrinateologica della creazione
del mondo nel
tempo è sottoposta
ad una serrata e
minutissima critica che
ne dimostra l' inconciliabilità coi 33
Cfr. Dante, Par.,
XXIX, 49-51. 34 De
orb.] principi più Certi
della metafisica aristotelica
35, per termi- nare, al solito,
dopo tanto sforzo,
con questa dichiarazione: « Tenendum
est autem deum
creasse mundum et
non ab aeterno, et
ab aeterno ipsum
potuisse creare.... »! 36. Segue
il nono quesito
o dubbio, «
utrum caelum sit
finitae magnitudinis in actu
», intorno al
quale l'Achillini, fedele ad
Aristotele e ad
Averroè, mostra di
non tenere in alcun
conto il tentativo
fatto da alcuni
teologi del secolo XIV,
di dedurre la
possibilità d'un universo
infinito dalla infinità e
onnipotenza di Dio;
che anzi dalla
limitatezza del- l'universo
aristotelico egli è
condotto a limitare
la potenza divina. Perciò
egli si contenta
di osservare :
« Quod si
theo- logus concedat deum
posse lacere corpus
infinitum, oportet ipsum dicere
has difiìnitiones quantitatum
non esse diffini- tiones absolute,
sed quantitatum finitarum,
quemadmodum oportet ipsum concedere,
quod acquale vel
inacquale non est passio
quantitatis, sed est
passio propria quantitatis finitae »
37 ; nel
che consentono appieno
il Cusano e
il Bruno. Nel decimo
quesito col quale
si conclude il
terzo libro, il maestro
bolognese esclude la
possibilità di altri
mondi fuori di quello
descritto da Aristotele,
che ha per
centro la terra e
per limite la
convessità della prima
sfera di cui
è forma so- stanziale Dio stesso. Anche
nel quarto libro
troviamo ribadite le
grandi tesi del- l'aristotelismo averroistico intorno
alla natura celeste
presa nel suo complesso.
Sferico è il
cielo, perché corpo
perfettissim.o cui non può
competere se non
la perfettissima delle
figure geometriche, qual è
appunto la sferica
38. Ed è
formato di natura luminosa
che consegue alla
luce intellettuale dell'
in- telligenza che l'anima e
lo muove, diminuendo
d' intensità giù giù, di
grado in grado,
fino alla sfera
lunare, la cui
lumino- sità propria è appena
percettibile nelle ecclissi
di luna 39.
Ampio sviluppo maestro Alessandro
dà al quesito
concernente l'eter- nità del moto
celeste, connesso con
quello dell'eternità del mondo
e dibattutissimo insieme
a questo, nei
commenti al- 35 Ib.,
f. 5irb: «ad
quartum, stando in
principiis philosophorum,
rationes militant; sed
negatis eorum principiis,
tiinc cessai disputatio
». 36 Ib., i.
52ra. 37 Ib., f.
52ra. 38 Ib., IV,
dub. I, f. 54ra-vb. 49
Ib., dub. 2,
f. 54vb-55rb.] l'ottavo della
Fisica 4°. Circolare
ed eterno, il
moto delle sfere celesti
riflette l'eterna circolarità
del pensiero delle
intelli- genze motrici: « Quia
igitur intellectio intelligentiae exit
ab intelligente et revertitur
super idem ut
intellectum est, ideo intellectio est
principium motus circularis,
quoniam in cir- culo
exit corpus ab
a, ut a principio, et
revertitur in idem
a, ut in terminum,
per arcum circuii»! 41. L'ultimo quesito
del De orèzèiis,
concerne l' influenza celeste sul
mondo infralunare. In
nessun'altra trattazione quanto in
questa dell'Achillini appare
evidente come le
dottrine astrologiche sull' influenza
dei cieli avevano
finito per pren- dere consistenza metafisica
nel sistema aristotelico
della na- tura, nel quale
le sfere celesti,
coi loro motori
intellettuali, e il mondo
elementare, contenuto nel
concavo dell'orbe lu- nare, son
solidali e quasi
direi complementari fra
loro, legati come sono
da un legame
di causalità 42.
« Si caelum
staret, ignis in stupam
non ageret, quia
Deus non esset
», suonava una proposizione
condannata dal vescovo
di Parigi nel
1277 43. E l'Achillini:
se il movimento
celeste s'arrestasse, non
solo il fuoco non
s'apprenderebbe alla stoppa
e allo zolfo,
ma addi- rittura « tunc
non essent ignis,
stupa aut sulfur»;
e ciò per la
ragione « quod
in primo instanti
quietis caeli resolverentur omnia inferiora
in materiam primam,
quia desineret caelum
esse conservans
interiora...; aut in
nihil omnia redirent.
Ideo supra dictum est,
quam repugnat naturae
vacuum, aut materiam esse
sine forma, tam
repugnat caelum quiescere.
Ideo Aver- roes,
12. Mataphysicae, comm.
41, auctoritate Aristotelis,
9. Meìaph., [t.J e. 16, [e. 8,
io5ob 22 sgg.)
: ' Non
est timendum caelum quiescere
' 44. Meno
male ! Ma nel
trattare della causalità
che il mondo celeste
esercita su tutte le
cose del mondo
inferiore, il bolognese
è indotto a porsi
il problema della
libertà umana. Sigieri45
e Giovanni di 40
Ib., dub. 3,
f. 55rb-57ra. 41 Ib.,
dub. 4, f.
57ra-vb. 42 Su questo
legame fra il
cielo e il mondo inferiore,
cfr. Averroè, De caelo,
I, comm. 22;
Aristotele, Meteor., I,
e. i, 338b
22; e. 2,
339* 21 sgg. 43 Denifle
e Chatelain, Chart.
Univers. Paris., 1, p. 552. Cfr.
«Giorn. Crit. d. Filos.
Ital. »,
XXIX, 1951, p.
379. 44 De orb.,
IV, dub. 5,
f. 59rb. 45 Cfr.
F. Van Steenberghen,
Sig. de Brab.
d'après ses oeuvres inédites, voi.
II, Siger dans
l' hist. de l'Aristotélisme, nella
collez. Les philosophes belges,
t. XIII, Louvain,
1942, pp. 624
e 663-665. 238 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Jandun 46
se l'eran posto
assai prima, e
l'avevan risolto allo stesso
modo. L' influenza dei
corpi celesti non
s'esercita in modo diretto
se non sui
corpi infralunari. Sull'
intelletto e la volontà
umana questa influenza
non s'esercita se
non indiretta- mente, nella misura
che lo spirito
umano è legato
al corpo. Ma per
se stessa quest'
influenza non s'esercita
sull'atto del giudicare e
del volere, che
può resistere ad
ogni influenza indiretta. Ora
la nostra libertà
trae origine dal
giudizio della ragione, che
per sé è
immune da ogni
diretto influsso celeste. Al
qual proposito l'Achillini
coglie l'occasione per
chiarire l'equivoco che nasce
dal confondere la
libertà umana con la
contingenza, la quale
nel linguaggio aristotelico
è ben altra cosa.
La libertà è
propria del giudizio
che non è
determinato dall'oggetto appreso; la
contingenza deriva invece
da indi- sposizione della materia
« che a
risponder molte volte
è sorda »; la
prima è propria
dell'uomo; la seconda
spazia in tutta
la natura sublunare, ove l'
impronta del suggello
celeste è osta- colata dalla cera
mortale 47, Ma anche
in questo l'Achillini
non dice niente
di nuovo. Lo stesso
concetto della libertà,
più che svolto,
è appena ac- cennato. 3. -
Poco dopo la
pubblicazione del De
orbi bus a
mezzo della stampa, il
maestro bolognese preparava
l'edizione di alcuni rari
opuscoli pseudo aristotelici
insieme ad altre
cose non meno rare,
fra le quali
egli inserì anche
un suo trattatello
De univer- salibus, la
cui composizione è
probabile risalga agli
anni in cui leggeva
logica fra il
1484 e il
1487. Nacque così
l'Opus septisegmentatum
stampato nel 1501,
a spese dell'editore 46 Phys.,
vili, q. 6. 47
De orb., 1.
e, f. 58vb:
« Ex potentiali
in genere intelligibilium na- scitur
libertas, sed ex
potentiali in genere
sensibilium nascitur contin- gentia. Hoc
voluit Philosophus, 6.
Metaph., textu comm.
5, in transla- tione graeca:
quare materia erit
causa praeterquam ut
in pluribus aliter accidentis.... Quod
igitur dixi in
primo opere, Quolibeto
[de in- telligeutiis] primo,
[dub. 3, nell'ediz.
del 1494] :
' Sequitur secundo
nul- lam esse in
rebus contingentiam ad
quas non concurrit
homo ', passum est
ab impressura defectum,
non apponendo '
libertatis ' »
[prima di ' contingentiam
']. Ma nell'edizione
del 1506 e
in quella del
1508, l'au- tore ebbe cura
di correggere l'errore. bolognese Benedetto
d' Ettore Facili.
La stampa riuniva
in- sieme queste rarità: Pseudo
Aristotele, De secretis
secretorum, De regum regimine,
De sanitatis conservatione, De
physionomia. De signis tempestatum,
ventorum et aquarum,
De mineralibus; poi il
fragmento De intellectu
di Alessandro d'Afrodisia
nella traduzione medievale di
Gerardo da Cremona,
il De animae beatitudine di
Averroè, cui tien
dietro l'opuscolo De
universa- lihus dell'
Achillini stesso; infine
l'epistola d'Alessandro il Macedone
ad Aristotele, De
mirahilihus Indiae. L'anno seguente
deve aver curato,
presso lo stesso
editore Ijolognese,
l'opuscolo De primo
et ultimo instanti
di Walter Burley, a
spiegazione del quale
egli aggiunse una
breve nota: Alex. Achillini
Bon. Examinatio huius
quadrate figure et ad-
dictio oblunge (f. A 5), cui
seguono (f. A
6-B 6) le
Proportiones di Alberto di
Sassonia (Bononie.... per
Ben. Hectoris, die XXIII
Aug. MCCCCCII. La
rara stampa è
posseduta dalla Bibl. Nationale
di Parigi, Rés.
V. 810). Nel 1503
curava altresì la
stampa del libretto
di Agostino Trionfo da
Ancona, agostiniano. De
cognitione animae et
eitis 'itentiis, cui l' Achillini
aggiungeva una Quaestio
de sensihilibns noribus di
Maestro Prospero da
Reggio, egli pure
agosti- .: .no, «
excerpta et sumpta
ex quaestionibus ab eo Parisius J'.putatis supra
prologo primi magistri
sententiarum » (Bo- logna, presso Giovanni
Antonio de' Benedetti,
31 maggio 1503) ; e poco
dopo quella della
Destructio in arborem
porphy- rianam dello stesso
Trionfo, presso lo
stesso stampatore de' Benedetti
(io luglio 1503).
Nello stesso anno
e presso lo
stesso editore, die in
luce la Quaestio
de subiecto physionomiae
et chyromantiae, o anche
De Chyromantiae principiis
et physio- nomiae, dedicata a
Bartolomeo Coclite e
premessa all'opera di questo,
Chyromantiae ac physionomiae
anastasis cum ap- probatione magistri
Alex. Achillini, uscita
a Bologna presso il
de' Benedetti nel
1504 e dedicata
ad Alessandro Bentivoglio, figlio del
signore di Bologna,
Giovanni IL Due
altre quae- stiones, una
De potestate syllogismi,
l'altra De subiecto
medicinae, dedicate
all'alunno Virgilio Porto
da Modena, l' Achillini stampò a
Bologna, presso lo
stesso Giovanni Antonio
de' Benedetti, nel 1504. Questo Virgilio
Porto era ancora
alunno dell 'Achillini e ne
aveva raccolto le
lezioni su quei
due argomenti. Nel
1505 si addottorò, e
nel nuovo anno
scolastico cominciò a
leggere medicina teorica a
Bologna fino al
1525, quando passò
a me- dicina pratica; ma
il 6 agosto
1527 venne a
morte ancor gio- vane 48.
Ecco la dedica
affettuosa del maestro
: Alexander Achillinus Virgilio
Porto Mutinensi, discipulo haud
penitendo, foelicitatem.
Nostra quaedam fragmenta
(ut moris eorum
est), Virgilii mi amantissime, diligentem
eorum collectorem adeunt.
Tu enim urbanitate et
virtutibus et doctrina
is es, quem
inter caeteros nobis dilectos
elegi, apud quem
aptissime reponantur; te
enim semper cognovi nostri
nominis studiosum. Logicalia
quidem alios docebis; medicinalia
vero exacte (ut
assoles) contempla- beris: ex
quibus non minus
gloriae, Alexandre tuo
aurigante, te iam comparaturum
existimo, quam hactenus
ex poeticis mu- neris
(/. numeris) adeptus
sis. Haec igitur
nostris aliis, quae
apud te sunt, adiungas.
Vale,
et libenter res
nostras perlege. 4. -
L' II settembre
1505, presso lo
stesso de' Benedetti, uscì il De elementis
che si può
dire formi, insieme
al De intelli- gentiis e
al De orbibiis,
la terza parte
di un'opera complessiva, la quale
abbraccia tutto il
sistema aristotelico-averroistico
della natura, ossia
tutta intera la
sfera cosmica, avente
la terra per centro
e per periferia
il cielo delle
stelle fisse. Consa- pevole dell' importanza
dell'opera, l'Achillini dedicò
il De elementis «all'invittissimo principe
e padre della
patria, Gio- vanni II Bentivoglio
», con una
lettera che è
documento im- portantissimo
per stabilire i
legami che univano
il filosofo al signore
di Bologna. Neil' «
explicit » di
questa e dell'opera
precedente l'Achil- lini, anzi che
col nome d'Alessandro,
comincia a sottoscri- versi « il
figlio di Claudio
Achillini », arieggiando
alla lontana la maniera
degli arabi. A
rendere piìi solenne
l'edizione del De elementis,
il giovane Porto
fece scattare il
suo estro poetico e
dettò questo epigramma,
che si legge
sul frontespizio, e in
cui il
nome di Claudio
Achillini è ricordato
nel momento che per
la prima volta,
per quanto io
sappia, al figlio
veniva dato l'appellativo di
nuovo Aristotele: Cum modo
legisset titulum natura
libelli huius, Achillaeo est
obvia facta seni, 48
Su di lui,
V. TiRABOSCHi, Bibl.
Moden. atque ait: O
nimium foelix hoc
pignore, Claudi, quam melius
dici Nicomachus poteras. Un
altro epigramma scrisse
per la stessa
stampa Ludovico
Boccadiferro, che traduce
va il suo
cognome in quello
meno plebeo di Siderostomo.
Anch'egii era discepolo
dell' Achillini, e più tardi
ne continuerà l' insegnamento averroistico
a Bologna, ma con
assai minore vigore
speculativo. Il De elementis
è diviso in
tre libri. Nel
primo si parla
dei mutamenti e delle
vicissitudini che accadono
nel mondo sublu- nare e
della materia che n' è
il soggetto. In
28 diibia son
di- scussi tutti i problemi
concernenti l'esistenza della
materia prima, la sua
natura di soggetto
indeterminato e potenziale del divenire
fisico, la sua
conoscibilità, i suoi
rapporti con la forma,
con le dimensioni,
e il concetto
di privazione. Niente di
particolarmente notevole, tranne
questi tre punti:
primo, il sscondo dubbio
«an Sorte non
existente, Sortes non
sit homo», che richiama
l'attenzione sulla discussione
che fa di
questo problema anche Sigieri
di Brabante, nella
Quaestio utrum haec sii
vera: 'Homo est
animai', nullo homine
existente '^^; secondo, il
sesto dubbio, ove
si nega la
tesi che attribuiva alla materia
una forma sostanziale
di corporeità da
essa inse- parabile; terzo, il
dodicesimo dubbio, ove
si sostiene che la
materia prima è
ingenerabile e incorruttibile e perciò
eterna, checché ne pensassero
altri con Avicenna. Il
II libro tratta
degli elementi e
della loro mescolanza.
Al qual proposito il
bolognese riprende in
esame l'annoso pro- blema se
nei « misti
» restino in
atto o soltanto
in potenza le forme
elementari, ritorna sulla
« forma corporeitatis
» che Avicenna voleva
inseparabile dalla materia,
e fa un
fugace accenno alla famosa
« colcodea «
dello stesso Avicenna,
« quae est decimus
intellectus in descendendo
a deo, et
est formarum datrix in
concavo lunae assistens
ad regulandam activorum et passivorum
sphaeram et ipsam
conservandam » 5°.
Altro 49 De elementis,
I, diib. 2,
f. gava. P.
Mandonnet, Sig. de
Brab. et l'averr. latin
au XI Ile siede,
seconda parte: testi
inediti. Nella coli. Les
philos. belges, t.
VII, Louvain, igo8,
pp. 65-70. 50 De
eleni., II, art. 2, f. ii2rb.
SuU'origine e il
significato della pa- rola «
Colcodea », dopo
quanto ne aveva
scritto Alfonso Nallino,
son ritornato in «
Giorn. Crit. d.
Filos. It. »,
XXXIV, 1955, p.
188, per dimostrare che
essa entrò in
circolazione coli 'edizione del
Conciliator di Pietro d'Abano, Venezia.] tema è
quello, allora di
grande attualità, se
e come le
forme sostanziali siano capaci
d'accrescimento e di
diminuzione, di maggiore o
minore intensità (art.
3"). Più importante,
sebbene non nuovo, è
quello che egli
dice della generazione
degli or- ganismi viventi, e
in particolare dell'uomo
(art. 4° e
50). Tutte le forme
degli esseri corporei,
da quelle elementari
a quelle animali, son
tratte dalla potenza
della materia. Ma
mentre le forme elementari
permangono nei «
misti », attenuate
nelle loro proprietà, come
aveva detto Averroè,
la «forma mixtionis
» resta soltanto potenzialmente nel
vegetale, e come
l'anima vegetativa si corrompe
all'apparire dell'anima sensitiva,
nella quale rimane potenzialmente o
virtualmente. L'Achillini in questo
non si dilunga
molto da S.
Tommaso e da
Pietro d'Abano. In certi
momenti, anzi, egli
sembra accogliere la
tipica dot- trina tomistica dell'unità
della forma sostanziale.
Con due strappi però:
uno, di minore
importanza, concerne la
per- manenza delle forme elementari
nei « misti
» ; l'altro,
assai maggiore, riguarda l'unione
dell' intelletto col
singolo. A rammendare quest'ultimo
strappo che compromette l'unità della
coscienza umana, l'AchilHni
s'adopra con ogni accorgimento dialettico,
pur mantenendosi fermo
sulla tesi averroistica fondamentale
: l'unità dell'
intelletto. È interes- sante seguirlo nel suo
tentativo. Lo sviluppo dell'organismo umano
s' inizia con una
fase puramente vegetativa, come
aveva detto Aristotele.
Principio delle funzioni vegetative
nell'embrione è la
così detta «
anima vegetativa », all'apparire
della quale la
precedente « forma mixtionis »
si corrompe. Così,
nella seconda fase
dello sviluppo embrionale, alla
forma vegetativa subentra
quella sensitiva, mentre la
prima si corrompe.
Ma qui l'Achillini
si domanda: — Allora
dovremmo dire che
prima d'essere animale,
l'em- brione nella prima fase
è stato pianta
? — No
— egli risponde
; — perché altro
è esser pianta,
altro è vivere
a mo' di
pianta, come dice appunto
Aristotele 51. L'anima
vegetativa d'una pianta è
termine della nascita
di quella pianta,
ed è quindi forma
determinata e perfetta
nella sua specie;
la forma ve- getativa nell'animale, invece,
è forma indeterminata
e imper- fetta; più che
punto d'arrivo, è
preparazione e avviamento 51
Ib., art. 4,
f. i24vb. ad un
grado più alto
di vita; questa
è in via,
direbbe Dante 5^, quella
è già a
riva. In questo concetto
del passaggio dall'
indeterminato al determinato parrebbe
dovesse cercarsi la
chiave per intendere come r
intelletto, unico in
sé, s'unisce all'anima
sensitiva a costituire l' individuo
umano particolare. Ed
è concetto ari- stotelico che mitiga
alquanto la crudezza
dell'altro concetto, essere le
forme sostanziali come
i numeri e
come le figure
della geometria, di cui
non si dà
aqcrescimento o diminuzione senza cambiamento
di specie. Aristotele
appunto, nel De ge-
neratione animalium, II, e. 3,
aveva detto che
nel processo genetico non
nascono insieme l'animale
e l'uomo, né
l'animale e il cavallo
53. Dal che
parrebbe che l'animale,
che precede l'uomo e
il cavallo, dovesse
essere non una
forma determi- nata e specifica,
ma una forma
generica e indeterminata, la quale
tende là a determinarsi in
cavallo, qua in
uomo. Venendo a parlare
appunto del processo
genetico umano (art. 50),
il maestro bolognese
si chiede «
an in ipso
(homine) animam
intellectivam expectet sentitiva
» 54. E
per risolverlo, ricorda anzitutto
quali, a suo
modo di vedere,
ne sono i due
presupposti : Unum, quod
intellectus sit forma
informans materiam, dans esse
hominem. Aliud, quod
prius tempore sit
anima sensitiva in materia,
quam intellectus possibilis.
Quorum primum in
libro De intelligentiis declaravi
55, et etiam
in libro De
orbihus, [II, dub. VI],
quaestione de motu
intellectus. Ouibus addo,
quod ambo illa asseruntur
ab Aristotele, 2.
De genevatione animalium, [cap. 3],
dicente: ' Sed
quamobrem talem animam
prius haberi necesse sit,
ex his quae
De anima disseruimus
apertum est. Sen- sualem
autem, qua animai
est, tempore procedente,
recipi et rationalem, qua
homo est, certum
est. Quest' « anima
sensitiva » che
precede l'apparire dell'
intel- ligenza, è una forma
generica e indeterminata
che prepara l'avvento di
un'altra forma più
determinata, per la
quale l'uomo comincia già
a distinguersi dal
cavallo e dagli
altri animali; e questa
è la cogitativa.
La cogitativa è
nell'uomo 52 Purg., XXV,
54. 53 Arist., De
gen. animai., II,
e. 3, 736b
2. 54 De elem.,
II, art. 5,
f. i26ra. 55 Si
veda sopra, pp.
208-209. 244 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI quello che
negli altri animali
si dice estimativa,
ed è, insieme air
immaginativa, alla memorativa
e al ((
sensus communis », uno
dei così detti
sensi interni. Come
l'estimativa negli ani- mali, anche la
cogitativa (che talora
è chiamata essa
pure esti- mativa) ha la
funzione di distinguere
e giudicare sensibilmente le percezioni
particolari e quello
che v' è
nelle cose apprese
di utile e di
dannoso. Per questo
essa è chiamata
anche «ratio particularis » ; ma
è facoltà sensibile,
legata all'organismo, tanto che
i medici e
anatomisti antichi e
medievali le assegna- vano come organo
il « ventricolo
medio » del
cervello, mentre all' immaginativa
assegnavano quello anteriore,
e alla memora- tiva quello posteriore.
Ma oltre alla
funzione ora accennata, la
cogitativa umana ne
ha un'altra, per
la quale si
distingue sostanzialmente
dall'estimativa degli altri
animali: essa è ordinata
a preparare quelle
immagini sensibili, o
fantasmi, quasi riassunto di
tutto il mondo
dell'esperienza sensibile,
che r
intelletto farà oggetto
di elaborazione mentale,
scien- tifica, traendo fuori dalle
rappresentazioni particolari il
con- cetto universale.
Mentre nell'animale inferiore
all'uomo l'anima sensitiva per
mezzo dell'estimativa si
può dire sia
giunta a riva, ed
abbia raggiunta la
più alta perfezione
di cui è
capace, non così è
della cogitativa umana,
la quale, per
quest'ultima sua funzione preparatoria
all'atto dell' intendere,
è ordinata per sua
natura a congiungersi
con l' intelletto possibile. Questo alla
sua volta, nella
gerarchia delle intelligenze
se- parate, è quello che
tiene l' infimo grado,
perché, pura potenza d' intendere, è
ordinato, per iniziare
il suo passaggio
all'atto, ossia per divenire
intelletto in atto,
all'apprensione intelligi- bile
delle forme del
mondo sensibile, di
cui la cogitativa
gli somministra le rappresentazioni particolari. Perciò non
si può dire
che la cogitativa
sia la vera
forma del- l'uomo, come pure
dicevano molti averroisti
56, e che
per essa l'uomo si
distingua dagli altri
animali. O se
vogliamo, essa è forma,
sì, ma incompleta.
E questo perché
la cogitativa umana 56
Fondandosi su un
famoso detto d'Averroè,
De anitna, III,
comm. 20 : ■«
Et per istum
intellectum [queni vocat
Aristoteles passibilem-, e che
Averroè denomina cogitativa]
differt homo ab
aliis animalibus ». Al
qual detto gli
averroisti sigieriani ne
opponevano però un
altro, tratto dal primo
commento allo stesso
terzo libro del
De aniìiia: «
Cum per hanc virtutem
[rationalem] difterat homo
ab aliis animalibus,
ut dictum est in
multis locis ». non
è ancora giunta
a riva; a
riva essa giungerà
quando sarà unita all'
intelletto possibile, che,
alla sua volta,
è ordinato per sua
natura ad essere
eternamente unito alla
cogitativa umana, negl' infiniti
individui della specie.
V è insomma
tra la cogitativa umana
e l' intelletto possibile
un vincolo sostan- ziale, per cui
l'una è ordinata
per natura all'altro,
e recipro- camente, ed entrambi
si completano a
vicenda. Forma com- pleta dell'uomo, sia
in universale, quanto
alla specie, sia in
particolare, quanto ai
singoli, è dunque
l' intelletto possibile unito alla
cogitativa; e non
solo forma assistente,
ma vera forma informante
che dà all'uomo
l'essere di uomo
e ne fa il
soggetto dell' intendere. A
prima vista potrebbe
parere, e certe
espressioni potrebbero
indiirci a crederlo,
che l'anima cogitati^•a,
tratta dalla potenza della
materia, e l' intelletto
possibile, venuto dal
di fuori, fossero due
nature, due quiddità
diverse, due forme,
anzi due anime. Ed
effettivamente esse stanno
nell'uomo a rappresen- tare due modi
di conoscenza che
all'Achillini, come ad
Ari- stotele e a Platone,
son parse irriducibili: Duo igitur
svint principia cognoscendi
in ncibis reperta:
unum universaliter, et est
intellectus, et est
incorporeus, inorganicus,
incorruptibilis; aliud vero
singulariter, et est
sensus, et est
virtus in corpore et
organica et corruptibilis, et
est anima cogitativa
57, Ma poiché la
cogitativa è forma
incompleta ed è
ordinata ad unirsi all'
intelletto, e questo
alla sua volta
è complemento di quella,
possiamo ben dire
che dalla loro
unione risulta un'anima composta,
come aveva detto
Sigieri 58, la
quale è tutta intera
forma dell'uomo. Tuttavia,
poiché la cogitativa è
forma incompleta che
riceve il suo
ultimo complemento dal- l'unione con r
intelletto, possiamo dire ugualmente che
1' in- telletto termina il
processo della generazione
umana, e che esso
ha da ritenersi
forma dell'uomo a
più forte ragione
che non l'anima cogitativa: Quamvis in
homine duae species
colligentur, ibi est
tantum intellectus, qui est
ultima forma, qua
homo est homo.
Cogitativa igitur forma non
est ultima, sed
ordinatur in intellectum.
Non tamen est homo
unus per simplicem
formam, sed per
composi- 57 De ehm.,
II, art. 5,
f. lijrb. S^ Cfr.
sopra, p. 206. 246 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI tissimam; nullum
enim est mixtiim
homine compositius. Habet igitur
homo duo esse:
unum est esse
inateriale a cogitativa; reliquum vero
est esse divinum
ab intellectu possibili
59. Perciò l'Achillini nei
QuoUbeta de intelligentns, ai
quali più volte si
riferisce nel secondo libro
del De elementis,
aveva detto : Non potest
intellcctus informare materiam,
non informante cogitativa, quia
non stat materia
sine forma constituta
in esse per eam....
Neque potest cogitativa
informare, non informante intellectu, quia,
dato informabili ultimate
disposito et informativo, ponitur informatio.
Est autem materia
informata cogitativa in- formabile propinquum et
ultimate dispositum ad
recipiendum inteilectum ^°.
Le quali
parole, secondo la
testimonianza del Nife,
son tolte alla lettera
dall'opera di Sigieri,
De intellectu ad
fratrem Thomam ^i. Il terzo
ed ultimo libro
del De elementis
abbraccia dician- nove
quaestiones , intorno alle
proprietà degli elementi,
e cioè alla quantità
e alle loro
qualità, al movimento,
alla gravità, alla figura
e al luogo
proprio di ciascuno.
E poiché le
teorie dello Heytesbury, o
Heutisbery, come lo
chiamavano, e quelle del
Suisset, o meglio
Swineshead, erano venute
a scompi- gliare le idee
dei maestri bolognesi
non meno che
di quelli padovani, anche
l'Achillini s' impegna in una prolissa
discus- sione del problema di
moda, se di
ogni cosa naturale
si dia un massimo
e un minimo
6=, sul quale
nel corso delle
sue lezioni e in
trattati speciali ebbe
a soffermarsi più
volte anche il Pomponazzi, imprecando ai
calculatores forestieri e
nostrani ^3. A questo
problema tien dietro
una non meno
prolissa discus- 59 De
elem., 1. e,
f. i2gra. ^° V.
sopra, p. 206. 6^
NiFO, De intellectu
et daemonibus, I,
tr. 3, e.
18; cfr. il
mio Si- gieri, cit., pp.
17-18. ^2 De elem..
Ili, dub. i,
f. 230va sgg. ^3
Pomponazzi, De maxima
et minimo ad
Laurentium Molinum, Ms. Ambrosiano
R. 96 sup.,
f. i52r (vecchia
numeraz. f. 39r)
; In I Phys.,
Parigi, Bibl. Nation.,
ms. lat. 6533,
f. 49 Gr
sgg.; Arezzo, Bibl. Frat.
de' Laici, ms.
389, f. 42V
sgg. (il Pomponazzi
prende di mira
par- ticolarmente il suo concittadino Pietro
da Mantova), nonché
le due opere a
stampa De reactione
e Tractatus penes quid
intensio et re- missio
formarum attendatur. sione sul
quesito « utrum
aliquid moveat se
». E sebbene
l'au- tore dichiari di voler
trattare di ogni
specie di movimento, celeste o
elementare, animato o
inanimato, sostanziale o accidentale, corporale
o spirituale, egli
s' intrattiene più a lungo
intorno al moto
naturale degli elementi
e dei «misti»
e specialmente alla gravità
e « leggerezza
», ritenute con
Ari- stotele e Averroè forme
sostanziali dei corpi,
all'azione del cielo, del « luogo naturale »,
del generante edi
ciò che rimuove r
impedimento al cadere
o all'elevarsi di
un corpo 64.
Le stesse idee averroistiche, che
l'Achillini sosteneva a
Bologna, aveva sostenuto a
Padova il Pomponazzi,
nell'anno 1500, commen- tando r Vili
della Fisica 65.
Ad un certo
momento il maestro bolognese accenna
anche al moto
violento dei proiettili.
E come il Pomponazzi,
sostiene egli pure
che il proiettile
lan- ciato «movetur a medio»
e combatte la
tesi dell' « impetus » difesa
dai «parisienses»66^ cioè
da Giovanni Buridano,
da Ni- cola d'Oresme, da
Alberto di Sassonia,
detto Albertuccio o Alberto
il piccolo, per
non condonderlo con
Alberto Magno, e altresì
da Marsilio di
Inghen, e portata
a Bologna da
maestro Biagio da Parma
che d'Albertuccio era
stato alunno a
Parigi ^7. Seguono altri
diciassette quesiti intorno
ai quattro elementi e
alle loro qualità
sostanziali. La soluzione
di essi è
quella averroistica. Ma l'ultimo,
il diciannovesimo, ha
un' impor- tanza speciale per
il tempo in
cui è posto
: « Dubitatur
decimo- nono, utrum terra sit
ubique habitabilis ». Il problema
se l'era già posto
Pietro d'Abano prima
del 1310, nella
diff. LXVII del suo
Conciliator, e l'aveva
discusso con ampiezza,
ricor- dando i viaggi di
Marco Polo e
la relazione di
frate Giovanni cordigliere, cioè
del francescano Giovanni
del Pian del
Car- 64 De eleni.,
Ili, dub. 2,
f. I34ra sgg.,
e specialmente sulla
gravità e nerezza, f.
i36rb. 65 Bibl. Naz.
di Napoli, ms.
Vili. D. 81,
f. 1311: Questio
Magistri Petri Pomponatii.... de motu gravium
et leviiim, quam
fecit Magister Petrus dum
legeret librum 8. Physicoriun
anno domini 1500.
Sullo stesso argomento il
mantovano ritornò nel
commento all' Vili
della Fisica del 1518,
Arezzo, Bibl. Frat.
de' Laici, ms.
389, f. 3iiv-3i2r, ove combatte
la « solutio
de impulsu que
communiter tenetur a
pari- siensibus » (ad
t. e. 82). 66
De elem., 1.
e, f. I35va
« Secunda est
opinio Parisiensium.... ». 67
A. Maier, Zz£^ei
Grundprobletne der scholastischen Naturphilosophie: das Problem
der intensiven Grosse;
die Impetustheorie. 2*
ediz. Roma, 1951, pp. 1
13-313, e per
Biagio Pelacani da
Parma in particolare] pine 68.
L'Achillini conosce e cita il
Conciliator, ma di
mala voglia e senza
entusiasmo: Quod autem sub
aequinoctiali continue habeantur
ficus, aut quod aer
sit ibi temperatissimae dispositionis, aut
quod aninialia ibi habitantia
temperatam habeant complexionem,
aut quod pa- radisus
terrestris ibi sit:
sunt res quas
experientia naturalis nobis non
ostendit ^9. Il che
è ben detto
per il paradiso
terrestre, ma non
per le altre cose
ricordate, delle quali
1' « experientia
naturalis » di arditi
viaggiatori e missionari
era cominciata da
un pezzo. Il filosofo
bolognese, che pur
sapeva qualcosa di
ciò che co- storo narravano di
aver visto e
toccato con mano,
senza avere il coraggio
di negarlo, si
contenta di dire
che è cosa
che non riguarda i
filosofi intenti alla
ricerca del perché,
bensì gli « storiografi
» cui spetta
d' indagare se un
fatto è o
non è : «
Pro malori parte
veritas illarum (causarum)
ex historia ' quia
est ' dante,
petenda est ;
ideo haec historiographis re- linquantur, et
praesertim de Marco
Veneto aut Dominico Indiano loquentibus
» 70. Chi
sia questo Domenico
Indiano non saprei dire.
Ma coloro che
avevan parlato e
scritto del- l' India e
delle terre australi
eran più d'uno.
Negli anni stessi in
cui l'Achillini componeva
il De elementis, s'aggirava per r
India e le
terre australi Ludovico
de Varthema, che
pare,, e non senza
buon fondamento, fosse
oriundo bolognese. 5. - Il 5
marzo 1506, uscì
« per Benedictum
Hectoris Biblio- polam Bononiensem
» la seconda
edizione dei Quoliheta
de intelligentiis , cui l'autore
premise diciotto dubia
sollevati dal conte Annibale
Rangoni, al quale
l'edizione era dedicata,
in- sieme con le soluzioni
di essi. Questi
diciotto dubia nelle
edi- zioni successive sono stati
rimandati in fine
dell'opera. Tutti questi scritti
hanno, in complesso,
carattere stretta- 68 Che
« cordelarius ))
(in francese cordelier)
significhi «francescano» o « cordigliere »,
è sfuggito a
Sante Ferrari, in
quel suo volumaccio, pieno di
tanti spropositi, I
tempi, la vita,
le opere di
Pietro d'Abano, p. 276,
del quale ho
parlato a lungo
sopra, nei primi
due saggi, eil ove
« cordelarius »
è diventato un
cognome, Cordellari ! 69
De eleni., Ili,
dub. 19, f.
i49rb. 70 Ib. mente filosofico,
se per filosofia
s' intende, come s' intendeva allora, la
teoria della natura
completata dalla metafisica. Le stesse
questioni De suhiecto
physiononiiae et chiromantiae e De
suhiecto medicinae , ben
poco hanno che
riguardi da vicino la
medicina propriamente detta.
Tuttavia dalle Anotomicae annotationes , pubblicate
postume dal fratello
Giovanni Fi- loteo, nel
settembre 1520, e
delle quali parleremo
più oltre, si può
ricavare che maestro
Alessandro, il quale
dal 1494 reggeva una
delle cattedre di
Medicina Teorica, fu
condotto a discutere di
anatomia e di
fisiologia 7". In queste
Annotationes infatti egli accenna
più volte ad
osservazioni da lui
fatte nel 1502 (f.
i6v), nel 1503
(ff. 5v, 15V,
16) e nel
1506 (f. 12 v). Lo
studio bolognese, da
quando l'Achillini assunse
l' insegna- mento della
Medicina Teorica ebbe
quasi sempre tre
maestri deputati « ad
lecturam Chyrurgiae », che di
solito aveva per testo
fondamentale V Anatomia del
Mondino, sulla guida
del quale si conducevano
le dissezioni dei
cadaveri o «
anotomie », che, alla
fine del Quattrocento
e nei primi
del Cinquecento, si facevano
con speciale messa
in scena, pari
a quella non
meno solenne per la
confezione della Triaca.
A queste «
anotomie » assistevano maestri
e scolari e
per l'occasione si
sospendevano per otto o
dieci giorni le
lezioni. Siccome l'Achillini
non fu mai deputato
« ad lecturam
chyrurgiae », è
verosimile che egli, come
maestro di Teorica,
abbia preso parte
a qualcuna delle abbastanza
frequenti « anotomie »
tenute negli anni
da lui stesso indicati
e in altri
ancora ~-. Nell'anno scolastico
1502-3, fra i
maestri deputati a
leggere 71 A. Pazzini,
La scoperta della
membrana timpanica, nella
rivista // Valsalva, IX,
1933, pp. 298,
scrive: «L'Achillini lesse anatomia nell'università di
Bologna nel 1497,
ma per breve
tempo. Nel 1501
ri- prese la cattedra e
la tenne fino
al 1508 ».
La notizia è
inesatta per più versi.
Una cattedra d'anatomia
a Bologna allora
non esisteva. Di
ana- tomia si occupavano il
professore di Teorica,
quando faceva lezione su
un testo di
anatomia, per es.
su talune parti
del Canon di
Avicenna o su alcuni
trattati di Galeno
ecc., e il
professore di Chirurgia.
L'Achil- lini fu sempre professore
di Teorica dal
1494 al 1506,
e dall'ottobre 1508 al
1512. 7* Oltre a
queste « anotomie
» pubbliche, ve
n'erano del resto
anche di private che
i maestri facevano
per proprio conto,
quando ne avevano la
possibilità, a scopo
d' indagine scientifica. Cfr.
G. Martinotti, L' in-
segnamento dell'anatomia a Bologna
prima del sec.
XIX, in Studi
e me- morie per la
Storia dell'univ. di
Bologna, voi. II,
Bologna, 191 1, p.
30 sgg. Ma l'autore
non dà esempi
per il periodo
dell'Achillini, né dice
che fossero frequenti. Chirurgia, insieme
a Domenico della
Lana, che già
insegnava da vari anni,
e a Biagio
de' Mercuri, ucciso
il 5 novembre
1505, compare nello studio
bolognese la figura
di Jacopo o
Beren- gario da Carpi, detto
semplicemente il Carpo.
Questo illustre maestro, che
godeva della protezione
d'Alberto Pio, signore
di Carpi, commentando il
Mondino, ebbe a
correggerlo su molti punti,
e dominò la
chirurgia bolognese del
suo tempo, cui
aprì nuove vie, fino alla
sua partenza per
Ferrara nel 1527.
A pro- posito della scoperta
del martello e
dell' incudine nell'orecchio medio, gli
storici della medicina
sono incerti se
attribuirla all'Achillini o al
Carpo, e sembrano
quasi insinuare che vi
fosse rivalità fra i due
colleghi bolognesi. Il
certo è che
l'Achil- lini nelle Annotationes
non ne fa
cenno; e d'altra
parte il Carpo, nei
Commentaria cum amplissimis
additionihus super Anatomia Mundini,
stampato a Bologna,
« per Hieronymum de
Benedictis. Pridie Nonas
Martii. M.D.XXI »,
quando il collega era
morto da quasi
nove anni, trattando
nel comm. XXXVII (fol.
477r) di questi
due ossicini, lungi
dall'attri- buirsene la scoperta,
e' informa che
« sunt aliqui
qui volunt quod illa
ossicula moveant aerem
intra stantem et
panni- culum praedictum ».
E anche nelle
Isagogae hreves et
exactis- simae in anatomiam
humani corporis (seconda
ediz. del 1530, s. 1.,
pp. 230-32), lo
stesso Carpo torna
a parlare dei
«duo ossicula » e
delle varie opinioni
per intenderne la
funzione. Se se ne
discuteva, ed altri
avevano opinioni diverse
da quella di maestro
Jacopo, è segno
che questi «
duo ossicula »
erano stati notati da
qualche tempo, forse
in qualcuna delle
« ano- tomie »
tenute dallo stesso
chirurgo, e alle
quali un maestro di
Teorica, qual era
l'Achillini, non poteva
rimanere estraneo 73 Giacché
è risaputo come
nel corso appunto
di queste « ano-
tomie »
e nelle discussioni
inevitabili a cui
davano occasione, furon notate
discordanze, le quali
ogni giorno cresce van
di numero, fra l'esperienza
e le trattazioni
anatomiche di Ga- leno, di
Avicenna, del Mondino
o di Ugo
da Siena, e
si venne rinnovando la
scienza anatomica. Nel 1506,
Alessandro Achillini godeva
dunque a Bologna della
più alta considerazione come
filosofo e come
medico e 73 Del
resto l'attribuzione di
questa scoperta all'Achillini
si fa ri- salire a
ciò che ne
dicono Eustachio Rudio
e Giulio Casserio
piacentino. Cfr. G. N.
Pasquali Alidosi, / dottoribolognesi di teol.
filos. medie, e d'arti
liberali dall'anno 1000
per tutto marzo
1623, Bologna] del favore
dei Bentivoglio che
gareggiavano coi signori
di Ferrara e d'
Urbino e coi
Medici nel proteggere
gli studi, le arti
e i begli
ingegni 74, Per
Natale del 1504,
il fratello Giovanni Filoteo Achillini
portava a termine
il suo enfatico
e strampa- lato poema intitolato
Viridario, stampato a
Bologna, nel 1513, «
per Hieronymo di
Plato Bolognese »,
e dedicato a
« Gioanne de Medici
Cardinale, bora Leone
sommo Pontifice ». Nel
canto X,
Giovanni Filoteo tesse
le lodi di
Bologna; prima delle donne
e dei gentiluomini
illustri, poi degli
studi che dan
fama a Felsina. Fra
i dotti bolognesi
due ne indica
in particolare: l'uno è
Giovanni Zaccaria Campeggi,
allora giurista di
gran fama, che dopo
avere insegnato il
diritto a Pavia
e a Padova, s'era
fermato definitivamente a
Bologna (a meno
che Gio- vanni Filoteo non
intenda del figlio
di lui, Lorenzo,
che, insieme al padre,
teneva la cattedra
straordinaria di diritto
civile, egli pure giurista
di grido e
futuro cardinale, cui
saranno affidate importanti e
delicate missioni diplomatiche)
; l'altro è Alessadro
Achillini, che il
poeta, suo fratello
minore,esalta con orgoglio e
ammirazione (ff. i84v-i85r)
: Dui lumi chiari,
ciascaduii divino: lune il
Campeggio, laltro lo
Achillino. Di luna legge
e laltra quel
Campeggio, si come e
voce e ver,
porta corona. Ne gli
altri studii lo .\chillino
veggio, che Theologia sparge
in ogni zona. lalta
philosophia laudar non
deggio, che fama, e
de laltre arti,
il Mondo introna. Me
glorio, godo, e
laudo il Creatore che
a questo unico
son fratel minore. Chi
legge e intende
lopre sue superne, dove
e insudato in la sua
gioventute, gli darà laudi
gloriose e eterne. Hor
pensi, pervenendo a
senettude, le lucubration, calami
e lucerne scranno al
letto et al
lettor salute. Di un
lustro a punto
il mezzo camin
varca, sei debito farà
Ih orrenda Parca. Che
maestro Alessandro fosse
dottissimo in filosofia
e nelle altre arti
lo sapevamo ;
ma che egli
si fosse addentrato
anche in 74 Nel
bimestre settembre-ottobre 1491,
e in quello
di novembre- dicembre 1504,
fu anche del
consiglio degli Anziani.
Catalogus omnium doctoriini collegiatorum
in artibus liberalibus
et in facilitate
medica, Bo- logna] un campo
così diverso come
quello degli studi
di teologia, ci sarebbe
facilmente sfuggito, se
il fratello poeta
non avesse richiamato l'attenzione
su questo aspetto
della sua cultura. A
dir vero, più
volte, leggendo taluni
dei suoi scritti,
m'era accaduto d'
imbattermi, senza farci
troppo caso, in
brani che, ben considerati,
attestano nell'autore buona
conoscenza delle cose teologiche,
pari certamente a
quella di Tiberio Bacilieri, il
quale, averroista alla
maniera dell'Achillini, non esitava
a dichiararsi pronto,
se il papa
l'avesse gradito, a in-
terrompere l'esposizione d'Aristotele e,
«relieto lumine na- turali, propositiones creditas
magna cum facilitate
et bre- vitate resolutissimas reddere
» 1^. Il 19
maggio del 1506
l'Achillini avrebbe dovuto
essere presente come compromotore
all'esame di dottorato
che quel giorno dovevano
subire maestro Guglielmo
Spinola da Modena, che
per un biennio
era già stato
Rettore dello studio
« et optime se
habuerat in officio
», e maestro
Guido da Pesaro. Dovette invece
farsi rappresentare da
un collega, perché «
tunc temporis iverat
Romam, ut interesset
disputationibus fìendis in capitulo
generali fratrum minorum
tam observanti- norum quam
conventualium, grafia sui
honoris, studiique nostri ac
almae civitatis bononiae
» 7^. Nel
saggio che segue, si
dirà quanto basta
di questa disputa
avvenuta il 6 giugno
1506 in
casa e sotto
la protezione del
Cardinale Domenico Grimani. Il
patrizio veneziano Geronimo
Taiapietra prota- gonista di questa
disputa, al capitolo
generale dei frati minori
tenuto a Roma,
giostrava in difesa
di quel- l'averroismo sigieriano che
l'Achillini, dodici anni
prima, aveva difeso durante
un altro capitolo
generale di francescani a Bologna.
L' invito deve essere
stato rivolto all'Achillini 75 Nella
dedicatoria a Giulio
II della Lectura
in tres libros
de anima di Tib.
Bacilieri, Pavia, 1508. Cfr.
il mio Sig.
d. Brab. nel
pensiero ecc., p. 136. A convincerci
della buona conoscenza
che all'Achillini non
do- veva mancare deUe cose
teologiche, oltre ai
molti luoghi nei
quali egli mette in
rilievo, su vari
argomenti, il dissenso
irriducibile tra filosofi e
teologi, basta ricordare
i brevi accenni
alla libertà degli
angeli {De orò., ITI,
dub. I, f.
47rb), alla grazia
infusa {ib., dub.
2, f. 5ira),
alla duplice natura in
Cristo [De eleni.,
II, art. 2,
f. ii2rb), al
peccato originale e alla
giustificazione {ib., art.
5, f. i29rb),
alla transustanziazione e al-
l' identità del corpo
di Cristo nel
sepolcro {ib., i29rb-vb)
e simili. 76 Libro
segreto del collegio,
cit., n. 3,
f. 6r. Cfr.
L. Mùnster, Aless. Achillini, in
Riv. di Storia
delle Scienze Mediche
e Naturali] dal Card.
Grimani, per desiderio
del Taiapietra stesso,
cui doveva stare a
cuore d'avere al
suo fianco, nel
pubblico ci- mento, un maestro
di tanta autorità,
del quale condivideva
il pensiero. Però fu un
peccato che maestro
Alessandro fosse assente da
Bologna quel 19
maggio, poiché maestro
Geronimo de Bombaxia, priore
per quel trimestre
del Collegio di
medicina, annota di suo
pugno nel Libro
Segreto del Collegio
stesso: « Et eadem
die habuimus opulentam
colationem a docto- ratis»; usanza
non del tutto
infrequente, e fatta
oggetto, a quanto mi
consta, anche di
speciali norme regolamentari. 6. —
Nell'autunno dello stesso
anno l'Achillini, che
era priore del Collegio
(carica già da
lui coperta altre
volte), dovette provvedere alla
sua incolumità personale,
all'appressarsi delle
milizie papali: « Erat enim
tunc temporis universa
urbs in sagis ob
terorem summi pontificis,
qui magnis et
gallorum et italorum copiis
ad eam approperabat,
ut urbem suam
libe- ram in liberiorem
redigeret; quod sibi
sviccessit fuga opti- matum
bentivolorum, qui tunc
ei preerant, suscepta
». Come fautore dei
Bentiviglio, egli il
7 novembre era
fuggito a Pa- dova, mentre nella
carica di priore
gli era successo
maestro Chiaro Francesco de'
Genuli 77. L' II
novembre Giulio II
faceva il suo
ingresso in Bologna, e
i maestri dello
studio andavano a
rendergli omaggio: Die xi'^
novembris, Beatissimus sumnius
pontifex iullius papa secundus
honorificentissime ingressus est
praetorium fori bono- niensis, tanquam
Dominus benemeritissimus; et
nostra collegia iverunt obviani
ei pedestres usque
ad mansionem prope
positam strale maioris, cum
vestibus et biretis
rosaceis et banale
de variis, et beatitudinem
suam associavimus usque
ad sanctum petrum. Sic
enim consue visse alios
collegiatos factitare, a
Domino Paris de grassis,
Magistro ceremoniarum, accepimus
78. Fuggito da Bologna,
l'Achillini era accolto
come maestro nella seconda
cattedra ordinaria di
filosofia naturale, a Pa-
dova. Ivi appunto lo
troviamo come concorrente
del Pompo- 77 Libro
segreto, n. 3,
f. yr. Cfr.
L. Mùnster, p.
16. 78 Libro segreto,
ib. ] nazzi che occupava
la prima cattedra,
come risulta dal
titolo dalla reportatio del
corso di lezioni
che il Peretto
Mantovano tenne nell'anno scolastico
1506-1507 sul De
substantia orbis di Averroè: Expositio libelli
de substantia orbis
ex. mi ac tempestate
nostra naturalis
philosophiae luminis Magistri
petri pomponacci Man- tuani.
Patavij. M.D.VII. xx
mensis Februarij, dum
primum locum ordinariae philosophiae,
ad concurentiam ex. mi allexandri achiUini bononiensis, publice
profìteretur 79. Sebbene il
Facciolati pretenda di
sapere che maestro
Ales- sandro era stato professore
a Padova nel
quadriennio 1484- 1488, e che in
quest'ultimo anno aveva
avuto per antago- nista il Pomponazzi,
la notizia è
smentita dai rotuli
bolognesi e dagli altri
documenti del Collegio
delle Arti e
di Medicina che danno
presente a Bologna
l'Achillini ininterrottamente
dal 1484
al 1506. Invece
è certo che
il mantovano, che
iniziò il suo insegnamento
padovano solo nel
1489, ebbe a
concor- rente, quando
ritornò a Padova
nel 1499, l'alunno
e socio dell' Achillini, Tiberio
Bacilieri, lino alla
partenza di lui
per Pavia, e, partito
questo, il Fracanziano.
Prima dunque che con
l'Achillini, il Pomponazzi
s'era scontrato col di lui
« fido Achate »,
che del suo
Enea non era
per altro che
una pallida e sbiadita
ombra ^o. Soltanto dunque
nei due anni
scolastici 1506-1508 il Pe-
retto si trovò ad
avere per concorrente
l'Achillini, del quale già
conosceva il pensiero.
Ma a giudicarne
dal contenuto dell'
Expositio libelli de
substantia orbis, i
dissensi fra i due,
per quanto senza
dubbio notevoli, non
paion tali da do-
ver degenerare in risse.
Anzi, non ostante
i dissensi, vi
sono nell'esposizione
pomponaziana molte pagine
che il bolo- gnese avrebbe potuto
sottoscrivere a piene
mani. Così, per esempio,
quando il mantovano
combatte la teoria
avicenniana della « forma
corporeitatis » coeterna
alla materia (fol.
yv sgg.) ; o
quando tratta della
dottrina averroistica delle
« dimensiones interminatae »
anteriori ad ogni
forma corporea (f .
I3r) ; o quando
nega con Averroè
che le sfere
celesti siano animate da
un'anima sensitiva, distinta
dall' intelligenza motrice, come pretendeva
ugualmente Avicenna (f.
i/r). Anche sul 79
Cod. Vat. Regin.
lat. ] grosso problema An
caeluni sit compositum
ex materia et
jorma (ff. i8r-24r), il
Pomponazzi si sforza
di mostrare come
le varie opinioni in
contrasto si possan
difendere e come
si possan risolvere gli
argomenti che ad
ognuna si obiettano.
Il suo ari- stotelismo e il
suo averroismo insomma
non hanno la
rigidità intransigente del pensiero
dell'Achillini. Col quale
il manto- vano era in
sostanza d'accordo anche
nel dubitare della
di- pendenza delle intelligenze e
dei corpi celesti
dalla causalità efficiente del
primo motore (f.
28r-30v), e altresì
della infinità intensiva del
vigore col quale
questo muove l'universo
(f. 33V-34V). La vera
e profonda differenza
fra l'uno e
l'altro maestro, trovatisi di
fronte a Padova,
è questa. L'Achillini
accetta integralmente l'
interpretazione averroistica d'Aristotele,
an- che là dove altri
aveva visto discordanze
fra il testo
e il com- mento e
nel pensiero stesso
d'Averroè aveva notato
non poche contradizioni, onde
le molte opinioni
sul vero pensiero
dello stagirita e le
diatribe fra gli
stessi averroisti, ciascuno
dei quali aveva in
serbo il suo
modo di risolvere
quelle discor- danze e contradizioni. Quello
del bolognese rappresenta
uno dei sistemi più
coerenti d' interpretazione del
pensiero d'Ari- stotele, dal punto
di vista rigidamente
averroistico. Per mezzo di
sapienti accorgimenti logici,
suggeriti dalla più
scaltrita arte dialettica, per
via di impensati
ravvicinamenti di testi e
di sottili distinzioni,
le contradizioni spariscono,
i contrasti sono conciliati,
le obiezioni mosse
dai dissenzienti risolte,
le dubbiezze dissipate. Di
guisa che il
sistema aristotelico-
averroistico, costruito con
procedimenti deduttivi che
mentre scimmiottano quelli della
geometria in realtà
si risolvono in una
caricatura del metodo
matematico, ostenta una
compat- tezza in tutte le
sue parti, sì
da dare l' illusione
della raggiunta certezza, in
cui l'animo si
quieta e non
sente più l'acre
puntura del dubbio. In
questa superba convinzione
di essere ormai arrivato «
al segno che
si tien gran
miracol di natura
», e pros- simo alla copiilatio
con l' intelletto agente,
l'Achillini non aspira orm.ai
ad altro che
ad assomigliare ad
Aristotele, del quale dice
con Averroè :
« qui divinus
potius quam humanus
; quoniam a M.
D. annis cifra
non est inventus
error in eius dictis
alicuius momenti; naturae
enim consiliarius extitit»!
8', 8i De phys.
auditu, f. óyvb. 256 l'aristotelismo tal
C vano dal
secolo XIV AL
XVI Al Pomponazzi, al
contrario, questa balda
sicurezza dell' in- fallibilità d'Aristotele
e d'Averroè era
venuta meno. Egli non
soltanto afferma «
quod Aristoteles non
fuit deus et ipse
non novit omnia»
82, ed ugualmente
«quod Commen- tator erravit
neque ipse est
deus «^3, ma
spesso dichiara di non
riuscire a intenderli,
che preferirebbe esser
discepolo che non maestro,
talvolta anzi non
esita a qualificare
pazzesche, dal punto di
vista della stessa
ragione umana, le
loro dottrine. Ma il
più spesso, da
quell'uomo faceto che
era, più che
incapo- nirsi a dissolvere gli
argomenti dei suoi
avversari (cosa non facile
senza accettarne taluni
presupposti, il che
l'avrebbe con- dotto ad
invischiarsi in un
perpetuo circolo vizioso,
senza via d'uscita), preferiva
motteggiare con essi
e svignarsela con qualche
piacevole e magari
salace barzelletta. Esempi:
nel febbraio 1520, stava
esponendo il secondo
libro del De
cado, e precisamente il
commento averroistico al
testo 34, là
dove si pretende di
poter dimostrare con
arzigogoli sillogistici che il
mondo «
non potuisset esse
nec maior nec
minor, secundum philosophos »,
perché esso ha da esser
proporzionato alle di- mensioni dell'uomo, «
cum mundus sit
propter hominem ». Questo
modo di argomentare
stuzzica la vena
umoristica del Peretto:
Modo, si
mundus esset maior,
homo non posset
vivere; nam si haberetis
thalamum maximum, non
possetis vivere, quia
ibi esset nimis frigus.
Unde si Sanctus
Petronius esset in
decuplo maior, organum, quod
nunc habetur, non
posset sentiri per
totum. Similiter, si mundus
esset maior, sol
esset nimis parvus,
et sic non posset
calefacere, et sic
corrumperetur homo. Similiter, si
esset minor, nimis
sol calefaceret, et
ita non possent
esse plures celi. Mundus
ergo non potest
esse maior neque
minor; et est
sicut dicebat illa bona
mulier, quod virga
bene manebat in
vulva sua, et quod
virga non oportebat
quod fuisset nec
maior nec minor, nec
grossior nec subtilior,
nec curtior nec
longior; ita quod
era, ut dicitur, a
punto. Et hoc
respondent fatui philosophi
ad istam dubitationem 84. E
perché, mentre il
moto violento dei
proietti è più
intenso da principio e
poi va rallentando,
il moto naturale
dei gravi e dei
leggieri « est
in fine velocior
» ? La
ragione ve la
dà Averroè : ^2
Arezzo, Bibl. Laici,
ms. 390, f.
41V; cfr. Parigi,
Bibl. Nation., ms. lat.
6534, f. I3r. 83
Arezzo, ms. cit.,
f. 47V; Parigi,
ib., ms. lat.
6533, f. 53V. 84
Parigi, ib., ms.
lat. 6534, f.
6ov. Et ponit conimentator
huius rationem: v.
gr., grave descen- dens
in fine velocius
est quam in
principio, quia confortatur
ex desiderio finis et
termini; ideo intenditur
desiderium, et intento desiderio intenditur
virtus motiva et
motus. Exemplum do
vobis: quando vos itis
ad amicam et
appropinquatis illi, antequam
figatis priapum, vos mandate
fuor el seme
in sulle cosce.
Similiter, quando aliquis est
clericus, non desiderat
papatum; sed quando
incipit liabere sacerdotia magna,
incipit desiderare episcopatum,
postea cardinalatum, et tunc,
quando est cardinalis,
magnopere papatum desiderat, quia
illi est propinquus.
Et ita dicit
commentator....85. Alla fine di
novembre 1522, stava
commentando il primo delle
Meteore, e precisamente
il capitolo della
pioggia, della rugiada, della
grandine, della neve
e della brina.
Seguendo passo passo il
testo aristotelico e
prendendo in esame
le varie opinioni così
poco convincenti intorno
alle cause del
riscalda- mento e
raffreddamento, della siccità
e dell'umidità, esce
in queste dichiarazioni: Ego multos
annos consideravi ista,
et ex toto
mihi non sati- sfacio,
et volo addiscere
2as dubitationes quas
nescio solvere, et solutionem
relinquo istis meis
sociis qui cenant
cum deo et
omnia sciunt.... Domini, ego
dico vobis sicut
dicebat Petrarca: '
Così ben io potessi
con lingua '
exprimere quaelibet mente
concipio.... Domini et filij
mei, dicam vobis
veruni: certe quo
ad nostrum saeculum, multum
laudo fratres sancti
Hieronymi, idest li
lesuati, quoniam non student
et nihil faciunt
nisi dicant '
Pater noster ' et
'Ave Maria'. Et
ita contenti vivunt
et sine molestia.
Et quantum ad alium
saeculum, magis laudo,
et mallem habere
conditiones Socratis, qui ad
hoc devenit et
dixit hoc: 'Unum
scio, quod nihil scio
', quam conditiones
Aristotelis, quem credo
quod multa finxerat se
scire, quae tamen
ipse ignoraret. Dico
vobis quod ista nescio
solvere. Solvant qui
continuo prandent cum
deo qui habent intellectum
adeptum ^6. I soci
che pranzano e
cenan con Dio
e san tutto,
sono evi- dentemente quegli averroisti
che, come l'Achillini
e il Baci- lieri,
ritenevano fosse concesso
al filosofo di
giungere, in questa vita,
al termine dello
sviluppo filosofico e
al congiungimento coir Intelletto
agente, nel quale
consiste il pieno
appagamento del desiderio
umano di sapere. Paolo
Giovio si trovava
a Padova, sui
ventiquattro anni, di- scepolo del Peretto,
quando questi ebbe
per concorrente l'Achil- 8?
Ib., f. i64r. **^
Parigi, ib., ms.
lat. 6535, f.
i2or-v. I 258
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI lini fuggito da
Bologna; sì che
quello che egli
racconta dell'uno e dell'altro
è testimonianza di
quanto ebbe ad
osser- vare. Al grande cacciatore
di aneddoti non
pareva vero di
tra- mandarci qualche fugace impressione,
colta a volo,
intorno ai personaggi del
tempo, nei quali
s'era imbattuto. Egli
infatti niente ci dice
dell'insegnamento dell' Achillini a
Bologna. Ce lo rappresenta a
Padova, averroista che
gode fama di
solido e ben digesto
sapere, mentre il
Pomponazzi, astioso rivale
^7, mosso da ambizione,
gli vuota la
scuola. Un po'
trasandato nel ve- stire e
nel portamento, ma con fronte
sempre raggiante, si- curo di
sé, eccolo là
al portico pretorio,
nel circolo dei
dotti, mentre nel rozzo
gergo scolastico affronta
l'avversario e cerca d' irretirlo entro
le maglie dei
suoi bifronti e
cornuti enti- memi ^^, E
talora sembra averlo
abbattuto col vigore
delle sue stoccate; ma
il più delle
volte quello sfugge
alla presa delle armi
dialettiche, l' impeto dei
colpi vibrati cadenelvuoto,, stornato da
una facezia o
da un motto
salace, « salsa
dicaci- tate », che
suscitava, in chi
assisteva a quelle
giostre di sillo- gismi, le più
scroscianti risate. Negli anni
del soggiorno padovano
l'Achillini attese a
riunire in un sol
volume le opere
che aveva stampate
separatamente a Bologna e
che abbiamo elencate
fin qui. La
prima edizione degli Opera
omnia fu fatta
a Venezia a
spese degli eredi
di Otta- viano Scoto, ed
apparve il 29
luglio 1508. Essa
comprendeva i Quolibeta de
intelligentns, il De
orbibus, il De
universalibus,. il De elementis
89 e le
questioni De principiis
chiromantiae et phvsionomiae, De
potestate syìlogismi e De subiecto
medicinae. 87 II Capparoni,
Profili bio-bibliografici di
medici e naturalisti
celebri italiani dal sec.
XV al sec.
XVIII. Roma, 1926,
p. 12, dice
addirittura che a Padova
l'Achillini « ebbe
a soffrire l' invidia
del Pomponazzi con il
quale sostenne non
lievi dispute, avendolo
ad avversario poco cortese
e corretto ».
Tutto questo mi
pare che aggravi
un po' troppo
il racconto del Giovio. 88
Paolo Giovio, Elogia
virorum literis illustrium.
Basilea, 1577, pp. 71-72
e p. 86.
In questa edizione
dell'opera del Giovio
si trova quel ritratto
dell'Achillini che il
Mlinster (1. e,
p. 15) riproduce diseconda mano, dichiarando
di non sapere
donde provenga. Un
ritratto del filosofo bolognese
il Giovio doveva
possedere nel suo
museo a Como. Una
copia di esso,
se non proprio
l'originale, si trova
ora nel ballatoio della sala
Fagnani presso la
Bibl. Ambrosiana di
Milano, somigliante all' immagine
degli Elogia. Altro
ritratto dell'Achillini è
posseduto dal museo dell'
Università di Bologna. 89
La dedica al
Bentivoglio naturalmente fu
omessa. La partenza di
questo insigne maestro
aveva lasciato un gran
vuoto nello studio
bolognese, e le
autorità accade- miche, che non
riuscivano a colmarlo,
lo sollecitarono a
ritor- nare sulla sua cattedra,
minacciandolo dell'ammenda di
cin- quecento ducati d'oro e
di pene anche
più gravi, ove
non avesse ottemperato all'ordine
9°. Così egli
il 14 settembre
150S fece ritorno in
patria, ove riprese
la sua attività
normale di dottore dei
due collegi delle
Arti e di
Medicina, e il
duphce insegnamento della filosofia
naturale e della
medicina teorica; tanto poco
il nuovo regime
papale si preoccupava
dell'opposi- zione che
avrebbe potuto venirgli
dalla filosofia. Al periodo
del ritorno a
Bologna appartiene il
trattato De distinctionibus, edito
quivi, « per
Ioannem Antonium de Benedictis..., Anno
domini 1510. Die
5. Octobris ».
L'opera concerne i concetti
trascendentali di ente,
uno, vero, buono, e
quelli di essenza,
di cosa, di
identico e distinto,
della distin- zione reale e
della distinzione concettuale,
delle formalità scotistiche, della
relazione e dei
suoi fondamenti, dell'ana- logia e dell'uso
di questi concetti;
di guisa che
la trattazione ci dà,
di scorcio, un
sommario di tutto
il pensiero metafisico dell'Achillini intento
a salvare e
a conciliare la
dottrina d'Averroè con quella
dei maggiori maestri.
Nel 1509, come 90
Da una lettera
dei Quaranta riformatori
dello Studio bolognese, in
data 11 sett.
1507 (pubblicata da
B. Podestà, Di
alcuni docum. ined. riguardanti P.
Pomponazzi, in «Atti
e Mem.» della
R. Deput. di
Storia Patria per le
provincie di Romagna,
Anno VI, Bologna,
1868, p. 142, nota),
appare che i
riformatori avevano già
prima fatte le
loro rimo- stranze, perché s'era
assentato senza licenza.
L'Achillini s'era scusato «
cum dire che
ne fu concessa
hcentia dal M.
co Sr. Confaloniero
d' Justi- tia »
e che senza
di ciò non
sarebbe mai partito.
Ma i Quaranta
repU- carono che la
licenza non era
stata né richiesta
né concessa nella
forma valida. Perciò s'affrettasse
a far ritorno,
se non voleva
esser multato di 500
ducati d'oro o
colpito con altre
gravissime pene «
nelle quali incorrono li
nostri doctori che
partono da Bologna
senza licentia per andare
a legere fora
nelli externi studi
». Tuttavia l'AchiUini
non ri- tornò che un
anno dopo. Nel
Lib. Partitorutn (Arch.
di Stato di
Bologna, voi. 13, f.
136V), al 14
sett. 1508, si
trova che con 19 su
19 fave bianche «I
conduxerunt Ex.m Artium
et Medicinae Doctorem,
D. M.m Alex,
de Achilinis ad legendum
in Studio Bononie
» col salario
di 900 lire
bolo- gnesi, integre e privilegiate,
e alla condizione
di leggere Teorica
ordi- naria al mattino e
Filosofìa ordinaria la
sera. La formula
« conduxe- runt » vuol
dire che si
tratta di un
nuovo ingaggio. 26o l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI maestro di
Teorica, commentò la
prima fen del
IV libro del Canon
di Avicenna 91. Ripreso
il corso delle
lezioni, egli si
dette nel 1511
a esporre il De
physico auditu di
Aristotele. Ma l'esposizione
fu inter- rotta dagli eventi
bellici di quell'anno.
È noto come
il grande capitano Gian
Giacomo Trivulzio, al servizio del
re di Francia, il
23 maggio di
quell'anno avesse ripreso
Bologna al papa e
come avesse riaperte
le porte al
ritorno dei Bentivoglio.
Ma Giulio II, fatta
lega con gli
Spagnoli, non tardò
a usare dei servigi
di questi per
far bombardare la
città e ridurla
all'ob- bedienza della
Chiesa. Sorpreso dagli
avvenimenti, il maestro continuò a
far lezione finché
gli alunni, per
fuggire all'assedio, non disertarono
lo studio 9^.
Il 5 febbraio
del 1512, penetrato di
sorpresa in città
Gaston de Foix
obbligò gli Spagnoli
a sbloccare Bologna. Ma
dopo la battagha
di Ravenna dell'
11 aprile, perduto l'appoggio
francese, i Bentivoglio
dovettero di nuovo prendere
il largo. Com'era suo
costume, l'Achillini avrebbe
fatto volentieri a meno
di pubblicare questo
frammento di esposizione
del De physico auditu.
Ed infatti egli
non aveva mai
pubblicato nessun commento a
scritti d'Aristotele o
d'altri, bensì tratta- zioni originali sebbene
ispirate al pensiero
d'Aristotele e d'Aver- roè.
Perciò mi sorprende
assai quello che
Ladislao Miinster scrive 93
degli Opera omnia
nell'edizione del 1508
curata dal- l'autore stesso: «
Si tratta in
gran parte di
opere d'Aristotele, di Alessandro
Afrodisiaco (! ! !), d'Averroè
ecc. provviste di commenti
dell' Achillini ». Ma
ch'egli, non che
scorsa, non abbia mai
visto in faccia
questa edizione, è
provato dal fatto 91
Nel cod. latino
14 (io) dell'
Università di Bologna
si trova, tra altre cose
dell' Achillini, una Expositio
supra prima 41
Avicennae, da- tata 7 settembre
1509. L. Frati,
Indice dei codici
latini conservati nella R.
Bibl. Univers. di
Boi., Firenze, 1909,
p. io. V.
sotto, p. 269. 92
II Fantuzzi, Notizie
degli scrittori bolognesi,
I, p. 51,
dice, senza per altro
citare la fonte,
come «l'anno 1512,
alli 15 Gennaio,
tenendosi una radunanza di
Teologi, di Dottori
legisti e d'altri
Uomini insigni, per consultare
se si dovea
ricevere il Legato
proposto a Bologna
dal Conciliabolo di Pisa
(cioè il Cardinale
San Severino, fatto
legato di quella radunanza
e Governatore di
Bologna), gli aderenti
a' Benti- voglio sostenevano l'affermativa, e
fra essi Alessandro
Achillini piià d'ogni altro
aringo con grande
arte ed impegno
per sostenerla. E se
non potè
ottenere l' intento, ne venne però,
che fu determinato
di non ricevere né
questo né quello
destinato allora dal
Pontefice Giulio II ».
93 0
Riv. di St.
delle Se. Med.
e Naturah »,
XXIV, 1933, p.
71. I che fra le
opere incluse in
questa edizione pone
il De physico auditu, stampato
la prima volta
nel 1512, e
il De niotimm proportione, di
cui diremo più
giù. L'Achillini, dunque, per
sua esplicita dichiarazione, non pensava
affatto a dar in luce
una nuova esposizione
dell'opera aristotelica,
parendogli che bastassero
quelle greche, latine ed
arabe che correvan
per le mani
di tutti. In
ciò fu imitato dal
Pomponazzi, che non
pensò mai a
dare alle stampe
alcuno dei numerosi commenti
ad Aristotele, lasciati
inediti nelle riportazioni dei
suoi alunni. Quello
che decise il
bolognese a desistere dal
suo proposito, è
quanto egli stesso
scrive in principio del
frammento: Fugeram olim Peripateticorum principis
Aristotelis librorum
interpretationes notis mandare,
quoniam expositores tum
Graeci, tum Arabes, tum
Latini, evolvere ipsos
cupientibus textum Ari- stoteUs
piane aperuerunt. Difficultates
autem circa sententias Aristotelis et
Averrois contingentes, ex
libris a me
editis non dif- ficile erat comprehendere. Sed
quia varii auditores
varia fragmenta
philosophica, me legente,
varie collegerant, et
me inscio meo nomine
publicaverant, non passus
sum ut, quae
nostra non erant, prò
nostris haberentur. Ideo
coactus sum haec
scripta, tum ap- ponendo tum variando
tum rescindendo, diligentius
repurgare, ut ipsa, manu
propria elaborata, proprium
auctorem recogno- scerent v4. E
alla fine dell'opera: Hucusque (cioè
fino al principio
del libro II,
t. e. i)
nos pro- secuti sunt
audientes. Quod si
amplius durassent, noster
labor longior fuisset. Et
haec nostra recognoscens,
fragmenta esse vo- luissem, sed fractionum
fragmenta sunt, quoniam
eis commi- nutiva fractio
supervenit, Hispanis Bononiam
armis impeten- tibvis et
moenia machinis deicientibus
95. Per giocondità del
lettore aggiungerò che
nel II volume della
Storia dell'università di
Bologna di Luigi
Simeoni (Zani- chelli,
Bologna 1940, p.
51) si legge
che Alessandro Achilhni, 94
Alex. Achillini, Expositio
primi Physicoriitn. E infine: Expli ciiint
fragmentorum fractiones physicales
ab Alex. Ach. Bon.
ordinariam Theorice de mane
publice docente. Impresse
per Hieron. de
Benedictis civem bonon. Anno
Domini M.D.XII, f.
iv. Questa avvertenza
è stata omessa nell'edizione
degli Opera omnia
curata da Panfilo
Monti nel 1545. 95
Ib., f. 33rb,
e nell'edizione del
Monti, f. gorb. 202
se non scopritore,
fu almeno «
il primo descrittore
degli ossi- cini dell'orecchio nel
suo De physico
auditu ». Con
che il Si- meoni
parrebbe credere che
in questa opera
l'Achillini si occupi dell'anatomia
dell'orecchio ! E
questa doveva essere un'opinione ben
radicata in lui,
se anche poche
pagine dopo scrive che
il bolognese fu
« celebre tanto
come dialettico..,, quanto come
anatomico e medico
», e che
« le opere
che di lui possediano.... che
trattano tanto De
universalibiis come De physico
auditu..., mostrano questo
doppio carattere» (p.
57). Ora nel De
physico auditu non
si parla affatto
di cose atti- nenti all'anatomia, bensì
di quello di
cui Aristotele parla
in quest'opera e, fra
l'altro, anche degli
universah, ma dell'organo dell'udito proprio
no. Un'altra opera composta
dall' Achillini in questi
ultimi anni della sua
vita e lasciata
inedita è il
De proportione motuum. L'argomento riguarda
il rapporto che
Aristotele, nel VII
della Fisica9^, aveva stabilito
tra la forza,
la resistenza e
la velocità del movimento,
e il tentativo
da parte di
Tommaso Bradwar- dine, di
Nicola d'Oresme e
degli altri «
calculatores » di
tra- durlo in un rapporto
matematico. Le dottrine
di costoro, por- tate in
Italia da Biagio
Pelacani da Parma,
« Parisius docto- ratus
», avevano suscitato
vive controversie tra
coloro che accettavano la novità delle
« calculationes » e gli
averroisti che alle nuove
dottrine furono piuttosto
ostili. L' Achillini si
mostra pienamente informato
dello stato della
questione, allora
dibattutissima anche a
Padova e a
Bologna. Conosce e cita
il commento del
Campano alla Geometria
di Euclide, l'Aritmetica di
Giordano de Nemore,
i trattati calcolatori
di Tommaso Bradwardine, del Swineshead,
dello Heytesbury, di Nicola
d'Oresme, d'Albertuccio ossia
d'Alberto di Sassonia, di
Paolo Veneto, di
Giovanni Marliani «
in sua quaestione subtili de
proportionibus », insomma
tutta la letteratura
del- l'argomento, che noi oggi
ben conosciamo attraverso
le dotte e dihgenti
ricerche della Dott.
Anneliese Maier97. Intento
del maestro bolognese era
quello di salvare
le regole delle
propor- zioni formulate da Aristotele
e da Averroè
nel VII della
Fisica e di accordarle
con le teorie
calcolatorie, a differenza
di quello 96 Cap. 5, 249b
27-25ob 8 (t.
e. 35-39)- 97 Die
Vorlàufer Galileis im 14. Jahrhundert,
Roma, 1949, pp. 79-215; An
der Grenze von
Scholastik u. Naturwissenschaft, Roma,
1952, pp. 257-384. I APPUNTI SU
ALESSANDRO ACHILLINI 263 che
pensava potesse farsi,
pochi anni dopo
la morte di
lui, il Pomponazzi 98. L'opera
non potè essere
pubblicata dal filosofo
bolognese perché prevenuto dall'
improvvisa morte. Lo
Hain, n. 71, registra
quest'opera dell' Achillini col
titolo De distyibiitionihus ac proportione
motuum, e la
dà stampata a
Bologna, « per Benedictum Hectoris
», nel 1494.
Ma il Gesamtkatalog, I,
p. 79, dichiara l'esistenza
di questa edizione
« zweifelhaft ».
Io la direi semphcemente
inventata. Per due
ragioni: primo, perché nell'opera sono
citati il De
orbibtis e il
De elementis sicura- mente posteriori al
1494; secondo, perché
il fratello Giovanni Filoteo che
nel 15 15 ne
curò l'edizione postuma,
la dà come inedita,
nella dedica a
Leone X: «
Itaque Alexandri ipsius auctoris nomine
(quando ipse funere
praeventus acerbo non potuit)
ea sanctitati tuae
nuncupatim dico » 99.
Ma il
2 agosto 15 12,
coli 'animo profondamente amareggiato per gli
avvenimenti che avevano
turbato la serenità
dello 98 « Aliqui
ergo ducti inani
gloria voluerunt salvare
Aristotelem ; Inter quos
fuit Ioannes Marilianus,
qui construxit tractatum
in quo intendebat salvare
Aristotelem; et aliqui
fecerunt tractatum centra Marilianum.... Et
totus mundus apud
me non salvaret
Aristotelem, et Aristoteles sibimet
contradicit, et videbitur
aperte errasse, et una re- gula
alteri contradicit. Fortassis
enim quod decipior;
sed iudicabitis vos per
dieta Aristotelis, quod
non potest salvari.
Aristoteles etiam fuit homo
et decipi potuit,
sicut etiam possibile
est me decipi »
(P. Pomponazzi, In ynm.
Phys., ad t.
e. 39, ms. aretino, Bibl.
de' Laici,390, f.
180V sgg.). Giunto
alla fine della
sua riportazione, l'alunno, che
dal cod. della
Kungl. Biblioteket di
Stoccolma, Va. 24
(cfr. « Giom. Crit.
Filos. It. »,
XXXVII, 1958, p.
354) appare essere
quel Magister Hieronymus Bonus
o de Bono,
da Bologna, laureato
in Artibus et Medicina
il 13 ott.
1519 (Libro Segreto
del Collegio, cit.,
f. 32v), annota:
P^^ ribadire la scoperta
del Mondini, che le altre
pretese opere anatomiche non erano
che una sola,
pubblicata con titoli
diversi nelle varie edizioni,
e per correggere
l'errore accolto anche
dal De Renzi, pur
così informato. Tuttavia,
io non ho
voluto prestar fede neanche
al Mondini e
al Medici, e
ho voluto rer.- "8
L. e, p. 13.
"9 Mazzuchelli, Gli
scrittori d'Italia, t. I, p.
102. '2*' G. Fantuzzi,
op. cii., pp.
54-55. 272 dermi conto
de visti della
curiosa vicenda i-'.
Ho potuto così constatare che
la prima edizione
è quella che
vide la luce a
Bologna il 24
sett. 1520, a
cura di Giovanni
Filoteo Achillini, col titolo
di Anotomicae annotationes , nella
stamperia di Ge- ronimo de' Benedetti,
con dedica a
Panfilo Monti, che di
maestro Alessandro era
stato alunno, ed
ora teneva la
cat- tedra ordinaria di medicina
teorica, « Bononiensis
Gymnasii splendor immortalis »,
nientemeno ! Questa
dedica porta la data
del 12 settembre
dello stesso anno,
ed ha nel
frontispizio la ben nota
xilografia, sormontata dal
nome « Magnus
Alexander Achillinus » ;
sotto il ritratto
di lui, tre
distici di Annibale Camillo da
Correggio, « Artium
et Medicine discipulus
». La dedica parrebbe
escludere che vi
fossero edizioni anteriori. La
stessa opera, col
titolo De humanis
corporis anatomia, uscì a
Venezia nel 1521,
per Io. Ant.,
et fratres de
Sabio, con la stessa
dedica di Giovanni
Filoteo a Panfilo
Monti. Terza stampa della
stessa opera è
quella che apparve
nel FascicuUts medicinae di
Giovanni de Ketam,
ediz. veneziana « per
Caesarem Arrivabenum »,
del 1522. In
questa edizione l'opera dell' Achilhni forma
il trattato X
della raccolta, subito dopo
V Anatomia del Mondino,
e porta questo
titolo: Anno- tationes
anathomie Alex. Achil.
honon.; ed anch'essa
ha la de- dica del
1520 a P.
Monti. Dell'edizione di
Venezia, 1516, in fol.
secondo il Capparoni,
in 4° secondo
lo Hirsch, nessuna traccia, sebbene
altri la ricordino
per sentita dire.
Delle edi- zioni posteriori a
quella del 1522
non mi sono
occupato. Il colmo in
questo pasticcio pseudo
erudito è raggiunto
dal Miinster ^^z^ il
quale, dopo aver
parlato della prima
e della seconda opera
secondo l'ordine del
Capparoni e dello
Hirsch, aggiunge di suo
che le Annotai,
anatomicae del 1520
pare non siano un
nuovo trattato, bensì
l'unione delle due
precedenti! '23. I-' Esempio
tipico non so
se di disinvoltura
o d' improntitudine let- teraria, da parte
di troppi scrittori,
avvezzi a copiacchiare
come scola- retti e a
spacciare per certo
quello che hanno
appreso soltanto per sentito
dire. ^^^ L. e,
p. 72. 1^3 Curioso
è il caso
di A. Pazzini.
Nello studio già
segnalato, che è del
1933, sebbene parli
di «scritti anatomici»
(p. 298), egU
con questa espressione parrebbe
tuttavia intendere le
sole Adnotationes anato- micae che nel
Fascicuhis medicinae del
Ketam sarebbero state
pubbli- cate, dice lui, col
titolo in Mundini
Anatomiam adnotationes. Invece nella
Storia della medicina,
voi. I, Soc.
Editr. Libr., Milano,
1947, p. 614, J Queste
Anotomicae annotationes che
il maestro bolognese aveva lasciato
tra le sue
carte, non costituiscono
propria- mente un'opera di anatomia
umana da dare
alle stampe, ma lo
schema forse d'un'opera
che egli andava
preparando e per la
quale raccoglieva osservazioni
che gli era
accaduto di fare nel
corso di diverse
dissezioni anatomiche predisposte
da lui stesso o
insieme ad altri
colleghi. Queste dissezioni
avevano lo scopo di
riconoscere nell'organismo umano
quello che si legge
in Galeno o
in Avicenna, nel
Mondino o in
Ugo da Siena. Nel
corso di queste
ricognizioni accade talora
all'Achil- lini di notare
errori commessi dagli
anatomisti precedenti, e discordanze
fra quello che
leggeva negli scritti
di costoro e quello
che gli rivelava
l'esperienza. Spesso egli
ha cura di descriverci il
procedimento col quale
egli conduceva la
dis- sezione, e di suggerire
il modo più
adatto per mettere
a nudo, senza lederlo,
quell'organo o tessuto
che si ha
in animo di studiare.
L'opera, come dicevo,
è semphcemente abbozzata; ma
anche in questo
stato, essa costituisce
un notevole docu- mento di quello
che s'andava maturando
nelle scuole di
chi- rurgia. Mentre le rumorose
dispute intorno al
modo d' in- tendere i testi
classici dell'anatomia recavano
assai scarsa luce per
una esatta rappresentazione della
struttura dell'or- ganismo
umano, gì' impetuosi
torrenti di parole
s'arrestavano, le ire si
placavano, quando gli
occhi dell'anatomista e
di coloro che gli
facevan corona nell'anfiteatro, si
fissavano su quello che
il coltello metteva
a nudo, e
la luce dell'esperienza rive- lava qualcosa di
nuovo e d' insospettato. Il
che del resto avvenne, nel
secolo XVI, non
solo nel campo
dell'anatomia, ma in tutte
le ricerche concernenti
la natura, e non per
in- flusso dell'umanesimo e del
platonismo, ma per
un processo di critica
interna, quasi direi
di autocombustione, in
seno alle scuole aristoteliche. Galileo
stesso vien dall'aristotelismo in via di dissoluzione.
Il Rinascimento è
frutto dell'approfon- dirsi
e dell'estendersi dell'esperienza in tutti i
campi del sa- pere
naturale. Com' è noto,
Panfilo Monti nel
1545, mentr'era professore vedo che
è ritornato all'errore
del Capparoni e
dello Hirsch. Se
avesse dato un'occhiata alla
memoria del Mondini
e all'opera di
M. Medici, oltre alla
correzione di questo
errore, vi avrebbe
trovato forse qualcosa che
poteva giovargli anche
per l'argomento da
lui trattato, riguar- dante la scoperta
della membrana timpanica.] a
Padova, raccolse in
un volume gli
Opera omnia dell' Achil- lini, cioè
tutte le opere
che il maestro
bolognese stesso aveva dato
alle stampe, più
il De proportione
motuuni; e il
volume, edito da Geronimo
Scoto a Venezia,
fu dedicato al
patrizio veneziano e chiarissimo
filosofo Sebastiano Foscarini.
Perché ne lasciò fuori
le Anotomicae a?inotationes
? Non certo
perché egli non le
ritenesse autentiche; ma
verosimilmente perché gh parvero,
come sono, opera
frammentaria, piii schema
e ma- teria di opera
che opera completamente
delineata; o forse anche
perché quelle note
gli parvero ormai
sorpassate e di scarso
valore, dati i
rapidi progressi che
l'anatomia in quegli anni
andava facendo. Sì che
agli occhi dell'alunno
editore l'opera dell' Achilhni degna d'essere
presa ancora in
considerazione e tramandata e
meditata era opera
di filosofo. E
questa sola egli
intese tra- mandarci con l'edizione da
lui curata 1-4.
Con le Annoiationes il Monti
trascurò altresì gì'
inediti che non
dovevano mancare sia tra
le carte del
maestro, o dispersi
in riportazioni di
scolari. 9. - Se
ora ci chiediamo
quale è stato
il giudizio complessivo degli storici
sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo
con- statare, anzitutto, che troppi
son coloro che
ne hanno parlato per
sentito dire. E
questo tanto tra
gh storici della
filosofia quanto tra quelli
della medicina. Di
costoro evidentemente non è
da tener conto.
Come non è
da tener conto
di giudizi come quello
del Munster '^s,
il quale da
ciò che dell'Achilhni narra a
modo suo il
Giovio, è indotto
a rappresentarcelo come «
schizzoide >> ! Il
primo che ha
parlato dell'averroista bolognese
dopo averne scorse le
opere, se non
tutte, almeno i
Qitoliheta de
intelligentiis, fu, tra
gli storici della
filosofia, Francesco Fio- rentino nel suo
Pomponazzi del 1868,
pp. 252-262. E
a quel che ne
disse allora l'onesto
Fiorentino si rifanno
su per giù
gli storici posteriori, trascurando
però taluni giudizi
di questo e altri
esagerandone fino a
renderli irriconoscibili. Che
l'Achil- lini fosse un
averroista, tutti a
un di presso
s'accorsero; ma 1^4 Tuttavia
le Anotomicae annotationes
non furon mai
del tutto di- menticate e il
nome dell'Achillini vien
ricordato da anatomisti
po- steriori, anche quando le
sue opere filosofiche
erano ormai cadute
del tutto in oblio. 125
L. e, p. 59.
APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI
275 se averroista di più o
meno stretta osservanza
pareva dubbio. La tesi
che l' intelletto possibile,
forma immateriale e
incor- ruttibile, infima delle intelligenze
celesti, è unica
per tutta la specie
umana, è certamente
tesi averroistica. Ma
pareva al Fiorentino che
il bolognese si
discostasse dallo schietto
aver- roismo, perché questo riteneva
1' intelletto forma
assistente e non informante
dell'uomo, l'Achillini invece
ammetteva che r intelletto
umano, pur essendo
unico per tutta
la specie, è vera
forma informante che
dà all'uomo il
suo essere di
uomo. Se non che lo storico
calabrese non pare
s'accorgesse che con
que- sta seconda tesi, senza
rinnegare la prima,
la dottrina averroi- stica non era
affatto parzialmente abbandonata,
ma anzi approfondita; e
che, grazie a
questo approfondimento, veni- vano a
cadere tutte o
gran parte di
quelle obiezioni che si
facevano alla tesi
averroistica, di spezzare
l'unità del soggetto umano cui
s'attribuisce l'atto d' intendere.
E già prima,
Si- gieri e Tommaso
di Wilton, Paolo
Veneto e Giovanni
Pico, coetaneo del bolognese,
avevano interpretato il
pensiero d'Averroè alla stessa
maniera; e questo
non per motivi
di fede, ma per
eliminare dalla dottrina
aristoteUco-averroistica un
assurdo evidente sul
quale speculavano gli
avversari del- l'averroismo;
tanto vero che
l'anima razionale che
yien detta informare l'uomo,
resta in sé
unica per tutta
la specie umana. Non
è pertanto esatto
l'affermare che ogni
seguace d'Averroè riteneva l' intelletto
« forma assistente
» dell'uomo e non
« forma
dans esse ». Il
Fiorentino è stato
colpito anche da
un passo del
De eie- mentis (II,
art. 5, verso
la fine), ove
si parla dell'unione
del- l' intelletto con l'anima
sensitiva dell'uomo, come
abbiamo visto più su, e dove
l'Achillini torna ad
esporre con nuovi particolari la
sua dottrina sigeriana
già esposta nei
Quolibeta de intelligentiis. Ad
un certo momento
si domanda: « Quo-
modo stat opinio
Aristotelis cum fide
?» — giacché
tanto l'inter- pretazione
che dà
del pensiero dello
Stagirita Averroè, quanto quella
che ne dà
Alessandro d'Afrodisia, secondo
la ragion naturale, discordan
dall' insegnamento della
fede. E il
nostro averroista risponde: Il
fatto che entrambe
discordin dalla fede, significa
che tutte e
due son false,
e che su
questo punto, come su
altri non pochi,
bisogna che noi
credenti abbando- niamo il filosofo;
ma dovendo scegliere
a lume di
ragione tra quelle due
interpretazioni, entrambe false,
quella che ha I 276 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI miglior verisimiglianza, sceglieremo
quella d'Averroè, perché, sostenendo questi
che l'anima è
forma informante che dà
all'uomo l'essere di
uomo, viene a
dire che l' intelletto, nel- l'atto di unirsi
all'uomo, termina il
processo della genera- zione umana e
quindi ha in
qualche modo un
cominciamento nel tempo, come
appunto insegna la
fede. In tutto questo
non vedo né
incertezza né spossatezza
da parte dell' Achillini; né
tanto meno che
egli si senta
spinto «ad accettare l'averroismo
dopo averlo dichiarato
falso «'^ó. L'opposizione
tra molte tesi
difese da Aristotele
e la verità cristiana era
comunemente ammessa, da
quando Alberto Magno aveva
proclamato che «
theologica cum Physicis
prin- cipiis non conveniunt»'-?, e
che al filosofo
che voglia trattare delle cose
naturali secondo i
principi della ragion
naturale, non deve importare
dei miracoli della
fede '-8. È
vero che Tom- maso, combattendo l' interpretazione averroistica
del pen- siero d'Aristotele, s'era
adoprato ad accordar
questo col pen- siero cristiano. Ma
questo concordismo tomistico
non era parso né
di buon gusto
né di buon
augurio, non solo
ad aver- roisti come
Sigieri, discepolo in
questo d'Alberto Magno,
ma nemmeno ad alcuni
teologi che s'erano
ribellati al tentativo «
de Aristotele haeretico
facere omnino catholicum
». E molti, non
solo maestri in
artibus, ma anche
teologi e commentatori delle Sentenze
di Pietro Lombardo,
dalla fine del
secolo XIII al secolo
XVI, ritennero perfettamente
fondata sul testo aristotelico e
legittima l' interpretazione averroistica,
salvo quando questa discordava
da quella di
altri commentatori
autorevolissimi, come Alessandro,
Filopono od altri
special- mente greci. Ora ai tempi
dell'Achillini e del
Pomponazzi, a Bologna come
a Padova, era
obbhgo di leggere
e discutere il
testo ari- stotelico e il
commento d'Averroè. Averroisti
si dissero tutti quelli
che, rifiutando il
concordismo tomistico, d' ispirazione avicenniana, mostravano
ripugnanza a «
miscere diversa brodia))i29, e,
per quello che
concerneva il pensiero
aristotelico, s'attenevano
al commento averroistico.
Il che non
implicava ^'^^ Fiorentino, ib.,
p. 259. 127 Metaphys.,
XI, tr. 3,
e. 7. 1-8 De
gen. et corr.,
I, tr. i,
cap. 22, ad
t. e. 14.
Cfr. «Rivista di Storia
d. Filos.] affatto
che essi dovessero
accettare le dottrine
d'Aristotele quali erano
esposte da Averroè,
come loro proprio
pensiero. Gli averroisti potevano
quindi con perfetta
coerenza dichia- rare che la
dottrina dell'eternità del
mondo e dell'unità
del- l' intelletto era dottrina
vera e necessaria
nel sistema del
pen- siero aristotelico; ma che
questa dottrina era
falsa secondo la fede
che s' ispira al
\"angelo e non
ai libri d'Aristotele. Il che
è perfettamente vero
anche per noi. Questo
non hanno ancora
compreso taluni storici
della filo- sofia. Uno dei
quali '3", dopo aver
detto che «enger
an dem averroistischen Aristotehsmus
schloss sich Alex. Achilhni an (aus
Bologna, war Professor
der Philosophie u.
Medizin, zuerst in Padua
(!), seit 1509
(!) in Bologna,
wo er um
1518 (!) starb).... »,
aggiunge: « So
weit Aristoteles von
dem christlichen
Glaubensstandpunkt (z. B.
hinsichtlich der Schòpfung
der Welt) abweicht, ist
er ini Sinne
der Kirchlichen Lehre
zu kor- rigieren »
(la sottolineazione è mia e.... pour
cause). Il qual giudizio
vien trasportato di
sana pianta nella
massiccia Storia della filosofia
di N. Abbagnano
(voi. II, I,
U.T.E.T., 1948, p. 70)
: « In
realtà la sua
preoccupazione [dell'
Achillini] co- stante è quella
di correggere la
dottrina aristotelica nel
senso dell' insegnamento ecclesiastico
» (anche questa
sottolineazione è mia) '31.
Ma egli v'aggiunge
qualcosa di suo,
che aggrava '30 Ueberweg-Moog, Die
Philos. der Neuzeit
bis zuyn Ende
des X Vili. Jahrh.,
Berlin, 1Q24, p. 28. E già
prima E. Renan,
Averroès et l'averr., 3*
ed., Parigi, 1S66,
p. 361: "
Tout en reconnaissant
que sur ces
deux points (l'unite des
àmes et 1'
immortalité collective) la
doctrine d' Aver- roès est conforme
à Aristote, Achillini
rejette expressement ces
théories comme opposées à
la foi ».
E cita H.
Ritter, Gesch. der
neneren Philos., I parte,
p. 383 sgg.,
citato anche dal
Fiorentino. '3' La stretta
aderenza dell'Abbagnano al
Moog appare anche
da quel che l'uno
e l'altro dicono
dello Zimara. Scrive il secondo:
« Noch strenger hielt
am Averroismus fort
M. Ant. Zimara
(aus Neapel.... gestorb. 1532)....
In ihnen (Schriften)
suchte auch er
den Averroismus mit Kirche
zu vereinen. Die
Einheit des menschlichen
Intellektes wird von ihm
als Einheit der
allgemeinen
Erkenntnisprinzipien
gedeutet ». E
l'Abbagnano: «e lo
stesso [di spogliare
l'aristotelismo e l'averroismo dei loro
caratteri originari in
omaggio ad una
preoccupazione dogma- tica]
accade nelle dottrine
del napoletano M.
A. Zimara [ma
se era di S.
Pietro in Galatina
presso Otranto, tanto
che a Padova
lo chiamavano l'Otranto o
l'Otrantino !] (morto
nel 1532), anch'egli
professore a Pa- dova, il
quale interpretava l'unità
dell' intelletto, sostenuta
dall'aver- roismo, come l'unità dei
principii universali della
conoscenza ». Dello stesso
avviso pare sia
anche G. Saitta,
// pens. ital.
nelV Umanesimo e nel
Rinasc, voi. II,
Bologna, 1950, pp.
379-80: « Le
sue Contradictiones \ 278 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI assai l'errore
dell'autore tedesco: «L'aristotelismo e
l'aver- roismo sono stati qui
spogliati dei loro
caratteri originari, in omaggio
ad una preoccupazione dogmatica
». Preoccupazione che l'Achillini,
al pari degli
altri averroisti, non
mostra mai d'avere, anche
quando, constatata l'opposizione
fra Aristotele e il
dogma, dice esser
dovere del credente,
che tale voglia rimanere, di
ripudiare Aristotele, non
di correggerlo, che
vor- rebbe dire travisarlo. In
questo i nostri
vecchi erano onesti e
coerenti. L'ottimo E. Garin
132 ricorda la
breve preghiera che
si legge in principio
del De elementis:
« Luminum clarissima
lux, qua ac solutiones
ex dictis Aristotelis
et Averrois parlano
dell'unità dell' in- telletto di tutti
gli uomini come
l'unità dei principii
universali del conoscere ». Il Moog
e l'Abbagnano non
citano alcuna fonte
della loro affermazione. Il
Saitta invece cita
le Contradictiones dello
Zimara, senza però indicare
un punto preciso.
Ma egli non
deve averle lette: che
lo ritengo troppo
intelligente, se le
avesse lette, da
lasciarsi scap- pare simile afferm_azione. E
allora ? Allora
il Moog, l'Abbagnano
e il Saitta derivano,
direttamente o per
via indiretta, il
loro giudizio dal libro
del Renan, Averroès
et l'averroisme, ove
appunto accade di
leg- gere (ed. cit., p.
375): «L'unite de l'
intellect est adoptée
dans le sens de
l'unite des principes
communs de l'esprit,
mais ouvertement rejetée en
ce sens qu'
il n'y aurait
qu'un seul principe
substantiel de la
raison humaine ». E
il Renan cita
le Solutiones contradicionum, Averrois
Opera, t. XI dell'ediz.
di Venezia 1560,
fol. 177V-188V (più
semplice e più comodo
era citare le
stesse Solutiones contrad.
super III de
anima, contr. XVI). Se
il Moog, l'Abbagnano
e il Saitta
si fossero presa
la briga di andare
a vedere questo
luogo dello Zimara,
avrebbero potuto con- statare, con non
poca sorpresa, che
il Renan quel
giorno doveva essere febbricitante o
ubriaco o fortemente
distratto, giacché l'averroista otrantino in
quel luogo dice
esattamente il contrario.
Ivi lo Zimara, che
s'era proposto di
conciliare un'apparente contradizione
fra due affermazioni d'Averroè,
riporta un brano
del commento di
Temistio al De anima,
ove si legge
appunto ; «
Unde enim communes
illae animi conceptiones praenotionesque communes
omnibus haberentur ? Unde
indigentia illa impressaque
omnium mentibus primorum
notitia con- stitisset, natura
duce, nulla ratione,
nulla doctrina ?
Unde postremo intelligere mutuo
et intelligi vicissim
possemus, nisi iiniis
singularis intellectus
fttisset, quem communem
omnes homines haberemus
? ». Pla- tone, osserva lo
Zimara, con un
simile ragionamento aveva
dimostrato l'esistenza deUe idee.
Temistio ed Averroè
lo usano per
dimostrare l'unità
dell'intelletto; se no,
bisognerebbe ammettere che
la scienza nell'alunno si generasse da
quella del maestro
a quel modo
che, secondo Aristotele, il
fuoco si genera
dal fuoco. « Hoc autem
sequitur secundum ponentes pluralitatem
inteUectus, ut ipse
(Averroès) opinatur.... ». Niente di
più si legge
nell'opera dello Zimara,
il quale non
si chiede affatto se
questa dottrina s'accordi
o meno con
la fede. A
lui basta chiarire il
pensiero d'Aristotele e
del suo commentatore,
eliminando le contradizioni. V.
anche sotto, pp. 350-351.
132 L.
e. omnes aliae veritates
illiistrantur, me per
umbras materiae tutum ab
errore per Filium
hominis ducas in
te ipsum ». E
l'accenno a una
breve preghiera è
anche in principio
del De physico aiiditu:
«Deus illuminatio mea
sit. Primo dubi- tatur.... ».
L'uso di dar
principio ad un'opera,
ed anche alla lezione,
nel nome di
Dio, era un
tempo costume di
ogni buon cristiano non
meno che di
ogni fedele maomettano.
Perciò non parrà strano
di trovare che
anche il Pomponazzi
al suo corso di
lezioni sul De
substantia orhis, cominciato
il 20 feb- braio 1507, premettesse
una « oratiuncula
accomodata », della quale
però il raccoglitore
delle lezioni non
riporta il tenore 133.
Né si creda
che questo fosse
formaHsmo o ipocrisia. Nella maggior
parte dei casi,
non vi sono
serie ragioni per
du- bitare della sincerità di
chi si protestava
buon cristiano, senza per
questo rinunziare alla
sua libertà d' interprete
del pensiero aristotelico; libertà
che, a mio
avviso, non che
nuo- cere ha giovato molto
alla fede, non
costretta violentemente
negli artificiosi schemi
d'un sistema filosofico
ormai in via di
dissoluzione. E così maestro
Alessandro, l'averroista Alessandro
Achil- lini, poteva riposare
tranquillo nella chiesa
di S. Martino,
a Bologna, come tredici
anni più tardi
il Peretto mantovano in
quella di S.
Francesco nella sua
città natale, sotto le
grandi ali del perdono
di Dio. 133 Cod.
Vat. Regin. lat.
1279, f. 3r. Di
averroisti della corrente
di Sigieri di
Brabante nel Ri- nascimento italiano m'era
accaduto d' incontrare, alcuni anni
addietro, Giovanni Pico
della Mirandola, Alessandro Achillini, Agostino
Nifo negli anni
della sua giovinezza,
Ti- berio Bacilieri e Antonio
Bernardi della Mirandola '.
Ma il grup- po dei
sigieriani doveva essere
più numeroso, e
ad esso parreb- be che avesse
aderito, in un
momento del suo
sviluppo intel- lettuale,
anche il
Pomponazzi, come mi
propongo di dimo- strare a suo
tempo. Ma fu,
da parte del
Peretto, l'ultimo tentativo di
salvare l'esegesi averroistica
d'Aristotele; dopo di che,
s'orientò decisamente verso
l'alessandrismo. Invece un altro
convinto sigieriano dei
primi anni del
Cin- quecento è il patrizio
veneziano Geronimo di
Cà Taiapietra o Taiapiera.
Costui, figlio del
quondam Quintin di
Cà Taia- pietra, dopo essere
stato per otto
anni a studiare
a Padova, richiamato in
famiglia per dedicarsi
alla vita pubblica,
come si conveniva ad un giovane
del suo rango
sociale, s'accostò al cardinale
Domenico Grimani del
titolo di S.
Marco e pa- triarca d'Aquileia, non
che munifico protettore
degli studi e degli
studiosi -, per
averne appoggio. Fu senza
dubbio per suggerimento del
Grimani che il
giovane Taiapietra si
preparò a un pubblico
cimento per coronare
col dottorato in
filosofia la carriera di
studi intrapresa a Padova
e terminata con la
* Dal
((Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXI, 1952, pp.
306-330. ' Sigieri di
Brabante nel pensiero
del Rinascimento italiano,
Roma, Edizioni Italiane 1945. ^
P. Paschini, Domenico
Grimani cardinale di
S. Marco, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura] licentia docendi,
ossia col titolo
di magister artium.
L'occa- sione di una pubblica
disputa s'offrì con
la convocazione, per la
fine della primavera
del 1506, del
capitolo generale dell' Ordine
dei frati minori,
del quale il
Grimani era cardinal protettore. L'uso
di siffatte dispute
in occasione di
capitoli generali dei vari
ordini religiosi era
una veneranda usanza, vecchia d'oltre
due secoli. Sollecitato dunque
dal Grimani, il
Taiapietra si recò
a Roma per dar
saggio del suo
sapere. La pubblica
discussione ebbe luogo in
una solenne riunione
di dotti tenuta
nella residenza abituale del
cardinale a Roma,
il giorno di
sabato 6 giugno 1506
3. L' indomani mattina,
domenica della Trinità,
il gio- vane dottorando fu
presentato a papa
Giulio II, perché
si degnasse conferirgli il
titolo di dottore
in ariibiis. La
ceri- monia è così ricordata
nei suoi diari
da Paride Grassi
4, maestro delle cerimonie
del papa. Dopo
la messa cantata
del cardi- nale Arboreo e la creazione
da parte del
papa di un
milite aurato, dice il
Grassi: [f. 2i6v] Creatio
doctoris in artibus
per papani in
capella. Cum adhuc papa
sederet, superveneruiit Cardinalis
de Grimanis et orator
venetus qui rogarunt
papam, ut dignaretur
quendam dominum magistrum [Hieronymum
Taiapietra] doctorem in artibus
creare, qui, ut
testificati sunt, bene
se gessit in
disputa- tionibus cum fratribus
ordinis minorum qui
venerant ad capitulum generale etc. Et sic
sua Sanctitas absolute,
idest sine cerimoniis, ipsum genuflexum
creavit [f. 2i7r]
doctorem hoc modo,
videlicet: papa ante doctorandum
genuflexum hec verba
dixit, videlicet:
Intelleximus a Cardinali
de Grimanis et
ab oratore veneto
quod sis in artibus
exscellens et doctus,
quodque in disputationibus pri- dianis
que apud edes
suas habite fuerunt
te laudabiHter exhi- bueris;
propterea nos, tam
ad predictorum relationem,
quam etiam ad intuitum
tue virtutis et
meritum, creamus te
doctorem in artibus, dantes
tibi omnia privilegia
que alii in
quibuscumque studiis et universitatibus habere
consueverunt, in nomine
patris et tìlii et
spiritus sancti '. Quo
facto ipse doctor
osculato pede pape,
illi gratias agens, recessit. Et
Cardinalis de Grimanis
et orator predicti
gratias etiam pape egerunt. Il
venerdì successivo, 12
giugno, la notizia
del fatto era
già arrivata a Venezia,
poiché Marin Sanudo
"^ la registra
sotto 3 Fra i
presenti alla disputa
era l'Achillini. V.
sopra, pp. 252-53. 4
Cod. Vat. lat.
4739, f. 2i6v-2i7r. 5 Diarii,
voi. 6, col.
352. questa data con
parole che attestano
la fedeltà del
cronista: Item, come a
dì.... sier Hironinio
da dia' Taiapiera,
quondam sier Quintino, tene
le conclusion in
chaxa dil cardinale
Grimani. Et el cardinal
episcopo di Urbin
disputò contro una,
dicendo l'era ereticha; il
cardinale Grimani la
mantenne, et vinse;
et così a dì....
il papa lo
dotoroe. Siccome la notizia
giunta da Roma
non indicava il
giorno esatto della discussione
e quello del conferimento del
titolo dottorale, l'onesto Sanudo
lascia i due
spazi in bianco.
In compenso ci trasmette
due notizie preziose:
quella dell'obie- zione che il
cardinale Gabriele Gabrielli,
vescovo di Urbino, ebbe
a fare a
una tesi sostenuta
dal Taiapietra, perché,
a suo parere, «
l'era ereticha »,
e quella dell'
intervento del Gri- mani in
favore del suo
protetto. Del resto, prima
della fine del
mese il neo
dottore era già di
ritorno a Venezia;
poiché negli stessi
Diarii di Marin
Sanudo si legge 6. A
dì 28 [giugno
1556]. Fo gran
conscio. Vene uno
dotor nuovo, vestito de
scarlato, si ha
dotorato a Roma,
sier Hironimo da
cha' Taiapiera, quondam sier
Ouintin. l'o fato
podestà de Verona,
et niun non passò. Da
questo momento egli
entra nella carriera
amministra- tiva e poUtica, e non so
se si sia
più occupato di
filosofìa. Nei Diarii del
Sanudo il suo
nome ricorre spesso,
ma sempre per le
cariche ricoperte in
servigio dello stato
veneziano. Ciò potrebbe spiegare
perché il nome
di Geronimo Taiapietra sia sfuggito
anche al diligentissimo Luigi
Ferrari che l'omette sì
nella prima che
nella seconda edizione
del suo grande
Ono- masticon. Né in
fondo avrebbe interessato
molto neppur me, se
il suo nome
non fosse legato
a un suo
libro del quale
ritengo valga la pena
dire qualcosa. Questo libro
s' intitola: Sunima divinarum
ac naturalium difficilium quaestionum
Romae in capitiilo
generali fratrum minorum per
Hieronymum Taiapietra, patritium
Venetum, puhlice
discussarum. E fu
stampato a Venezia
« a domino Pincio
Mantuano. Anno Domini
M.CCCCC.VI. die VI
Aprilis ». Il libro
fu pubblicato dunque
il 6 aprile,
cioè due mesi
prima ^ Ih., col.
260. 2S4
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI della discussione, che
evidentemente era stata
preparata per tempo dal
cardinal Grimani, cui la Summa
è dedicata. Recandosi a
Roma, il Taiapietra
portava con sé
il volume, come programma
della pubblica discussione
che doveva aver luogo
il 6 giugno.
Così aveva fatto
Giovanni Pico, pubbli- cando nel i486
le novecento Condusiones
per la disputa
che avrebbe dovuto tenersi
a Roma nel
gennaio 1487; così
aveva fatto anche Vincenzo
Querini, altro patrizio
veneziano, quando s'apprestava a
discutere, parimenti in
Roma, le sue
Condu- siones, « in Ecclesia
Sanctorum Apostolorum, die
XXIX Mali » del
1502 7. L'opera, come
dicevo, è dedicata
dall'autore al cardinale Domenico Grimani.
Nella dedica il
Taiapietra accenna al distacco
forzato dallo studio
patavino: .... quum mihi
mine redeunduni esset
ad meos, qui
me in patriam ex
celebratissimo gymnasio patavino,
in quo octo
iam perpetuis annis vitam
non minus honestam
quam studiosam duxi, centra
propriam ferme voluntatem
revocabant. A Padova dunque
aveva dovuto recarsi
al principio del- l'anno scolastico 1497-98,
quando v'era ancora
Agostino Nifo da Sessa.
Costui, alunno di
Nicoletto Vernia, aveva cominciato a
insegnare a Padova
appena ventunenne, durante l'anno accademico
1491-92, nella seconda
scuola di filosofìa straordinaria, ove
professava la dottrina
averroistica di Si- gieri
di Brabante. Nel
1495 era stato
promosso alla seconda scuola ordinaria
come concorrente del
Pomponazzi, col quale debbono
essere cominciati fin
d'allora i litigi.
E quando nel 1496
il mantovano si
dimise dall' insegnamento,
il Nifo fu chiamato
a succedergli. In
questi anni egli,
ambiziosissimo e astuto, mentre
si dava da
fare per schivare
l'accusa d'eresia,
combattendo l'averroismo prima
da lui professato
3, per non 7
V. sotto, il
saggio XIII, p.
400. 8 Nifo, De
intellectu, I, tr.
2, e. 9:
« Longo tempore
Averroy va- cavi et, ut
dixi, hanc opinionem
(di Sigieri) sequebar
ad mentem eius»; In
lib. Destr., Ili,
dub. 2: «
Peccatum meum longo
tempore». Dalle indicazioni cronologiche
fornite dal Nifo
stesso in quest'ultimo
scritto, Disp. XIV, dub.
I, quaestio 3
in fine, e
dub. 3, quaestio
5, parrebbe che ciò
vada riferito al
periodo prima del
1494. Dalle quali
indicazioni si dovrebbe dedurre
che egli fosse
nato nel 1470,
oppure verso la
fine del 1469, come
nelV Arbole de casa
Nipho (nel voi.
ms. Historia e
docu- menti della famiglia Nifo,
posseduto da Benedetto
Croce, p. 212). inimicarsi il
vescovo Pietro Barozzi,
anzi per procacciarsene la benevolenza,
come faceva nello
stesso tempo quella
vecchia volpe di maestro
Nicoletto 9, era
riuscito a circuire
molti giovani delle più
ragguardevoli famiglie patrizie
veneziane che a Padova
venivano per fare
i loro studi
e procacciarsi il titolo
di « dotor
» tenuto in
gran conto dal
governo della Se- renissima e quasi
direi indispensabile per
l'accesso a talune cariche dello
stato. Suoi discepoli
erano stati Vincenzo
Que- rini, Geronimo Bernardo
e Antonio Giustinian,
l'amicizia dei quali si
compiace spesso di
ricordare ^°. A
Francesco Bra- gadin, patrizio
veneto, dice egli
stesso d'aver dedicate
certe sue Quaesiiones de
anima " che
non mi risulta
fossero mai stampate; a
Lorenzo Donato dedica
nel 1497 l'edizione
da lui curata del
prologo d'Averroè alla
Fisica '-; a
Sebastiano 9 V. sopra,
i saggi IV,
V e VII. I''
Tutti e tre
son ricordati nei
Collectanea s\x\De auima,
III, t. e. 36,
e nel
commento alla Desimciio,
prol. I, dub.
8, XIV, dub.3. Da
quest'ul- timo luogo si rileva
che tanto Geronimo
quanto il padre
erano morti prima del
gennaio 1497, quando
il commento alla
Destritctio fu stampato. Nel
luogo citato dei
Collectanea, oltre che
ai tre patrizi
veneziani ri- cordati,
raccomanda il suo
libro anche a
Pietro Campesano, medico e
filosofo di Bassano
che in quegli
anni doveva studiare
a Padova. Egli è
il padre del
poeta di Bassano
Alessandro Campesano (G. B.
Vergi, Notizie intorno
alla vita e
alle opere degli
scritt. d. città
di Bass., e. I,
Venezia, 1775, pp.
16-17). " Collect., prohemium:
«In questionibus meis
libri de anima
in- scriptis domino Francisco
Bragadeno patricio Veneto)'.
Marin Sanuuo, Diarii, II,
col. 579-580, ricorda
una disputa avvenuta
in Venezia nel- l'aprile 1499 alla
presenza del patriarca
intorno ad alcune
tesi pericolose, e fra
coloro che intervennero
ad essa menziona
Giorgio Pisani, Marco Dandolo, Marin
Zorzi, Nicolò Michiel,
Piero Pasqualigo, dottori,
Pietro Corner, lacomo Michiel,
Francesco Bragadin «
doctissimi in philo- sophia
». Nota invece
la mancanza di
« sier Antonio
Zustinian, dotor, che leze
philosophia ». Su
Francesco Bragadin, v.
Zeno, « Giorn.
di letter. », t.
V, pp. 369,
362-364. 12 Scrive E. Garin
a propo ito
dei primi scritti
del Nifo {Rinasci- tnento, II,
1951, p. 63):
«Innanzi all'edizione della
Fisica, che reca
la data del 1495,
v' è una lettera
di ringraziamento a
Lorenzo Donato.... In uno
degli esemplari da
me esaminati la
dedica, del 1495.
è sul verso di
una carta che
sul recto reca
una lettera con
cui il Nifo
presenta per l'approvazione il
suo commento alla
Destructio destritctionum, compi- lato fra il
1494 e il
gennaio '97 ».
E più oltre:
« Ad ogni
modo esce nel
'95 l'edizione curata dal
Nifo della Fisica
col commento d'Averroè
» (p. 65). Dove
il Garin abbia
trovato che questa
edizione della Fisica
del 1495 sia stata
curata dal Nifo,
io non so.
So invece che
la lettera del
Nifo, anzi del Niffus
de Suessa a
Maestro Nicolò Grassetto,
francescano e inquisitor dell'eretica
pravità (vedetelo divotamente
genuflesso ai pie' della
Vergine, a Padova,
nella chiesa del
Santo, di fronte
alla tomba di Antonio
Trombetta), è sicuramente posteriore alla
stampa del Badoèr il
De intellectu, sostanzialmente rimaneggiato
e pub- blicato per le
stampe nel 1503,
quando aveva ormai
detto addio a Padova
e prima ancora
all'averroismo i?; per
Gero- nimo Bernardo compone il
De sensu agente,
compiuto il 14 giugno
1495, ma pubblicato
nel 1497, quando
il Bernardo era morto,
e dedicato a
G.B. Spinelli, patrizio
partenopeo m; al Giustinian
dedica il commento
In XII Metapysicae
pubbli- cato nel 1505, ma
composto assai prima
su preghiera di Ge-
ronimo Bernardo, il cui
nome il Nifo
accoppia sempre a
quello del Giustinian; a
Santo Moro, altro
giovane patrizio che
aveva commento alla Desiriictio,
non solo perché
si riferisce a
questa, ma perché è
stampata nel recto
di un mezzo
foglio facente parte
dell'ul- timo quinterno di questo
volume; l'altra metà
contiene due pagine della
Destnictio (quinterno q,
fol. I2ir-v). Il
verso poi del
mezzo foglio, al cui
recto è la lettera al
Grassetto, reca il
prologo di Averroè
alla Fi- sica e la
dedica di questo
prologo al pretore
Lorenzo Donato, per la
ragione che gli
editori del '95
l'avevano omesso. Niente
di più. 13 V.
sopra, p. 102.
Alla fine del
trattato stampato si
legge: «Et sic consumatus
est liber de
intellectu. 26. Augusti,
1492. In Patavino studio ».
Ora che nel
1492 il Nifo
abbia scritto una
Quaestio de intellectu (cfr. la
dedica del De
intellectu a Seb.
Badoèr, neU'ediz. del
1503) è verosimile; ed
è verosimile che
l'avesse scritta in
senso sigieriano, tanto che
gli emuli poterono
accusarlo d'eresia, com'egli
stesso ci fa
sapere. Ma che questa
Quaestio sia identica
col trattato pubblicato
nel 1503, è difficile
crederlo, dopo quel
che egli stesso
confessa a Sebastiano Badoèr :
« Placuit quedam
tollere, mutare alia,
addere plurima »
! Troppo interesse aveva
il Nifo a
voler far credere
che fin dal
suo primo anno d' insegnamento s'era
liberato dall'averroismo inviso
al Barozzi. Vuo- le il
Garin un esempio
della fede che
merita il Nifo
? Eccoghelo. Nell'edizione dei
Collectanea ch'egli aveva
pronta il 12
settembre 1498, e che
vide la luce per la
stampa col titolo
In librum de anima
Aristotelis et Averrois
commentatio , a Venezia,
« per Petrum de
Quarengiis Bergomensem. Studio
et impensa domini
Alexandri Calcidonij,
Pisaurensis. M.ccccc.iij. Die
x. Maij »,
dedicando l'o- pera a Baldassar
Miliani, patrizio partenopeo,
il Nifo vede
un segno particolare d'amicizia
neU'essersi il Calcidonio
addossate le spese
della stampa del volume:
« quod et
noster Alexander Calcedonius,
communis amicus, tui et
mei amoris omni
solertia sumptibusque prò
his edere instituit ».
Ebbene, nella ristampa
degli stessissimi Collectanea
nel 1522 (Suessa, Super
libros de anima,
Venetiis), in fine
della prefazione che vi
appose, questo barabba
osa scrivere: «Quantum
igitur inique Alex. Calcidonius Collectanea
nostra publicaverit quantumve
venenose, ex bisce patet.
Ego enim publicare
illa non destinaveram,
nisi nono pressis anno
» ! che
e frase oraziana
adattissima a imbrogliare
anche meglio le carte.
Ma V. anche
più oltre, p.
370, n. 8. ^4
L'opera fu pubblicata,
come « codicilus
» al commento
della De- structio, nel
1497. Che al
momento della pubblicazione
tanto Geronimo Bernardo che
suo padre fossero
morti, risulta dalla
frase dello stesso Nifo
in fine del
commento alla Destructio:
«quorum animae in
perpe- tuum gaudeant »,
confermata dalla dedica
del commento In
XII Me- tapysicae al Giustinian. avuto alunno
a Padova negli
ultimi anni, dedica
il commento al De
beatitudine animae di
Averroè, rimaneggiando un
vecchio scartafaccio del periodo
averroistico, di mano
del suo alunno veronese Bernardino
Plumazioij; al cardinale
Domenico Gri- mani dedica
nel 1497 il
commento alla Destructio
destnictionum , servendosi, per insinuarsi
nell'animo del cardinale,
dell'am.i- cizia d'un tal
prete Prosdocimo familiare
del Grimani; più tardi
nel 1504 gli
dedicherà anche il
trattato De primi
motoris infinitate; e nello
stesso anno dedicherà
a Vincenzo Querini il
De diehus cniicis. Ma
non ostante tutte
queste amicizie e
protezioni, non potè sottrarsi ai
« latrati »,
com'egli più volte
si duole, dei
suoi colleghi e avversari.
Non saprei se
per questa o
per altra ragione, nel
1497, si allontanò
da Padova. Il
Facciolati '^ per altro
informa che «
revocatus est anno
MCDXCVIII, stipendio
argenteorum CXX »
; il che
lascerebbe supporre che
fra le ragioni del
malcontento vi fosse
anche quella dello
scarso stipendio. Sappiamo di
professori che correvano
là dov'erano megUo pagati,
e che spesso
la minaccia di
andarsene era un buon
mezzo per farsi
aumentare lo stipendio.
Ma il Facciolati ci
fa sapere che,
non ostante questo
aumento, il Nifo
« anno vertente rursus
abiit », in
cerca di miglior
fortuna, o sempli- cemente per sposarsi
con Angela Laudi
da Sessa. A
Padova non tornò più,
sebbene siamo informati
che nell'ottobre 1503 e
nel gennaio 1504
egli s'adoprava per
tornarvi 17. Vi tornò
invece nell'ottobre del
1499, dopo la
morte di Nicoletto Vernia,
il Peretto mantovano,
cioè il Pomponazzi, '5 Anche
quest'opera porta in
fine la dichiarazione: «Compievi Patavii. M.ccccxcii.
xiv Maij ».
Santo Moro si
addottorò a Padova nel
maggio 1505 (M.
Sanudo, Diarii, VI,
col. 163). Quando
il Nifo gli dedica
l'opera, sa che
l'antico scolaro di
Padova «nunc... naturae mundique interpretem gravissimum evasisse
». Io non
conosco altre edizioni anteriori
a quella scotina
di Venezia del
1524. Di Geronimo Bernardo dice
(I, comm. 56)
: « accepi
verba haec ut
iacent in codice meo,
quem felix illa
Hieronymi Bernardi memoria
olim mihi misit
». Vi sono non
pochi rimandi al
trattato De inteUectii,
e non di
rado nella stesura che
esso ebbe dopo la revisione
! 16 Fasti gymn.
patav., 1, parte
II, p. 109. 17
M. Sanudo, Diarii,
V, col. 171,
766. Anzi sotto
la data del 25
marzo 1504 (col.
972) si legge:
k Item, ave
lettere de l'orator
nostro in corte, che
domino Agustino Sexa,
qual è li,
vengi a lezer
a Padoa, et li
ha dimandato. Par
contento venirvi, et
è facto più
docto di quello era,
et ha studiato
in grecho ». 26»
dopo due anni
d'assenza '8, per restarvi
ininterrottamente fino
all'assedio della città
nel 1509. V'erano
poi maestro Pietro Trapolin, averroista
moderato, che dall'
insegnamento della filosofia naturale
era passato a
medicina teorica, frate
Antonio Trombetta francescano e
fra Geronimo da
Monopoli dome- nicano, che insegnavano
in concorrenza la metafisica, l'uno ad
mentem Scoti, l'altro
ad mentem Thomae.
Dal 1500 all'estate del 1503
era venuto a
Padova il bolognese
Tiberio Bacilieri, alunno e
poi collega di
Alessandro Achillini del
quale condi- videva le idee
'9, forse a
sostituire Antonio Fracanziano
che in seguito ad
una lite fra
maestri aveva lasciato
lo studio pado- vano ed
aveva seguito a Roma il
nuovo cardinale Marco Corner
-0. Ma nell'ottobre
del 1503 il
Fracanziano torna a Padova
ad occuparvi la
seconda cattedra di
filosofia ordinaria, in concorrenza
col Pomponazzi, mentre
maestro Tiberio, che diceva
mancargli appena quattro
dita per arrivare
alla piena e perfetta
copulatio con l' intelletto
agente -", aveva accolto
r invito di
recarsi a Pavia. Sotto
la guida di
siffatti maestri il
giovane Geronimo Taia- pietra
aveva fatto i
suoi studi a
Padova; e con
lui c'erano negli stessi
anni, su per
giù, Andrea Mocenigo,
figlio di Leonardo e
nipote del doge
Giovanni; Gaspare Contarini,il
futuro cardina- le; Antonio Surian,
nipote del patriarca
di Venezia dello
stesso nome; Santo Moro,
e altri rampolli
delle più illustri
famiglie pa- trizie veneziane. Maestri
e scolari vivevano
uniti da uno
stesso spirito goliardico non
scompagnato da febbrile
ansia di sapere. Nel
dicembre del 1500,
il Peretto, che
marciava ormai verso la
quarantina, pensò bene
di accasarsi con
una gentil donna padovana figlia
di Francesco Dondi
dell' Orologio. Ed
ecco i^ Cfr. Facciolati,
Fasti, 1. e;
C. Oliva, Note
suW insegnamento di P.
Pomponazzi, III, in
« Giorn. crit.
d. Filos. Ital.
», VII, 1926, pp.
181-183. '9 Facciolati, ib.,
p. iii. V.
sopra, pp. 226-27.
Il 6 ag.
1501, era pre- sente ai
dottorati in artibìts
di M. Ant.
Zimara e di
Girol. Oleari, col titolo
di «extraordinarius philosophiae >> (Arch.
d. Curia Vesc.
di Padova, Acta grad.,
voi. 47, f.
i62r). 20 Fr. Franceschetti, La
famiglia dei conti
Fracanzani di Verona, Vicenza ed
Este con notizie
dei loro antenati
ecc. Bari, presso
la Direz. del Giorn.
Araldico, 1896, pp.
30-31. 21 Pomponazzi, In
XII Metaphys., ad
t. e. 17:
«Ideo Tiberius iactatus solum
sibi defìcere quatuor
digitos ad hoc
ut foelicitatem istam pertingat »
(Arezzo, Bibl. Fraternità
de' Laici, Ms.
389, f. 248r;
Cod. Ambros. A. 52
inf., f. 2o8r) . Andrea Mocenigo
intonare per l'occasione
nn epitalamio in latino,
ove tra molte
reminiscenze mitologiche si
leggono questi due distici
molto confidenziali rivolti,
s' intende, allo sposo 22 ;
Ista dies omnes
reliquos divellit amores
: paecipit haec soli
perpetuoque vaces. Substulit ista
dies sectari fornice
tetra scorta suburbano, substulit
ista dies.... Ma la
giocondità della vita
studentesca nel rumoroso
e gaio ambiente dello
studio patavino non
distoglieva questi giovani patrizi veneziani
dallo scopo per
cui erano venuti
sulle rive del Bacchigliene
tra le «
antenoree mura». E
Marin Sanudo 23 ci
fa sapere che
1' 11 maggio
1505, « zorno
di Pasqua di
mazzo, da poi disnar,
sier Santo Moro
di sier Marin,
studia a Padova, tene
le conclusion ai
Frari, qual è
impresse. Arguì molti,
videlicet domino Laurentio Bragadin,
leze in philosophia
[a Venezia], sier Piero
Pasqualigo 24, dotor,
cavalier, sier Marin
Zorzi, dotor, e altri,
et poi andò
a Padoa et
si dotoroe ».
Ugualmente il Sanudo al
26 marzo 1506
annota che «
in questo zorno,
in la chiesia di
Frari, fo tenuto
le conclusion per
sier Antonio Surian, quondam
sier Michiel, nepote
del patriarcha nostro, qual
studia a Padoa.
Vi fu il
reverendissimo patriarcha, e l'orator
di Franza e
molti patricii invidati
e dotori»-s. Con -2
Io. Brunatius, Poìììponatius, nella
Raccolta di opuscoli
scient. e filos., t.
XLI, Venezia, 1749,
pp. 34-35. -3 Diarii,
VI, col. 163. 24
Di Piero Pasqualigo
riferisce il Sanudo,
ib., I, col.
631, sotto il 22
maggio 1497, che
a Roma « haveva tenuto
conclusion publice et si
aveva facto uno
honor grandissimo et
hora sta dotorado
nomine pon- tificis dal
cardinal di San
Zorzi ». E
sotto il 19
giugno 1498 {ib.,
col. 964) : «
Vene da Milan
in questa terra Pietro Pasqualigo, dotor,
patricio veneto, stato.... et
si trovò a
Milan al tempo
dil capitolo general
di frati minori dove
tene le conclusion
publiche. Vi fu
el ducha con
li oratori, et fu
molto comendato, come
si have lettere
di Marco Lupomano
orator nostro nel conscio
di pregadi. Questo
avia studiato a
Paris, et è
giovane di età de
anni 2.... et
è doctissimo ».
Il Degli Agostini,
Not. storico- critiche intorno
la vita e
le opere degli
scrittori veneziani, t. II, Venezia, 1754. P-
304. dice che
Piero nel 1494
a 22 anni sostenne a
Parigi due mila conclusioni.
Anche il fratello
Lorenzo Pasqualigo aveva
studiato a Parigi (Sanuco,
ib., col. 51). -5
M. Sanudo, Diarii,
VI, col. 324.
La cronaca di
questa disputatio è fatta
dallo stesso Surian
in una pagina
del volume in
cui ricopiava le lezioni
tenute dal Pomponazzi
sul De anima
nel 1500 e
nel 1504 (Ms. della
Bibl. Naz. di
Napoh, Vili. D.
81, f. 76V,
già descritto da
P. O. Kristeller, in
« Revue intern.
de philosophie »,
V, 1951, 15,
pp. 148- 19 290 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI questa pubblica
disputa anche il
Surian conquistava il
titolo di « dotor
», come appare
da quanto il
Sanudo ricorda sotto
la data del 12
luglio -6. E
sarei quasi tentato
di credere che, allo scopo di
conseguire il dottorato,
anche Vincenzo Querini affrontasse a
Roma la solenne
disputa cui accennavo
e alla quale assistè
anche Pietro Bembo,
egli pure patrizio
veneziano, cavalier ma non
« dotor «
qual era invece
suo padre. Quello di
stampare le Conclusiones
per la pubblica
disputa non mi consta
che fosse un
obbligo; ma si
sa che Giovanni Pico
le aveva stampate
nel i486, il
Querini le aveva
stampate, « impresse »
le aveva Santo
Moro, e anche
il Taiapietra si af-
149), ed
è importante perché
c'introduce nel bel
mezzo dell'ambiente
scolastico padovano: «
Que disputatio a
me habita fuit
Patavii per biduum 1505,
more veneto, die
vero 22° marcii.
Et prima
die argu- mentatus est
dominus Bernardus de
Portenarijs, florentinus patritius, Artistarum rector;
2° loco R.
dominus Cristophorus Marcellus,
patritius venetus,
prothonotarius apostolicus; 3°
magister Antonius Trombeta ordinarius Metaphysice,
Patavii legens; 4"
Dominus magister Hie- ronymus
de Monopoli, ordinis
Thomistarum, ordinariam Metaphysice legens [cfr.
Quètif-Echard, Scriptores Ord.
Praed., II, p.
76]; 5° Do- minus magister Antonius
faventinus ordinariam theorice
medicine le- gens; 6° Dominus
magister Franciscus de
Caballis, brixiensis, ordi- nariam practice medicine
legens. Et
disputatio hec habita
fuit in aede cathedrali, in
choro penes altare
maius, coram R.mo
domino D. Petro Barocio, episcopo
patavino, et magnificis
Andrea Griti, pretore,
Paulo Pisani equite, prefecto
Padue, R.mo D.
Hieronymo Barbadico primi- I cerio Sancti
Marci. Duravit disputatio
usque ad 24
— horam satis
fe- 1 liciter die dominico,
et fuit dominica
quadragesime quarta. 1^ die (et fuit
habita in salis
magnis), primo argumentatus
est Dominus magi- ster Mauricius ordinis
Minorum hybernicus, preceptor,
ordinariam theologie legens; 2°
Dominus magister Gaspar
perusinus ordinis Thomi- starum [cfr. QuÈTiF-EcHARD, 1.
c, p. 24],
Ordinariam theologie pro- fessus
et profitens; 3°
Dominus magister Petrus
Trapolinus, patavinus,,
ordinariam theorice medicine
legens; 4° Dominus
Petrus mantuanus,. olim preceptor;
5" Dominus Antonius
Fracancianus, vicentinus, ordi- narius philosophie, ambo professi et
profìtentes. Et disputatio
fuit mane Venetiis autem
die 26 marcij,
die Jovis, in
aede S. Francisci Minorum; et
interfuit R.mus Patriarca,
patruus meus, R.mus
D. D. ar-
chiepiscopus spalatensis, D.
Bernardus Zane, R.mus
Marcus Antonius Foscarenus, episcopus
Emonensis [cioè di
Città Nova in
Istria], R.mus D. D.
Dominicus episcopus Chisamensis,
suffraganeus R.mi D. Pa-
triarche. Argumentatus
est in primis
Dominus Sebastianus Foscharenus, doctor, legens
lecturam physice Venetiis;
2° loco R.mus D. D. Bernardus Zane, archiepiscopus Spalatensis;
3° loco Dominus
Andreas Mozenigus, doctor; 4"
D. magister Petrus
de Cruce ordinis
Minorum, regens ibi; 5°
Dominus Santes Maurus,
doctor etc. Et fuit
dies felicissima. Quare Deo
semper honor et
gloria ». 26 M.
Sanudo, ib., col.
373. frettò a
presentarle stampate. Più
tardi, so di
Matteo Bin, le cui
« conclusiones »,
dedicate a Nicolò
Michiel, Procurator di S.
Marco, furon discusse
a Venezia nel
dicembre 1510-7; e so
pure di Giulio
Ruggiero, discepolo a
Padova di M. An-
tonio Genua, che stampa
le sue Positiones ,
cioè le sue
tesi, dedicandole al cardinale
Ercole Gonzaga, per
la disputa che doveva
aver luogo a
Padova nella chiesa
di S. Antonio
nel luglio 1557 ^8
; e l'esempio
suo sarà seguito
due anni dopo da
un altro discepolo
del Genua, M.
Antonio Mocenigo 29, nipote
di Vincenzo Diedo
patriarca di Venezia,
per la disputa che
doveva aver luogo,
come nel caso
di Antonio Surian,
a Venezia e a
Padova. Non conosco il
contenuto delle tesi
o « conclusion
» soste- nute dal Surian
e dal Moro;
conosco invece quello
delle Con- clusiones del Querini
e del Bin,
delle Positiones del
Rug- giero e dei Panidoxa
theoremataque del Mocenigo.
Il Querini, discepolo del
Nifo quando questi
aveva già abbandonato l'averroismo, si
dichiara apertamente contro
Averroè come aveva fatto
il maestro. Invece
averroista è il
Bin; e anche il
Ruggiero e il
Mocenigo sostengono apertamente la dottrina
averroistica del Genua
combinata con quella di
Simplicio. Allo stesso
modo il Taiapietra
è un risoluto
so- stenitore dell'averroismo
della corrente sigieriana,
del quale, dopo la
partenza del Nifo
da Padova, era
stato sostenitore Tiberio Bacilieri.
Ciò apparirà meglio
dall'esame del conte- nuto della sua
opera. Un'aperta professione d'averroismo
accade d' incontrare tìn sulla
soglia del libro,
cioè nel proemio
intitolato anch'esso al Grimani.
Dopo avere accennato
ad Aristotele come « regula *7
La rara stampa
veneziana della Casa
G. Tacuino, è
posseduta dal British Museum,
1172, h. i
(i). All'amico Carlo
Dionisotti son debitore della cortese
segnalazione e del
microfilm. ^8 Positiones hasce
de vero et
bono Julius Rugerius
ad disceptandum proposuit. In
quibus si quid
a religione ac
summa veritate dissentire
lector animadvertet , id non
ex animi sententia,
sed ex Aristotelis
ac veterum Philosophorum placitis
pronunciatum sciat. Venetiis
mdlvii, f. yor Finis.
Disputabuntur triduo Patavij
in tempio D.
Antoni], mense Julij, Die...,
Hora.... Nella sezione
ottava «de homine
quatenus intel- ligit et
speculatur » (fol.
54V sgg.), accade
d'incontrare tutte le
tesi dell'averroismo
Simpliciano del Genua,
coli' idea della
« progressio » dell'unico
intelletto « ad
secundas vitas »
nei diversi corpi
umani ecc. Cfr. sotto,
XIII, p. 388
sgg. 29 V. sotto,
XIII, p. 3
9 ^gg.. 292 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI in natura
» secondo il
noto concetto d'Averroè
3°, il giovane filosofo veneziano
continua: Post queni prinius
floruit Averroes cordubensis,
qui ex graecis expositoribus velut
ex optimis quibusdam
fontibus philosophiam non tam
hausisse quam expressisse
visus est. Eos enim insequi et
incessere delectatus est
apprime, unde is
solus est qui
condigne et recte apud
omnes commentatoris nomen
adeptus fuit; tantum enim
est ex agro
fertili messem tacere.
Hinc est, ut
qui Averroem exacte legerit,
et suis quaeque
locis singulatim singula
contu- lerit, eius doctrinam
facile percipiet ab
optimis manasse aucto- ribus.
Quid enim aliud
est commentator Averroes
quam Alexander, Themistius, Simplicius,
ac demum ipsemet
Aristoteles transpo- situs ?
Ouamobrem et nos
divino beneficio confisi,
non vana si- militer
gloriae cupiditate impulsi,
et absque ulla
prorsus invidia, sed solum
utilitatem aliquam studiosis
afterre anhelantes, penes horum
virorum sententiam quarumdam
diftlcilium quaestionum
summam seu compendium
ordinare suscepimus: ea
enim beni- volentia perypatheticos prosequor
omnes, et praesertim
summum Aristotelem eiusque magnum
commentatorem Averroem, omnium philosophantium vere
duces, ut si
quid ex illorum
disciplinis de- prompserim, quod
utile, pulchrum lionestumque
putem, id quippe omnibus communicatum
esse velim, quo
omnes literati una mecum
ipsorum rapiantur amore
eosque digna veneratione
pro- sequantur et colant. Verum nos,
divini Platonis De
legibus imitati, ut
scilicet ne cuivis liceat,
quae aediderit, aut
privatim ostendere, aut
in usum publicum concedere,
antequam super id
publici et idonei
con- stituti iudices ea
viderint et probarint
(quod maxime observant venerabiles illi
magistri parisienses), opus
hoc nostrum in
stu- diosorum communem usum
concedere ullo pacto
voluimus, ante- quam gravssima amplissimi
Venetiarum prothoflaminis censura
et lima castigetur; cuius
quidem titulis et laudibus (nisi
defraudetur) solum ipsemet accedit
religiosissimus antistes Antonius
Surianus; simulque nisi prius
in clarissimorum virorum
conventu et corona opus
hoc manutenerem et
tutatus essem. E il «
prothoflamen » di
Venezia, cioè il
patriarca Antonio Surian, zio
di quell'altro Antonio
Surian, che era
stato disce- polo a Padova
del Pomponazzi e
del Fracanziano, e
che del Peretto ci
ha tramandato le
lezioni sul De
anima del 1500 e
del 1504, contenute
nel codice della
Bibl. Naz. di
Napoli, Vili. D. 81,
studiato dal Kristeller,
il buon patriarca
di Ve- nezia, dicevo, dopo
aver letta l'opera
del Taiapietra, lungi dallo
scandolezzarsi di questa
aperta esaltazione d'Averroè, 3°
De anima. III,
comm. 14. che avrebbe
fatto fremere il
vescovo di Padova,
Pietro Ba- rozzi, gli
scrive questa candida
letterina che si
legge in fondo al
volume: Filii [sic) diarissime,
praeclarum opus tuum,
in quo Aristotelis peripatheticorum principis
et Averrois eius
fidi et luculentissimi commentatoris sensum
diligenter et ad
unguem examinasti, non mediocri
gaudio voluptateque lectitavi,
eo quod te
philosophum praestantissimum
noverim, tum et
ortodoxae matri ecclesiae obsequentissimum. Quo fit ut
te quam maximis
prosequamur laudibus,
magnisque honoribus te
decorandum extollendumque
censeamus. Exinde
enim persuaves et
amenissimos tibi fructus acquires, nec
modicam saeculo utilitatem,
patriaeque nostrae gloriam allaturus
es. Vale. Eppure l'averroismo
dell'opera non concerne
soltanto una o due
tesi che vi
siano difese quasi
di passaggio, ma
domina tutto intero il
volume, dalla prima
all'ultima pagina; salve sempre,
s' intende, le solite
proteste d'obbligo, chiaramente espresse o
sottintese, che l'autore
cioè non persegue
altro intento che quello
di esporre qual
è il genuino
pensiero d'Ari- stotele e del
suo fedele commentatore,
senz'alcun pregiudizio per la
fede e per
gì' insegnamenti della
Chiesa. L'opera si divide
in due libri
: il primo
concerne otto problemi dibattutissimi nelle
scuole di filosofìa,
alla soluzione dei
quali son dedicati altrettanti
trattati, e in
ciascuno di essi
un capitolo è consacrato
alla esposizione della
vera dottrina del
Filosofo e del suo
fedelissimo interprete, mentre
altri son riservati
a combattere più le
obiezioni dei «
cacoaverroisti », com'egli li
chiama (lib. II,
tr. i, e.
7), che non quelle degli
avversari dell'averroismo.
Nel primo trattato
si discute il
problema se unico sia
il principio di
tutte le cose,
o possa esser
molteplice; e nel quinto
capitolo « philosophi
et commentatoris vera positio
inducitur cum suis
rationibus et fundamentis
». Nel secondo trattato,
si parla della
immaterialità e semplicità divina; e nel cap.
14 « philosophi
et commentatoris vera
po- sitio inducitur ». Nel
terzo trattato si
dimostra la tipica
tesi averroistica « Deum
tantum seipsum, idest
essentiam pro- priam intelligere
ac intueri »;
e nel cap.
11 « vera
positio philo- sophi et commentatoris
in hac materia
ponitur ». Nel
trattato quarto si pone
il quesito «
an primus motus,
qui est diurnus, sit
immediate a Deo
glorioso », e
si critica la tesi dell'aver- roista Giovanni
di Jandun, il
quale sosteneva che
Dio non può muovere
il primo mobile
se non per
mezzo della prima
intelli- genza; nel cap. 6
poi è esposta
la vera opinione
del filosofo e del
SUO commentatore su
questo argomento. Nel
trattato quinto è presa
in esame la
vexata quaestio, se
Dio sia causa efficiente delle
cose eterne, cioè
delle intelligenze e
dei cieli, poiché delle
cose corruttibili non
v' è dubbio
che esse non
pos- sono esser prodotte immediatamente da
Dio. È noto
che il teologo agostiniano
Gregorio da Rimini
riteneva che, secondo Aristotele, Dio
è causa finale
ultima delle intelligenze
e dei cieli, ma
non causa efficiente
del loro essere 31.
Il Taiapietra, d'accordo con
Sigieri -, è
del parere che,
pur essendo coe- terne a
Dio, sì le
intelligenze motrici che i cieli
incorruttibili son tratti all'esistenza
da lui per
via di vera
causalità effi- ciente, e in
proposito intraprende una
lunga disquisizione che dura
per diversi capitoli
contro il teologo
agostiniano; giacché è bene
si sappia che,
per quanto riguarda
l' interpretazione del
pensiero d'Aristotele, vi
furono teologi che
si spinsero anche più
in là di
taluni averroisti. Nel
cap. 13 è
esposta la vera dottrina
del filosofo e
del commentatore «
cum suis ra- tionibus
et fundamentis », che è
poi la dottrina
sigieriana. Nel trattato sesto,
è discusso un
altro problema oggetto
di lunga contesa, fin
dai tempi di Sigieri,
se cioè Dio
nel muo- vere il mondo
si palesi di
virtù intensivamente infinita
ossia, come soleva dirsi,
di infinito vigore.
Dopo aver combattuto r
interpretazione che d'Aristotele
avevan dato S.
Tommaso, Alberto Magno e Duns Scoto
e quella di
alcuni averroisti che, a
suo giudizio, falsavano
il pensiero d'Aristotele
e d'Averroè, l'autore passa
ad esporre, nel
cap. io, la
« vera positio
» del- l'uno e dell'altro,
riaffermando la sua
fiducia nel commen- tatore : Quum inter
tot celebres philosophos,
nullus adhiic posterio- rum
philosophantium aut
priorum,praeter Aristotelem, inventus sit
qui commentatori Averroi
in rebus naturalibus
aut divinis exponendis equipolleat,
unde merito nomen
magni et certe
maximi commentatoris est assequutus,
ideo, primae philosophiae
princi- piis innitendo, in
hoc quesito ad
mentem philosophi et
commen- 31 Lectura in
II Sent., dist.
i, q. i;
cfr. Giov. di Baconthorpe,
In II
Sent., dist. i, q. i;
Giov. di Jandun,
Meiaphys., II, q.
5; id., ■Quaestiones sup.
De siibst. orbis,
q. 14. 32 Cfr.
F. Van Steenberghen,
Sig. de Brab.
d'après ses oeiivres inédites, II
voi., Louvain] tatoris dicimus
infinitum, ut proposito
attinet, alias infiniti di- stinctiones omittendo,
dupliciter intelligi posse:
vel secundum tempus et
durationem, vel secundum
virtutem et vigorem;
quo- rum unum vocant latini
infinitum extensive, et
alterum intensive. Pro quo sciendum
quod si primum
principium secundum primum modum
infinitum intelligatur, hoc
utique ad mentem
philosophi et commentatoris concedendum
est, quoniam primus
motor motu locali uno
et continuo movet
per infinitum tempus;
et sic etiam, secundum
eos, quaelibet intelligentia
est infinita; quae- libet
enim intelligentia movet,
secundum Aristotelem, orbem proprium motu
locali circulari infinito.
Potest et secundo
modo intelligi primum principium
esse infinitum in
qualitate actionis, scilicet in
vigore; et hoc
pacto negat philosophus
et commen- tator. Ma rendendosi
conto che un'affermazione sì
grave poteva sonare sgradita
alle orecchie dei
teologi, il nostro
s'affretta a dichiarare: Sed quamvis
isti, philosophus scilicet
et commentator, sic dicant,
nihilominus tamen dico
secundum fidem et
veritatem, quod deus, qui
est primum principium,
est virtutis infinitae, scilicet in
qualitate actionis, ita quod
quantum est de
se potest velocitare motum
in infinitum, immo
movere in instanti,
nec est limitata sua
virtus ad actionem
determinatam ; et
hoc absque omni ambiguitate
verum est, non
tamen potest convinci
aut comprehendi ex sensatis;
et ideo non
est mirum si
philosophus ac caeteri antiquorum
naturales, sensata tantum
insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum
enim deus ipse
naturae sit auctor, potest
utique plus facere
quam possit natura
vel natura- liter comprehendi,
quoniam quemadmodum ipse
omnia excedit in infinitum,
sic etiam profecto
in agendi potentia.
Iccirco iuxta illud quod
primo Esaias et
postmodum Paulus dixerunt,
propter ista et alia
quae oculus non
vidit nec auris
audivit, nec in cor
hominis ascendit, sacrosantae
ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua
haesitatione credendum est,
et absque aliqua
demon- stratione aut sensuum
experientia etc. E la
stessa dichiarazione ripete,
come d'uso, tutte
le volte che gli
accade di toccare
un problema intorno
al quale vi sia
conflitto fra la
filosofìa e la
teologia. Nel settimo trattato
si chiede se
il numero delle
intelUgenze motrici debba dedursi
dal numero dei
movimenti e delle
sfere celesti, oppure se
ve ne siano
di non addette
al moto dei
cieli; e nel cap.
4 è esposta
al solito l'opinione
del filosofo e
del com- mentatore, che il
Taiapietra ancora una
volta toglie a
difen- dere. Inoltre nel cap.
12, è esposta
la vera opinione
del filosofo 296 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI e del
commentatore, che la
nobiltà delle intelligenze
va posta in relazione
con la maggiore
ampiezza e altezza
delle sfere da esse
mosse. Nell'ottavo ed
ultimo trattato del
primo libro, si dibatte
l'annoso problema, se
la materia di
cui constano i cieli
sia « eiusdem
rationis cum materia
horum inferiorum » ;
e di
nuovo nel cap.
12 viene esposta
e difesa come
vera la dottrina d'Averroè,
la quale combacia
perfettamente con quella del
principedei filosofi, e vi si dice
che la materia
dei cieli non è
in potenza a diverse forme,
ma soltanto a
diverse posizioni locali. Il secondo
libro si divide
in sei trattati.
Il primo dei
quali verte sulla natura
dell'anima umana e
precisamente sul pro- blema «
utrum humana et
rationalis anima sit
una vel plures, dans
esse homini et
immortalis». Fin dal
primo capitolo di
que- sto trattato, l'autore ci
palesa candidamente qual
è il suo
inten- to: anzitutto
rigetterà tutte le
opinioni che più
s'allontanano da Aristotele e
da Averroè; poi
riferirà quelle che
più si avvici- nano al loro
pensiero : «
Demum veram philosophi
et commen- tatoris addemus
sententiam ab ea
quascunque amovendo
cavillationes, ut eius
veritas clarior appareat....
». Ed egli non
meno candidamente spera
che dalla sua
fatica verrà non poco
giovamento alla restaurazione
della filosofìa, che
al co- mune giudizio degli
averroisti pareva in
quei tempi non
poco decaduta: Unde speramus laborem
hunc nostrum non
modo rem peri- patheticam, idest
Averroycam, adiuvaturum esse,
verum etiam aucturum, quum
forte scriptum hoc
non tantum erit
causa de- clarandi rem
obscuram et latentem
multum in philosophia,
sed etiam aliis, hoc est bene
dispositis, initium fiet
vel occasio Iabo- randiindoctrinaphilosophi et
commentatoris, et ad
communem utihtatem quamphira scitu
nobilissima scribendi. Et
sic forte in Italia
reviviscet philosophia, quae
temporibus meis, M.D.V., cum
philosophis pessum ivit,
adeo ut hac
tempestate pauci vel nulli
reperiantur philosophi; sunt
autem in precio
triviales, nebulones et sophistae
33; sperandum est
tamen naturam ali- 33
È un lagno
che Averroè aveva
fatto dei filosofi
del suo tempo, nel
famoso prologo alla
Fisica; ed è
curioso vedere come
gli averroisti della fine
del Quattrocento e
dei primi del
Cinquecento lo ripetano
pei loro tempi. V
insiste in particolare
il Pomponazzi, parafrasando
sia il prologo al
primo libro della
Fisica sia quello
al terzo (Cod.
lat. della Bibl. Naz.
di Parigi, n.
6533, f. 6v
e lagr; Arezzo,
Fratern. de' Laici, ms.
3QO, f. (x-jv,
e ms. 300,
f. igir. Cfr.
«Giorn. Crit. d.
Filos. Ital. », XXX,
1951, pp. 371-372). quando nostri
misertam iri, et
nobis integram redituram
philo- sophiam et philosophos;
natura namque non
deficit in necessariis neque abundat
in superfluis. Iccirco
laborandum est prò
viribus ut ad nos
redeat niater nostra
pliilosophia. Con questa speranza
nel cuore, che
la filosofia aristotelico- averroistica minacciata
da un lato
dal concordismo tomistico che
la svisava, e
dall'altro dalla retorica
umanistica che la disprezzava e
dileggiava, il nostro
giovane averroista si ac-
cinge a difendere quella
che era apparsa
la più ostica
delle tesi averroistiche, qual'
è quella dell'unità dell'
intelletto. Ed anzitutto egli
espone e combatte,
sulla scorta d'Averroè,
la dottrina di Alessandro
d'Afrodisia, intorno alla
quale si dif- fonde per ben
sei lunghi capitoli
(2-7). Nel cap.
4 accade d' in- contrare questa allusione
all'ambiente filosofico padovano: «
Conantur quidam alexandrei
et acutissimi viri
prò Alexandro ad rationes
Averroys et auctoritates
Aristotelis respondere.... >>. Giusto un
anno prima, nel
1504, il Pomponazzi,
che stava com- mentando a Padova
il terzo del
De anima, s'era
posto il pro- blema dell' immortalità
dell'anima, e pur
dichiarandosi an- cora
propenso a ritener
possibile una soluzione
positiva del problema secondo
la ragione, aveva
dimostrato in che
modo la tesi d'Alessandro
avrebbe potuto sostenersi.
Forse allu- dendo al Pomponazzi,
il Taiapietra nel
rintuzzare le ragioni degli
alessandristi osserva :
« Etsi Alexandrea
opinio lumini tantum innitendo
naturali non minus forte
substentabilis sit 34 iuxta
fundamenta sua, quam
et averroyca, hoc
nihilo- minus in loco
ipsum ad intentionem
philosophi minime lo- quentem
fuisse proculdubio ostendemus
» (cap. 5).
Nel qual passo è
quanto mai significativa
la distinzione fra
ciò che è sostenibile
« lumini tantum
innitendo naturali »,
e ciò che è
sostenibile «ad intentionem
philosophi». A prescindere
dai fran- cescani che di
questa distinzione facevano
largo uso, essa è
una novità nella
storia dell'aristotelismo; Aristotele
non ha visto tutto
quanto si può
vedere col lume
di ragione; la ra-
gione umana può spaziare
forse oltre i
confini del mondo
ari- 34 Come appunto
diceva il Pomponazzi,
commentando il terzo
libro del De anima
nel 1504 (Vedasi
P. O. Kristeller, Two
impubi. Que- stions on the Soul
of P. Pomponazzi, in
« Medievalia et
Humanistica », Vili, 1955,
pp. 87-90, 94),
quando il Taiapietra
era ancora studente a
Padova.]stotelico : è
un' idea sulla
quale insiste più
volte il Pompo- nazzi
e che doveva
ferire a morte
l'autorità di cui
Aristotele, «maestro e duca
de l'umana ragione ))3s,
aveva finora goduto. Dopo
la critica della
tesi alessandrista, il
nostro espone e confuta
la dottrina di
Abubacher, « Averroys
socius )>, di
Aven- pace, « eius
magister «, quasi
fossero due persone
diverse, di Avicenna e
di Alfarabi (cap.
8) ; e
qui eccolo nel
cap. 9, in quo
Aristotelis et Averroys
vera positio ponitur
in hac materia cum
suis motivi s, ad
esporci l' interpretazione sigieriana
del pensiero di questi
due filosofi: Clini binas
hiicusqne illustrivim peripatheticorum opiniones ostenderimus, qiias
tamqnam impossibiles omnino
ad, mentem philosophi reliquimus,
superest videre et
de tertia, quae
est Averroys se unicum
ad intentionem Aristotelis
loqui pollicentis. Aliorum autem
sapientum opiniones hoc
in tractatu non
inda- gamur. Item quia
intentio nostra in
praesentiarum non est de
omnibus loqui, sed
tantum manifestare quae
fuit opinio commen- tatoris, et
quorundam errorem refellere,
qui temporibus nostris nonnulla monstra
in hac materia
(ut finxerunt de
intentione Averroys) enixi sunt.
Tum etiam, ut
sententia est philosophi, thopicorum primo,
capite IX, quolibet
proferente contraria opi- nionibus
sapientum sollicitum esse
stultum est. De anima
igitur disceptantes quadrifariam
circa ipsius in- coeptionem loqui
poterant: primo, quod
quandoque producta fuit in
materia, quandoque corrupta:
quem modum sequutus est
Alexander aphrodiseus, ut
disputavimus in pracedentibus abunde satis,
in quo quidem
tamquam demonstratum nobis palam
est, rationalem animam
non a corpore
incipere, neque in corpus
desinerei illam quoque
prò parte insequi
visi sunt arabum sapientes, ut
supra piane constat.
Secundo, quod novum
acceperit esse, quod nunquam
perditura sit: et
hic dicendi modus
Platonis est, cui contradicit
philosophus et commentator,
Divinorum XII, tex. co.
XXXIX; et primo
Coeli, tex. co.
CXX; alioquin natura possibilis verteretur
in necessariam; nullum
enim novum est perpetuum. Tertio,
quod nullum eius
fuerit initium, sed
dissi- panda quandoque foret:
et is quoque
modus impossibilis est; omne
namque aeternum a
parte ante est
etiam aeternum a
parte post, et econtra, ut
sententia est philosophi
et commentatoris, ibidem, primo
Coeli et mundi
3^; nec aliquis
hominum dudum id percepit,
quod quum perscrutata
non sit dignum,
absque auctore 35 Dante,
Conv., IV, vi, 8.
36 T.
e. 104-109 (e.
IO, 27gb 32-280=1
31). A questo
principio del De coelo
fa appello il
card. Bessarione, In
calimin. Platonis, III,
e. 22, so- stendo
che, per Aristotele,
se l'anima è
immortale ed eterna
a parte post, deve
esserlo anche a parte ante,
con tutti gli
assurdi che dal punto
di vista aristotelico
ne seguirebbero, se
l'anima intellettiva fosse dimissum fuit.
Quarto, quod, ncque
quandoque cadet, nec
exor- dium ulluni aliquando
acceperit: si igitur
rationalis anima nec incepit
cum corpore, nec in corpus
desinet, sed semper
fuit et aniplius semper
erit immortalis ac
substantia semper existens simplex et
immixta, humano orbi
secundum esse unita,
non tamen corruptibilis nec
alterabilis secundum eius
substantiam, opinio redditur Aristotelis
scilicet et Averroys
et multorum tam
anti- quorum quam modernorum peripatheticorum, ut
Themistii, Theophrasti,
Pythagorae et caeterorum
eiusdem sectae. Id
igitur in quo veriores
scilicet peripathetici concurrunt,
est rationalem animam nec
incipere cum corpore,
nec etiam incipere
ab aliquo corporis, nec
desinere in potentiam
corporis, nec in
corpus ipsum, sed esse
semper qviid immortale
divinum et impatibile.\'erum id
in quo discreti
et differentes sunt
isti viri, hoc
porro loco a me
perscrutandum non expectetur:
tum quia prò
nunc tantum philosophi et
commentatoris opinionem venamur,
ex qua ad caeteras
quascumque discrimen colligere
poterimus; tum quia praeter
opinionem opus nostrum
multum excresceret. Hanc sententiam
comprobant Aristotelis auctoritates
mul- tae; quarimi quae
adversus Alexandrum iam
adductae sunt nobis sufficiant.
Motiva
autem philosophorum sunt
multa, et primum quod
ad hoc movit
Averroym, fuit ratio
fortis quae ex libro
De substantia orbis
piane colligitur, quoniam
nulla forma inducta in
materia non mediantibus
interminatis dimensionibus et non
per dispositiones qualitativas
et quantitativas praecedentes, simul accipit
esse cum toto. Sed rationalis
anima hominis huiusmodi est.
Ergo etc. Amplius amne
quod est dominus
suorum actuum est
abstractum et immortale. Sed
anima humana intellectiva
talis est. Ergo
etc. Maior utique evidens
est ex se:
quod enim non
habet dominium suorum actuum,
ad unam tantum
partem determinatur; que- madmodum
ad delectabile appetitus
sensitivus; et talis
procul- dubio est materiae
immersus. Minoris
autem veritas inductive declaratur: nam
si uni vero
philosopho vel religioso
offeratur inoltre
moltiplicata col numero
degli uomini. Si
che il Bessarione
ne aveva concluso: «Igitur
alterum de his
duobus dicat necesse
est: aut enim unum
eundemque intellectum omnibus
esse, aut una
cum corpore animam interire
». E se
egli poteva ritenere
[ib., e. 27)
che nessuno era riuscito
finora a dimostrare
la falsità della
tesi averroistica dell'unità dell' intelletto,
secondo i principi
della filosofia aristotelica,
il Pompo- nazzi, che,
pur ritenendo perfettamente
aristotelica questa dottrina, la
considerava stoltezza {fatuitas),
almeno fin dal
1504 (cfr. Kristeller, 1. e,
p. 93, e
il ms. napol.
Vili. E. 42,
f. i86r), troncò
nell'inverno 1515-1516 le sue
precedenti esitazioni, e
prese a sostenere
con risolu- tezza la tesi
che, pur essendo
quello dell' immortalità
dell'anima un « problema
neutrum », tutti
i principi formulati
da Aristotele, e se-
gnatamente quello stabilito in
questo luogo del
De caelo, sembrano concludere alla
mortalità dell'anima. Pochi
mesi dopo scrisse
il trattatello De immortalitate
aniniae. Ma sullo
sviluppo del pensiero
del Perette intor- no a
questo argomento, cfr.
«Giorn. Crit.», XXXII,
I953. PP- 45 e 175. puella,
appetitus tunc tendit
in fornicationem, quia
delecta- bile; intellectus autein
reicit et fugit,
quia malum et
propter offensionem dei proximique.
Ecce igitur qualiter
hominis intel- lectiva anima
domina est suorum
actuum, quia scilicet
potest delectabile fugere vel
persequi; non sic
autem appetitus ipse. Et
haec fuit ratio
divini Platonis in
Phaedone, ibi inter
omnes efficacior, quam olim
ab eo accepit
platonicus Plotinus, in
tractatu de immortalitate animae,
quam etiam adducit
divus Albertus in libro
De origine animae.
Et fuit
haec ratio apud
aliquos tantae effìcaciae et
auctoritatis, ut palam
dixerint, quod qui
conatur hanc solvere rationem
fatuus est. Rursum,
quod intelligit omnia
tam materialia quam
imma- terialia est iinmateriale,
et per consequens
immortale; haecenim se
consequuntur, ut constat
in intelligentiis; sed
intellectiva hominis anima omnia
comprehendit, tam scilicet
materialia quam etiam iinmaterialia
; igitur immaterialis
est, et ex
consequenti immortalis. ]\Iaioris primam
partem innuit philosophus,
iii. Deanima, tex.
co. iiii, quum
dixit, quod omne
recipiens debet esse denudatimi a
natura rei receptae.
Secunda etiam pars
patet; alioquin rationalis anima
esset organica, et sic determinata
ad unum, cuius tamen
oppositum in nobismetipsis
comprehendimus. Minorem vero in
nobis proculdubio quottidie
experimur. Quare etc. Et
confirmatur, nam anima
nostra intellectiva universaliter et abstracte
intelligit; ergo et
ipsa est abstracta
et immortalis; secus ipsa
esset aut aliquis
quinque sensuum, aut
sextus sensus, et sic
per consequens non
iniiversaliter intelligeret ;
quod apud perypatheticos est
valde absurdum et
manifeste falsum. Adhuc, si
ista rationalis anima
non est abstracta
et immortalis, tunc aut
est complexio, aut
forma superaddita complexioni;
sed non primum, quia
tunc esset accidens,
quod nullus sanae
mentis fateretur; minus etiam
secundum; sequeretur enim
ipsam esse organicam et
extensam, et sic
fìeret determinata ad
unum que- madmodum et
caeteri sensus, cuius
tamen oppositum in
nobis manifeste percipimus omnia
et universaliter percipientes. His ita
prealibatis, inquiunt veriores
perypathetici hunc intel- lectum
materialem esse formam
perpetuam ex utroque
latere, loquendo praecipue ad
intentionem philosophi et
commentatoris, unicamque
omnibus hominibus inesse,
ac minime generabilem aut corruptibilem
nec eductam de
potentia materiae. Amplius opinantur ipsam
facere per se
unum cum homine
constituto in esse per
cogitativam; et ponunt
quod intellectus ipse
non potest informare materiam
non informante cogitativa;
non enim stat materia
absque forma constituta
in esse per
eam ; nec
potest intellectus informare sine
sua proxima et
ultima dispositione, quae quidem
est cogitativa respectu
intellectus; unde, esto
quod cogitativa ipsa non
sit forma generica,
ordinatur nihilominus in intellectum propter
ipsius essentialem ordinem
ad ipsum. Nec econverso
potest cogitativa informare
materiam et ipso
quoque non informante intellectu;
positis enim informabili
ultimate disposito et ipso
informativo, necessario et
ipsa insurgit inforniatio
37. Est autem
materia informata cogitativa
informabile propinquum et ultimate
dispositum ad humanum
recipiendum intellectum; et sic
potest una formia
substantialis ad aliam
esse dispositio, dummodo forma
illa praeparans non
sit materiae ratio recipiendi. Adduntque post
haec hunc eumdem
intellectum primo et
ade- quate informare totum orbem
humanum; secundario vero
illius partes, ut scilicet
sunt individua hominis.
Nec
intellectui humano, quamvis sit
unicus et individuus,
pluribus dare esse
aeque primo hominibus, utputa
Socrati, Fiatoni, Ciceroni
et sic de
aliis, re- pugnat; in
via namque philosophi
et commentatoris constat intelligentias esse
individua, ut xii.
Primae Pìiilosophiae et in
libris De coelo;
et illa eadem
esse cum suismet
quidditatibus; unde
intellectus materialis, quum
sententia commentatoris, se- cundo
Physice auscultationis , infima
sit intelligentiarum, erit
et ipsa individuum et
sua quidditas; septimo
enim Methaphysicae, comm. xli,
et iii. De
anima, comm. ix
et x, in
abstractis a ma- teria non
differt quidditas ab
eo cuius est.
Intellectus igitur ma- terialis individuum erit
et singularis; ob
id tamen nihil
prohibet, licet intellectus ipse
sit etiam quidditas
universalis, dare esse hoc
et singulare homini,
ut iam dictum
est. Et sic
apparet quo- modo esse
hominis, in eo
quod homo, est
ultimo per hunc
intel- lectum, et quomodo difterentia
hominis, in eo
quod homo, su- mitur
ultimate ab hoc
eodem intellectu ;
et sic quoque
individuum ipsum humanum, idest
constitutum ex cogitativa
tanquam ex materiali, et
ex ipso intellectu
tanquam ex formali,
utputa Sortes vel Plato,
habent esse hoc
ad ipso intellectu
ultimate. A materia autem
divisa informabili cogitativa
dimensionibus mediantibus
informante, nascitur possibilitas
multiplicationis individuorum
sub eadem specie;
quae omnia propter
esse universale ipsius intellectus, ut
supra diximus, informari
possunt ab ilio,
et ab eodem sumere
esse suum verum
hoc et unum. Et
breviter autumant intellectum
ipsum primo esse
formam adequatam totius suae
sphaerae humanae; secundario
vero par- tium sphaerae,
ut particularium hominum,
hoc scilicet pacto quod,
inquantum quidditas, partiri
possit per materias
informatas dimensionibus et cogitativis,
inquantum autem individuum, est id esse per
quod individuum hominis
est hoc ultimate. Dicuntque praeterea
opinionem esse Averroys,
ut intellectus uniatur homini
non tantum ut
ars et motor
instrumento et or- gano, sed
etiam secundum operationem
et esse. Yocant
autem aliquid alteri
vmiri secundum esse,
quando illud habet
esse et nomen ab
eo; non autem
audiunt esse prò
operatione, iuxta illud '
vivere viventibus est
esse ', nec
prò esse educto
de po- 37 Questa
tesi si trova
alla lettera nei
Quolibeta de intelligentiis di Alessandro
Achillini (v. sopra,
pp. 206 e
246,), e il NiFO, De
intellectu, I, tr. 3, e. 18,
la dice tolta
dal trattato De
intellectu di Sigieri
(cfr. il mio Sig.
di Brab. nel
pens. ecc., p.
18 e p.
73). 302
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI tentia niateriae; sed
per esse intelligunt informationem quam corpori tribuit
intellectus. Dicunt etiam quod,
quando aliqua forma
unitur alicui mate- riae,
duo debemus considerare:
primum, prout ipsa
forma ma- teriam constituit
in esse, scilicet
prout forma materiam
informat eique nomen et
difììnitionem concedit simul,
prout ipsa forma
a materia sustinetur ac
ab ea dependet
in esse et
conservari secun- dum suum
genus causae, ac
etiam ab ea
in operari dependet; secundum autem
prout aliqua forma
aliquod subiectum sive materiam
in esse constituit,
ipsa tamen per subiectum vel
ma- teriam in esse non
constituitur, sicut se
habet intelligentia et orbis;
et huiusmodi asserunt
se habere rationalem
animam ad hominem, sive
ad orbem humanum
et suas partes,
ut iam dictum est.
Dat ante intelligere
hanc distinctionem Averroys,
Physicorum primo, comm. Ixiii,
ubi ait: '
Et quia coelum
caret hoc subiecto, ideo caret
forma quae substentetur
per hoc subiectum,
et fuit necesse ut
forma eius sit
liberata ab hoc
subiecto, et non
habet constitutionem per corpus
codeste, sed corpus
codeste consti- tuitur per illam,
ut scies alibi
' etc. Ex
quibus apparet aliquam esse
formam subiectum suum
tantum constituens, non
autem per illud constituta,
sicut est de
forma codi et
de anima intel- lectiva in
proposito nostro; alia
vero est forma
constituens su- biectum suum in
esse, ac per
illud ipsa quoque
in esse constituta» Hoc idem
dicitur in vili.
Physicae auscultationis, ex
comm. lii.... Illud idem
etiam et in
capite ii. De
substantia orbis.... Hanc
eandem sententiam possumus sumere
a commentatore iii.
De anima^ comm. V.
et comm. xx,
non minus quam
a Themistio, ibidem
in Paraphrasi sua de
anima. Caeterum quod
ista sit opinio
commenta- toris Averroys, ex
verbis suis intdligi
potest. Ait enim.... Nel
cap. IO, il
Taiapietra riferisce le
obiezioni che a lui
facevano gli altri
averroisti, i quali
ritenevano che per
Averroè r intelletto è
separato dall'uomo, sì
che « intentio
fuit commen- tatoris, quod
intellectus possibilis, licet
sit unicus in
omnibus hominibus, non tamen
proprie dat esse,
sed operationem, eo modo
quo dicunt aliqui
intelligentiam uniti coelo,
non dando ei perfectiones
primas, sed tantum
secundas, et hoc
modo anima ipsa intellectiva
unitur homini, secundum
commen- tatorem, mediantibus scilicet
fantasmatibus ». Ed
anzi tutto riferisce cinque
obiezioni ricavatedalle opere
dei vecchi aver- roisti. A queste
ne aggiunge ben
ventisette che gli
movevano i contemporanei, irritati
dal vedere la
dottrina d' Averroè interpretata in
modo così diverso
dal consueto :
« ex modernis autem inveniuntur
quos adeo positio
nostra in via
commen- tatoris fastidit, quod,
ut eam penitus
delerent, omne quasi possibile induci
contra illam attulere
», Nel riferire
questi argomenti, egli
usa sempre il
plurale « dicunt
», « volunt
» etc. Ma giunto
alla fine del
capitolo, abbandona il
plurale e addita un
certo dottore contemporaneo
di cui però
non fa il nome:
« Ex
his potissime vult
iste doctor colligere
positionem hanc contradicere fundamentis
Averroys expresse, ut
supra dictum est. Et
fortius et uberius
instetit iste homo
in hac materia,
quam aliquis alter quem
ego unquam viderim.
Et iudicio meo
multum laboravit hic vir,
sed frustra.... ».
E nel capitolo
successivo, rispondendo a queste
obiezioni, torna ad
accennare a costui {ad
vigesimum septimum): Et certe
sum admiratus de
isto homine qui aliquas
tam frivolas rationes
aduxerit ». Quasi con
certezza si può
ritenere che questo
dottore averroista che inveiva
contro quello che
egli riteneva un
travisamento delpensiero
d'Averroè, fosse Marcantonio
Zimara?^. Ad ogni modo
è indubbio che
la controversia non
era tra averroisti
e antiaverroisti, ma tra
averroisti e averroisti,
cioè tra primi cugini,
se non proprio
tra fratclh carnali.
Ed erano maestri dello
studio patavino: «Sed
post hos invenio
aliquos qui in gymnasio
publico patavino se
magnos philosophos faciunt, voluntque per
urbem digito ostendi
ac ab omnibus
observari; sed quo iure
non video »
(/&.). Alla spocchia
di questi «
chaco- averroyci expositores »
il Taiapietra oppone
la sua superba "1^ Cfr.
sotto, p. 340.
Marcantonio Zimara, che
nel 1505 de- dicava ad
Andrea Mocenigo, discepolo
del Pomponazzi (v.
sopra, p. 289) la
Quaestio de principio
individuationis , le Annotationes
in Ioannem Gandavenseni super
Quaestionibits Metaphysicae e
la Quaestio de triplici
causalitate intelligentiae (in
appendice alle Ouaesiiones
di Giov. di Jandun
sulla Metafisica, Venezia,
1505), era quello
che meglio rappresentava l'averroista
combattuto dal Taiapietra
(v. sotto, p.
34 ) sgg.). Non
è tuttavia da
escludere che egli
si riferisse direttamente
al Pomponazzi, che, discutendo
dell' immortalità dell'anima,
nel 1504, aveva combattuta
la dottrina sigieriana
in questi termini
(cfr. Kri- steller, 1.
e, p. gì) :
« Alia
est opinio quorundam
se averroistas existi- mantium, qui
dicunt quod anima
ita se habet
ad corpus sicut
forma ad materiam. Vult
autem opinio ista
quod fuerit de
intentione Averrois, animam intellectivam
esse formam dantem
esse ipsi corpori.
Formarum autem dantium esse
aliquae sunt constitutae
in esse per
subiectum et eductae de
potentia subiecti et
insunt ex mutua
dependentia ei; aliae vero
sunt quae nec
sunt constitutae in
esse per subiectum,
nec sunt eductae de
potentia subiecti, nec
insunt ei ex
mutua dependentia, tamen dant
esse ipsi subiecto.
Et talis forma
praesupponit corpus
organizatum actu existens,
et [non] inducitur
absque disposinone praevia, sed
praesupponit omnes conditiones
requisitas ». Le
stesse cose nel ms.
napol. Vili. E.
42, f. i84r.
Cfr. « Giorn.
Crit. Filos. Ital.
»,. XXXVII, 1958, p.
346. certezza di essere
nel vero :
« Et haec
et tanta dixi,
quia hanc viam ad
mentem commentatoris caeteris
subtiliorem et pro- babiliorem esse
existimo, ac ab
omni contradictione remo- tiorem
» (cap. 11). E più
oltre: «Et ista
est resoluta doctrina philosophi, et
panis non est
tradendus canibus »
(ib.). Nel mio studio
sulla diffusione del
commento di Simplicio al
De anima e
sulle ripercussioni ch'esso
ebbe nelle contro- versie della fine
del secolo XV
e di quello
successivo, ho di- mostrato che i
primi a trarne
profìtto furono Giovanni
Pico della Mirandola e
il Nifo, e
come l'uno e
l'altro, ma special- mente il secondo,
avessero trovato in
Simplicio una conferma del
loro averroismo di
marca sigieriana 39.
La quale opinione è
condivisa dal nostro,
che nel cap.
XII così scrive: Post
haec omnia invenitur
una alia opinio
quae Simplicio ascri- bitur,
qui ex intellectu
et cogitativa aggregai
animam rationalem, quasi ex
istis compositam, quae,
si recte intelligatur,
ad iiostram opinionem reducitur.
Puto enim quod,
quum ipse fuerit
unus ex bonis Aristotelis
expositoribus (ut omnes
graeci latinique philosophi de
ipso testantur), voluerit
cogitativam realiter di- stingui ab intellectu
; verum quoquo
modo rationalis anima
ex cogitativa et intellectu
componi dicitur, prò
quanto cogitativa omnino habet
introitum in essendo
animam hominis licet
non ulti- mate, et distinguendo
ipsum, ac ipsum
in specie non
ultimate reponendo. Et confirmatur
hoc, quia quae
ad invicem quoquo modo
vel vere componuntur,
ad invicem et
distinguuntur. NTon autem credo
Simplicium tenere cogitativam
et intellectum esse idem
realiter, secundum tamen
gradus distinctos, quoniam
tunc realiter essent plures
intellectus generabiles et
corruptibiles, sicut de cogitativis
evenit. Et hanc
sententiam confirmat Averroys, duodecimo Methaphysicae, comm.
xxxviii, ubi ait:
' Et ex hoc
quidem apparet bene
quod Aristoteles opinatur,
quod forma hominum, in
eo quod sunt
homines, non est
nisi per continua- tionem eorum
cum intellectu qui
declaratur in libro
de anima '. Unde
patet quod Averroys
vult quod differentia
hominis, in- quantum homo, ultimate
sit ab intellectu.
Hoc idem sentit
Aver- roys in Libro destruc.
desiruc, [disp. i],
in solutione dubii
xxxiii, et viii ibidem.
Quare etc...
Et sic etiam
verificatur quod intel- lectus is non
est actus corporis,
idest non est
forma educta de potentia
materiae ab agente
scilicet naturali, ut
testatur philo- sophus; ob
id tamen nihil
prohibet quod intellectus
ipse sit actus corporis, idest
forma informans corpus
et dans esse
corpori, ut supra iam
diximus.... Et ex his
habetur haec Simplicii
positio in via peripatheticorum optime
tirmata. 39 Vedansi più
oltre i saggi
XIII e XIV. Indi
il giovane maestro,
dopo aver fatto
vedere in che la
tesi d'Averroè sull'
intelletto possibile
differisca dalla dottrina di
Temistio e di
Plotino (cap. 13),
e dopo aver
risolte le obie- zioni degli altri
averroisti e degli
avversari dell'averroismo
(capp. 14-18), torna
ad insistere che
la sua maniera
d' inten- dere il pensiero d'Averroè
concorda in tutto
e per tutto
con quanto asserisce il
commentatore di Cordova
e, con lui,
pen- sano i migliori averroisti,
a capo dei
quali è Sigieri
(cap. ig) : Ecce
ergo qvio modo
vult ipse (Avwroes)
intellectum, inquan- tum
quidditas, partiri per
materias informatas dimensionibus et cogitativis;
inquantum vero est
individuum, esse id per quod individuum hominis
est hoc. Intellectus
ergo, ut habet
esse reale, est forma
suo orbi; ut
autem habet esse
intentionale et univer- sale, est materia
omnium intellectuum separatorum.
Et ista vi- detur
esse plana sententia
Averroys in hoc
quaesito, ut de
mente eius tenent praeclarissimi viri
et maxime, inter
alios, Subgerius,
praecipuvis averroysta. Et
iste fuit discipulus
Alberti et contem- poraneus Thomae,
et qui, in
quodam suo tractatu
De intellecttt adversus Thomam,
opinatur, in via
Averro^'S et philosophi,
in- tellectum materialem
esse formam perpetuam
ex utroque latere. Dal
modo come si
parla qui di
Sigieri, è evidente
che il Taiapietra aveva
presente il trattato
De intellectu del
Nifo che era stato
stampato a Venezia
nel 1503. Ma
mentre questi s'era già
separato dell'averroismo professato
a Padova nei suoi
primi anni d' insegnamento, il
giovane filosofo veneziano è
ancora perfettamente averroista,
e si direbbe
che dalle opere del
Nifo abbia attinto
soltanto quel che
gli serviva per
cono- scere il pensiero dell'averroista brabantino,
del quale si fa-
ceva difensore e propugnatore
dinanzi al capitolo
generale dei frati minori
a Roma, contro
le argomentazioni del
Nifo stesso ch'egli rintuzza. Il
secondo trattato del
secondo libro ha
per oggetto 1'
« ul- tima prosperitas et
beatitudo », ossia
1' £ÙSai!J.ovia aristotelica, intorno alla
quale dissertarono a
lungo gli averroisti.
Sigieri, a quanto riferisce
il Nifo, ne
aveva parlato in
un libretto De felicitate, ed
aveva sostenuto in
proposito forse le
sue più ardite tesi
40. Per Aristotele
il fine supremo
dell'uomo, in quanto uomo,
consiste nel pieno
appagamento del desiderio
che la 40 Nifo,
De intellectu, II,
tr. 2, e.
17; De beatitudine
animae, II, com- mento 21. Vedasi
il mio Sigieri,
cit., pp. 22-28,
e qui sopra,
pp. 215-16. 20 306 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI mente ha
di sapere, cioè
di conoscere la
realtà, non solo
nelle sue manifestazioni contingenti,
ma nelle sue
cause e ragioni eterne. Occorre
quindi che la
mente risalga, al
di là del
mondo sensibile e di
quel che nasce
e muore, all'eterno
e immuta- bile, al mondo
metafisico, al cui
centro è il
principio di ogni intelligibilità e
il fine ultimo
cui le cose
tutte tendono. Ma può
r intelligenza umana,
legata com' è
alla sfera della
sensibilità, giungere a conoscere
in se stessa
la pura realtà
ideale di Dio e
delle intelligenze motrici
intorno a lui
? Aristotele non dà
una soluzione chiara
di questo problema;
e perciò i
suoi com- mentatori greci ed
arabi l'avevano cercata
nel pensiero pla- tonico e
neoplatonico, elaborando quella
tipica dottrina della copiilatio della
mente umana con l'
intelletto agente, della quale
si fece un
necessario complemento dell'etica
aristote- lica. Se r intelletto
umano non fosse
capace d' innalzarsi a conoscere
in se stesse
le sostanze separate,
aveva detto Averroè nel
commento i al
secondo della Metafisica,
il desi- derio umano di
conoscere la verità
sarebbe vano, ed
inutile sarebbe l'esistenza di
tali sostanze che
noi non potremmo mai
arrivare a conoscere
nella loro vera
natura. È certo
in- teressante veder posto il
desiderio umano di
conoscere a fondamento dei
nostri giudizi intorno
alla realtà. Ma
a ciò non badarono
i pensatori medievali.
I quali si
sforzarono piut- tosto d'
intendere come la
conseguenza fosse dedotta
dalle premesse, contro S.
Tommaso che negava
la legittimità di questa
deduzione 4'. In
che modo giustificasse
la legittimità della deduzione
Sigieri, è fatto
conoscere dal Nifo,
al quale s' ispira anche
questa volta il
giovane patrizio veneziano
nel riecheggiare che fa
la dottrina sigieriana: Onod si
foret hominibus omnino
impossibile (conoscere in se
stesse le sostanze
separate e Dio)...,
tane natura ociose
egisset; fecisset enim id,
qnod est in se naturaliter
intellectum, non com- prehensum ab
aliquo, et sic
esset frustra, quemadmodum
si fe- cisset solem non
comprehensum ab aliquo
visu. Hanc sequellam diversi diversimode
deducunt; quidam enim
eam sic deducere consueverant. Supposito
primo quod omnis
intellectio, conve- niens intellectui
possibili, non conveniat
quin etiam homini competat, hoc
expresse sensit philosophus,
primo De anima, Lxiiii, quicquid
dicant alii; hoc
quippe supposito negato,
aufertur omnis via commentatori
ad probandum coelum
intelligere; quare 41 S.
Tommaso, In Metaphys.,
II, lect. i. si
possibile est substantias
separatas intelligi ab
intellectu possibili,
possibile est quoque
substantias separatas intelligi
ab hoc homine. Quo
stante, tunc arguunt
sic. Quandocumque aliqua
reperitur forma apta non
recipi in maximo
receptivo alicuius generis,
illa eadem non est
receptibilis in minus
receptivo eivisdem generis. Sed
intellectus possibilis in
genere intelligentiarum est
maxime receptivus, ut constat
iii. De anima 42.
Igitur si primam
formam non est possibile
intellectum possibilem recipere,
ncque etiam est possibile
alium intellectum primam
ipsam recipere formam. Unde
omnes frustrarentur intelligentiae mediae
ab hoc scilicet line, qui
est deum gloriosum
et sublimem intelligere.
\'erum quandocumque intellectus abstractus
non potest intelligere
su- periora, ipse non potest
intelligere inferiora; sed
nulla intelli- gentia media
potest primam intelligere,
ut iam deductum
est; igitur nulla intelligentia
media potest et
intelligentiam mediam intelligere ;
sed neque deus
" potest intelligentias medias
intelli- gere, ut Divinovum xii,
de mente Averroys
43 concluditur. Et neque
intellectus noster possibilis,
ut fatentur adversarii,
eas intelligere potest. Igitur
intellectus possibilis, naturaliter
in se intelligibilis, non
est ab aliquo
comprehensus; sic patet
ociositas maxima in natura.
Ex quo habetur
quod, nisi abstracta
intelli- gerentur a nobis,
essent utique ociosa.
Et haec fuit
deductio Subgerii 44, viri
in familia averroyca
non obscuri (Lib.
II, tr. 2, e.
3)- Ma il Taiapietra
sa che non
tutti gli averroisti
convengono nel modo di
argomentare di Sigieri;
dal quale dissente
in parti- colare Giovanni
di Jandun: Alii autem,
ut Ioannes Gandavensis
in Quaestionihus suis
de anima, quaestione trigesima
septima 45, aliter
deducunt. Et ipsi accipiunt primo
quod substantiae separatae
comparantur ad in- tellectum nostrum ut
formae natae intelligi;
intellectus vero noster comparatur
eis ut subiectum
natum recipere illas
comprehen- sive et spiritu aliter; quod
ex verbis Averro3^s
multis viis probari potest. Primo,
namque intellectus possibilis
ultimus est abstracto- rum; sed
semper infìmus intellectus
est materia superioris,
infima enim intelligentia perficitur
a superiori sicut
materia perficitur a forma,
ut dicunt philosophi.
Et confirmatur: quoniam
vilius est potentia respectu
nobilis, et nobile
est tanquam actus
respectu vilis; igitur, quemadmodum
substantiae separatae sunt
natae ntelligi secundum earum
naturas, ita noster
intellectus est natus 42
Arist., De anima,
III, t. e.
5 (e. 4,
^zgz, 21-24) e
14 (429b 30sgg.). 43
Poiché secondo Averroè,
Metaphys., XII, comm.
51, Dio conosce soltanto se
stesso e non
le cose inferiori
a sé. 44 Cfr.
NiFO, De intell.,
II, tr. 2,
e. 11; De
beat, an., I,
comm. 53. 45 O
meglio, « trigesima
sexta ». Ma
anche questa svista
è nel Nifo, De
intell., 1. e. 3o8
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI perfici ab eis
secundum suani naturain.
Amplius, intellectus
pos- sibilis est materia
omnium abstractorum et
omnium intelligi- bilium; sed.
materia non corruptibilis
ab ipsis formis
est apta et potens
suscipere omnes formas;
intellectus igitur noster
potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur igitur
prò constanti, quod intelligentiae sint
potentes intelligi ab
intellectu nostro potentia quidem
naturali; et similiter
intellectus noster potest intelligere illas
potentia naturali, sicut
et ipsa materia
potentia naturali potest omnes
suscipere formas. Quo
stante, arguit modo Ioannessic: intellectus
possibilis, corpori continuus,
est receptivus et passivus
intellectionis abstractarum [intelligentiarum] ; ergo
habet naturalem potentiam
recipiendi intellectiones earum,
per earum scilicet essentias;
ergo, si aliquando
per cognitionem non
at- tinget eas, tunc
natura egisset ociose,
quoniam fecisset illam
poten- tiam naturalem
intellectus nostri ad
illas capessendas, quae tamen
in actum nunquam
adduceretur. Et quod
haec sit Aver- roys
ratio, declarat ibidem
Ioannes exemplo eius. Et sic patet quomodo
Ioannes deducit illam
sequellam, exponendo totam potentiam intelligendi
ex parte nostri
intellectus, et non
ex parte intelligentiarum, ut
fecit Subgerius, qui
totam intelligendi po- tentiam
ad substantias separatas
convertit {ib.). La stretta
dipendenza dell'averroista veneziano
dal Nife, si rivela
oltre che dai
testi citati, anche
da un particolare
ca- ratteristico, là dove s'accenna
(cap, 5) a
quell'esposizione del
pensiero averroistico che
« veriores averroyci....
exceperunt a filio Averroys
in tractatu suo
De intellectu » 46.
Ma comunque interpretata,
la dottrina averroistica
sulla « copulatio »
e sulla «
felicitas Averroistarum »,
di cui era solito
beffarsi il Perette,
è evidentemente contraria
all' in- segnamento
teologico. Perciò il
Taiapietra s'affretta ad ag-
giungere : Verum quicquid dicatur
principiis innitendo naturalibus
ad mentem philosophi et
commentatoris, nihilominus secundum veram theologorum
sententiam dicimus nullam
generi humano in hac
vita contingere posse
foelicitatem et beatitudinem,
sed illam ei servari
post mortem in
alio statu. Viatori
enim non potest 46
NiFO, De intell.,
I, tr. 4,
e. 12:
«Amplius, filius Averroys
in tractatu de intellectu»;
II, tr. 2,
e. 5: «
Declaravit has tres
demonstrationes filius
Averroys in tractatu
de intellectu», cfr.
ib., e. ii; a
anche nei Collectanea III,
ad t. e.
36: «et hanc domonstrationem dedit
Alpheeh Averroys filius in
tractatu quem edidit
ad instantiam patris,
et eam multum laudavit
»; e più
oltre: « et
si inspicies librum
Alpheeh Averrois filij »;
e ancora più
giù: « Et
in commentariis, quos
scripsi in libro
feli- citatis Averroys et
eius filii ». inesse
foelicitas nisi in
patria, nec etiam
abstracta ab eo
cognosci possunt cognitione matutina,
sed tantum vespertina,
ut sacri nostri recte
sentiunt theologi (cap.
5). Con siffatta dichiarazione, egli
ha ottenuto il
duplice scopo, di rassicurare
i teologi sulle
proprie intenzioni, e
di poter di- scutere con tutta
libertà intorno al
vero pensiero del
filosofo e del commentatore.
E di questa
libertà, procacciata a
prezzo di quella dichiarazione, approfitta
nel modo piìi
ampio, atte- nendosi al famoso
commento 36 del
terzo libro del
De anima. Anzi tutto,
coll'esporre e criticare
la dottrina di
Alessandro intorno al modo
come l' intelletto umano
giunge ad unirsi con
r intelletto agente,
che per l'Afrodisio
è Dio (capp.
6-11), e quella di
Avenpace e di
Temistio (capp, 12-14);
poi con lo spiegare
e difendere la
tesi che ad
essi oppone Averroè,
« qui inter omnes
philosophos post Aristotelem
perfectior fuit et subtilior
» (cap. 15).
Nei capp. 17
e 18 il
Taiapietra combatte r interpretazione che
del pensiero d'Averroè
dava Giovanni di Jandun,
il quale «
opinatus est quod
foelicitas nostra con- sistat
in actu sapientiali,
et sit sapientia
quae habetur Divi- normn
xii, a textu
commenti xxix usque
in finem ».
Come si vede la
fehcità in siffatta
teoria era a
portata di mano:
per quanto astrusa, la
Metafisica aristotelica non
è poi inintelli- gibile, e sopra
tutto abbastanza facile
a capire è
la parte del XII
libro che parla
appunto delle sostanze
separate che muo- vono i
cieli, e della
pura mente di
Dio. Ma il
possesso delle scienze speculative
non basta alla
suprema felicità dell'
in- telletto umano, occorre l' inerenza
formale del primo
vero nella mente umana,
la cui potenza
resti così tutta
attuata. Il possesso delle
scienze speculative è
condizione per giungere a
questa beatitudine dell'
intelletto, non il
fine ultimo cui aspira
la mente umana,
che riposa solo
nel possesso del
vero eterno « fuor
del qual nessun
vero si spazia
». Ora a
questo possesso s'arriva soltanto
con la coptilatio
o continiiatio del- l' intelletto possibile
con l' intelletto agente,
sì che la
poten- zialità del primo sia
tutta sommersa e
assorbita nell'attualità del secondo
: Ipse (commentator) , commento
xxxvi (3ÌÌ De
anima) totiens allegato, inquit
quod in adeptione
illa nos intelligimus
omnia et sumus sicut
dii, et quod
ille modus intelligendi
non -currit cursu scientiarum cogitativarum, quae
habentur per discursum, sed 3IO l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI est per
substantiam intellectus agentis,
in quo omnia
intuitive cognoscimus.
Convincitur ergo ad
intentionem commentatoris, quod ea
in cognitione intuitiva
nos utique foelicitamur;
non autem in illa
quae in Metaphysica
per demonstrationem habetur {ib., cap.
i8). Del tutto aderente
all' interpretazione sigieriana
del pen- siero d'Averroè, quale
ci è nota
per l'esposizione che ne fa il
Nifo 47
e che concorda
con quanto pensava
Alessandro Achil- lini 48,
è anche l' interpretazione che
della « vera
dottrina » del commentatore
ci dà il
Taiapietra: Superest modo circa
ambiguitatem hanc magni
commenta- toris afferre
sententiam, quam omnes
viri sublimes in
philosophia ac in secta
averroyca primarii nobiscum
integre et perfecte
sen- tiunt. Opinamur enim
itaque foelicitatem esse
deum. Nam as- sumpta
foelicitatis diffinitione prò
maiori, tunc si
addatur haec minor, videlicet:
sed deus est
ultimus finis, optimus,
propter se eligibilis, ad
nullum aliud ordinabilis,
cuius gratia omnia
eli- guntur, bonus et
perfectus, pulcherrimus, delectabilissimus, per se
sufficiens, honorabilis, principium
et causa omnium
bonorum; ex his ergo
optime convincitur, quod
deus est foelicitas.
Foeli- citas enim,
quia rationem totius
boni amplectitur, omnem
quietat voluntatem; quia vero
rationem totius entis
continet, universum saciat intellectum.
Sed
in nullo nisi
in deo verius
reperiuntur ratio totius boni
et totius entis.
Ergo etc 49.
Et hoc forte,
et sine forte, balbutiendo
intellexerunt vetustiores ;
nec valet quod dicunt
quidam moderniores, quod bene
concluditur deum esse foelicitatem simpliciter,
sed non homini
propriam.... Sed profecto hoc
nihil est, ut
piane ostendimus in
superiori capite: hanc
enim conclusionem habent Averroes
et Aristoteles expresse,
x. Nicho- machiae, capite
vii, scilicet quod
deus est foelicitas
sibi et aliis intelligentiis et
etiam homini 5°.
Solum enim ipse
est perfectis- siinum intelligibile
et appetibile propter
se; in eo
enim eminenter reperitur ratio
obiecti intellectus et
voluntatis, immo solum
ipse est eminenter omnia
bona continens. Et
confirmatur, quoniam id quo
foelicitantur dii omnes
est suprema hominis
et omnium foelici- tas; sed deus
est quo omnes
foelicitantur; omnes enim
intellectus foelicitantur
intelligendo deum; sed
intellectio qua ipse
deus intelligitur est ipse
deus; igitur omnia
deo foelicitantur. Et haec
ratio tota est
philosophi, x. Nichomachiae,
cap. x. Quare conclu- ditur quod deus,
ipse formaliter est
foelicitas. Amplius, quo
foe- 47 Cfr. il
mio Sigieri, p. 24.
48 V.
sopra, pp. 213-215. 49
Alla lettera dal
Nifo, De intellectu,
II, tr. 2,
e. 2. 50 Allude
forse al passo
àeWEtìi. Nicom., X,
e. 7, ii77b
30-32, forse meglio al
cap. 8, ii78b
21-32, e al
cap. 9, ii79a
23-32. licitatur deus, foelicitantur
et alii omnes
intellectus, ut expressa est
sententia philosophi, Divinorum
xii, et praecipue
commen- tatoris, ibi, comm.
xxxviii. Sed deus
non foelicitatur nisi
dee, ut inquit vii.
Politicoruni : '
deus foelix quidem
est et beatus, propter nullum
autem extrinsecorum bonorum,
sed propter seipsum ipse'51.
Deo, ergo, nedum
homo, sed omnia
foelicitantur. Sed nihil foelicitatur
nisi foelicitate. Deus
igitur ipsa est
foelicitas. Et ex hiis
verifìcantur omnia verba
Aristotelis in toto
libro Ethi- coriim, ubi
de foelicitate sermonem
habet (cap. ig). Giunto
alla fine del
secondo trattato, il
giovane filosofo, rendendosi ben
conto che siffatta
felicità è irraggiungibile al- l'uomo in
questa vita, torna
ad avvertire il
lettore che tutto quello
che abbiamo udito
da lui su
questo argomento, ad
altro non mirava se
non a chiarire
qual è in
proposito il vero
pen- siero d'Aristotele e
d'Averroè: Hoc enim, in
explanandis auctoribus, expositoris
officium esse consuevit, ita
quod, quid ipse
velit auctor, et
determinet et ad verbum
interpretetur, etiam si
illud falsum sit,
ut auctorum integrae et
non manchae, fideles
et non depravatae
sententiae circa quaeque apud
omnes recipiantur5-. His
autem sacri nostri 51
Poi. (ediz. Immisch.
Leipzig, Teubner, 1929),
VII, e. i,
i323b 24 sgg. 52 Così
anche il Nifo
nella lettera all'
inquisitore Nicolò Grassetto, della quale
è stato fatto
cenno sopra p.
285, nota 12
: «in exponendis
enim auctoribus,
commentatoris officium solet
esse, quid ipse
auctor velit ac sentiat,
etiam si id
interdum minime verum
sit, interpretari ». Di questo che
è non solo
diritto ma dovere
di ogni interprete
onesto, si valsero tutti
gli averroisti per
esporre con la
massima libertà il
pensiero d'Ari- stotele e dei
suoi interpreti. Ma
il Nifo, per
entrare nelle buone
grazie dell'inquisitore,
aggiunge: « Itaque
ut in illis
quae ad philosophiam pertinebant, philosophi
ac interpretis munere
functi, ipsum auctorem exposuimus; ita
in his quae
fidei catholicae contraria
erant, ultra expo- sitoris terminos evagati
(quemadmodum hominem christianum
decebat), ipsi auctori contradicimus
eiusque opiniones ac
dieta omnia theolo- gorum
nostrorum auxilio confutavimus
» (quello che
il Taiapietra e in
generale gli averroisti
non fanno). Del
che l'inquisitore gli
dà atto: « placetque mihi
quod in philosophia,
christianae fidei non
immemor, in plurimis philosophos
redargueris, nihilque in
toto opere invenerim quod castigatione
dignum censeam »
(in fine del
volume che contiene il
commento del Nifo
alla Desfritctio e
il De sensu
agente, nell'ediz. ve- neziana del 1497).
Di questo zelo
nel redarguire e
confutare le dottrine dei
filosofi ancora di più che nel
commento alla Destriictio,
il Nifo fa mostra
nel De intellectit,
riveduto e corretto
per l'edizione del
1503, ove è evidente
il proposito di
rifarsi una verginità
filosofica antiaver-
roistica, adoprandosi a far credere
che il suo
distacco dall'averroismo
risalga al 1492
e preceda quello
del suo maestro
Nicoletto Vernia: « Hec
sunt que preceptor
defendit ad mentem
Platonis et Aristotelis theologi iuxta
christianam nostrani religionem
multa addunt, quae nos
ex testimonio prophetarum
credimus; et ideo
ea tantum asserta esse
volumus, non quaerentes
ad liaec aliquam
rationem, sed quantum ortodoxa
ecclesia praecipit, procul
dubio asseveramus. Itaque, ut
philosophum decet ac
peripatheticum hoc in
tractatu quae ad philosophiam
pertinebant, more phisici
interpretis, declaravimus, ubi non
parum boni fecisse
arbitramur, quum multa in
naturali philosophia obscura
et latentia iuxta
senten- tiam philosophi et
eius magni commentatoris
Averroys in lucem ediderimus et ea bene
dispositis aperte propalavimus
(cap. 21). A questo
secondo trattato ne
seguono altri quattro,
concer- nenti rispettivamente
quattro argomenti di
filosofia naturale
fieramente controversi tra
gli aristotelici delle
varie tendenze, e cioè
: « Utrum
nec ne apud
philosophum plures substantiales formae ad
invicem realiter distinctae
in substantiali composito sint ponendae
» (tr. Ili)
; « Utrum
ad intentionem philosophi dementa remaneant
formaliter in mixto
» (tr. IV) ; «
Utrum simplex elementum alterari
possit et a
se » (tr.
V) ; «
De quo- rumcunque simplicium
sive mixtorum primo
ac proprie dicto elemento »
(tr. VI) ;
e su tutti
e quattro questi
argomenti il Taiapietra difende
con risolutezza ed
energia la dottrina d'Averroè come
quella che combacia
perfettamente coli' in- segnamento di «
quello glorioso filosofo
al quale la
natura più aperse li
suoi segreti», come
pensava Dante 53. Ma
di sif- fatti argomenti il
nostro palato, che
ha assaporato Hume e
Kant, non ha
più il gusto,
che non hanno
perduto invece i neotomisti,
ai quali è
giusto che queste
pagine siano segnalate. Tale il
programma che l'allievo
dei maestri padovani
aveva preparato per la
solenne disputa romana
del 6 giugno
1506. A parte l'accenno
abbastanza vago che
Marin Sanudo fa
del- l'obiezione del
cardinal Gabrielli ad
una delle tesi
sostenute dal dottorando, perché
« l'era ereticha
», non sappiamo
a quali altri assalti
dovette tener testa
il giovane averroista veneziano; sappiamo
soltanto che egli
giostrò da bravo
e che il giorno
appresso « il
papa lo dotoroe
». O tempora
! in eo libello
quem inscripsit De
animorum pluralitate, quem
confecit compluribus annis post
nostrum De intellectti
librum » (Nifo,
De anima, edizione del
1522, comm. al
t. 5 verso
la fine). Eppure
il Nifo sapeva bene
che il Vernia,
nella dedica dell'opera
al card. Domenico
Grimani, aveva dichiarato di
avere scritto anch'egli
il suo trattato
nel 1492. Cfr. sopra,
p. 108. 53 Conv.,
Ili, V. 7. Nel
volume su Sigieri
di Brabante nel
pensiero del Rinasci- mento italiano, ebbi
a riunire alcune
importanti testimonianze intorno a
due e forse
tre scritti dell'averroista brabantino,
che si leggevano ancora
a Bologna e
a Padova alla
fine del se- colo XV.
Queste testimonianze si
trovano per la
massima parte nel De
intellectn et daemonibiis
di Agostino Nifo,
il quale pre- tende d'avere scritto
quest'opera a Padova
nel 1492, quando già
s'era distaccato dall'averroismo sigieriano
cui egli aveva prima
aderito. E pare
che in quegli
anni, se non
proprio nel 1492, prima
certo del 1497,
egli avesse scritto
davvero una Quaestio de
intellectu in senso
sigieriano, e che
in seguito, fra il
1496-98, per evitare
la taccia di
eresia e guai
maggiori, rielaborasse
quella Quaestio, sino a farne
il trattato De in-
tellectu, stampato per la
prima volta nel
1503, e dedicato
a Sebastiano Badoèr morto
appunto nel 1498:
che di edizioni anteriori non
esistono tracce (cfr.
sopra, p. 286).
In tal mo- do il
Nifo cercava di
far credere che
egli aveva preceduto
il suo maestro Nicoletto
Vernia nell'abbandono dell'averroismo (cfr. sopra,
p. 311, n.
52). Nel De intellectu
e nel commento
al De animae
beatitudine di Averroè, il
Nifo si riferiva
a due opere
di Sigieri o,
com'egU scriveva, « Sugerius
», « Suggerius
», « Subgerius,
vir gravis, secte Averro3^stice
fautor, etate Expositoris
[cioè di S.
Tom- maso] , discipulus Alberti
», « Subgerius
contemporaneus Tho- me ».
Queste due opere
sono un «
tractatus de intellectu, * Dal
«Giorh. Crit. d.
Filos. Ital. »,
XXXV, 1956, pp.
204-209. 314
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI tertio loco inscriptus,
qui fuit missus
Thome, prò responsione ad tractatum
suum contra Averroim
», e un
« liber de feli-
citate » che pare
identico col «
tractatus intelligentiarum et beatitudinis »,
ricordato dallo stesso
Nifo nei suoi
Colledanea sul De anima,
nell'edizione veneziana del
1503 e in
quella del 1522, nelle
quali « Subgerius
» è diventato
« Subiegius » (si
vedano le citazioni
nel mio volume,
pp. 18-30). Ma
nel suo trattatello De
primi motoris infinitate,
portato a termine
nel 1504, quando da
cinque anni aveva
lasciato Padova, il
Nifo sembra attribuire a Sigieri un
terzo trattato « de motore
primo et materia celi»
(cfr. il mio
voi. cit. p.
41). L'espressione « in
tractatu suo de
intellectu, tertio loco inscripto »
potrebbe intendersi di
un volume di
scritti sigie- riani, ove
il « tractatus
de intellectu »
si trovasse trascritto al
terzo posto fra
altre opere dell'averroista belga. Delle
varie dottrine attribuite
a questo Sugerius
o Subgerius dal Nifo,
due giova qui
ricordare: quella che
tende a mettere in
evidenza il procedimento
deduttivo onde Averroè
aveva concluso che, se l'
intelletto umano non
potesse intendere le sostanze
separate, queste sarebbero
inutili {ociosae. Cfr,
sopra, pp. 215-16) ;
e l'altra che
afferma che ogni
intelligenza in- feriore « intelligit
sviperiorem per essentiam
superioris », ossia in
quanto l' intelligenza superiore
l' informa di sé
intenzio- nalmente e
s'unisce ad essa
(v. sopra, pp.
195-198). Orbene: quanto alla
prima di queste
due tesi, sappiamo che
il domenicano Francesco
Silvestri da Ferrara,
nel suo commento alla
somma Contra gentiles
(III, cap. 45,
n. 5), l'attribuisce a « Rugerius
in tractatu suo de intellectu,
misso Beato Thomae prò
responsione ad tractatum
suum contra Averroistas ».
In un primo
momento, avevo pensato
(vedasi il mio voi.
cit., p. 23)
che il Silvestri
dipendesse dal Nifo
e che « Rugerius
» fosse un
errore di stampa
per « Sugerius
». Però avevo aggiunto
: « ma
può darsi che
egli citi da
un mano- scritto in cui
il nome di
Sugerus. era già
stato mutato in Rtigerius. Qualche luce
viene ora a
gettare su questa,
che non è
affatto una quisquiglia, l' importante
notizia nella quale
mi sono imbattuto scorrendo
il codice Marciano
(Lat., CI. VI,
271 = 2882), che
contiene le Annotationes
in jo UJjro
de anima lectae in
hoc anno qui
fuit 1521, die
vero iovis quae fuit 2^
mensis ianuarij, ah excellentissimo ac
celeberrimo domifio Ioanne
de Mofìtedocha hyspano, unum
(sic) trium sui
temporis philoso- phoriim peritissimo,
trascritte fra il
1523 e il
1524 dal padovano Aurelio Tedoldi,
dottore nelle arti,
« ad laudem
dei — dic'egli
— et meae amicae
quam maxime amo
» (f. 256 v)
! i. Giovanni Montesdoch,
spagnolo, aveva studiato
a Bologna, e nello
studio bolognese aveva
insegnato filosofia naturale
in concorrenza col Pomponazzi
fino all'anno scolastico
1514-15, e per alcuni
anni aveva letto
anche la Metafisica.
Ma in seguito a
contrasti che ritengo
egli avesse col
Pomponazzi -, lasciò Bologna e
andò a insegnare
a Roma. Da
Roma appunto, per un
ingaggio vantaggioso propostogli
dall'ambasciatore veneto
Marco Minio, passò
a insegnare filosofia
naturale a Padova, verso
la fine del
1520, o i
primi di gennaio
dello stesso anno 1520
(secondo lo stile
veneziano; quindi 1521),
iniziando il corso delle
lezioni con la
lettura del commento
averroistico al De anima.
Nella lez. 43^,
sul t. e-.
14 del terzo
libro, egli venne a
porsi appunto il
dibattuto problema, come
un' intel- ligenza inferiore conosca
le intelligenze superiori
ad essa. Dopo aver
riferite varie opinioni,
egli accennava a
quella « moderna »
sostenuta dall'Achillini, che l'
intelligenza in- feriore conosce quella
superiore « per
essentiam superioris ». Siffatta
tesi, osservava il
Montesdoch, può dirsi
« moderna » solo
in quanto alcuni
moderni, come l'Achillini,
se la sono appropriata. Ma
prima di loro
e' è stato
Ruggiero : 1 Cosi
anche nel Marciano
lat., CI. VI,
273 = 2884,
che contiene le lezioni
dello stesso Montesdoch
sul primo e
il secondo della
Fisica, del 1523-24, il
Tedoldi che le
stava trascrivendo nel
1526, interrompe la 16*
lez. sul secondo
libro, con questa
informazione autobiografica
(f. 365r) : « Et
sic sit finis
huius lecturae nostrae
prò praesenti anno
1522, quae fuit die
mercuri] 8^ mensis
augusti et hora
ii'^ ad laudem
dei et beatae mariae
[atque amicae meae
quam maxime amo,
quia hodie] hora 19^
[habui eam in
brachiis meis.... 1».
Le parole tra
parentesi quadrate son coperte
d' inchiostro e solo
alcune appena leggibili.
Sotto è un quadrato
che doveva contenere
un motto o
un piccolo disegno.
Ma anch'esso è stato
coperto d' inchiostro nero.
E alla fine
della lezione 66» sul
primo libro del
De caelo, commentato
dal Montesdoch nel
1522 (Cod. Marciano lat.,
CI. VI, 272
= 2883), il
Tedoldi, che la
stava co- piando nella primavera
del 1524, annota
(f. 272V) :
« Sed quia
hora est nimis tarda,
et quia maxime
crucior amore meae
amicae, ideo valde fessus
cogor non amplius
scribere ». 2 Tanto
che, lasciata Bologna
da un pezzo,
il Montesdoch conservava ancora del
Peretto un ricordo
disgustoso. Nel commento
infatti al proemio della
Fisica (lez. 6*,
f. i6r) fa
menzione di lui
come « nimis monstruosus », e troppo
grossolani ne dichiara
i ragionamenti: «
dicit rationes nimis grossas
». 3l6 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI Alia positio
et opinio est
quae est opinio
non moderna, dato quod
moderni eam sibi
tribuant. Sed ante
eos fuit Rogerius; fuit magnus
vir, cuius opera
non habentur impressa,
nec vidi ea nisi
in bibliotheca sanati
dominici de bononia,
et ea etiam vidi
romae in sanato
Ioanne de viridario.
Fuit etiam opinio
Ioannis de ripa; tamen
Alexander Achillinus sibi
eam tribuit, quomodo
2^ intelligentia intelligat primam
(Ms. Maraiano cit.,
f. 138V) 3. Che
questo « Rogerius
» sia il
« Sugerius »
o « Subgerius
» di cui parla
il Nife non
v' è dubbio.
Ma l' importanza di
questa informazione del Montesdoch
consiste nell' averci egli
indicato dove aveva visto
le opere di
questo « Rogerius
» sostenitore della dottrina
che l'Achillini spacciava
per sua. Queste
opere non ancora stampate,
bensì manoscritte, erano
state viste da lui
a Bologna, nella
biblioteca del convento
domenicano di S. Domenico,
e dipoi a
Padova, nella biblioteca
del mona- stero di S.
Giovanni in Verdara
dei Canonici Lateranensi. Veramente nel
ms. Marciano si
legge : «
et ea etiam
vidi romae in sancto
Ioanne de viridario
w ; ma
è evidente che
al posto di «
romae » deve
leggersi « paduae
» (supponendo che il nome
di Padova fosse scritto
con l' iniziale maiuscola,
l'errore di let- tura si
spiega facilmente) ;
a meno che
non debba leggersi «
romae [et] in
sancto Ioanne de
viridario ». Quanto al
codice veduto a
S. Domenico di
Bologna, par- rebbe trattarsi di
quello usato da
Francesco Silvestri che, come
abbiamo visto, ne
ritenne autore, anch'egli,
« Rogerius», che si
ha ragione di
ritenere identico a
« Sugerius ».
Questo codice non figura
affatto nei cataloghi
di S. Domenico
pubbli- cati dal p. M.-H.
Laurent [Fabio Vigili
et les hibliothèques
de Bologne au début
du xvie siede
d'après le ms.
Barb. latin 3185, 3
E nella lez.
30^ (f. q^v)
lo stesso Montesdoch
aveva detto: «Una est
opinio Ioannis de
ripa, cuius opera
sunt bononiae in
conventu sancti lacobi, qui
est fratrum Eremitarum.
Et ipse bene
intellexit opinionem
averrois in hoc
loco, sicut aliquis
alius.... Omnia autem
[ab] Ioanne de ripa
accepit Alexander Achilinus ».
Come risulta dall'opera
del p. Laurent, citata
più oltre, il
commento al primo
delle Sentenze, cui
qui si allude, era
posseduto non solo
dalla biblioteca del
convento di S.
Gia- como (p. 132, nn.
77 e 79),
ma altresì da
quella di S.
Domenico (p. 27, n.
92) e da
quella di S.
Francesco (p. no, n. 21).
In questo scritto (quaest. 2)
non solo Giovanni
da Ripatransone si
dilunga in ben
quattro articoli sul tema
qui accennato, ma
ci offre un'ampia
esposizione del suo modo
d' intendere la dottrina
averroistica sulle intelligenze
sepa- rate e suir intelletto
umano, molto vicina
e spesso identica
a quella di Sigieri. in
«Studi e Testi»,
105. Città del
Vaticano, 1943). Dove è an- dato a
finire e come
è scomparso ?
Siccome esso fu
visto dal Silvestri, che
nel 1516, proprio
a Bologna nel
convento di S. Domenico,
aveva portato a
termine il suo
commento alla somma Cantra
gentiles, e dal
Montesdoch, si può
pensare che esso sia
stato fatto sparire
come opera d'averroista
inviso ai domenicani, che
l'averroismo ritenevano una
pericolosa eresia, a differenza
di altri, per
esempio degh eremitani
e dei carme- litani, assai meno
ligi al tomismo.
Tanto più che
nel 1494 Alessandro Achillini,
come ricorda il
Montesdoch, aveva fatte sue
le dottrine dell'averroista brabantino,
pur evitando di nominarlo,
nella pubblica disputa
tenuta al capitolo
generale dei frati minori,
nella primavera avanzata
di quell'anno (v. sopra,
pp. 195-98) 4. Quanto
all'esemplare che il
Montesdoch dichiara d'aver visto
nella biblioteca di S. Giovanni
in Verdara, a
Padova, ho avuto il
sospetto che esso
potesse essere una
copia di quello di
Bologna, ordinata da
Giovanni Marcanova, negli
anni che questi insegnava
a Bologna, e
quindi passata al
monastero di Verdara insieme
alla biblioteca di
lui. Ma dallo
studio di L. Si-
ghinolfi, che della
biblioteca del Marcanova
ha pubblicato r inventario
(nei « Collectanea
variae doctrinae »
in onore di Leone
S. Olschki, Monaco
di Baviera, 1921,
pp. 187-222), non risulta.
Questo per altro
non vorrebbe dir
molto, perché spesso r
inventario è assai
generico e contiene
non pochi nu- meri di
opere anonime, fra le quali
potevano ben trovarsi incastrate quelle
di Sigieri. Al
notaio premeva più
di elencare il numero
dei volumi che
non il loro
effettivo contenuto, con- tentandosi d'un' ispezione
molto superficiale, che spesso rende difficile
riconoscere l'esatta natura
di opere appena accennate con
titoli piuttosto vaghi,
anche senza contare
i non pochi errori
di trascrizione commessi
dal Sighinolfi. Si potrebbe
pensare, è vero,
che gli scritti
di Sigieri fossero entrati per
altra via che
non fosse quella
del legato testamen- tario del Marcanova.
Ma è sicuro
che essi non
figurano nel- l'elenco che il
Tomasini redasse dei
manoscritti di Verdara nelle
Bibliothecae Patavinae maniiscriptae
puhlicae et privatae 4
Ma potrebbe anche
darsi che l'opera
di Sigieri restasse
scono- sciuta o fosse dimenticata
dal Vigili, poiché
il suo catalogo
è lungi dall'essere completo. 3l8 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI (Udine, 1639),
^ nemmeno in
quello manoscritto della
Marciana (Ital., ci. XI,
323 = 7107);
sì che bisogna
rassegnarsi a pen- sare che, già
prima del secolo
XVII, gli scritti
di Sigieri fos- sero ormai spariti
anche dalla biblioteca
dei Canonici regolari Lateranensi di
Padova. In questa biblioteca,
ch'era assai ricca,
non mancavano com- menti ad
Aristotele e trattazioni
concepiti, queste e
quelli, secondo lo spirito
averroistico. V'era, fra
l'altro, l'ampia esposizione del
servita Urbano Averroista
sul commento d'Averroè alla
Fisica, che il
Marcano va aveva
fatto copiare a sue
spese a Bologna,
nel 1456, in
due grossi volumi
corretti e postillati di
sua mano. Quando,
nel 1492, a
Venezia, l'opera d' Urbano
fu data alle
stampe su un
vecchio codice bolognese per
volontà del priore
generale dei Serviti,
Antonio Alabanti, dietro suggerimento
di Nicoletto Vernia,
questi s'accorse e fece
notare che il
codice trovato dall 'Alabanti conteneva
la stessa esposizione alla
Fisica, che nella
copia di S.
Giovanni in Verdara era
attribuita al Marcanova
(cfr. sopra pp.
103-104). Ma l'osservazione del
Vernia passò inosservata;
e anche quan- do dal
monastero padovano il
codice passò alla
Marciana, nei cataloghi di
questa l'opera d' Urbano
restò attribuita al
Marca- nova, sebbene nelV explicit
sia detto (Lat.,
CI. VI, cod.
104, colloc. 2815, f.
58orv) che il
nome dell'autore non
si conosce: « cuius
nomen non habetur
« 5. Ed alla
stessa biblioteca di
S. Giovanni in
Verdara e ai Ca-
nonici regolari Lateranensi, che
abitavano quel monastero, era particolarmente affezionato
l'averroista maestro Nicoletto Vernia, il
quale, gravemente ammalato,
il 2 novembre
1478, faceva testamento a
loro favore e,
qualche anno dopo,
faceva ad essi donazione
dei suoi libri
(vedasi sopra, p.
115). Per quella volta
la negra Parca
lo risparmiò, lasciandogli ancora più
d'un ventennio, per
il piacere dei
suoi colleghi ed alunni,
per le sue
filosofiche speculazioni e
per diverse marachelle non
precisamente filosofiche. Ma
quando sentì ^ A
proposito dell'opera d' Urbano, che
nel prologo dell'edizione del 1492
si dice cominciata
il primo d'aprile
1334 (cfr. sopra,
p. 103), gioverà avvertire
che il p.
R. M. Taucci,
de' Serviti, /
maestri della fac. teolog.
di Bologna, in
« Studi stor.
sull' Ord. dei
Servi di Maria
», I. 1933. PP-
31-34. osservando che
l'unico maestro servita
di nome Urbano fiorì
nell'ultimo decennio del
sec. XIV e
nei primi quattro decenni del
sec. XV, propone
di correggere la
data 1334 in
1434. che la morte
stava ormai per
ghermirlo, il 3
agosto 1499 dettava le
sue ultime volontà,
in Vicenza, lasciando
ancora tutti i suoi
libri, « omnes
libros graecos et
latinos », ai
Canonici re- golari
Lateranensi del monastero
di S. Bartolomeo
di quella città, perché
fossero posti nella
loro biblioteca, e
chiedeva altresì d'esser sepolto
nella loro chiesa
(v. sopra, pp.
108 e 126). Nella
biblioteca di S.
Giovanni in Verdara,
a Padova, par- rebbe dunque che
il Nifo, discepolo
del Vernia, avesse
letto le tre opere
da lui citate
e attribuite al
« grande averroista
» Sugerius o Subgerius,
ov'egli dichiara d'avere
attinta la dot- trina, un tempo
da lui seguita,
sul modo come
l'intelletto possibile,
unico per tutti
gli uomini, s'unisce
ai singoli e può
dirsi vera forma
« dans esse
homini » (v.
sopra, pp. 208-10). Lo
stesso Nifo, nel
commento alla Destructio
destructionum, apparso per la stampa
nel gennaio 1497,
accenna ad una
di- scussione avuta col conte
della Mirandola, mentre
« in corbula
» si recavano a
Bologna (I, 8
; v. sotto,
p. 376). Ritengo
che questo viaggio avvenisse
gli ultimi giorni
di maggio 1494.
Per la Pente- coste di quell'anno,
in occasione del
capitolo generale dei
frati predicatori tenuto a
Ferrara, c'era stata
una solenne disputa pubblica alla
presenza del duca
Ercole I, e
il giovane dome- nicano Tommaso de
\'io, venuto apposta
da Padova ove
inse- gnava Metafisica,
s'era trovato di
fronte Giovanni Pico
della Mirandola, il quale
gli aveva mosso
niente meno che
cento obiezioni (cfr. Mortier,
Histoire des Maitres
Généraux de l'ordre des
fr. Precheurs. t. V, Paris,
1911, p. 143).
Pochi giorni dopo, verso
la fine del
mese di maggio,
anche i frati
minori aduna- rono a Bologna
il loro capitolo
generale e, secondo
il costume, diramarono inviti
ai maestri e
ai dotti delle
città vicine che avessero
desiderato partecipare alla
disputa pubblica che si
sarebbe tenuta, more
solito, in quell'occasione. A
Bologna sarebbe sceso in
lizza uno dei
maestri dello studio
che già cominciava a
far parlare di
sé per la
sua serrata dialettica
e per certa nuova
maniera d' intendere l'averroismo.
L' invito doveva solleticare il
battagliero conte della
Mirandola e il Nifo,
che verosimilmente era
accorso da Padova
alla disputa nella quale
era campione un
suo collega. E
penso che tutti
e due insieme sian
partiti da Ferrara
per trovarsi alla
disputa che il jo
giugno, seconda domenica
dopo Pentecoste, l'Achil- lini avrebbe
tenuto a S.
Francesco in Bologna. E
quale non dev'essere
stata la sua
sorpresa nel sentire
che maestro Alessandro Achillini
discettava intorno alle
Intelli- genze, da quella del
Primo Motore che
è puro atto,
giù giù fino air
intelletto possibile umano
che è pura
potenza, e con grande
risolutezza e abilità
dialettica faceva sua
la dottrina averroistica di
quel « Sugerius
», del quale
anch'egli aveva letto gli
scritti che a
Padova si conservavano
in S. Giovanni di
Ver- dara, ove ritengo
li avesse visti
e letti anche
il Signore della Mirandola. Questa
risolutezza del collega
bolognese deve averlo tanto
più meravigliato, che
a Padova il
decreto vescovile del 1489
aveva assai limitato
la libertà di
giostrare sull'unità dell' intelletto
umano, ed egli
e il Vernia
si vedevan costretti a
dissipare i sospetti
che si nutrivano
su loro come
averroisti. Nel trattato De
intellectii, scritto dal
Nifo col proposito
fin troppo palese di
rifarsi una verginità
antiaverroistica, in gara con
maestro Nicoletto, si
direbbe ch'egli prendesse
di mira i Quolibeta
de inielligentiis, pur
senza nominare l'autore
di essi, delle cui
dottrine svelava la
fonte negli scritti
di Sigieri, dal- l'Achillini taciuta. Il
nome di Marcantonio
Zimara, largamente diffuso
nel se- colo XVI, è
strettamente legato alla
storia dell'aristotelismo, e in
particolare di quella
corrente che fu
l'averroismo, anzi di uno
speciale indirizzo di
questo in contrasto
con altri indi- rizzi che si
reclamavano ugualmente da
Averroè, il Commen- tatore per eccellenza
d'Aristotele, l'arabo Averrois
di Cordova « che
il gran commento
feo ». Invece
il nome del
figlio di lui, Teofilo,
è rimasto presso
che sconosciuto, fra
gli storici della filosofia italiana.
Peggio : uno
di questi che
di recente ha
dedi- cato al pensiero italiano
del Rinascimento tre
grossi volumi, Giuseppe Saitta,
essendogli accaduto di
metter la mano, senza
volerlo, sul massiccio
e diffuso commento
di Teofilo Zimara, «
Marci Antonii F.
», al De
anima, ha attribuito quest'opera al
padre, ignorando l'esistenza
del figlio. E fin
qui poco
male. Ma egli
s' è spinto
assai più in
là ; che
non pare si sia
reso conto che,
mentre Marcantonio è un averroista schietto e
tutto d'un pezzo,
il figlio al
contrario combatte apertamente l'averroismo
e propugna un
platonismo cristia-
neggiato, che, divenuto
di moda tra
gli umanisti dopo
Marsilio Ficino, si proponeva
di conciliare Aristotele,
liberato dal- l'esegesi
averroistica, con Platone,
con Plotino, con
Proclo e con Simplicio.
E questo è
il male peggiore
che poteva capi- tare a
Teofilo, che cioè
il grosso volume
dedicato al cardinale Guglielmo Sirleto,
e dal quale
s'attendeva qualche fama, non
solo gli fosse
tolto, ma ne
fosse travisato il
pensiero, col ravvicinarlo all'averroismo.* Già
pubblicato negli «Atti
del IV Congresso
Storico Pugliese».
(«Archivio Storico Pugliese»,
Vili, 1955). Sono
stati apportati alcuni notevoli ritocchi. Ma
anche intorno a
Marcantonio Zimara accade
di leggere nei libri
di storia della
filosofia grossi spropositi,
che mi pro- pongo di
correggere, raccogliendo quello
che di certo
si sa in- torno a
lui e al
figlio e intorno
alle loro opere.
Ben inteso, non si
tratta di richiamare
l'attenzione dello storico
su due astri di
prima grandezza o,
come si direbbe
oggi, su due
fi- gure di primo piano
nel complesso panorama
del nostro Ri- nascimento: si tratta
soltanto di mettere
nella giusta luce due
onesti pensatori che,
pur senza elevarsi
gran che sulla coltura
del loro tempo,
meritano di non
esser dimenticati, perché di
quella coltura sono
eminentemente rappresentativi. I. -
Marcantonio Zimara. Di lui
sappiamo con certezza
che il 30
luglio 1501, a ore
13, sosteneva a
Padova la discussione
preliminare al dottorato in
artibus, ossia fece
il tentativum nella
chiesa di S. Urbano,
ove da un cinquantennio soleva
riunirsi il «
Sacro Collegio degli Artisti
e Medici»; e
che una settimana
dopo, il venerdì 6
agosto, a ore
20, nell'aula solita
d'esami in Vesco- vato, sostenne il
privatum examen e
conseguì il grado
di dottore in artibus.
Il filosofo e
medico Pietro Trapolin
gli conferì le insegne
del grado a
nome del Sacro
Collegio. Tutto questo
è perfettamente documentato dagli
atti del Collegio
stesso (voi. 319), nell'Archivio
antico dell' Università
di Padova, e dagli
Ada graduum presso
l'Archivio di quella
Curia vescovile (voi. 47,
f. i62r). Da
notare: presenti come
testimoni al giu- ramento e al
dottorato erano Pietro
Pomponazzi e Tiberio Bacilieri; il
primo ritornato da
poco a Padova,
ove insegnava filosofia naturale
come ordinario primo
loco, il secondo
ve- nuto via da Bologna
per contrasti coi
colleghi, e straordinario della stessa
materia. In questi
atti. Marcantonio è detto figlio «
quondam Nicolai Zimara
de Sanctopetro de
Galatina terre Hydrunti ». Altra
cosa certa è
ch'egli potè fare
gli studi di
filosofia a Padova grazie
all'aiuto dello zio
materno Pietro Bonuso, prelato della
chiesa di S.
Pietro in Galatina,
al quale il
1° ot- tobre 15 13 dedicò
l'edizione dei Subtilissima
Hervei Natalis Britonis Quodlibeta
undecim cum odo
ipsius profundissimis tradatibus
, da
lui curata per
l'editore veneziano Giorgio
Arri- vabene. Anche nella
dedica della Quaestio
de primo cognito (Venezia, 1508)
a Marcantonio Contarini,
figlio di Carlo,
ac- cenna espressamente a questo
zio : «
Petro Bonusio, pro- presuli, avunculo, qui
me semper eque
ac filium carum
habuit fovitque, cuique non
minus quam parenti
mee animam hanc debere
me libens profiteor
». Baldassar Papadia i
lo dice nato
da povera e
oscura gente intorno al
1470: e cita
in proposito un'
Epistola ms. di
Fran- cesco M. Vernaleone, che
esisteva a suo
tempo presso i Signori
Caroti. Sulla scorta
della Quaestio de
regressu E xcellen fissimi
Domini Marci Antonii
Zimarea (nell'Ambrosiana di
Milano, Cod. S. Q.
+. II. 36,
ff. 232V-236V), fui
indotto, nella prima edizione di
questo saggio, a
supporre un primo
soggiorno pa- dovano,
anteriore al 1490,
perché l'autore di
quella Quaestio accenna più
volte a discussioni
avute con Maestro
frate Fran- cesco da Nardo,
che insegnava Metafisica
a Padova «in
via Tho- mae», mentre
frate Antonio Trombeta
insegnava la stessa
disci- plina « in via
Scoti », e
che morì il
17 luglio 1489
(cfr. A. G. Erotto
e G. Zonta,
La facoltà teologica
di Padova. Padova, 1922,
pp. 195-197): «Ad
argumenta praeceptoris magistri Francisci de
Nardo, dico...; sed
advertatis quod praeceptor meus antequam
ingrederetur ad scolas
ad legendum, allo- cutus
fui eum supra
hoc, ....et dixit
mihi » (f.
135V). Ma pili tardi,
visto il codice
della Nazionale di
Napoli, Vili. E. 42,
che contiene il
commento del Pomponazzi
ai primi due libri
del De anima
datato 1514, ma
certamente dell'anno scolastico 1508-1509,
e il commento
dello stesso Peretto
al terzo libro, del
1504, m'accorsi con
mia sorpresa che
quella Quaestio, attribuita allo
Zimara nel codice
Ambrosiano, non è affatto
di questo, sibbene
del suo maestro,
il mantovano Pietro Pomponazzi,
che più volte
ricorda d'essere stato
di- scepolo del tomista di
Nardo. Quindi cade
l' ipotesi di un
sog- giorno dello Zimara a
Padova, prima di
quello indicato dal Papadia,
il quale dice
che lo zio
materno, Pietro Bonuso, «
r inviò adulto
a Padova ».
Forse intorno al
1495 o poco
dopo. Fra i venticinque
e trent'anni, egli
poteva dirsi veramente adulto. E
se a Padova
giunse quando erano
già morti Fran- cesco da Nardo
e Pietro Roccabonella,
vi trovò tuttavia maestri provetti
che godevano già
di gran fama
o giovani che erano
sulla via di
procurarsela: il faceto
Nicoletto Vernia, I Memorie
storiche della città
di Galatina, Napoli
1792, pp. 57-58. 324 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI averroista spregiudicato, finché
il vescovo di
Padova, Pietro Barozzi, col
decreto del 6
maggio 1489 non
l'obbligò a ravve- dersi, Pietro Trapolin,
anch'egli averroista, ma
ben più mo- derato e
guardingo, gli scotisti
Antonio Trombeta e Mau-
rizio Ibernico, il Peretto
Mantovano che già
rivelava una spiccata tendenza
a ribellarsi all'averroismo di
moda, il vi- centino Antonio Fracanziano,
concorrente del Pomponazzi, Tiberio Bacilieri
che a Padova
professava l'averroismo di marca
sigieriana del quale
a Bologna era
acerrimo propu- gnatore
Alessandro Achillini. Agostino
Nifo aveva lasciato con
gran disdegno lo
Studio patavino fin
dall'estate del 1499, non
sappiamo se malcontento
dello stipendio o
per dissensi coi colleghi.
E il 4
ottobre dello stesso
anno il Vernia
moriva, e la sua
cattedra venne appunto
coperta col richiamo
del Peretto, cui fu
dato a concorrente
il Fracanziano. Di questi
maestri, il Trapolin
fu primo promotore
del dot- torato in artihus
del « Sanpetrinate
», come lo
Zimara amava chiamarsi; ma
di lui non
ho trovato cenno,
né in bene
né in male, nelle
opere dell'alunno \
Del Pomponazzi invece
parla spesso; sebbene il
rispetto per il
precettore non gì' impedisca di combatterlo
su varie dottrine,
e di pigliarlo
di mira più volte
in modo assai
vivace nella Tabula
dihicidationum in dictis Aristotelis
et Averrois, e
particolarmente nella Quaestio de
immortalitate animae. Del
Bacilieri combatte la
tesi che identifica l' intelletto
agente con Dio,
che egli attribuisce, come fa
anche il Pomponazzi,
ai « bononienses
». Al Trom- beta accenna anche alla fine
delle Annotiones sul
settimo della Metafìsica di
Giovanni di Jandun
: « in
his omnibus subtilissime repraehenditur Ioannes
a praeceptore meo
Ma- gistro Antonio Trombeta
nostre aetatis in
metaphysicae speculationibus
viro emeritissimo»; nei
Theoremata, iii: « An-
tonius Trombeta excellens
in scientia divina
et preceptor meus venerandus
» ; e
nella Quaestio an
gravia et levia
etc. del ms. Magliabechiano, XI,
67, segnalatomi dall'amico
Eu- genio Garin: « quantumcumque, ut
dicebat magister meus Trombeta, Franciscus
de Neritono dixerit
» (f. 23r).
Che egli poi avesse
a maestro anche
Maurizio Ibernico è
attestato dal francescano Girolamo
Girelli sulla fine
del suo trattato De
speciebus intelUgibilibus diretto
contro lo Zimara:
« Ipse 3 Su
di lui, V.
sopra, il saggio autem
forte erravit propter
amorem magistri sui,
qui fuit Mauritius Hibernicus
». Non sappiamo con
certezza quand'egli cominciò
a insegnare come lettore
pubblico; poiché le
lezioni In primuni
Posteriorum del Cod. Ambros.
D. log inf.,
ff. i7r-29r, potrebbero
essere state tenute privatamente
o anche pubblicamente
in anni precedenti al
dottorato in filosofia,
come mi risulta
essere intervenuto a Padova
per il mantovano
Benedetto del Triaca (1494), per
Lorenzo dal Molino
di Rovigo (1499)
e per Fran- cesco Trapolin, figlio
di Piero (1501).
In fine della
nona le- zione sul primo
libro degli Analitici
Posteriori (f. 28r)
accade di leggere questo
curioso invito in
versi: Scire volunt onines,
niercedem solvere nemo: hoc
dixit noster qui
claret in orbe
Zimarra. In catedra manens,
dixit prò omnibus
una: solvite, precor, omnes,
si vultis doceri. In
domino testor, magnum
sumpsisse laborem; hac prò
doctrina, propriam vendidisse
casellam. E in margine
: « Quare
vobis dico :
si librum Posteriorum vultis ut
aperiam, solvite, praecor,
omnes ». Ma non
dovette passar molto
dalla laurea, che
fu assunto alla «
lettura » straordinaria
di filosofia naturale.
Intanto, per procacciarsi da
vivere e poter
continuare gli studi,
curò per gli eredi
di Ottaviano Scoto
l'edizione delle Quaestiones in duodecim
II. Metaphysicae di
Giovanni di Jandum,
arric- chendola di citazioni e
note marginali. L'
edizione scotina, licenziata il
1° di febbraio
1505, oltre alle
note marginali, recava in
appendice alcune opere
originali che possiamo
con- siderare tra le prime
del nostro, anteriori
a questa data. La
prima è una
diffusa Quaestio de
principio individua- tionis ad
intentionem Averrois et
Aristotelis, di ben
venti co- lonne. Essa è
dedicata « Magnifico
ac excellenti artium
Doctori domino Andreae Mocionigo
Patricio Veneto ». Questo (( M.cus
et Doctissimus vir,
D. Andreas Mocenico, natus M.ci
et Cl.mi D. Leonardi,
filli olim Serenissimi
prin- cipis Venetiarum D.
Jo. Mocenici »,
era stato proclamato dottore in
artihus, il sabato
12 agosto 1503,
nella cattedrale di Padova,
con grande solennità,
come s'addiceva al
suo alto rango, «
assistentibus M.cis et
Cl.mis dominis Thoma
Mo- cenigo praetore, patruo,
et Paulo Trivisano
equite praefecto 326 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI urbis [Paduae],
avunculo, et aliorum
praestantissimorum doctorum,
scholarium, civiiim et
praelatorum corona, per Rev.um
D. Episcopum [il
bellunese Pietro Barozzi],
eius domino Vicario recitante
». E ciò
dopo essere stato
esaminato « per Venerandum
Collegium artium et
medicinae Doctorum », e
« post longas
lucubrationes et scholasticos
labores et publicas disputationes ac
varia virtutis et
doctrinae suae experimenta
». Primo promotore del
dottorato era stato
Pietro Trapolin, che anche
questa volta conferì
al neo dottore
le insegne del grado.
Nella dedica lo
Zimara parla del
nodo d' indissolubile
amicizia che lo
legava al Mocenigo.
In realtà erano
stati am- bedue alunni del
Trapolin e del
Pomponazzi, insieme al
« go- beto »
Lorenzo Venier, ad
Antonio Surian e
a Gaspare Con- tarini,
« artium scholares
», i quali
nel verbale del
dottorato del Mocenigo figurano
da testimoni (v.
sopra, p. i68). Nella
stessa dedica il
nostro accenna al
turbamento del suo animo
per le notizie
che gli giungevano
da S. Pietro
in Gala- tina, saccheggiata
dal ritorno nel
1504 delle milizie
spa- gnole per cacciarne le
francesi: « Pluribus
profecto quam pro- miseram
magnifìcientiam vestram speculationibus donassem, nisi iniqua
fortuna patriam meam
Sanctum Petrum de
Gala- tinis, hispanis militibus
populationi dedisset ». Alla
Quaestio de principio
individuationis tengon dietro
le Annotationes in Ioannem
Gandavensem super Quaestionihus Metaphysicae eleganter
discussae in via
Aristotelis et sui
magni commentatoris
Averrois, anch'esse dedicate
ad Andream Mo- cionigum.
Su molti punti
lo Zimara aveva
ripreso con sem- plici note marginali
il modo come
Giovanni di Jandun
espone il pensiero d'Averroè.
Ma su altri
punti le sue
riserve esige- vano maggiore spazio
che non fosse
quello d'una breve
nota; perciò aggiunse al
volume questa seconda
appendice, ove espone con
ben maggiore ampiezza
le ragioni del
suo dissenso dall'averroista di
Jandun, la cui
interpretazione della dottrina averroistica aveva
suscitato aspre critiche
da parte degli averroisti padovani
e bolognesi, tanto
che Giovanni Pico
della Mirandola giudicava che
egli, « ferme
in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam
Averrois corrupit omnino et
depra- vavit » {Conclus.
secundum Avenroem, 3).
Intento di queste Annotationes è
dunque quello di
stabilire qual è
il vero pen- siero del commentatore
di Cordova. Ma nel far
ciò, il filosofo di
Galatina si diffonde
talora sino a
riesaminare a fondo
l'argomento discusso e
a scrivere un
vero e proprio
trattato, come fa a
proposito della questione
12^ del terzo
libro, in una disquisizione di
ben oltre 26
colonne. Una terza appendice
è formata dalla
Quaestio de triplici causalitate intelligentiae , concernente
la natura, la
dipendenza e la finalità
delle intelligenze celesti
« secundum Aristotelis
et sui Commentatoris Averrois
sententiam », problema
dibattu- tissimo dal secolo
XIII al XVI,
intorno al quale
lo Zimara, come già
Sigieri di Brabante,
difende la causalità
efficiente di Dio contro
quegli averroisti che,
come l'eremitano Gre- gorio da
Rimini, la negavano.
Una frase in
principio: «vidi plures tempore
meo, 1502, philosophantes »,
parrebbe indi- care che la
Quaestio fu scritta
in quest'anno. Con questo
volume, stampato nel
1505 e che
si diffuse ra- pidamente in tutta
Europa, Marcantonio Zimara
di San Pietro in
Galatina in terra
di Otranto si
presentava agli stu- diosi di
filosofia come un
interprete agguerrito e
acuto del pen- siero d'Aristotele e del suo
grande e fedele
commentatore Averroè, in un
momento quando il
suo maestro e
dipoi avver- sario, il mantovano
Pietro Pomponazzi, non
aveva ancora stampato una
sola riga. Non
tutti accettarono, si
capisce, l'esegesi
dell'Otrantino, com'era chiamato
a Padova, anzi molti
presero a impugnarla,
su questo o
quell'argomento; ma a nessuno
era consentito ignorarla. Nello stesso
anno in cui
curò l'edizione della
Metafisica dell'averroista
di Jandun, ne
preparò altresì quella
delle Quae- stiones super
Parvis Naturalibus, per
lo stesso editore
vene- ziano, dedicandola a Bartolomeo
Montagnana, iunior, pro- fessore di medicina
nello Studio patavino
e appartenente a una
celebre famiglia di
medici padovani. La
qual dedica m' indurrebbe quasi
a sospettare, che
egli si stesse
preparando al dottorato in
medicina, adulando con
lodi sperticate, come era
d'uso, un membro
del « Sacro
Collegio degli Artisti
e Medici », che
aveva il diritto
di farsi «
promotore » della
« gra- zia », del
« tentativo »
e infine dell'
« esame privato
», nonché quello di
conferire le insegne
dottorali al candidato. In
appendice a questo
volume, lo Zimara
stampò la Quaestio de
moventis identitate et
moti ad intentionem
peripateticorum subtiliter
et resolute Patavii
discussa, e la
dedicò al giovane «
Giovanni Cristoforo Capitani,
figlio del chiarissimo
medico Pietro», per riconoscenza
dell'appoggio che ne
aveva avuto: 328 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI « cui
denique quicquid dignitatis
in Patavino gymnasio
nuper assecutus sum, uni
acceptum refero ». Dello
stesso periodo, perché
ricordata nelle Solutiones
del 1508 {Super III
de anima, 1^
Contr. sul comm.
5) è anche la Quaestio
qua species intelligihiles ad
mentem Averrois defen- duntur
ad Magnificum patritium
Venetum Anfonium Surianum, pubblicata s.
1. da Francesco
Storcila il 12
gennaio 1554, e incorporata
nel Tractatus adversus
quaestionem M. Ant.
Zi- marae de speciehus
intelligibilihus (Venezia, 1561)
del fran- cescano Girolamo Girelli
che era stato
alunno del Pompo- nazzi.
Lo Zimara prende
risolutamente posizione contro l'Achillini, il
quale aveva negato
le famose «
specie intelli- gibili », d'accordo
in ciò col
carmelitano inglese Giovanni
di Baconthorpe e con
Enrico di Gand.
Dell' Achillini dice anzi quel
che Averroè {De
caelo, III comm.
67) aveva detto
d'Avi- cenna, « quod videlicet
parvitas exercitationis ipsius
viri in naturalibus et
bona confidentia in
proprio ingenio deduxit ipsum
ad maximos errores
». L'argomento era
stato discusso a Padova
nel corso del
1505 dal Pomponazzi,
il quale non si
mostrò meno aspro
contro l'Achillini; e
proprio Antonio Surian ce
ne ha tramandata
la quaestio nel
codice ms. della Bibl.
Naz. di Napoh,
Vili. D. 81
(ff. 83r-84r). Un'altra
e pili ampia riportazione
si trova in
altro ms. della
stessa Bi- blioteca, Vili. E.
42, ft. I95r-20ir. Dalle controversie tra
i vari interpreti
d'Averroè, trassero
vantaggio gli avversari
dell'averroismo, per insinuare
che il « gran
commento » formicolava
di contradizioni, e
che neppure Aristotele ne
era immune. Sebbene
il Pomponazzi non
ri- fuggisse dal dirsi talora
« averroista »
o « commentista
», nel senso che
egli, seguendo una
consuetudine di Padova
e di Bologna, leggeva
il testo d'Aristotele
e il commento
d'Averroè che lo accompagnava,
e sulla parafrasi
e discussione dell'uno e
dell'altro conduceva la
lezione, non di
meno, con tutto
il rispetto per l'uno
e per l'altro,
non esitava a
mettere in evi- denza le
incertezze e le
contradizioni del commentatore,
al quale non risparmiava
le sue critiche
e i suoi
sarcasmi. Di- scepolo del Peretto
mantovano, lo Zimara,
che per diversi anni,
dal 1500 al
1505, ne aveva
seguito le lezioni,
si propose di scolpare
tanto Averroè quanto
Aristotele dalle contradi- zioni ad essi
attribuite e di
mostrare che esse
potevano, con qualche sottile
distinzione, risolversi nel
modo più plausibile. Nacquero così,
fra il 1505 e il
1508 le Solutiones
contra- dictionum in dictis
Averrois che nella
prima redazione uscirono, precedute dalla
Quaestio de primo
cognito, a Venezia,
il 1° luglio 1508,
con dedica al
patrizio veneziano, «
magnifico Marcoantonio
Contareno magnifici domini
Caroli filio », al
quale il
Pomponazzi dedicherà nel 15
16 la
prima stampa del De
immortalitate animae, e
che nel 1508
era ancora un
« gio- vane », sebbene
versatissimo negli studi
della filosofia aristo- telica. Pochi giorni
prima gh aveva
dedicato i trattati
logici di Aristotele col
commento d'Averroè, da
lui curati per
gli eredi di Ottaviano
Scoto (Venezia, 1508,
20 giugno). La Quaestio
de primo cognito
si riallaccia alle
lezioni dello Zimara sul
prologo della Fisica
aristotehca (I, t.
e. 2-5, e. i,
i84a 16
sgg.). L'autore di
essa discute ampiamente
e critica le interpretazioni che
del testo aristotelico
avevano dato il Burleo
e Gregorio da
Rimini, dalla parte
dei « nominales
», poi quelle di
Duns Scoto e
di S. Tommaso,
e infine oppone
ad esse quella che
giudica più conforme
al commento d'Averroè. Le
Solutiones sono opera
composta a tavolino,
« succisivis horis ac
tumultuarie ». Ma
che lo Zimara
prendesse di mira in
particolare il Peretto,
del quale si
tace il nome,
è messo in evidenza
dalla lettera, stampata
al f. 46r
del volume, coli'
in- testazione « Sylvius Laurentius
a portu caballensis
clarissimo artium et medicine
doctori Marco Antonio
sanctipetrinati et
hidruntino, ere publico
in Gymnasio patavino
philosophiam profitenti », la
quale porta la
data « ex
patavio, idibus Junij a
Natali cristiano M.
D. VII ».
Questo ammiratore e
forse discepolo dell'otrantino ricorda
appunto, che «
Petrus man- tuanus noster
philosophantium nunc primi
fere nominis, pu- blico auditorio profiteri solet,
hoc Averroi esse
genuinum, ut, cum implicita
omnibus viribus nervisque
explicare contendit et adnititur,
maxime implicat, eoque
fertur, diffidente con- scientia, quo
denique ipsum impetus
errabunde opinionis impellit ».
Del che egli
pensa fossero da
incolpare gli ama- nuensi e
gli stampatori del
commento averroistico, per
incuria dei quali circolava
nelle scuole pieno
di errori. Ma non
soltanto al Pomponazzi
intendeva opporsi lo Zi-
mara, sì anche a
Giovanni di Jandun,
a Gregorio da
Rimini, al Burleo, ad
Alessandro Achillini e
al Bacilieri, che,
a suo avviso, con
errate interpretazioni, facevano
cadere in con- tradizione il commentatore
arabo. 330
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI Il Pomponazzi, che
non condivideva con
lo Zimara e
l'Achil- lini la fiducia
nell' infallibilità d'Averroè,
scrollava le spalle ed
osava negare la
stessa fiducia perfino
ad Aristotele, pur ritenuto
da Dante «
maestro e duca
de l'umana ragione
», e dagli averroisti
« regula in
natura et exemplar
quod natura invenit ad
demonstrandum ultimam perfectionem
humanam ». Le contradizioni
di Averroè avevano
il loro fondamento
in non poche contradizioni
del testo aristotelico,
che si facevano sempre più
palesi con le
nuove traduzioni del
periodo uma- nistico. Perciò intorno
al 1530, lo
Zimara riprese in
mano il libretto, e
ne preparò un'edizione
più completa, con
l'aggiunta di nuove contradizioni
ch'egli s'adopra a
risolvere, associando nel titolo
alle contradizioni del
Commentatore quelle del
Filo- sofo: Solutiones
contradictionum in dictis
Aristotelis et Averrois. Dalla lettera
di Silvio Lorenzo
da Porto appare
che nel- l'anno scolastico 1506-1507
Marcantonio Zimara, dottore
non solo in artibus
ma anche in
medicina (non sono
però in grado di
dire in che
anno egli sostenesse gli
esami in questa
materia), professava
pubblicamente filosofia naturale
nello studio pa- tavino, occupando evidentemente
una delle due
« letture » straordinarie col
modico stipendio di
47 ducati d'argento, secondo il
Facciolati [Fasti gymn.
patav., p. II,
274), ed è naturale
che aspirasse ad
esser promosso alla
« lettura » or-
dinaria. Ora a metà
settembre 1508 era
rimasta vacante la «
lettura » ordinaria
« secundo loco
» che per
due anni aveva tenuto
Alessandro Achillini, richiamato
sulla sua cattedra
a Bologna (v. sopra,
p. 259). Se
la cattedra vacante
fosse stata as- segnata al «
Sanpetrinate », questi
sarebbe venuto ad
essere il «concorrente» diretto,
cioè l'antagonista, del
Pomponazzi, che oc- cupava la
cattedra ordinaria «primo
loco», e da
due anni, seb- bene non
fosse cittadino padovano,
era stato aggregato
al « Sacro Collegio
degli Artisti e
Medici » della
città. Ma per riuscire
ad avere il
posto ambito lo
Zimara avrebbe dovuto vincere le
ostilità che si
era creato colle
polemiche ingaggiate contro il
Peretto, il quale
godeva di grande
stima nello Studio patavino, e
contro l'Achillini, del
quale era ben
vivo il ricordo. Provvedere a
coprire la cattedra
ordinaria rimasta vacante era
compito del Senato
veneziano; e gli
aspiranti s'eran dati da
fare per procacciarsi
autorevoli appoggi fra
i membri di questo,
che ne discusse
nella riunione del
21 ottobre 1508. Le
proposte fatte furon
tre o quattro.
Marin Zorzi propose Marco
Antonio della Torre,
« fiol dil
quondam missier maistro Hironimo da
Verona, qual à
leto e leze
in philosophia. Misier Alvise
Pixani, savio a
terra ferma, messe
di condur missier Marco
da Otranto, che
etiam leze in
philosophia extraordi- narie
». Zorzi
Emo propose «
il Sexa che
è a Napoli,
o ver il Toseto
», cioè Ludovico
Carensio, detto il
Toseto, padovano, ma che
da diversi anni
insegnava filosofia a
Ferrara, e che nel
15 17 ritornerà in
patria a ricoprire
una delle cattedre
di medicina. È interessante vedere
che fra gli
aspiranti era anche
« il Sexa »,
cioè Agostino Nifo
da Sessa, il
quale aveva già
coperto la cattedra ordinaria
di filosofia «
primo loco »
a Padova, fino al
1499, e n'era
partito, a quanto
pare, per litigi
coi col- leghi. Ora egli
non cessava di
brigare per tornarvi,
ma preten- deva uno stipendio
che il senato
veneziano non era
disposto a pagargli. Leonardo
Anselmi, console di
Venezia a Napoli, informava di
lì a poco,
che il Sexa
« voj vegnir
a Padova a lezer
im philosophia. El
qual dice voi
ducati 500 e
non mancho, perché dice è il
primo homo dil
mondo, e a
Napoli leze et medica;
sì che non
havendo ditti danari,
non voi vegnir» (M.
Sanudo, VII, col.
678). Ma appena
qualche giorno dopo
si dichiarava disposto a
venire per 400
ducati all'anno, con ferma
di tre anni.
Queste manovre del
Nifo dovettero esser note
al Pomponazzi, che
nel già citato
commento al De
anima del 1508-9 prese
ad attaccarlo con
rinnovata virulenza. Dopo Zorzi
Emo parlò Polo
Pisani. Vista la
difficoltà di addivenire a
un accordo e
di far prevalere
il suo candidato, Alvise Pisani
ripiegò sulla proposta
« de indusiar
», e così «
fu presa la
indusia, di 8
ballote » (M.
Sanudo, Diarii, VII, col.
653), e lo
Zimara dovette rassegnarsi
a rimanere alla «
lettura » straordinaria. Né mi
consta che egli
fosse promosso nel
quinquennio immediatamente
successivo. La guerra
contro la lega
di Cam- bra! ebbe gravi
conseguenze per lo
studio padovano. Il 6
giugno 1509, le
truppe imperiali al
comando di Leonardo Trissino entrarono
in città, e
lo stesso giornopare venisse a morte
Pietro Trapolin. Per
il momento, cioè
per qualche mese, il
turbamento dell'ordine pubblico
non fu grande;
si tennero ancora esami,
e il Pomponazzi,
per esempio, figura
ancora come promotore in
un dottorato del
2 luglio. Il peggio
venne dopo, quando
i veneziani il
18 luglio rioc- 332 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI cuparono il
castello, e cominciarono
i saccheggi e
le vendette contro coloro
che di buon
animo o contro
voglia s'eran com- promessi coi «
tedeschi ». Una
delle famiglie maggiormente colpite fu
quella dei Trapolin.
Alberto e Roberto,
fratelli del filosofo, furon
presi prigionieri nella
riconquista del castello. Ma
già due giorni
prima le loro
case e quella
di un altro
loro fratello, Nicolò, furono
saccheggiate. Ed anche
la casa di
Pietro, che era nella
contrada di san
Leonardo, non lontano
dai Car- mini, non fu
risparmiata, i suoi
scritti dispersi, e il figlio
Giulio il 14 agosto
fatto prigioniero e
spedito a Venezia
con altri compa- gni (v. sopra,
p. 172). Il
governo veneziano fu
abbastanza cle- mente con molti
di coloro che
s'erano sottomessi al
dominio im- periale su Padova;
ma fu implacabile
con quattro dei
maggiori responsabili di favoreggiamento, che
il sabato i^
dicembre 1509 mandò al
capestro: «Primo era
Alberto Trapolin, fo
fradello di misser Pietro
dotor excellentissimo, el
qual Alberto era di
XVI al governo
di Padoa, homo
di gran inzegno,
et anche suo avo
fo apichato a
Padoa a tempo
di la novità
di misier Marsilio di
Carrara dil 1437.
Il secondo era
Lodovico Conte.... Il terzo
Bertuzi Bagaroto, dotor,
qual lezeva puhlice
in iure canonico.... Il
quarto, Jacomo da
Lion, dotor, el
quale fé' la oration
a l' imperator, quando
se deteno i
padoani, ne la
qual dice gran mal
de' veneziani» (M.
Sanudo, IX, col.
358; v. sopra, p.
174). Fu in questo
periodo di rappresaglie
e specialmente quando alla
fine di settembre
le truppe imperiali
tornarono ad as- sediare la città,
che molti cittadini
si allontanarono da
Padova e insieme ad
essi molti maestri
dello Studio. Fra
questi cer- tamente anche il
Pomponazzi, il quale
sulla sua cattedra
di Padova non fece
più ritorno. E Marcantonio
Zimara ? Si
dice da alcuni
che lo Studio rimanesse chiuso
per otto anni,
fino al 1517.
Ciò non è del
tutto esatto. Dagli
Ada graduum presso
l'Archivio esistente della Curia
Vescovile di Padova
(voi. 49), risulta,
per esempio, in modo
indubbio, che 1'
8 maggio 1510
Matteo Binno de Tomasis,
figlio del chirurgo
Mastro Giacomo, fece il
dottorato in artihus
(f. 4v), che
1' 11 febbraio
1511 fece il dottorato
in iure civili
Marco Mantova (f.
45), che il
2 dicembre dello stesso
anno Girolamo Oldoini
fece anch'egli il
dottorato in artihus (f.
84V), e che
il 13 ottobre
1512 s'addottorò in ar-
tihus il magnifico Francesco
del fu Gabriele
Morosini (f. I2ir). Sappiamo ugualmente
di altri conferimenti
di laurea sia in
arti e medicina,
come in diritto
e in teologia.
Lo Studio pa- tavino, dunque, anche
negli anni successivi
al 1509 e
ai fatti accennati, continuò
a funzionare; ma
evidentemente in modo ridotto,
e meno intensa
fu la sua
vita. Ciò si
constata in modo palpabile esaminando
gli stessi Ada
gradimm, e più
ancora gli Atti del
« Sacro Collegio
degli Artisti e
Medici » (Arch. deirUniv. di
Padova, presso quel
Rettorato, fase. 321),
ove tra il 1509
e il 1512
è un salto.
Di Marcantonio Zimara
nessuna traccia in questi
Atti, per questi
anni, se ho
ben veduto. Parrebbe, dunque,
che anche lui
se ne fosse
andato. Dove ? L'edizione
dei Quodliheta dell'Hervaeus
che uscì a
Venezia, «per Georgium Arrivabenum,
1513, die primo
octobris », ed è
curata e postillata
dallo Zimara, potrebbe
far pensare che questi
nel 1512-1513 fosse
a Venezia. Ma
la lettera con la
quale dedica la
sua fatica allo
zio Pietro Bonuso
mi induce a dubitarne.
Dice infatti in
essa che già
da otto anni
è lontano dalla patria.
E aggiunge: «Ego
enim, postquam Patavium, bonarum artium
fontem, applicui, ita
impensam die noctuque philosophie studio
operam navavi, ut
hinc recesserim nun- quam....
Anno tamen elapso
sarcinulas collegeram, accin- xeram
me itineri ad te advolaturus,
quando, preter spem, accademia nostra
ad dignissimam me
philosophie lectionem totis cervicibus
succollavit ». Ora
se egli si
laureò in artibus nell'agosto 1501,
bisognerà pensare che
a Padova fosse
andato almeno un quattro
anni prima, cioè
al più tardi
nel 1497. La lettera
dovrebbe quindi essere
del 1506. E
i conti infatti tornano: «anno
elapso», cioè nel
1505 egli dovette
essere chiamato, « preter
spem », alla
« lettura »
straordinaria di filosofia naturale.
Sebbene dunque l'edizione
dei Qiiodlibeta dell' Hervaeus
uscisse alla luce
il primo ottobre
1513, essa era già
stata preparata e
consegnata all'editore veneziano fin
dal 1506. Alla guerra
contro la lega
di Cambrai tenne
dietro quella della lega
sacra, e la
Lombardia, la Romagna
e 1' Emilia
furon corse da milizie
francesi, spagnole e
papali. Lasciata Padova, ove
aveva nutrito la
speranza di farsi
strada e di
accrescere lo splendore della
sua famiglia, non
fu facile al
povero filosofo trovarsi un'altra
cattedra a Ferrara
o a Bologna,
com'era stato facile al
Peretto mantovano. Perciò
egli dovette deci- dersi a
ritornare fra i
suoi a S.
Pietro in Galatina,
ove effetti- 334 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI vamente nel 15
14 lo
troviamo sindaco e
già ammogliato con una
tal Porzia, secondo
le notizie raccolte
da Alessandro Tomaso Arcudi
4 e da
Baldassar Papadia 5,
i quali prendono queste notizie
dalla Cronaca di S. Pietro
in Galatina lasciata manoscritta dal
medico filosofo e
letterato Silvio Arcudi, morto
a 72 anni
nel 1646. Prima di
rimetter piede nella
terra natale, o
appena vi fu arrivato,
egli dovette pensare
a propiziarsi Giovanni
Ca- strioto, duca di
Ferrandina, sotto la
cui giurisdizione, per disposizione del
governo spagnolo, si
trovava S. Pietro
in Galatina. A quest'uopo
mise insieme il
curioso trattatello dei Prohlemata e
lo dedicò al
principe. Non mi
consta che lo fa-
cesse stampare; io ne
conosco solo l'edizione
che ne fu
fatta a Venezia nel
1536 ed altre
posteriori. Nella dedica
appunto al duca di
Ferrandina egli dice
di ammirare in
lui sopratutto (( charitatem
qua literatos amplecteris,
hac tempestate qua oh
bellorum importunitates pax
una cum litteris
inferire visa est ».
Siamo dunque negli
anni che tengon
dietro al 1509.
E poiché Giovanni Castrioto
morì il 2
agosto 1514, il
libretto è certa- mente
anteriore a questa
data. Sindaco della piccola
sua città natale.
Marcantonio si tro- vava a
rappresentare quella comunità
nella cauta ma
energica difesa delle istituzioni
e dei privilegi
di essa contro
le soper- chierie di
Ferdinando Castrioto, successo
a Giovanni. In- tanto, un
anno dopo, nel 15
15, gli
nacque il figlio
Teofilo, del quale diremo
fra poco. L' Arcudi
(p. 186) parla
anche d'un altro figlio
avuto prima, Nicolò,
il quale fu
dottore in leggi a
Roma, ove testò
nel 1569. Altri
due figli dovettero
nascergli più tardi. Ma
le cure familiari
e quelle pubbliche
non lo di- stolsero del tutto
dagli studi. Fra il 1517
e il 1519,
uscirono a Venezia, curate
da lui, per
gli eredi di
Ottaviano Scoto, le seguenti
opere di Alberto
Magno « in
via peripathetica philo- sophi
theologique profundissimi »
: Naturalia ac
supernatu- ralia (cioè la
Fisica, il De
generatione et corrupfione,
il De metheoris, il
De mineralihus, il
De anima, il
De intellectu et intelligibili e
la Metafisica), accompagnati
da molte annota- zioni marginali; i
Parva Naturalia e
gli Opuscula (nella
dedica a Marcantonio Venier
del fu Cristoforo,
lo Zimara parrebbe 4
Galatina letterata, Genova
1709, pp. 171-S1. 5
Op.. cit.. pp.
57-58. MARCANTONIO E TEOFILO
ZIMARA 335 dichiarare che
le sue «
castigationes et lucubrationes
» si li- mitano al
De causis, ma
verosimilmente sue sono
anche quelle apposte al
De natura locorum);
e le Due
partes Summe.... de quatuor
coèvis. Nell'edizione di
quest'ultima opera, apparsa
il 30 settembre 1519,
lo Zimara è
detto « philosophiam
Padue publice profitentem »,
espressione che forse
va intesa così «
dum philosophiam Padue
publice profitebatur ».
Poiché sembra poco probabile
che in quegli
anni egli fosse
tornato a Padova 6. Dov'era,
dunque ? Quasi
certamente a Salerno,
chiamatovi da quel principe
Ferdinando Sanseverino che
amava circon- darsi di uomini
dotti e dava
impulso al rifiorire
degli studi nella sua
città. Infatti nella
dedica allo stesso
Sanseverino dei Theoremata compiuti
e pubblicati a
Napoli nei primi
mesi del 1523, egli
dice: « Animadverti
hoc ipsum superioribus annis.... dum
philosophiam Theoricamque medicinae
publice in tua Salerno
profiterer ». A Salerno
aveva insegnato anche
il Nifo, dopo
ch'ebbe lasciato Padova. Lo
Zimara accenna ad
un insegnamento di più
anni in questa
città, e ci
fa sapere che,
oltre alla filosofìa, vi
avea professato anche
la medicina teorica.
Tuttavia il suo animo
era rivolto a
Padova. Dopo i fatti
del 1509, dei
quali abbiamo fatto
cenno, lo studio padovano
condusse per più
anni una vita
stentata. Gli scolari eran
molto diminuiti, non
essendo attratti da maestri di
grande rinomanza. La
città, che dall'affluenza della popolazione scolastica
traeva lustro e
vantaggio, reclamava a gran
voce che si
provvedesse sollecitamente al
bisogno, per il rifiorire
dell'università, perché «
sia ritorna il
Studio come era prima»
(M. Sanudo, XXIII,
527, 25 gennaio
1517). E agli oratori
padovani che questo
chiedevano con insistenza
fu risposto dal Principe
(?'&., 562, 7
febbraio 1517): «eramo contenti, e si pratichi
di condur li
dotori, perché nostra
inten- 6 Però riferisce
M. Sanudo (XXVII,
col. 575, 23
agosto 1519), che Marcantonio
Loredan, capitanio a
Padova, venuto in
Collegio a Venezia, informò
come nello studio
di Padova erano
a quel momento «
22 dotori che
leze artisti e
26 giuristi, e
portò una letera
per certo dotor verìa
a lezer. Scrive
ha fato perteghe
21 mila 800
». Se per
av- ventura questo « dotor
» fosse lo
Zimara, bisognerebbe pensare
che egli si fosse
sobbarcato nel 15 19
al lungo viaggio
a Venezia, sia
per sorve- gliare la stampa
di Alberto Magno,
sia per condurre
in porto le
trattative per la «
lettura » a
Padova. 336
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI zion è di
ritornar il Studio
» ; la
quale assicurazione fu
rinno- vata il 21 dello
stesso mese {Ih.,
596). Anzi, narra
il Sanudo (XXIV, 214)
che il 7
maggio 1517, «
dovendosi comenzar il Studio
a Padoa, fo
eletti tre doctori,
quali dovessero praticar condur li
doctori a lezer
che fusseno excelienti;
i quali doctori sono
questi: sier Zorzi
Pixani, sier Marin
Zorzi, et sier
Antonio Zustinian » (cfr.
Ib., 617, 29
agosto 1517, e
XXVII, 50 e 55,
14 marzo
1519). Il 15 settembre
15 17, furon «
ballotati » in
Collegio i «
rotuli » dei maestri
chiamati a leggere
sia nella facoltà
di legge come in
quella delle arti e medicina
(XXIV, 672). Pareva
ormai che le cose
si mettessero bene.
Per la filosofia
« al secondo loco
», era stato
chiamato da Ferrara
Nicolò Prisciano ed era
stato promosso il
veronese Girolamo Bagolino.
Ma il duca estense
sollecitava nel marzo
del 1520 il
Prisciano a tornare «
a lezer a
Ferrara » (XXVIII,
333, 9 marzo
1520) ; se non
che il
maestro di lì
a poco morì,
e fu necessario
provvedere alla sua successione. Il 14
settembre 1520, riferisce
il Sanudo, « fo scrito
a Roma a rOrator
nostro, come de
lì si ritrova
el Spagnolo [cioè Montesdoch], qual
leze l'ordinaria di
philosophia, il qual alias
desiderava venir a
lezer a Padoa
al primo loco: per
tanto, havendo optima
fama, vedi si
'il persevera in
voler venir, et concludi
con più avantazo
el poi etc.
« (XXIX, 181). Questo
maestro, ancor poco
conosciuto, era stato
collega di Alessandro Achillini
e più tardi
del Pomponazzi a
Bologna, ma aveva dovuto
abbandonare quella città
nell'estate del 1515. Non
sapevamo dove fosse
andato. Il Sanudo
ora ci fa
sapere che era andato
lettore di filosofia
a Roma, non
essendo stato accolto a
Padova. Mentre si cercava
di avviar pratiche
per condurre lo
Spa- gnolo, pare si fosse
pensato anche al
« Mantoan »,
cioè al Pom- ponazzi che era
a Bologna; e
il consigliere Marco
Minio sug- geriva il nome
di Branda Porro,
che leggeva filosofia
a Pavia, ov'era stato
alunno di Tiberio
Bacilieri (M. Sanudo,
XXIX, 268, 3 ottobre
1520). Ma li
studenti, nell'incertezza di
avere valenti maestri, abbandonavano
Padova e anche
quelli che s'apparecchiavano al
dottorato andavano «
a conventar al- trove »,
in barba alla
legge, quand'erano sudditi
della Sere- nissima [Ih., p.
313, 22 ottobre
1520). Sicché i
rettori di Pa- dova,
Marin Zorzi, podestà,
e Alvise Contarini,
capitanio, MARCANTONIO E TEOFILO
ZIMARA 337 il 3
novembre « scriveno
il Studio va
in mina, per
non vi esser doctori
che lezano, e
li scolari forestieri
vanno via, e
li nostri subditi, non
stimando le leze,
non voleno più
star, non avendo doctori da
i quali possano
udir.... » {Ib.,
348). L'allarme indusse i
Savi del Consiglio
e Terra ferma
a pren- dere una decisione
sulla proposta «
di condurre a
lezer nil Studio di
Padoa.... domino Zuan
Montesdocha, Ispano, leze a
Roma, a
la lettura dil
primo locho di
Philosophia, cum sa- lario fiorini 600
a l'anno.... Et
domino Marco Antonio
Ziniara, San Petrinas, di
terra di Otranto,
leze a Salerno
a la ordinaria di
teorica overo praticha
di Medicina, con
salario fiorini 300 a
l'anno » [Ib.). Presa
la decisione, le
trattative col Montesdoch
furon portate sollecitamente a
termine (76.) ;
quelle invece con
lo Zimara andaron per le lunghe.
Con l'andata a
Padova dello spagnolo, che
godeva di meritata
fama, lo Studio
parve rifiorire. Il che
fece piacere al
governo veneziano, che,
il 13 maggio
1521, s'affrettò ad informare
i due rettori
di Padova «
come li Rifor- matori dil Studio
[che erano allora
Zorzi Pisani, Francesco Bragadin, Antonio
Justinian, par habino
auto aviso domino Marco
di Otranto è
per venir, però
a visi li
scolari» [Ib., XXX, 181). Se
non che, a
questo punto, debbo
segnalare un' indicazione che trovo
nel già citato
cod. Ambros. S.
Q. -(-. II.
36, e che presenta
qualche difficoltà per
accordarsi con le
indicazioni precedenti. In questo
codice, prima della
Quaestio de regressu, attribuita allo
Zimara, ma che
invece è del
Pomponazzi, come ho detto,
v' è anche
(f. 229r) una
Quaestio de immorta- litate animae
domini Marci Antonii
Zimarae Venetiis discussa corani Duce
et Senatoribus, la
quale è cosa
diversa dalla Quaestio sullo stesso
argomento nel cod.
Parigino, Bibl. Nationale, ms. lat.
6450, di cui
dirò più giù. La
Quaestio Ambrosiana è assai
più succinta. In
essa son ricordati
il cardinale di
S. Do- menico, cioè il
Gaetano, « et
praeceptor meus »,
che è il Pom-
ponazzi (f. 23ir-v). Alla
fine (f. 232r)
si legge: «
Gratias itaque ago dominationibus vestris
quae dignatae sunt
nostrae lectioni adesse. Haec
dieta sufficiant de
ista difficillima quaestione, die ultimo
martii 1520, et
fuit punctus Pascatis
domini nostri yesu christi.
finis ». Orbene, nel 1520, la
Pasqua cadde non il 31
marzo, ma 1' 8
aprile. Invece l'anno
successivo 1521 la
Pasqua cadde proprio 22 338 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI l'ultimo di
marzo. Dunque nel
manoscritto Ambrosiano, che è
una copia di
mano di fra
Zaccaria da Milano,
del 1553, v' è
certamente un errore
di trascrizione. Supponendo che
per la Pasqua
del 152 1 lo
Zimara fosse venuto da
Salerno a Venezia,
per saggiare il
terreno, egli potrebbe avere
avuto abboccamenti coi
Riformatori della Studio, onde
conoscere meglio le
condizioni che il
Consiglio era disposto a
fargh, parendogli pochi
300 fiorini; e
quindi, ripartito per Salerno,
in maggio avrebbe
fatto sapere di
esser disposto ad accettarle
e ad assumere
l' insegnamento a Pa- dova. Tutto questo,
ben inteso, presupponendo
che la Quaestio veneziana de
immortalitate animae sia
davvero dello Zimara, Ma
ormai era tardi,
poiché, mentre al
primo luogo leggeva l'ordinaria di
filosofìa il Montesdoch,
al secondo luogo
era stato chiamato da
Pavia Branda Porro.
Per il momento
lo Zimara doveva rinunziare
a Padova e
restarsene a Salerno^ Ma
il 16 marzo
1523 lo troviamo
lettore di Metafisica
nelle scuole pubbliche di
S. Lorenzo a
Napoli, Ciò appare
dalla expiicit dei Theoremata
usciti a Napoli
a questa data,
con un epigramma di
Pietro Gravina: «Compievi
hoc opus Neapoli, anno
Domini Millesimo quingentesimo
vigesimo tertio, dum scientiam
divinam publico stipendio
legerem apud sanctum Laurentium, sub
regimine Reverendi patris
Fratris Antonini de Antorosa
de Neapoli cui
ego plurimum debeo
». A Napoli forse
egli era già
l'anno precedente, quando,
se- condo l'Arcudi 7 e
il Papadia, il
filosofo e il
suo conterraneo, il giurista
Pietro Vernaleone, sarebbero
stati inviati dalla
comu- nità di Galatina, per
protestare presso il
vice-re contro i so-
prusi di Fernando Castrioto,
e per chiedere
che fossero ri- spettati i suoi
antichi privilegi. L'Arcudi
anzi riferisce una lettera
dello Zimara «
Nobilibus Magnificisque viris
Sindico et Regimini Universitatis
S. Petri in
Galatina », del
29 set- tembre 1522, per
esortare i suoi
concittadini a mantenersi calmi ed
attendere con fiducia. Ma
anche da Napoli
il suo pensiero
doveva esser rivolto a
Padova; e l'occasione
di tornarvi si
presentò nell'estate del 1525,
quando il Montesdoch
chiese al Senato
veneziana licenza di andarsene,
e questo glie
l'accordò. Pietro Bembo in due lettere
a Gian Batt.
Rannusio, del 17 7
Op. cit., pp.
ijb--j-j.Bgosto e del
6 ottobre 1525
^ ci fa
sapere, non senza
amarezza, come le cose
andarono. Giovanni Montesdoch a
Padova era tenuto
in grande consi- derazione ed era
riuscito a farsi
un nome, secondo
la testi- monianza del Bembo,
quale non aveva
avuto prima. Ma non
debbono essergli mancate
accuse per la
sua spregiudicatezza neir interpretare
Aristotele, sì da
parte degli averroisti
sì da parte dei
teologi, se è
vero quanto egli
stesso ci fa sapere in una
lezione del 1525
sul terzo del
De anima (Parigi,
Bibl. Nation., ms. lat.
6450, pp. 139-40):
« Cum isti
fratres vident philosophum, dicunt:
haereticus est; ut mihi
olim accidit, dum disputarem
in capitulo generali
fratrum S. Dominici...; et quia
eos male tractabam,
dixerunt 3*^ die,
me esse haere- ticum
». Non so se
per queste ragioni,
oppure, come insinua
il Bembo, nella lettera
a Gian Batt.
Rannusio del 17
agosto di quel- l'anno, per ottenere
l'offerta d'un aumento
di stipendio, senza farne
aperta richiesta, il
maestro spagnolo chiese
li- cenza d'andarsene altrove. Il
Bembo, che pure
era informato dei maneggi
per condurre il
Montesdoch a Pisa,
ove poi ef- fettivamente andò con
lo stipendio di
800 fiorini, sperava che
con l'offerta di « cento
ducati d'aumento » lo si
potesse trattenere con vantaggio
dello Studio padovano,
poiché dopo la morte
del Pomponazzi si
prevedeva uno spopolamento
dello Studio bolognese : « Se
lo Spagnolo resta,
questo anno averemo qui
la maggior parte
degli artisti dello
studio di Bologna. E
già il Sig.
Ercole Gonzaga, fratello
del Marchese, che è
stato forse tre
anni o più
a Bologna per
udire il Perette,
fa cercar casa qui,
per venir ad
udir costui» [Ib.). Ma
le cose non
andarono secondo il
suggerimento e il
desi- derio del prelato, che
arrivava a cose
fatte; poiché Marin Sanudo
(voi. XL, col.
34) ci fa
sapere che il
16 luglio era
già stato « posto,
per li ditti
[Savii del Conscio
e Savii di
terra ferma], condur a
lezer in ditto
Studio [di Padoa]
in philo- sophia domino
Marco di Otranto,
qual ha lecto
in molti Studi, videlicet in
la lectione de
philosophia, per do
anni di fermo et
uno de rispetto
in libertà di
la Signoria nostra
con salario di fiorini
450 a l'anno
». La decisione rimasta
segreta dovette divulgarsi
alla fine 8 opere,
\enezia 1729, p.
Ili, p. 118. 340
di settembre, e
il Rannusio non
tardò a informarne
l'amico. Il quale gli
rispose da Padova
il 6 ottobre
esprimendogli il suo disappunto. Da questa
lettera si rileva
che responsabili del
negato au- mento al Montesdoch
e della chiamata
dello Zimara furono i
due patrizi veneziani
Marin Zorzi e
Francesco Bragadin,
riformatori dello studio
di Padova, i
quali si avvicendarono
per molti anni in
questo ufficio con
altri patrizi che
avevano fatto gli studi
a Padova e
vi avevano conseguito
il titolo di
« dotor ». E
il risentimento del
Bembo si rivolge
specialmente contro il primo
dei due riformatori:
« M. Marino
ha voluto guastar questo bello
ed onorato Studio,
di cui egli
è guardiano; e gli
è molto
ben venuto fatto
il pensiero. Se
le altre sue
imprese così bene gli
succederanno, sarà felicissimo.
Non parlo di M.
Francesco, percioché io
intendo da ogni
lato, che il
voler condur qui codesto
Otranto è solo
invenzion di M.
Marino, e non di
lui. Il quale
Otranto è già da ora
tanto in odio
di questi scolari tutti
dall'un capo all'altro,
che se ne
ridono con isdegno. Perciocché
dicono che ha
dottrina tutta barbara
e confusa, ed è
semplice Averroista; il
quale autore a
questi dì assai si
lascia da parte
da i buoni
dottori ed attendesi alle sposizioni
de' commenti Greci,
ed a far
progresso ne' testi. E
costui pare che
sia tutto barbaro
e pieno di
quella feccia di dottrina,
che ora si
fugge, come la
mala ventura. Siate
sicuro, che questo povero
studio quest'anno, quanto
alle arti non avrà
quattro scolari oltrequelli
del nostro dominio,
che ci staranno mal
lor grado, e
sarà l'ultimo di
tutti gli studi
». E più giù
: « Questi
sono i governi
e giudicii di
M. Marin Gior- gio, che pare
appunto, che porti
odio a tutti
quelli, che sanno le
belle e buone
lettere, o che
le vogliano apparare
e sapere ». Anche
di Sebastiano Foscarini,
che più volte
coprì la carica di
riformatore dello Studio
padovano e dimostrò
« rara dot- trina »
nello esporre a
Venezia, nelle scuole
di Rialto, «
le cose diffìcili di
Aristotile e di
Averrois il gran
commentatore » 9, il
Bembo pronunzia, in
una lettera allo
stesso Rannusio, del 7
luglio 1532 1", un
giudizio analogo: «il
qual Foscarini non so
come par che
sempre abbia avuto
in odio tutte
le buone lettere in
ogni facoltà ». '
A. ZhNO, in
«Giorn. de' Letterati
d'Italia», t. V,
1711, pp. 366-69. t" Opere.] Bisogna però
riconoscere che, l'una
e l'altra volta,
il Bembo scriveva con
l'animo irritato, per
le difficoltà che,
tanto lo Zorzi quanto
il Foscarini, opponevano
a due suoi
raccoman- dati. A questo s'aggiunga
che il patriziato
veneziano era stato in
gran parte educato,
per quanto concerne
la filosofia, alla tradizione aristotelico-averroistica, e
che a questa
si mostrava assai attaccato,
come provano numerosi
documenti. Il Bembo, invece, veniva
dalla scuola di
retorica ed era
insomma un « umanista
», e piuttosto
che sobbarcarsi allo
studio della filosofia aristotelico-averroistica, rinunziò
al titolo di
dottore i>i artihus, del
quale invece s'adornava
suo padre, Bernardo, «
dotor e cavalier
». In lui
l'avversione per l'aristotelismo e l'averroismo, ereditata
dal Petrarca, era,
potremmo dire, congenita. Come
gran parte degli
umanisti, egli non
ebbe mai il gusto
per i problemi
della filosofia e
della scienza che
appas- sionavano i maestri e
gli scolari della
facoltà delle «
arti ». Il suo
aspro giudizio su
« codesto Otranto
» è espressione
di un conflitto più
vasto, non ancora
risolto, nel pensiero
del Rina- scimento, che vide
coabitare tra le
mura della stessa
città Pietro Bembo e
Marcantonio Zimara.
Titolare della «
lettura » ordinaria
di filosofia [i.a
poTrf) nxXq Seuxépac?
yoù acù(jLaTOct.S£CTt
^coaig) 30, è
detta uscire fuori
di sé {slq
tÒ e^co Trpotcóv)
3', con frase che
curiosamente ricorda un'analoga
espressione hegeliana. La mente
che permane in
se stessa, in
un atto con- templativo che dura
eterno, è identificata
da Simplicio con quello
che fu detto
1' « intelletto
agente » che
è atto sostan- ziale per sua
natura e «
non intende ora
sì ora no
», come s'esprime Aristotele
32; invece la
mente in quanto
esce fuori -7 E.
Garin, Giovanni Pico
della Mirandola. Vita
e dottrina. « Pub-
blicazioni della R. Università
degli Studi di
Firenze. Facoltà di
Lettere e Filosofia». Ili
Serie, voi. V;
Firenze, 1937, P-
84; B. Nardi,
Sigieri di Brabante nel
pensiero del Rinascimento
italiano. Roma, Edizioni Italiane, 1945,
pp. 159-160; Id.,
Individualità e immortalità
nell'aver- roismo e nel tomismo,
in « Archivio
di Filosofia. Organo
dell' Istituto di Studi
Filosofici », voi.
dedicato al Probletna
dell' immortalità, Roma, 1946,
pp. 120-121. 28 Sigieri
di Brab., cit.,
pp. 160-169. -9 Simplicio,
p. 217, 27,
313, 2. 30 Simplicio,
p. 218, 33. 31
Simplicio, p. 229,
3. 32 Arist., De
anima, III, e.
5, 43oa 22. 376 di
sé s' identifica con l'
intelletto in potenza
o intelletto pos- sibile o
passivo. Il conoscere
umano comincia dall'esperienza sensibile, e
consiste in una
liberazione progressiva dalla
pas- sività e nel ritorno
(àvaSpo^xv)) alla pura
contemplazione del. mondo ideale
33. Questo concetto di un intelletto
che permane in se stesso,, e,
uscendo da sé,
s'unisce al mondo
della sensibilità per
ritor- nare a sé, in
un circolo eterno,
sedusse il signore
della Miran- dola, intento a
risolvere il problema
averroistico della « co-
pulatio », ossia
del congiungimento dell'unico
intelletto col- r individuo,
che era stato
il problema di
Sigieri, anzi dello stesso
Averroè 34. Questo problema
doveva essere assillante
nel suo animo. Il
Nifo narra a
questo proposito l'episodio
d'un incontro con lui
e di una
discussione che dev'essere
avvenuta nella prima- vera 1494. Il
giovane Suessano, che
professava filosofia a Pa-
dova, aveva avuto dal
suo alunno Girolamo
Bernardo, di famiglia patrizia
veneziana, un esemplare
della Destrttctio destructionum Algazelis
di Averroè, che
pochi conoscevano, e stava
preparandone un commento
che, iniziato nel
1494,, fu stampato a
Venezia nel 1497.
Un passo di
Algazele fermò a. lungo
l'attenzione di lui.
Diceva il filosofo
arabo; Forte aliquis diceret,
quod opinio Platonis
est vera, videlicet quod anima
est una et
antiqua, et dividitiir
divisione corponim, et in
corporea separatione redit
ad suam radicem
et unitur. Due cose
sono notevoli in
questo passo d'Algazele:
anzi- tutto, che la dottrina
dell'unità dell' intelletto
venga attri- buita a Platone;
indi, che vi
s'accenni alla possibilità,
intra- vista da alcuni, di
conciliare la tesi
dell'unità con quella
della molteplicità numerica e
individuale delle anime.
Ora il Nifo racconta
com'egli, abbattutosi nel
conte della Mirandola,
che insieme a lui
era diretto in
dihgenza alla volta
di Bologna, ebbe a
palesargli i suoi
dubbi su quest'argomento. E
il Mi- randolano, che
evidentemente la pensava
come di Platone riferisce Algazele,
cercò di far
capire il suo
pensiero al com- 33
Simplicio, p. 240
sgg. 34 B. Nardi,
Introduzione a S.
Tommaso d'Aquino, Trattato
sul- l'unità dell'intelletto
contro gli averroisti.
Firenze, Sansoni] pagno di
viaggio con questo
curioso paragone. Come
per costruire una volta
o un arco
fa mestieri di
quella impalcatura di legno
che li sostenga
e che dicesi
centina; ma poi,
quando son costruiti, la
volta e l'arco
si reggon da
sé, senz'armatura; così una
sola idea di
tutte le anime
sorregge ed aiuta
ognuna di esse a
venire all'esistenza, via
via che per
virtù di genera- zione si formano
i loro corpi;
quando poi il
corpo vivente è già
formato, rimane in
esso un'ombra o
vestigio che dicesi anima.
Alla morte del
corpo, le anime
singole ritornano al loro
« semenzaio »,
che è quell'unica
idea della quale,
nella loro individualità particolare,
erano ombra, vestigio
e riflesso 35. Per
Platone dunque, quale
era inteso da
alcuni prima d'Aver- roè,
e quale piaceva
al Pico d' intenderlo, tutte
le anime singole sono
un'anima sola nella
loro «radice»; sono
invece molte, in quanto
suoi germogli nei
corpi, ossia in
quanto l'anima che è
una in sé
si comunica e
si propaga negl'
individui della specie umana,
uscendo, come diceva
Simplicio, fuori di sé.
Anche a
fare un po'
di tara sui
particolari' del racconto
del Nifo, la sostanza
del racconto sembra
conforme allo spirito della
filosofia pichiana, nel
momento in cui
il Mirandolano, senza rinnegare
il suo averroismo
del periodo padovano,
s' in- dustriava di
svolgerlo in senso
platonico. Non saprei se
dal Pico o
da altri il
Suessano abbia avuto notizia
del commento di
Simplicio al De
anima. Certo è che
egli ricorda più
volte l' interpretazione simpliciana
della dot- trina
aristotelica in opere
composte a Padova
prima del 1498, prima
di lasciare quello
studio. Una di
queste sono i
Collectanea super lihros de
anima, che il
Nifo aveva approntato
per la pubblicazione, nel
1498, e mandato
a Baldassare Miliani, patrizio partenopeo,
coli' intento che
ne accogliesse la
dedica, e all'abate Roselo
Salinatore, suo concittadino,
per averne il giudizio
36. Nel 1503
essi furon pubblicati,
con dedica del Nifo
al Mihani, dall'editore
veneziano Alessandro Calci- donio,
mentre l'autore, se
la sua asserzione
merita fede, aveva 35
Nifo, In librum
Destructio destructionum Averrois
commenta- ri!, disp. I,
dub. 8; cfr.
disp. IV, dub.
7. V. sopra,
p. 319. 36 Come
ho già avvertito,
i Collectanea furono
stampati dal Nifo una
prima volta nel
1503, e di
nuovo nel 1522
insieme al suo
nuovo commento. L'ultimo dei
Collectanea, assai prolisso,
ma ricco d'
impor- tanti notizie,
riguarda il famoso
t. 36 del
terzo libro del
De anima, e la non meno
famosa digressione d'Averroè
intorno a questo
testo. 378
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI stabilito di non
darli alla luce
prima che fossero
trascorsi i nove anni
oraziani dalla loro
composizione 37; sì
che si può
pensare che essi siano
una delle prime
fatiche del suessano
poco più che ventenne. Ora in
principio di questi
Collectanea sul terzo
libro, il Nifo accenna
alla questione dibattuta
fra gli espositori,
cui si riferisce la
seconda delle «
conclusiones » del
Pico « secundum Simplicium »,
di quale intelletto
Aristotele intenda parlare in
questa terza parte
della sua opera: Verum
circa intentionem huius
tertii apud expositores
fuit difficultas non parva.
Primi enim expositores,
quos impugnare videtur lamblicus,
sentire [videntur] intentionem
huius esse de intellectu
imparticipabili, qui actu
est summus ac
vita essen- tialiter optima
et per se
ab anima separabihs.
Ad quos obiicit lambHcus et
inquit: « Quidnam
et qualis separabilis
ab anima intellectus, et
quod prima substantia
et impartibilis et
optima vita et summus
actus et idem
intellegibile et intellectio
et intel- lectus et eternitas
et perfectio et
quies et terminus
et causa omnium, 12.
Metaphysice dictum est»38.
Non ergo et
hic de Deo pertractan-
dum. Sed
hoc lamblici argumentum
pace sua nihil
est.... Ideo et aliter
lamblicus inquit: «
Magis vero nunc
qualis quis a nostra
anima participatus intellectus
dicendum))39. Sed quid velit
lamblicus, SimpHcius laborat
exponere. Ubi debes
scire, quod duplex est
intellectus: participatus et
imparticipatus. Omnis enim forma,
scilicet quae idea
dicitur, indivisibilis est
et terminus seipso; anima
autem est divisibilis,
ut reflexa ipsius
denotat actio: erit ergo
anima hominis vita
hominis secundum se
partibilis ac divisibilis. Verum,
prout intellectu participat,
in impartibilitatem cadit ac
in terminum et
indivisionem. Erit ergo anima
hominis vita hominis, cuius
intellectus est forma.
Anima enim ipsa
in-dividua est in corpore,
ut Stoici inquiunt.
Ut vero particeps
est intellectus,
impartibilis ac indivisibilis
redditur partitione et reditione.
Differt vero intellectus
participatus ab imparticipato
: ille enim non
manet in se,
sed alterius anime
est forma; impar- ticipatus autem in
se manet, ac
per se separatus
est et terminus. Et
sic imaginatur aliud
esse animam, et
aliud intellectum, lam- blicus; anima enim
vita est animalis
humani; intellectus vero forma
erit anime. Sed quoniam
lamblicus non videtur
differre a Plotino,
ideo, ut melius lamblici
opinio clarescat, Plotini
sententiam expedit enarrare.... Erit
ergo ordo: deus
forma est intellectus;
intellectus 37 Ciò è
dichiarato dal Nifo
alla fine della
prefazione premessa al- l'edizione del 1522
identica a quella
del 1503, a
quanto ho potuto
vedere. V. sopra, pp.
2'-6, n. 13,
370, n. 8. 38
Cfr. Simplicio, p.
217, 23-27. 39 Simplicio,
vero anime; anima
rationalis vivi humani.
Erit ergo intentio, apud lamblicum,
huius libri de
intellectu participato, qui
forma est anime rationalis,
que homo est,
platonice loquendo....
Alitar et post
hunc Simplicius. Intentionem
enim huius libri de
anima rationali dicit
esse. Imaginatur enim
aliud esse vitam hominis, et
aliud rationalem animam,
et aliud animam
totam ipsius. Vitam enim
appellat ipse cum
prioribus intentionem ho- minis, scilicet animalis
humani, que est
actus et perfectio
speci- lìcans hominem; rationalis
vero anima est
actus huius anime, sicut
lumen diaphani; ex
quibus duobus resultat
tota anima hominis. Erunt
ergo anime humane
partes due, scilicet
rationalis anima et vita
ipsa, qxie simul
totam hominis animam
constituunt. Est autem apud
ipsum duplex intellectus,
scilicet quo ad
divina copulatur anima, et
hic forte agens
est intellectus; alter
quo ad materialia, et hic quandoque
potestate et imperfectus
existit, non quia in
se non intelligit,
sed quoniam ab
alio scientiam habet, ut
a primo, et
respectu hominis quandoque
et perfectus est et
completus, et hoc
quando perfecte toti
homini unitur. Erit
ergo intentio huius [libri]
loqui de parte,
idest de anima
rationali, qua anima scilicet
hominis intelligit et
sapit; idest, de
rationali anima, que pars
est anime hominis,
scrutandum.... 4°. In questo
passo dei Collecianea,
a parte l' interpretazione più o meno esatta
che il Nife
ci dà del
pensiero di Simplicio, è
certo che vi
sono frasi prese
alla lettera dal
commento di questo. Ora,
nel secondo commento
che il Suessano
recò a termine nel 15
19, maestro a
Pisa, avendo egli
modificato il suo modo
d'intendere, ci fa
questa confessione:
Animadverte, tamen in
Collectaneis nos dixisse,
de mente Sim- plicii,
intentionem Aristotelis hic
esse de anima
rationali que est pars
anime humane, cum
in greco eum
non viderim tunc. At
postquam eum legi
in proprio fonte,
reperi eum opinari
ut dictum est, et
non ut in Collectaneis dixi
41. E non di
meno il commento
di Simplicio è
ricordato e di- scusso parecchie volte
negli stessi Collecianea,
nel corso del secondo
libro, con espressioni
le quali non
lasciano dubbio che l'opera
del commentatore greco
fosse familiare al
Nifo. Se questi pertanto
non la possedeva
in greco, vuol
direche la possedeva tradotta.
Questa traduzione, anteriore
d'un mezzo secolo a
quella di Giovanni
Fasolo, mi è
sconosciuta. Essa 40 Nifo,
De anima, Venezia,
1522, Collect. ad
t. e. i. 41
Nifo, ib., comm.
ad t. e. i.
ad ogni
modo doveva essere
molto imperfetta, sì
da accrescere le oscurità
che sono già
nel testo greco.
Il Nifo poi
dovette affrontare la lettura
di Simplicio con
l'animo di trovarvi
una conferma alle proprie
idee sigieriane. Egli stesso
confessa di avere
per lungo tempo
aderito alla dottrina di
Averroè nell' interpretazione che
di questa dava Sigieri
nel Tractatus de
intellectu scritto in
risposta al Tractatus de
unitale intellecUis di
S. Tommaso 43.
I capisaldi di
questa dottrina, che il
Nifo dichiara d'avere
attinto al trattato
di Sigieri43, sono i
seguenti: i) l'intelletto
possibile è unico
per tutta la specie
umana; 2) esso,
per attuare tutta
la sua potenza, ha
bisogno di trovarsi
unito in ogni
momento a una
moltitu- dine d' individui
umani che gli
forniscono le specie
sensibili, senza delle quali
esso niente può
intendere; 3) l'unione
tra r intelletto possibile
e la «
cogitativa », che
è la più alta fa- coltà dell'anima sensitiva,
è un'unione sostanziale,
e non sem- plicemente accidentale, come
pensavano altri averroisti,
sì che può dirsi
che l'uno e
l'altra son parti
ond' è costituita l'anima razionale
dell'uomo; 4) l'anima
razionale, costituita
dall'unione della cogitativa
coli' intelletto, che in sé
è unico, può dirsi
veramente « forma
informante », e
non soltanto « assistente
» dell'uomo, tale
cioè che dà
a questo il
suo essere di animale
ragionevole, contrariamente a
quanto asserivano altri averroisti,
i quali sostenevano
che l'anima intellettiva è soltanto
forma assistente. Questa dottrina
sigieriana è presentata
dal Nifo come schietta
farina del sacco
averroistico, senza che
sia fatto il nome
di Sigieri né
quello di Simplicio,
nel commento che il
suessano scrisse a
Padova sul dodicesimo
della Metafìsica (ad t.
e. 17 e
38) e nell'esposizione della
Destructio destructio- num (disp.
I, dub. 23;
IV, 7; XIV,
i, quaestio 4)
pubblicata nel 1497. Invece
nel De intellectu
essa è esposta
due volte: nel lib.
I, tr. 3,
e. 16, è
presentata come dottrina
di Simplicio; nel cap.
18, come dottrina
di Sigieri tendente
a trovare una via
di mezzo «
inter latinos et
averroycos ». Siccome
m' è già accaduto
di richiamare l'attenzione
sulla dottrina che il
Nifo attribuisce a
Sigieri, non è
forse inutile che
con essa si raffronti
questo riassunto che
nella stessa opera
il suessano 43 Cfr.
B. Nardi, Sigieri
di Brab., cit.,
p. 14. 43 I
luoghi del Nifo
sono riuniti nel
mio volume ora
citato, pp. 13-21. ci
ammannisce, ancora una
volta, del pensiero
di Simplicio, prima di
averne conosciuto il
commento «in proprio
fonte»: Si rationales animae
erunt plures et
intellectus unus, sic
Sim- plicii erit positio.
Imaginatur enim Simplicius,
ex intellectu et omnibus
praecedentibus formis, in
corpore humano praeviis, constitui rationalem
animam, quae quidam
est totum quoddam constituens in
esse hominem. Et
quoniam cogitativa seu
sensitiva anima praecedens est multiplicata, procul
dubio rationalis anima est
numerata per corpora.
Quemadmodum enim materia
est una privatione formarum
in se, et
tamen per formas
partitur et fit altera
alteraque, sicut altera
atque altera est
forma; sic intellectus unus potentiae
fit alius atque
alius, prout alteri
atque alteri sen- sitivae
unitur secundum esse;
et sic fiunt
plures animae ratio- nales
secundum corpora, licet
intellectus sit unus. Et
si dicas :
— Ergo rationalis
anima est corruptibilis, — con-
cedunt rationalem animam
esse corruptibilem totam
ratione partis, quae est
totum praecedens eam
in corpore humano;
tamen intellectus in se
incorruptibilis est. Est
enim una anima
numero unius hominis: cuius
una pars est
intellectus incorruptibilis, et altera
pars est totum
quod praecedit, scilicet
sensitiva et vege- tativa, quae est
unum faciens cum
intellectu. Et sic
totum id est corruptibile
ratione praecedentis partis;
intellectus autem
sempiternus. Et hoc
sentire videtur Aristoteles
12. Divmornm dicens: «
In quibusdam enim
nihil prohibet; ut
si est anima
tale; non omnis »,
idest tota, «
sed intellectus; omnem
namque impossi- bile est f orsan
» 44. Ecce quo
pacto Aristoteles dicit
totam animam esse corruptibilem, sed
intellectus permanet. Et si
dicis: — Quando
corrumpitur totum, ubi
remanet intel- lectus ? —
dicunt quidam quod
remanet in se,
sicut materia: quando enim
generatur homo, statim
accipit intellectum tanquam partem animae
suae; et quando
corrumpitur, perdit animam,
licet intellectus remaneat.
Et apud
Simplicium salvatur multitudo
rationalium anima- rum, et
quomodo rationalis anima
dat esse homini,
et salvatur sempiternitas intellectus.... liane positionem
multi credunt esse
mentem Platonis, que- madmodum Algazel. Inquit
enim: «Et forte
aliquis diceret, quod opinio
Platonis est vera,
quod anima est
una et antiqua, et
dividitur divisione corporum;
et in corporea
separatione redit ad suam
radicem et unitur
». Haec ille in
libro Destructio destructio- nuììi, dubio
octavo primae disputationis. Ubi
Averroes, in so- lutione
illius dubii, inquit:
«Et ideo anima
Petri et anima
Gui- 44 Arist., Metaph.,
XII, t. e.
17, e. 3,
io7oa 25-27. Allo
stesso modo intende questo
luogo d'Aristotele il
Nifo, In duodecinmm
Metaphysices Arisf. et Aver....
ad Antoniiim lustinianum
Patritium Venetiim (Venetiis.... Die 30
lulii 1526; ma
la prima edizione
a spese di
Al. Calcidonio è del
1505), t. e.
17. In quest'opera
degli ultimi anni
del suo soggiorno
pado- vano, Nifo è
ancora s sieriano,
ma non cita
Simplicio. 382
l'aristotelismo padovano dal
secolo XIV AL
XVI lelmi quodammodo possunt
dici una et
eadem, ut puta
ex parte formae, et
sunt multae alio
modo, videlicet respectu
subiecto- rum ». Et
ibidem, in solutione
dubii 23. ait:
« Omnes communiter opinati sunt,
quod animae innovatio
est relativa, scilicet
quod haec innovatio est
eius adiunctio cum
corporeis possibiliter dictam adiunctionem recipientibus, eo
modo quo praeparationes et po-
testates speculorum recipiunt
adiunctionem solis radiorum
». Ergo ex mente
Averrois p^ositio haec
videtur esse, et
non tantum Simplicii. Idem
etiam sentire videtur
Averroes comm. 38.
duo- decimi Divinorum.
Inquit enim: «Et ex hoc
quidem apparet bene, quod
Aristoteles opinatur quod
forma hominum, in eo
quod sunt homines,
non est nisi
per continuationem eorum
cum intellectu, quod declaratur
in libro De
anima ». Ecce
quo pacto piane positionem
hanc Simplicii sentit
Averroes, occasione horum verborum et
multorum aliorum. Aliqui
credunt positionem hanc esse
intentionein Averrois, scilicet
quod rationalis anima
sit composita ex intellectu
potentiae et toto
praecedente, scilicet
vegetativo sensitivoque :
ex quibus terminatur
ac conficitur forma quaedam
simplex, quae actu
est vegetativa, sensitiva
ac ratio- nalis; quae forma
sit hominis, secundum
esse multiplicata per homines
ac numerata, licet
intellectus sit unus
in se, ut
diximus. Questo il Nife
scriveva prima di
conoscere il testo
greco di Simplicio; ma
anche quando ebbe
tra mano l'esposizione simpliciana del
De anima nella
lingua originale, e
ne trasse vantaggio per
recare a termine
nel 1519, insegnante
a Pisa, il suo
ultimo commento sull'opera
d'Aristotele, stampato
insieme ai Collectanea
nel 1522, corresse,
sì, molti errori
e inesattezze in cui
era incorso nelle
opere giovanili, ma per
quel che si riferisce
all'interpretazione della dottrina
di Simplicio intorno all'unità
dell' intelletto possibile
e al modo
di unirsi di questo
coll'anima sensitiva, rimase
fermo nell'opinione che la
tesi del commentatore
greco fosse sostanzialmente identica con
quella d'Averroè45. E
sebbene fosse ormai
tra- scorso un ventennio da
che aveva lasciato
lo studio padovano, il
ricordo di quegli
anni lontani, in
cui gli pareva
d'aver tro- vato nella dottrina
di Sigieri un
modo plausibile di
risolvere gli argomenti tomistici,
e di Sigieri
discuteva con Pico
della Mirandola, sembra ad
un tratto ridestarsi,
sebbene in modo molto
confuso, nella sua
mente: Simplicius arbitratus est
omnium hominum intellectum
unum numero esse; rationales vero
(animas) prò hominum
numero 45 Nardi, Sigieri
di Brab., cit.,
pp. 43-44. IL COMMENTO
DI SIMPLICIO AL
« DE ANIMA
» 383 multiplicari. Non
desunt qui positionem
hanc Avverei tribuant, ut
Rogerius et Suggerius
uterque Bacconitanus, Thomaeque coetanei. Hi
enim in eorum
libellis, quos adversus
Thomam scrip- serunt prò
defensione Averrois, non
modo positionem hanc
Averroi, sed omnibus graecis
expositoribus attribuerunt 46. Questo
inestricabile garbuglio di
nomi e di
idee era tutto quello
che il Nifo,
divenuto ormai tomista
a modo suo
e conte palatino, col
privilegio di fregiarsi
del titolo di
« Medices », conferitogli da
Leone X nel
1520, ricordava del
suo insegna- mento a Padova;
ma era un
ricordo che diventava
di giorno in giorno
più sbiadito e
confuso nel suo
spirito abbagliato dallo sfarzo
delle aule principesche
e tutto preso
dalla brama di procacciarsi
privilegi ed onori,
senza celare le
tardive fiam- melle che accendeva
nel suo maturo
cuore il seducente
aspetto di qualche bella
cortigiana. 3. - Anche
quando il Nifo
ne fu partito,
a Padova si
con- tinuò per molto tempo
a studiare il
commento di Simplicio al
De anima e
ad interpretarne il
pensiero in senso
averroi- stico. Giulio Castellani
da Faenza, che
a Ferrara aveva
avuto per maestro il
bresciano Vincenzo Maggi
o Madio, alessan- drista, narra47
com'egli avesse trovato
il commento di Sim-
plicio oscuro ed involuto
nella maniera d'esprimersi,
e che anche dopo
la seconda e
la terza lettura
gli rimanevano pa- recchi dubbi. Ma
avendo avuto occasione
di recarsi a
Padova, fra il 1562
e il 1563,
trovò in questa
città uomini eminenti nello studio
della filosofia e
delle buone arti,
che gli chiari- rono appieno le
sue dubbiezze :
e Ita sane
complura Simplicii
tenebricosa dieta illustrarunt
claraque et apertissima
red- diderunt ». Quale idea
il Castellani si
fosse fatta della
dottrina di Sim- plicio intorno alla
mente umana, dopo
averne discusso coi dotti
padovani, si può
capire da questa
esposizione che egli 46
76., p. 44. 47
luLii Castellanii, Faventini,
In libvos Aristotelis
de humano intellectii disputationes
sive lucidissimi commentarii
ex doctrina chri- stianorum auciorum
ac philosophorum antiquoriim
descripti. Ad Cosmum Medicem Florentinorum
ac Senensiuni ducem.
Venetiis, MDLXVII. Lib. I,
cap. 2, fol.
5v-yr. 384 ne fa e
che giova conoscere: Simplicius igitur,
atque ii qui
illuni praecipue sectantur
et eius sententiam explicant,
humanam nientem unani
tantum numero esse dicunt,
istamque in intelligentiarum ordinem
col- locant; tametsi eam
longe omnium infimam
et humano orbi assistere arbitrantur.
Quam etiam liomini
nequaquam dare esse affirmant
(ita loquuntur philosophi,
et saepe eorum
verbis facilioris doctrinae gratia
uti nos oportebit)
; sed aliud
statuunt genus animae, quam
Cogitativam vocant, a
quo informatur homo :
ex Cogitativa enim
et corpore organico,
tanquam ex materia et
forma, conflatur liomo;
ex mente et
homine, tanquam ex
nauta et navi, nobilius
quoddam atque divinum
compositum oritur, quippe quod
intellectus nobilissimam ac
divinam tantum homini operationem praebet. Come
già il Nifo,
dunque, anche questi
maestri padovani del tempo
del Castellani, facevano
risalire a Simplicio
la tesi averroistica dell'unità
dell' intelletto. Ma
mentre il suessano attribuiva a
Simplicio la tesi
sigieriana, un tempo
difesa da Paolo Veneto
e, piìi tardi,
da Alessandro Achillini,
da Ti- berio Bacilieri e
da Geronimo Taiapietra,
secondo la quale r
intelletto unico s'unisce
alla « cogitativa
» in modo
da for- mare con questa
una sola anima
individuale e razionale
che, tutta intera, è
forma dell'uomo e
dà a questo
il suo essere di
uomo, i padovani
cui accenna il
faentino ritenevano, al contrario,
che l' intelletto s'unisce
alla « cogitativa
» soltanto come «
forma assistente «
e non come
« forma informante
», ossia, secondo l'espressione
aristotelica, « sicut
nauta navi «, Continua
poi il Castellani,
sviluppando concetti accennati anche in
alcune delle stampata
a Parigi, in
« Officina Christiani
Wecheli », nel- l'anno 1543, ispirandosi
al Bessarione, osserva
molto giusta- mente, che coloro
che hanno bisogno
di confermare la
loro fede coH'autorità di
Aristotele, non sembrano
aver molta fiducia nella
parola di Cristo.
E poco più
di un ventennio dopo, esattamente
nel 1567, un
altro aristotelico italiano, ma
non averroista, bensì
alessandrista, Giulio Castellani
da Faenza, diceva che
coloro che esitano
a prender posizione
e a dichiarare il
loro pensiero per
ciò che riguarda
i problemi dello spirito
umano, per paura
di trovarsi in
contrasto colla fede, «
profecto huiusmodi homines
ignorare videntur, quam Christiana fìdes
et charitas a
philosophandi ratione distet, et
quam nullius sint
ponderis Aristotelis inventa
et argumen- tationes ad
sanctissimae religionis nostrae
decreta labe- factanda ».
E conclude con
un linguaggio da
gran galantuomo, senza falsi
pudori: « Audacter
igitur etiam possumus
de animi nostri substantia
ac perpetuitate disserere,
perpendereque diligenter
quid de eo discernendum voluerit
Aristoteles. Si quideni cum
nos philosophamus, ex
aliorum sententia loquimur, semperque, ut
christiani, Sacrarum Litterarum
preciosissima monumenta pie colenda
et observanda supponimus
». Ecco dunque a
che cosa si
riduce la così
detta « dottrina della doppia
verità », della
quale si sono
scandalizzati gli sto- rici moderni della
filosofìa. Non se
ne scandalizzarono invece gl'inquisitori dell'eretica
pravità; ai c]uali
interessava medio- cremente
di sapere come
la pensasse Aristotele.
Ad essi ba- stava di
sapere che sia
gli averroisti che
gli alessandristi non ponevano
in discussione le
verità rivelate, bensì
la dottrina di Aristotele.
Che se poi
Aristotele non s'accordava
alla fede di Cristo,
tanto peggio per
lui; e tanto
peggio per chi
lasciava Cristo per Aristotele. S'oda, per
esempio, quest'avvertenza che
Polo Loredan, patrizio veneziano,
rivolge al lettore
nell'atto di congedare per
la stampa il
suo commento al
De anima condotto
secondo lo spirito alessandrista
del Pomponazzi, del
Porzio e del
Ca- stellani, e dedicato nel
1596 al serenissimo
duca d'Urbino, Francesco Maria
da Montefeltro: «Pie
lector, haec mea
com- mentarla pie legito, et
tantum mentem Philosophi
hic inter- pretari scito;
et me interpretem
christianum et Sanctae
Ro- manae Ecclesiae filium
esse advertito, et
prò Domino nostro lesu
et Ecclesia mori
paratum habeto; Aristotelem
christia- num non extitisse notato,
nec ipsum Christiane
scripsisse nec Christiane expositum
observato. Fidem Christi
Dei et Dei filli
tot tantisque miraculis
firmatam inspicito, auctori- tate
Aristotelis non indigeto,
et si quae
veritatem catholicam turbantia legeris,
tamquam falsa et ab Aristotele
impio prolata prò firmo
et indubitato habeto
tenetoque. Vale ». Perciò
le autorità ecclesiastiche, dai
primi anni del
se- colo XIV in poi,
avevano finito per
acquetarsi a siffatte
di- chiarazioni, e
lasciarono sia agli
averroisti che agli
alessandristi la più ampia
libertà di discussione
e di critica.
Le difficoltà che i
dantisti trovano ad
intendere come Dante
possa aver messo nel
suo Paradiso, a
fianco d’AQUINO, un
averroista qual era stato
Sigieri di Brabante,
e farne l'elogio
che ALIGHIERI fa pronunciare allo
stesso Aquino, derivano da due
cose: primo, dal
non aver capito
la particolare natura della
filosofia di Dante;
secondo, dal non
aver capito che
cosa è stato l'averroismo. Questi commentatori
di Dante, invece
di guardare alla figurazione dantesca
in se stessa
e in rapporto
al pensiero del poeta
che pone «
Averrois che '1
gran commento feo »
tra gli
spiriti magni del
nobile castello, si son lasciati
for- viare dalle
raffigurazioni cui accennavo
in principio, e
nelle quali Averroè è
prostrato nella polvere
ai piedi di
S. Tom- maso. A queste
figurazioni d' ispirazione domenicana
e tomistica parrebbe opporsi
invece quella d' ispirazione agostiniana
che Giusto dipinse, poco
prima del 1370,
nella cappella dei
Cor- telieri annessa alla
chiesa degli Eremitani
a Padova, ove aveva
insegnato Gregorio da
Rimini. Dalle descrizioni
che un secolo dopo
ne lasciò Hermann
Schedel, in questo
affresco del Menabuoi Averroè
era dipinto a
fianco di Maestro
Alberto da Padova, teologo
eremitano, e del
beato Giovanni della Lana
da Bologna, filosofo
e teologo ed an-
ch'esso eremitano, morto, a
quanto pare, intorno
al 1350. Questo affresco
deve avere impressionato
il giovane ere- mitano Paolo Veneto
che pochi decenni
dopo, reduce an- ch'egli,
al pari di
Gregorio da Rimini,
dalle scuole di
Oxford e di Parigi,
e salito sulla
cattedra di filosofia
nelle scuole an- nesse al
convento agostiniano di
Padova, ispirò il suo insegna- mento alla dottrina
sigeriana, sforzandosi di
dimostrare in che modo
l' intelletto, unico per
tutta la specie
umana, riesce ad individualizzarsi nei
singoli. lAlla stessa
dottrina sige- riana s'
ispirano verso la
fine del secolo
XV, Pico della
Mi- randola, Alessandro
AchiUini, NIFO (si veda), Ba- cilieri
e altri. L'averroismo che
ormai pareva avere
esaurita la sua
vi- talità a Parigi ed
a Oxford, sopraffatto
dallo scotismo e dal-
l'occamismo, s'era ridotto
ormai nelle sue
due ultime fortezze di
Padova e di
Bologna. Accade ancora
di trovare qualche altro
averroista altrove, come
Luca Prassicio a
Napoh, che già vecchio
intervenne nel 1521
nella polemica fra Pomponazzi e Nifo.
Ma nel suo
rigido attaccamento al
testo aver- roistico, egli
parlava un linguaggio
che si faceva
di giorno in giorno
più incomprensibile. Anche a
Bologna, ove l'averroismo
sigeriano aveva trovato alla
fine del Quattrocento
nell'Achillini un difensore
ardito e destro, non
ebbe in Ludovico
Boccadiferro un successore degno di
tanto maestro. A
Padova invece l'averroismo
prese a rinnovarsi, sotto
la spinta del
Platonismo. E uscita a Treviso
la traduzione che Barbaro aveva
fatto delle Parafrasi
di Temistio. A
questo interprete bizantino e
a Teofrasto, Averroè
stesso aveva fatto risalire la
dottrina dell'unità dell'
intelletto. Non fa
quindi meraviglia che gli
averroisti si ponessero
a studiare con
parti- colare interesse la parafrasi
temistiana del De
anima, nella 29 450 l'aristotelismo padovano
dal secolo XIV
AL XVI traduzione del
Barbaro, visto che
la traduzione medievale
di Guglielmo di Moerbeke
era diventata estremamente
rara, e del resto
era oltremodo ostica
all'orecchio degli umanisti. Ma
assai più della
parafrasi di Temistio,
contribuì al rinnova- mento dell'averroismo padovano
la conoscenza del
commento di Simplicio al
De anima, rimasto
sconosciuto ai medievali. Il primo
che, a mio
parere, conobbe ed
usò il commento di
Simplicio al De
anima fu Pico
della Mirandola, il
quale ne estrasse ben
nove tesi delle
900 preparate nel
i486 per k disputa
da tenere a
Roma, che poi
non ebbe luogo.
Il com- mento di Simplicio
dovette attirare l'attenzione
del Pico, perché pareva
contenere un elemento
che poteva essere
pre— ^ zioso a risolvere
il problema centrale
dell'averroismo e che è
il problema centrale
di tutta la
filosofia, e cioè:
in che modo r
intelletto che è
un principio di
conoscenza universale e che
nella sua natura
trascende l' individuo, si
comunica a questo, puntualizzandosi nello
spazio e nel
tempo. Come ho
dimo- strato più volte, il
significato storico ed
il valore filosofico dell'averroismo consiste
appunto nello sforzo
di risolvere questo problema,
che, posto dai
medievali in termini,
se vo- gliamo, contingenti e
per noi inconsueti,
è il problema
eterno della filosofia. Il
trattato di Sigieri
di Brabante, De
intellectu, scritto in risposta
al trattato di
S. Tommaso contro
gli aver- roisti, questo trattato
di Sigieri che
si leggeva ancora
a Pa- dova negli ultimi
decenni del sec.
XV, suggeriva al
signore della Mirandola, studente
a Padova ed
averroista, una solu- zione della quale
si ha l'accenno
in due delle
« conclusiones secundum Avenroem»:
da un lato,
l'anima intellettiva è una
sola in tutti
gli uomini; dall'altro,
sembra possibile al Pico,
da un punto
di vista strettamente
averroistico, che la mia
anima, così particolarmente mia
da distinguersi dall'anima di
ogni altro uomo,
possa conservare la
sua individualità anche dopo
la morte. L'elemento prezioso
che il commento
di Simplicio forniva al
Pico, consiste nell'
idea, derivata da
Proclo e da
Giambhco, di un intelletto
che, uno in
sé, è capace
di parteciparsi, uscendo fuori
di sé, in
una discesa progressiva
verso le «seconde
vite», cioè la vita
vegetale e quella
animale, per poi
ritornare in sé, in
un circolo eterno
che ricorda, anche
nella curiosa coinci- denza dell'espressione verbale,
il processo hegeliano
dell' idea in sé
che, uscita fuori
di sé, ritorna
a sé come
spirito. Non è il
caso d' indugiarmi piìi
oltre ; ma
non posso non ricordare
la curiosa immagine
che il Pico
suggeriva al Nifo, professore
a Padova, durante
il viaggio che
insieme eb- bero a fare
diretti entrambi a
Bologna. L'unità dell'
intelletto umano non è
altro che l'unità
dell' idea platonica,
che si co- munica ai
singoli rimanendo, in
se stessa, una,
indivisibile e
immoltiplicabile. Ma, nel
comunicarsi ai singoli,
essa lascia in questi
un' impronta e
un vestigio che
permane e costituisce r
individuahtà dei singoli.
E, per rendere
il suo concetto, il
mirandolano ricorreva a
questo paragone. Come
per co- struire un arco o una
volta è necessaria
quell' impalcatura che chiamano
centina; ma quando
l'arco o la
volta sono co- struiti, si reggono
da sé, senza
bisogno di sostegno;
così l'anima individuale è
una partecipazione dell'anima
universale, la quale nel
corpo di ogni
individuo umano' lascia un'impronta in cui
consiste l' individualità di
ogni uomo. In tal
modo il mirandolano
non ripudiava affatto
il suo averroismo del
periodo padovano; ma
anzi l'approfondiva e lo
giustificava con un
concetto neoplatonico, sì
che il problema, nel
quale si dibattevano
senza via d'uscita
gli averroisti, pareva avviato
alla soluzione. Agostino Nifo,
professore a Padova
dal 1492 al
1499, uomo di vasta
erudizione, ma confusionario
e pretenzioso, credette in
un primo momento
di aver trovato
nel commento di
Sim- pUcio la piena
conferma alla tesi
sigeriana, che egli
ci attesta di aver
accolto nella sua
prima giovinezza e
poi con molta disinvoltura abbandonato. La vivacità
chiassosa ed arrogante
che il Nifo
metteva nel difendere le
proprie idee e
nel combattere le
altrui, contribuì ad attirare
l'attenzione sul commento
di Simphcio, del
quale frattanto fu preparata
l'edizione in greco
che uscì a Venezia nel
1527, presso i
Manuzio. Colui che
pur senza condividere le idee
del Nifo, anzi
combattendole apertamente, si
diede con ardore a
studiare il commento
di Simplicio al
De anima, fu Marcantonio
de' Passeri, detto
il Genua, professore
di filo- sofia nello studio
di Padova sino all'anno
della sua morte.
Di costui ci
resta un importante
commento al De anima,
pubblicato postumo nel
1576, a Venezia,
ad opera di fedeli
alhevi che si
giovarono dei manoscritti
lasciati dal maestro. Altre
due redazioni dello
stesso corso, tenuto
in anni diversi, ci
restano manoscritte nella
Biblioteca Vaticana. Averroista,
il Genua riteneva
di poter proclamare
il pieno accordo fra
Averroè e «
il divino Simplicio
», sia sulla
tesi del- l'unità dell' intelletto,
sia su quella
che vuole, contro
la cor- rente sigeriana del
Nifo, l'anima razionale
forma assistente e non
inerente o «
informante » del
corpo umano. Inoltre,
egli constatava l'accordo tra
il commentatore greco
e quello arabo anche
su altri punti,
segnatamente sulla conoscenza.
Nel far ciò, egli
si ado prava a
sviluppare alcuni motivi
platonici che realmente erano
latenti nel pensiero
averroistico. Naturalmente
il Genua
fu uno dei
più risoluti avversari
dell'ales- sandrismo, e riprese
per proprio conto,
come altri averroisti, la polemica
contro POMPONAZZI (si veda) e PORZIO (si veda), i quali,
al pari di Maggi,
di Landò e
di Giulio Castellani, s'erano dichiarati
per Alessandro d'Afrodisia. L'avvicinamento di
Averroè a Simplicio,
mentre forniva nuove armi
agli averroisti, sembrò
per un momento
smus- sare l'antagonismo tra la
filosofìa aristotelica e
quella pla- tonica, la quale
aveva avuto nel
Ficino un sagace
rinnova- tore. La scuola del
Genua pareva anzi
aver trovato nel
neo- platonismo la soluzione di
quelle difficoltà, che
furon lo scoglio contro il
quale l'averroismo doveva
naufragare. L'entusiasmo dei discepoli
incoraggiava ed assecondava l'opera del
maestro. Fra questi
merita di essere
segnalato Giovanni Fasolo, professore
di lettere umane
nello studio padovano. Era
da otto anni
allievo del Genua
e ben tre
volte aveva udito il
maestro esporre il
De anima, quando
condusse a termine la
traduzione in latino
del commento di
Simplicio sul trattato aristotelico,
stampata a Venezia
nel 1543. Nella lettera
indirizzata agli alunni
del Genua, e
premessa alla traduzione del
secondo libro di
Simplicio, il Fasolo,
dopo aver loro ricordato,
come il maestro
solesse a tutti
gli altri commen- tatori d'Aristotele anteporre
Averroè e Simplicio,
afferma che tutto quanto
v' è di
buono nei libri
dell'arabo, questi 1' ha
appreso dal commentatore
greco. E sebbene
egli riconosca, che, su
alcuni punti, non
s'arriverebbe a capire
Aristotele senza il commento
averroistico, tuttavia ne
mette in rilievo lo
stile, più che
disadorno, irto, oscuro,
barbarico, mentre
l'esposizione di Simplicio
è piana, senza
ambiguità, ed ele- gante. Forte di
questa constatazione, e
più ancora dell'esempio del maestro,
che non si
stancava di lodare
la divina esposi- zione dell' interprete
greco, il Fasolo
rivolge una calda
esortazione ai suoi
condiscepoli, perché vogliano,
ora che il
com- mento di Simplicio è
reso facilmente accessibile
a tutti, ces- sare di
logorarsi il cervello
sulle pagine scabrose
di Averroè, e s'affidino
invece all'espositore greco.
Si buttino pur
via tutti gli altri
commenti, quelli d'Alberto
Magno, d' Egidio
Romano, del Burleo, del
Suessano e d'altri
insieme a quello
d' Averroè, e si studi
invece di giorno
e di notte
soltanto Simphcio: «
alios negligite; Simplicium unum
vobis die noctuque
versandum proponite w.
Questo vivace appello
rivolto dall'umanista padovano
a cacciar dalle scuole
Averroè, era fatto,
a dir vero,
più in nome dell'eleganza e del buon
gusto letterario, che
non nel nome della
filosofìa; e pochi
l'accolsero. Sicché Averroè
continuò ad essere stampato,
letto e discusso
« in utramque
partem » nelle scuole
di filosofia durante
tutto il Cinquecento.
Ma quell'appello, ad ogni
modo, è significativo
del disgusto che cominciava così
apertamente a manifestarsi
per l'averroismo ormai prossimo
al tramonto. Chi credesse
che a questo
tramonto abbiano contribuito
lo spirito della controriforma
e i divieti
ecclesiastici, s' inganne- rebbe.
Chiarito ormai quello
che era il
significato dell'averroismo
come sistema interpretativo del
pensiero aristotelico, fu ri-
conosciuta tanto agli averroisti
quanto agh alessandristi
la più spregiudicata libertà
di discussione delle
loro dottrine « filosofiche
». Se qualche
tentativo fu fatto,
da parte di
qual- che zelante, di Hmitare
siffatta hbertà, si
tratta di zelo
ec- cessivo e di eccezioni
sporadiche. L'averroismo
volse al tramonto
sul finire del
secolo XVI e sul
cominciare del secolo
successivo, perché al
tramonto vol- geva ormai l'aristotelismo, del
quale l'averroismo pretendeva d'essere la
più fedele interpretazione. L'aristotelismo a sua
volta finiva per
interna dissoluzione, sotto
i colpi della
critica occamistica, la quale,
svalutando la conoscenza
astrattiva, metteva in evidenza
lo pseudo matematismo
dei procedimenti
gnoseologici che sono
alla base del
sistema aristotelico della natura,
e additava nella
conoscenza intuitiva lo
strumento della ricerca scientifica. La stessa
opposizione tra ciò
che è vero
per fede e
quello che è da
pensare secondo la
«filosofia», se pur
in qualche modo giovò
a rivendicare la
Hbertà della critica
entro i confini
della filosofia aristotehca, finì
per rendere sempre
più estraneo al cristianesimo raristotelismo averroistico,
il quale si
rivelava incapace di sistemare
l'esperienza religiosa che
trae impulso dal Vangelo.
11 platonismo invece
era parso al
Ficino una specie di
propedeutica al cristianesimo, sì
che sembrava agevole sviluppare in
senso cristiano i
motivi religiosi che
racchiudeva. S'aggiunga a questo
l'asperità di un
linguaggio che lacerava le
orecchie abituate dall'umanesimo all'armonia
e al numero della
retorica classica. Ma quello
che determinò il
crollo definitivo dell'aristoter- lismo e
dell'averroismo, fu il
nascere di una
nuova filosofia della natura,
fondata su un
nuovo metodo di
ricerca scienti- fica: la logica
dell'esperienza. Mentre i
precursori di Copernico, da
Nicola d'Oresme in
poi, avevano rimesso
in discussione l'antica ipotesi
pitagorica del moto
della terra, l'averroista
bolo- gnese Alessandro
Achillini alla fine
del secolo XV
e nel primo
decennio del XVI combatteva
perfino, come troppo
ardita, la dot- trina tolemaica degli
eccentrici e degli
epicicli, per ritornare
a quella aristotelica delle
sfere concentriche alla
terra, considerata il centro
immobile dell'universo. E
mentre alcuni scolastici
del sec. XIV avevano
dimostrato la possibilità
di un universo
infinito creato da Dio,
ed avevano preparato
la via al
Cardinal Cusano e a
Bruno, gli averroisti
del Quattrocento e
del Cinquecento continuavano ancora
a sostenere che
il mondo non
si esten- desse al di
là dell'ottava sfera
o, tutt'al più,
del primo mobile,, che
Dio stesso, nella
sua onnipotenza, non
potesse creare altri mondi
diversi da questo,
e che il
moto del primo
mobile fosse un movimento
assoluto, come punti
di riferimento assoluti erano, per
loro, il centro
della terra e
la convessità della
prima sfera. Questa angusta
concezione dell'universo fisico
crollava come un castello
di carte, il
giorno in cui,
col dialogo della Cena
delle ceneri e
con quello Dell'universo
infinito e mondi, il
concetto dell' infinito
faceva irruzione nella
filosofia della natura e
conduceva alla scoperta
della relatività di
tutte le determinazioni spaziali
e temporali. L'averroismo
fu sepolto sotto le
rovine della fisica
aristotelica. Ed anche il
tentativo del Pico
e del Genua
di svolgere ta- luni motivi del
pensiero averroistico in
senso platonico, col- l'aiuto
del commento di
Temistio e di
Simplicio e sopratutto- col sussidio
di Plotino, non
valse a salvare
1' averroismo come sistema.
Per ciò che
si riferisce al
commento di Simplicio,
nel quale avevano riposto
le loro speranze
il Genua ed
i suoi padovani,
non passarono molti
anni che PICCOLOMINI (si veda), il quale
dopo la morte
del Genua ne
occupò la cattedra
fino al suo ritiro,
potè dimostrare, con
un accurato esame dell'opera del
commentatore greco, che
la dottrina di
Simplicio, al pari di
quella di Proclo,
di Giamblico e
di Prisciano Lido, non
s'accordava affatto, come
avevano preteso il
Genua e il Nifo,
colla teoria averroistica
dell'unità dell' intelletto.
E se nell'averroismo v'erano
effettivamente quei motivi
platonici che ne svolse
Pico della Mirandola,
ciò che dell'averroismo sopravisse e,
mettiamo pure, sopravive
alla dissoluzione del sistema,
ha finito per
fondersi col pensiero
platonico successivo. Lo stesso
problema del rapporto
dell' intelletto coli'
indi- viduo, ossia del valore
universale dell' intendere
e dell' indi- vidualità dell'atto che
intende, che è
il problema centrale
del- l'avveroismo medievale e
del Rinascimento, s'
è rivelato mal posto,
pei termini nei
quali era enunciato,
e conveniva mutare i
termini per trovarne
la soluzione. Abano Abbagnano
Abubacher: (v. Aven- pace). Accoramboni Achillini
Achillini Achillini Aeternitni
a parte post,
aeternum a parte ante Agenti univoci
e sinonimi: v. Cause
Agostino (S.): Agostino
Moravo: Alabanti A.: Albategni o
Albattani: Alberto G. G.
Alberto Magno Alberto di
Padova: Alberto di
Sassonia, o Albertuccio: Albumasar: Alcocodem:
Alessandrismo: Alessandristi:(v. Averroisti). Alessandro d'Afrodisia Alessandro di
Hales: Alf arabi (Alpharabius), Abu
Na- sar) : Algazel
(Al-Gazali) : Alnwich Alpheeh, Averrois
filius: Alvise da
Brescia: Ammonio: Anassagora:
Anatomia: Angeli: Anima
razionale 0 intellettiva (v. anche
Intellectus e Uomo) Animarum descensus et
indivi- duano: Anima umana {Immortai . dell')
Anima delle piante
e degli animali: Anima mundi Annibale Camillo
da Coreggio Anselmi Antonio
Andrès: Antonio da
Faenza, v. Cittadini
A. Antonio da Rimini:
Antorosa (Antonino de) Apollonio di
Tiana: Aquila (Sebastiano
dell') Aquilano (de Aquila)
Aquinate, Aquino, v.
Tommaso d'Aq. Arcamona Arcudi
Arcudi Arcudi Argelati
Aristotele Aristotele Infallibilità d'Aristotele
(Contradizioni d') Aristotele
concordato con Platone: Aristotele (Pseudo)
Aristotelismo Averroismo Asìn
Palacios M. Astrologia
Giudiziaria: 27, Aulo
Gellio Avanzo Avenpace (v.
anche Abubacher) Averroè
(Averroys, il Commenta- tore per eccellenza
di Arist.) Averroè (Contradizioni d') Averrois filius,
Alpheeh. Averroismo: Avicenna: Bacilieri
Baconthorpe Badoèr Baeumker Bagaroto
Bagolino Gir.: Baldassarre
da Chiusi: Barbarigo
Barbarigo Barbaro Barozzi Barzon
Basilio Troiano: Bate Baumgartner M. Beatitudo
Copulatio, Felicitas, Perfectio.
Bembo Benavides, Bonavites Benavides Marco,
Marco Mantova Benedetto del Tiriaca
o del Triaca
Benedettucci Benozzo Gozzoli Benzi Bernardi
A., Mirandolano: Bernardino
da Feltre: Bernardo
Gir.: Bernieri da Nivelles:
Bertela Bertoldo di
Mosburg: Bessarione: Betoni
Gir.: Bettini Biagio
Pelacani Pelacani B. Bin o
Binno Jacopo de'
Tornasi: Bin o Binno
Matteo de' Tomasi: Boccadiferro BOEZIO Boezio
di Dacia: Bolderio
Bonamico Bonaventura (San):
Bonaventura Bonet Bonus
o de Bono
Gir.: Bonuso Bovio
(Dal Bò) Gir.: Bradwardine Bragadin
Bragadin Branca V.: Branda Porro:
Brenzio Bres.san B. Brotto Brunacci
Bruno Bruns Burana
Buridano Burleo (Burley)
Gualt. Buzacarini Buzacarini
Calcaterra Calcidio: Calcidonio
Calcidationes (v. anche
Latitudo formarum Calculator,
v. Suisset. Calfurnio Campano
Camillo da Coreggio:
Campeggi Campeggi Campeggi G.
Z.: Campeggi Campeggi
Campesano Campesano Caninio
Cantimori D.: Capitani
Capitani Capparoni Capuano
Caravegi G. Ben.:Carensio
L., detto il
Toseto Pa- dovano: Caro Carpi (Iacopo
Berengario da Carrano Carrati Casio Gir.
de' Medici: Casserio
Castellani Castrioto F.
: Castrioto Causa Prima:
Causalità efficiente e
e. finale: Cause
intermedie: Cause univoche esinanirne:
Cavalcanti Cavalli (de
Caballis, ab Equis) Champier Cr. Champier Sin.: Charpentier Chirurgia
CICERONE: Cicogna Cieli
: numero, ordine,
dipendenza dal primo
Motore, animazione, sfere celesti, v. Motori celesti,
Eccentrica ed epi- cicli,
Influenze celesti. Cielo, se
finito o infinito:
Circolazioni cosmiche: Cittadini
A. da Faenza:
Clough Cecil H.: Coclite Cogitativa
(o Intellectus passivus, Imaginativa) Colchodea: Commentatore, v.
Averroè. Complexio anche Mixtio Concorrenza (Istituto
padovano della) Contarini Contarini
Contarini Contarini Conte Contingenza:
Copernico Capulatio o
Continuatio intellectus
possibilis cum intellectu
agente (v. anche Intellectus
adeptus, Fe- licitas Corner Corner
Corradino da Bergamo:
Corrado d'Oria Coxe Creazione
Cristo «
primogenitus omnis crea- turàe
Cristoforo da Recanati Croce Cusano
Dalais Dalbò M.: Da Lion Dallari Dalla
Scrofa, famiglia vicentina; Dal Molino
Damaselo Dandolo M.
: Dante Da Porto D'Arco C. De caitsis
(Liber) De Corte Degli Agostini De
Ketam Del Bene Della Pozza
A.: Democrito Demolins Demoni:
Denifle H.
e Chàtelain Ch. De
Renzi De Wulf
M.: 8. Dimensiones interminatae
: Diede Diedo
P. Diedo Dio
(v. anche Causa
prima o Motore primo)
: causa efficiente e
finale, forma del
primo cielo Motore primo,
187-93; Infinità e onnipotenza
di D., se conosca
«alia a se Dionigi Areopagita
(Pseudo): Dionisotti Domenico
Indiano: Donato A.: Donato
Donato Donato Dondi
dall'Orologio C. Dondi
dall' Orologio Dorighello
Dotti Dotti Du
Chastel P. Duhem Duns Scoto
G. Duns Scoto G.
(Pseudo): (v.
Vitale du Four). Duodo Eccardo
di Hochheim: Eccentrici
ed epicicli: (v.
anche Cieli). Egidio Romano Egnazio Elementi
(v. anche Complexio
e Mixtio): proprietà, Elia
del Medigo: Emo Emo Z.: Empedocle
GIRGENTI Enrico di
Gand: Enrico di
Harclay Entisbery (cioè G.
di Heytesbury) Eternità del
mondo Eucliph G., V.
Wyclif. G. Eudemo Endosso: Eustachio
Rudio: Facciolati lac: Faenza Antonio
da E. Cittadini. Fantuzzi Faseolo
o Fasolo Favaro
Federico Romano: Felici
(Gir. de' Felicitas (v.
anche CopMlaiio Ferrari
Ferrari Ferrarini Ficino
Fidentius Petruslunctarius: Filippo
de Thoriaco, Filopono (Philoponus,
Ioannes Grammaticus) Filosofia. La
F. pei medievali, F.
e teologia (v. anche
Verità) F. e
cultura, F. e Medicina,
158; migrazione della
F., rinnovamento della F. in
Italia: Filosofo per
eccellenza: v. Aristotele.
Fiorentino Fr. Fogolari
Fontana Forma sostanziale
: successione delle forme,
produzione o generazione delle
forme, dator formarum
forma corporeitatis forma
mixtionis formarum intensio
ac remissio anche
Calcu- lationes forma constuens e
forma constituta Formativa Informativa. Foscarini Foscarini
Seb. Fracanziano o
Fracanzano Franceschetti Fr.
: 288. Francesco Securo
da Nardo: Francia Fr. Frati Gabrielli Gaeta Gaetano
(Card.), v. Tommaso
de Vio. Gaetano da Thiene Galeno
(Galenus, Galienus) Galil^ei
Gambalunga F. : Gand, v.
Enrico di G. Gandavo
(de), Gandavensis, Jandun
(Giov. di). Garin Gaspare
da Perugia: Gaurico Gazzoni Generazione
[cause della) : 86.
Generazione univoca Cause univoche. Gentile Gentile
da Foligno Genua (De
lanua) Genua (De
lanua, de' Passeri)
Genua (De lanua,
de' Passeri) N. Genua M.
A., figlio del
preced.: Genuli Gerardo da
Bologna Gerardo da Cremona Gesuati Ghero Giacobiti,
V. lacobitae. Giamblico (lamblicus)
Gian Michele de
Bredepalea: Gian Pietro de
Cararijs: Giason dal
Maino: Gilson Giordano
Bruno G. Giordano de
Nemore: Giorgio da Trebisonda,
Giorgione: Giovanni Grammatico Filopono. Giovanni della
Lana: Giovanni del Pian
del Carpine Giovanni da
Ripatransone Giovanni da Schio Giovio
Girelli Girolamo da
Monopoli Girolamo dal Muro
Nuovo: Girolamo (Pseudo
S.) Girolamo da
Verona, v. Torre (G.
della T.). Giulio Giustinian
Giustinian Giusto de'
Menabuoi Gonzaga Gosvin de
la Chapelle: Grabmann
Gradenigo Graiff Grassetto
Grassi Gravia et
levia: Gravina Graziadio da Venezia Gregorio Magno
(S.) Gregorio da
Rimini Grimani Gritti Grutero
Guglielmo di Moerbeke,
v. Moerbeke. Guido da
Pesaro Guinizelli G. :
loi. Hain Lud. Haly
ben Rodoam: Halyabbas:
Hauréau Hayduck Helias Cretensis,
v. Elia del Me- digo. Hervaeus Natalis: Hervetus Heytesbury
W., v. Entisbery. Hirsch Aug. Homo
significai coniposituni ex corpore
et intellectu: Honiinis dignitas:
Homo, microcosmus, nexus
supe- rioruni cuni inferioribus
: Horen Oresme (Nic.
d'). H vie eh: lacobitae (Giacobiti)
Iacopo da S.
Martino, o I.
da Napoli: Iacopo da
Venezia: Ibernico, Maurizio
I. Ideae, ideales rationes: Imaginativa, Cogitativa. Imagines astrologicae: Impetus: Individiiationis principiitìn: Informativa [Vis):
Intellectus (talora Mens).
I. vocatiis, assimilativus, Accomodatus acqitisitus, adeptus
(v. Co- pìtlatio), I- possibilis, potentialis,
materialis possibilis unitas poss. pura potentia
in genere intelligibilium , poss. unio
ad corpus agens perfectionis,
in actu, in
habitii, speculativus, progrediens
ad secundas vitas,
I. descensus, ascensus, I.
tviplex in homine,
impartecipabilis, partecipabi- lis, pariicipatus,
forma animae, passivus
(v. Imaginativa, Co- gitativa), Intellectum
(Intelligibile, species
intigibilis. Idea) : Jntellectiis et
voluntas: Intelligentia prima
(v. Dio, Motore primo
immobile) Intelligentiae separatae
(v. anche Sustantiae separatae): Intelligen- tiariim individuatio,
Int. motrici (v.
anche Cieli), In- telligentia
inferior cognoscit superiorem
per essentiam superio- ris,
Se e come
la mente umana conosca
le Int. separate, Intelli- gentiae propinquae uni
puro et longique ab
ipso Intelligentiae an dent
esse caelo, dipendenza dal
Primo motore, Intentiones
imaginatae, phanta- smata: Intentiones
priinae et seciindae
Ioannes Canonicus: Ippocrate:
Isacco IsraeHta: Jandun (Giovani
di). Io. de
Gan- davo, Gandavensis Kant Keeler
Kibre Pearl Krebs Kristeller
Lana (Domenico della)
Lancellotti (P. D.
Secondo) Landò Languardo
Latitudo formarum anche
Forniarum intensio et
remissio) Latituto intellectintiir. Latomus I.
Berganus: Laurent Lemay
R. Leone X: Libertà
e contingenza: Libertà
e necessità: Liceto
Lippi Lodovico o
Luiz A. Lodovico da
Varthema; Longo Longo Loredan Loredan
Loredan Loredan Lucano Luigi
da Porto: Lullo Luogo naturale:
Lorenzo da Noale:
Madio, v. Maggi. Madruzzo Maggi
o Madio Maier Malchiavello Malipiero
Mandonnet Mantova Marco,
v. Benavides. Manupello Manuzio
Aldo, il giovane,
Manuzio Marco Polo: Marino:
Marliani Marsilio da Carrara MarsiUo di
Inghem: Martino da
Lendinara (Fra) Martinotti
Materia prima: Matteo
da Ripalta: Maurizio
Ibernico (C Fihely, detto
M. I.) Mazzetti
Mazzuchelli Medici Medicinae prae stantia: Memo Memoria e
Reminiscenza: Mente [Mens),
v. Intelletto, Ani- ma intellettiva. Mente prima
(v. anche Dio,
Intelligentia prima): Mercati Mercuri
(Biagio de') :Merhno Michalski
Michiel Michiel Microcasmus:
v. Homo. Miliani Miliavacca
Minio Minio-Palnello Miracoli:
Mistica averroistica Mixtio elementaris
(v. anche Coni- plexio): Mocenigo
Mocenigo Mocenigo Mocenigo
Mocenigo Moerbeke Gugl.
di Mohler Moisò Maimonide:
Molin Momigliano Mondi
(Impossibilità di pili) Mondini Fr. Mondino de'
Liuzzi: Mondo intelligibile [Reminiscenza del): Monopsichismo, o Panpsichismo: Montagnana (Bartol. da) (iunior). Montagnana Montagnana
Montecatino Montesdoch Monti
Panf. Moog W., Ueberweg. Moro
Morosini Morosini Morosini
Mortier Moto naturale:
Moto violento: Moto celeste
(Eternità del) Motore
immobile (Primo); se muova
con vigore infinito forma dell'universo,Aloiori celesti
(v. anche Intelli- genze separate e
Cieli): rapporto coli' am- piezza e la
velocità dei cieli: Mùller
Regiomontano. Miindus
qualibet aetate perfectus: Munk S.: Mùnster
Mussato Musuro Nallino Napoli,
V. Iacopo da N.
Nardi Natura umana
(Decadenza della) Necromanzia:
Nemesio: Nicoletto Vernia, v. Vernia
N. Nicolò di S.
Sofia: 120. Nifo (Niphus)
A. da Sessa
(Suessanus) Nobili Nogarola
Numenio Occam Odi o
Oddi (Rin. degli) Odoni
Oldoino Oleari Oliva Omero: Oratio astronomica: Oresme Orestano Orlandi
Pagallo Paganini Panpsichismo, v.
Monopsichismo. Panizza Paolo Apostolo Paolo dal
Fiume Paolo dalla Pergola Paolo
Veneto (P. Nicoletti
da Udine Paolo Francesco Veneto:
Papadia Papadopoli Pardi Particolari (Conoscenza
dei) : Pascal
Pasolini Paschini P. Pasquale Pasquali-Alidosi Pasqualigo
Pasqualigo Passeri (De'),
v. Genua. Pazzini Peckam
(fra Pelacani B. Pelli Negre
(G. F. delle):
Pendasio Peretto, v.
Pomponazzi. Perfecfio (v. anche Forma
e Copnlatio). Pernumia Pernumia
Persiani Peurbach Philosophus Aristotele. Piccolomini Pico
della Mirandola Pico
della Mirandola G.
Fr. Pietro de
Cruce: Pietro da
Mantova: Pietro da
Reggio Pietro Veneto Pinelli Pio Pisani
Pisani Pisani Pitagora Pitagorici
Platone Tentativi di accordare
P. con Aristotele Platonici Plotino
Plumazio Plutarco d'Atene Podestà Polcastro Polcastro o
Porcastro Poliziano Polo Pomponazzi
P. da Mantova,
detto il Peretto Mantovano Ponte (Gir.
da) Porfirio Portenari Portenari Porto Porzio
Praecantatio Prassicio Fratelli Prisciano Prisciano
Lido Probabilia Proclo Profezia Prospero
da Reggio Querengo Querini Quétif-Echard
Quirini Quirini e
Querini Ragnisco log, Raguseo
Rangoni Rannusio Rappi
Cristoforo Crist. da Recanati. Rasis Regiomontano (Miiller
G. da Kònigsberg) :
Reminiscenza, v. Memoria. Renan Ricco Risurrezione dei
morti: Ritter Roberto
Kilwardby Robortello Roccabonella Rochelle
(fr. Giov. de
la) Roselli Roselli
Roselli Trapolin Rugerijs (Lod.
de): Rugerius, per
Sugerius Ruggiero Sabellico Saitta Salinatore
Salomonius Salvato da
Cagli: 366. Sambin Sanseverino Sansone Sanudo
o Sanuto Saraceno Savorgnan Scaligero Scardeone Schedel
Schegkius Schlosser Scienza
umana anche Intellectus,
Intellectum, Ideae). Scoto Ottaviano
Secondo Segarizzi Securo Francesco
da Nardo. Sepulveda Genesio Serapione Sermoneta Serrano
Sessa, Suessano, Sexa,
v. Nifo Sighinolfì Sigieri
di Brabante Silvestri (Frane,
de' S., detto
il Ferrariensis) Silvestro (Padre)
da Valsansibio Simeoni Simone
o Simeone d'
Este: Simoni Simone Simpliciani Simplicio Sirleto Sisto IV Socrate Solerti Solino Sostanze separate
(v. anche Intel- ligenze sep.): Se ab- biano una
causa efficiente Se e
come la mente
umana conosce le Sparaini
(Assalone de') da Cesena: Species
intelligibile s, v.
Intellectum. Speranza Speroni Speroni
Sperone Spinelli Spinola Starniti
(? maestro de') Steenhawer J., Latomus.
Stefano d'Alessandria: Stegmùller
Steinschneider Steuco A.
Eugubino: Storcila Suessano,
v. Nifo Suisset, cioè
R. Swineshead, detto il
Calculator Surian A., Patriarca
di Venezia: Surian A.,
nip. del prec: Suriano Suriano
Sylvius Laurentius a
Portu Caballensis: Swineshead,
v. Suisset. Taddeo da
Parma: Taiapietra Taiapietra Tasso Taucci
R. M.: Tavole Alfonsine:
Tedoldi Teodorico di
Vriberg Temistio Teofrasto Teologia,
v. Filosofia e
Teol. e Verità Pretesa dottrina
della doppia Terra, se dovunque
abitabile: Théry Thorndike Tiepolo
Tiraboschi Tiriaca Benedetto del T. Tolomeo Tomasini Aquino Tommaso di
Strasburgo Vio Tommaso di Wilton Torre
(Gir. dalla T.
da Verona Torre (M.
A. Dalla Tosetto Carensio.
Tostado Traini Trapolin
Tropolin Trapolin Trapolin
Trapolin Fr., senior: Trapolin Fr.,
iunior: Trapolin Trapolin Giulio Trapolin Lanzaroto Trapolin Trapolin Marina
in De Lazzara Trapolin Trapolin Trapolin
Pietro, senior: Trapolin
Pietro, iunior: Trapolin Trapolin Trapolin Trapolin Ubaldo Trevisan Trevisan
Trincavelli Trionfo Trissino
Trombeta o Tubeta
Tumminelli Turchi Ueberweg
Ueberweg F.-Moog Ugo
Benzi da Siena: Ulrico
da Strasburgo Universale anche
Intellectus universalia
physica, realia Universo aristotelico
(v. anche Dio, Causa
prima. Motore primo): se
finito o infinito eternità e necessità
dell'u.: Valentinelli l'aristotelismo padovano Valier Vanni-Rovighi
Van Steenberghen Vedova Venier Venier
Venier Venier Verbeke
Verci Verini Fr.
Secondo Verità Pretesa dottrina
della doppia Vernaleone Vernaleone
Vernia Vernia Nicoletto
da Chieti : V Vimercate Frane,
da Virgilio Virtus sancta Intellectus
assimilativus Visione beatifica Vitale
Vitale Vittori Volta Voluntas et intellectus Wadding Wyclif
Xiberta Zabarella Zaccaria
da Milano Zane Zeno Zimara Zimara
Zimara Zimara Zimara Zerbo Zerbo Zonta Zorzi
Firenze. Bruno Nardi. Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo, Pomponazzi,
Virgilio, Enea, inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana nel secolo
d’augusto – il secolo d’oro della filosofia romana – il secolo augusteo, pico,
abano. Refs.: H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate,” The
Swimming-Pool Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il paradiso
filosofico” --.
Grice e Nasta: la
ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia calabrese --
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio Calabria, Calabri. A
Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di Pitagora.” Grice: “Cicerone argues:
Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.
Grice e Natoli: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’uomo tragico – origini dell’antropologia romana -- filosofia
siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Patti).
Filosofo italiano. Patti, Messina,
Sicilia. Grice: “I like Natoli. He philosophises on the ‘uomo tragico’ at the
source of western civilisation, and also the experience of ‘pain’ at the source
of it.” Si laurea a Milano, dove ha trascorso gli anni nel
Collegio Augustinianum. Insegna a Venezia e Filosofia della politica alla
Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano.
Attualmente è Professore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze
della formazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Attività
accademica In particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un'etica
neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il
senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza
dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito, in
contrapposizione con la tradizione cristiana. Filosofia del dolore Una
particolare e approfondita analisi sul tema del dolore è stata condotta da
Natoli in diverse sue opere. Il dolore è parte essenziale della vita e
per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della felicità: «I
greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele e
insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire, ove
non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si volge
nella gioia e la gioia nel dolore» La natura infatti dava la vita e nello
stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della vita
ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi soffre
percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante per
chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si sente
importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è
importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte. Secondo Natoli
l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo, il danno («Nel momento
in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa, colui che soffre non solo
patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»); e uno soggettivo, cioè
come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è
interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa
parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece,
è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene
associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa
sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga un dolore
diverso. Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore
causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione
del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe
quello abbia commesso e, infine, perché il dolore travagli il mondo. Il
tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo
scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo
dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere, tenendo
sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva
sconfitta. Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita
ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece,
ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi
ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando
diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la
fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo
distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra
due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza
del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché
«il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il
corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle
possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.» Sebbene il
dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso
inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la
tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non
annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola
per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune
sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua
singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha
alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita
tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia,
creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza
della morte: «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso
dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del
progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il
peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha
conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è
nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali
modificandone i cicli…» Una soluzione all'inevitabilità del dolore può
essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca
dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo. «Il
cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo
senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede
che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un
sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole
che ci sia.» Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito, ma
non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il
cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione
della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna
di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos,
che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio
eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell'universale
fragilità umana. Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi su Aristotele e
Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio” (Venezia, Marsilio); “Ermeneutica
e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano, Feltrinelli); “L'esperienza del
dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli); “Gentile” (Torino, Boringhieri);
“Vita buona vita felice -- scritti di etica e politica” (Milano, Feltrinelli);
“Teatro filosofico -- gli scenari del sapere tra linguaggio e storia” (Milano,
Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia, espressione, verità” (Milano,
Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria degli affetti” (Milano, Feltrinelli);
“I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario dei vizi e delle virtù”
(Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma, EL); “Soggetto e
fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della filosofia” (Milano,
Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori); “Natura, poesia,
filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche della
modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana); “La
politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza
del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o
della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente”
(Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano,
Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al
mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della
filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco”
(Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana);
“Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana);
“I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano,
Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa,
Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla
felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso”
(Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il
crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione
di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso
del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure
d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia”
(Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli);
“Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I
comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del
corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le
virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli);
“Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore. In L'esperienza del dolore. L'esperienza del dolore nell'età della
tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa, I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Intervista per Il Rasoio di Occam, Video
intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta
minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli.
Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora
di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Nausito: la
ragione conversazionale della scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Firenze, Toscana. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita
di Pitagora.” He rescues Eubulo di
Messina, another Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone argues: Nausito
speaks Greek; he is, therefore, no Roman!” – Nausito.
Grice e Nearco: la
ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A
Pythagorean, he plays host to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures
Taranto from the Carthaginians. Grice:
“When in Athens, and although he knew some basic Greek, Catone refused to speak
it – and demanded an interpreter. I assume he demanded an interpreter when he
was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.
Grice e Nicoletti: la
ragione conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine).
Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia
Giulia. – Grice: “His diagramme for ‘arbor porphyriana’ is also brilliant –
ending with “Plato,” “Socrates.”” -- Grice: “I especially like his squaring the
square of opposition!” -- Grice: “A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not
under ‘Venezia’! -- paolo di venezia: philosopher, the son of Andrea Nicola, of
Venice He was born in Fliuli Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine
O.E.S.A., he spent three years as a student at St. John’s, where the order of
St. Augustine had a ‘studium generale,’ at Oxford and taught at Padova, where
he became a doctor of arts. Paolo also held appointments at the universities of
Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active in the administration of his order,
holding various high offices. He composed ommentaries on several logical,
ethical, and physical works of Aristotle. His name is connected especially with
his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive, and more than
forty printed editions of it were made, His huge sequel, “Logica magna,” is
a flop. These Oxford-influenced tracts contributed to the favourable climate
enjoyed by Oxonian semantics in northern Italian universities. Grice: “My
favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”how peaceful for a
philosopher to die while commentingon Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus.”— Paolo da Venezia Nota
disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai
cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita.
Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto,
vero nome N. (Udine), filosofo. Eremitano, studente all'Oxford e docente a
Padova ove ebbe tra gli allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore
veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna
ma, dopo, gli fu consentito di tornare a Padova. Seguace di Occam e Brabante
e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio. Il suo trattato “Logica
magna” e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può
essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo.
Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele” “Expositio in libros
Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super
Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione”
“Lectura super librum De Anima” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones
Politicorum” “Expositio super Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla
logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”;
“Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa
Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi.
Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N Dizionario di Filosofia Treccani,
riferimenti in. Vedi Pergola, Dizionario di Filosofia Treccani. Garin,
Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi
editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del
reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: "A
Biographical Introduction to N, Augustiniana. N. Logica, Venetiis, Imperatore, Imperatore,
Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information, Stanford. Filosofia.
DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI
NICOLETTO PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO
Informazioni ★ Udine † 15 giugno 1429, Padova
Forma alternativa Paolo Veneto Attività agostiniano, teologo, filosofo Luoghi di attivi tà Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia,
Kosice, Siena, Bologna, Perugia Immagine del soggetto Paolo di Nicoletto in
cattedra (Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 [2464], f.
162v). Come per la maggior parte dei protagonisti della vita
intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come
Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue
origini. Nacque certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto
del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal
1352, quando fece richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il
nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene
da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da
prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese
Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che
deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro
Martire, risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di
un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica
quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella descritta in una nota
manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone, relativa ad un
«Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea di eruditi,
dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di
Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894.
Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli
Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli
compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al 9 dicembre 1387,
quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come
studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium
generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31
agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano
Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della
provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per
intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in
teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per
gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università
di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da
Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti
agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità
di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati
dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a
Padova, sempre insieme al cugino, mise a frutto questa esperienza nel corso del
suo insegnamento come “cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come
“lector”, sino al 1401. Risale a questi anni la composizione delle sue opere
logiche più fortunate, la Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa
ancor oggi in oltre 80 codici e in 25 edizioni a stampa, è un manuale
sintetico, ma molto aggiornato, composto sul modello dei manuali inglesi
contemporanei, che arrivò negli anni a contendere il primato nel settore alle
duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio
nel curriculum universitario padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La
seconda, molto più estesa, conobbe invece una diffusione assai più limitata,
anche perché, rivolgendosi agli specialisti, forniva un panorama approfondito e
molto dettagliato di tutte le più recenti dottrine logiche. Testimonianza in
quegli stessi anni (1396-1397) dell’interesse immediato che le novità importate
da P. seppero suscitare si riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a
Padova e poi “magister” di filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian
Ludovico Lambertazzi, professore di diritto presso lo studio padovano, e allo
stesso Paolo Francesco di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in
corso di redazione. Fu con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi
anni del XV secolo, impegnato a completare il suo curriculum accademico con
un’intensa attività didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere
in teologia fu la Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae
abbreviatio, terminata prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in
filosofia (anch’esso parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono
ricondurre varie opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum,
le Conclusiones Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e
probabilmente anche due opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo
primo grande commento aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum
Analyticorum, fu compiuto nel 1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di
“magister artium et theologiae”. A quest’opera logica fecero seguito,
rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due opere di filosofia naturale: la Summa
philosophiae naturalis e l’Expositio superPhysicam Aristotelis. A partire dal
1408 troviamo il teologo agostiniano tra i promotori dello studio padovano,
quindi l’inizio del suo insegnamento universitario deve essere collocato prima
di questa data (in precedenza la sua attività didattica si era svolta
all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel periodo che va dal 1408 al
1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di promotore, nei registri
delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra
coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto il suo magistero si
annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro Giustiniani e Marco
Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni
Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele Savonarola, il giurista
Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli succederà sulla
cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività accademica, in questi
anni P. assunse anche responsabilità all’interno della sua congregazione
ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di maggio 1409, poco
più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa, il pontefice
Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nominò vicario generale
dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta in questa
carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del papa al
concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio 1410,
forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegnò il suo
incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore provinciale della
Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di Venezia,
comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da Ancona,
reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In breve tempo
le relazioni di P. con il governo della Serenissima si fecero ancora più
strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda presso il re
d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora diviso da
un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della Dalmazia, con
l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale che doveva
tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese ebbe termine
nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo veneto utilizzò
nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania e presso
Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi incarichi la
Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il sostegno nel
conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da Biagio Pelacani
da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo studio padovano
per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto. Ancor più
importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un momento
assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di Sigismondo
che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di Ladislao
Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per stabilire con
la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere Sigismondo
da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana. Le
istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare al
re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi
volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a
Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si
trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re
Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima
fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di
fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della
Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal
re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito
che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli
ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la
pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa
diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di
mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di
ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli
traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto
negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole
rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole
esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti
dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico
proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo
periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima,
una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura
super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna
accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il
senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio
Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza
permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da
accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza
espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la
richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello
stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica
di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in
altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi
provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono
l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca
Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva
più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro
l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli
concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio
poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì
a qualche anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica veneta
si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il
teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo
dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un
procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in
settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni
qualora avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del
dominio veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di
rimettere nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni
connesse con la sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato
dal generale al convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare
nello studio di quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in
territorio veneziano fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per
quattro anni; in questo periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo
Barzizza che tenne la sua orazione funebre presso lo studio patavino, collocano
un episodio in cui P. avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e
sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello,
che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno
scritto antiereticale di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute
tracce. Il 26 maggio 1422 venne designato reggente, per l’anno 1423, dello
studio agostiniano di Siena; il 14 marzo 1423 redasse per la prima volta un
testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli
veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su
licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di
risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto
sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse
quello veneziano di S. Stefano. L’anno successivo, il 23 marzo 1424, P. venne
assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello studio
cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda una
sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di
inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna
tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al
convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio
cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività
didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani
per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo
commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super
Praedicamenta Aristotelis, che fu completato l’11 marzo 1428. I registri
dell’ordine agostiniano informano inoltre che il 3 luglio 1426 P. redasse una
seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la
sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo
di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni
volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. Nel 1427, in occasione delle
dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il
convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui
toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello
di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire
insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei
Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté
far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per
pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di
Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la
sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò
anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le
Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione
Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo
di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro
Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante
pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti
logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello
studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine,
improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea
vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e di Tommaso
d’Aquino nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito
scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un rinnovamento
dell’orizzonte culturale europeo. CHIUDIAndrea Tabarroni Bibliografia M.
NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi, 628. F. MOMIGLIANO, Paolo
Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo
(Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine, Tipografia G.B.
Doretti, 1907 (estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine», s. III, 14); R.
CESSI, Alcune notizie su Paolo Veneto, «Bollettino del Museo civico di Padova»,
12 (1909), 79-92; G. GENTILE, Intorno alla biografia di Paolo Veneto, in Studi
sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1920, 76-86; F. BOTTIN, Logica e filosofia
naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia all’Università di
Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste, Lint, 1983, 85-124; A.R.
PERREIAH, Paul of Venice: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio),
Bowling Green State Universiy, 1986; S. DE FANTI, La missione diplomatica di
Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo contributo polacco allaconoscenza
della biografia del Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria
di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la
collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto editore, 1995, 69-90; A.D. CONTI,
Essenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero
filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto storico italiano per il medio
evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione universitaria di Paolo Veneto,
«Annali di storia delle università italiane», 2 (1998), 125-137; PAULUS
VENETUS, Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber
1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2000; PAULUS
VENETUS, Logica Parva. First
Critical Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2002.LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis
quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI
HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos
facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro
Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME
YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti Heremita
Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in animo
studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re est
annexa doctrina. Ideo volens
cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5.ethic, turam extremt, compendium
utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus,
Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit,
solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait
t-C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum , ideo Dislot tractatus
primus terminum sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et
eius divisione quide. i. II suppositionum declarat mareriam. III
consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V
ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam.
VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST
SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars
propinquae iusdem , ut: “homo” ,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur
propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di
2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo.
Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et
remotas, propinquatop.c. 2 cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui
per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,”
“quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda
significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter
si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd
RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD
PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est
re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui
apud nosft. B Paul. sin significat
‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci (“anthropos,”
“aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et quida3 S.colū.
SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia
particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbiauerbum, et
coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque effet,ficut TRACTATVS
Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est
ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet
proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio
divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac
SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus
nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”,
“nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et
coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal.3.quia determinant
distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes.
Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis.
Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis significans non ter
D“homo, significat sor. & pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus
autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum
A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium,
propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis vel scriptus
significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel
scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin
complexi, et quidam complexi. Terminus in 6.diui complexus vocatur dictio – ut:
lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est]
albus”, lor. et Paul.in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter
considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN
est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid
significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur
terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua
verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt
nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”,
et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ
significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant
separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo
er.c.c Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam
secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi
Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et “animal” in voce vel in
scripto.Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo
ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset
extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c
vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad
eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg
autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus
significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia
hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus”
deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et
verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est
oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum
generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta.
Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila
quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species
orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo
currit” . Alia est oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie
ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate.
VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod
significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad
differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare
fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel
falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso.
Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem
imperativa nec optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer
tales orationes. Cortes potest , plato in PS pro qui alia
categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ
habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui –
ut: “Homo est animal.” l o ,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”,
prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit
tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod
patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est
currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut:
“homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum
substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De
quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum & C
differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint
indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini
cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas
sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est
propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ
non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa.
Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale
affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in
qua er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S.
Propositionum categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio
categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum
signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es
vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi
her. C. 5. . a4 1 mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic
substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur
propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam
et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia
contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum
significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa
cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et
voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel
falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia
nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est
universalis, particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio
universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali
determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti
nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista:
“omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet,
quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur
terminus comunis igno 4. diui afol.significatum primarium et adequatum
propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel
coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.” ,
diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es homo.”
Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis.
Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum
significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et
adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est
impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne
cella larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum
singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B quitur iam quæ
est caregorica nullius quantitatis. Et
dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita,
nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet,
“Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo
est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u.
Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de
propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda
autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua
vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan
tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm
exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus.
Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum
categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa
in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari
determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt
ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi.
Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis
SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis
est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum .
col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi. sor.currit.
Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum vel
singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia dein
efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non
ponitur aliquis modus 1: Figura de in effe. r e r e
.Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium,
contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso
et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua
modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem
possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua
modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est
necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus
originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de
sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda
cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de
currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne,
subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit, subcontrarie
reasu diuisio Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit .
Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee
curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito.
Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne
dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic
Contingens et por, non currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for
currtre , A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric
Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut:
“Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et
particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis,
supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut:
“Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa
et particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis
affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus.
precisepro eodem vel pro cisdem , fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ
primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est
determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De
figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ
PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus po. disiuncti. 15 De praedicabilibus Tractatus
tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione norum quando
fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib De
converfionetibus supponis et de diuisio De suppositione per de natur
appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum De duabus alös diui De
supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de
relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens
C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem
prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus
est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc
consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus
consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De
gradu comparati De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert
positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter
sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De ly
incipit et defi : impertinentes nir nens. De officialibus pro De
defini libus. po. de reg. eius. inferius De regulis poncs pro De
exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly
totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter
obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper
De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et
di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi milibus
propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs
.hui? De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos
mi. De insolubili particu huiuspri De insolubilibus no é de obic
Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De
obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et
diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re
minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo
figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus
Obiectiones contra dif habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari
vel indefinito mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in
maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis
con car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs
ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta.
Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto
tracta Antonñ Iunte Florentini Registrum illaiquaiferi predicaturde
terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ
Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein
quareficpdicaturde illiseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini
dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila
Acchrétēmin vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere
fpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo
Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi
rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic
dedriaz idiuiduo dicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg
pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu
sub cozpoze aiato a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat
ioautaccica est piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze
foztesz plato. bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum
predicame bus. Termin superiora dre tu est pdicamentu quátitutis
liquúdicitureffeillequicon Lui generalisfimúeftquäti.
tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial respectuisti terminihó
alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz? di
bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur
effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus
locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini
bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties.
f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő
ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma
nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius quaterna
rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium
piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus
insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale
nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p
potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis
Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi
generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica
dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu
matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto
risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir
calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua suntheç
fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau.
bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut
tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger eilögumficdiminuer
gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt
cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuidua funtficcalefa
Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú
eft relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera(
diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum
est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė
paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp
dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur.
Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé
currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin.
cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16
terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar
rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis diuifio
cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé factamoqualisre
quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne damodalisofenfudiuisore
gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad interrogatione factaze
tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito fiacefisdispata qua
particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum
eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez
poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte
Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo.
non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có
posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit.
Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria
Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere
ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit
fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé
dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis affirmatiua bononcurrit. neciftefubala
zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup
bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp
proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero'
bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua
tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur
propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp
alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo
ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars
negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö
fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè
tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt
iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo
curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla
eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim
culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis negatiuaa particularis
gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis
probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se peodez
velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono
n eft alby alternein figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó
currit. Dar aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia
regulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó
effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio eftiftaterminori
vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio, sebutcomienicu
damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione. Tedium cóftitué
aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya tezinajoftudentiuznecno
terminiple fignificatius Pericarione perforsales aliornimia; breuitatez.gbɔ eft
ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang
Ideo volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi.
iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla
nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu
gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo . eiusdeestrepsentatiuusficut
firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po
AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é
pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi
lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto
isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú
apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci:
fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem
argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun,
gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum
füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum
mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin
simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical minátdistributiver
particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes
platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes
Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta
diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar.
Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe
intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu? Fineté
pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq
effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus
locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e
Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát
quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz
ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus
similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore
addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe
IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri
toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia
ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter
ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter figificatiu?zertre
terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu
aliquid significat separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria
nirocales vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium
ói uusad differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine
tempore non quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin
rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií
lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero
quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i
nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi
dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria, madevenirate
Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista
quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat
animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit.
sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe
propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte
catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria
particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni
rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica
Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari
illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato.
busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5
cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz
predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod
patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum
participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe&
aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca.
currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm
neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius.
tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola
diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim
particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz
Secunda oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi,
tiones foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua
eft ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies
apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo
pzopo çatbegozica negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene
primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est neceffariumvtoe
divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens goricaralia veraalia falsa.
Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó
tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco
fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest
boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo
tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó eftfimileorationi
thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn ' titatis alia
nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues 'thegozicaalicuiusquantitati
bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó
ticularis indefinita vel singu ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop.
vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri
mõisunt significata secuidaria comunis figno vniuersalides gacia.Prop
cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep povera
terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla. Propocathegorica rit.
Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz
adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa
vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali
vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi
poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua
uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris
particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat.
Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus
terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie
feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi
gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti
lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif
realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä
fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut Toutescurrit. ermfiillebo
vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num
discretumpelfingularé ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo
fibileefoxtemcurrer. Modiy Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet
porsi, ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu
turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil
Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst
ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep
sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä
nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi
timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip. qualif
Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama
psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe
fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė
tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer
nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci,
fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore gatiua. Sed itertiadenotat
habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2
quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua particularis indefinitavelfin
rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.:
gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones duealie decla
Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz
currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie
Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ
Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibileeft
soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere
Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne
Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie
Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit
fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie.
Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala
zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup
bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp
proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur
provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et
pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib
?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib?
pcirepeodévelp alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu
natura.quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia
regľaviuě duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa.
Primapars negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et
ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis
fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó
albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft
quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui
Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit. Quartaregla
eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim
cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis
gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur quoniamistafuntfi
2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus.
Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et
currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol
Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa
poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter.
Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14.
Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit
definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera
uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui
raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis
bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi
albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria
reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula
quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil;
bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr
recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz
. ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató
leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete
contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet
SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar
lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal
animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz
postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem.
Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci
curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul:
Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz
letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra,
acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca
gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz.
curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó
estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo
fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon
tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura
uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora.
finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon
pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē
puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci simpliciter
Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul
traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio
ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz
éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia
firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš
effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega teripuersa.Ad63picogi
tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft
puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis
ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium
Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane
ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom?
Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa
recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar
ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri
nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen
fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal uerfo.lzñéita i puersione
p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet
Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica,
litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero
vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó
funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis. Hulla
atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun & plures
catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi.
tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic
Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego
5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis
cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu
eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue
requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia affirmatiuaa
lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur eremplumpofitu
eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt
fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi vera eft quista repugnanttu
nus. csbomo tunoessial. An Et semper
negariua proba tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate
sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer
equiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu
tuesaialest consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf
alfitatem copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam
"sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom
cumancedente vifituesbó atucurris. tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd
possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar
itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs
Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe
pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi functionis;
adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet
partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia
affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa éil,
laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur tertiapartir
litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó
ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ
aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc
firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca
tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes
aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates
difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam
difiunctionis. tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus.
Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem
possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul
partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez. eremplu
Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris.
7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu
temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla
eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed
ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif
qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt
homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft.
tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec eidéicópofi
affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé
pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser}
Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario
afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud
effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon
coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke
porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños
vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine & filace
prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa
Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat & difiurgatriper
Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et
iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin coligititommdig
ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide
itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo
neltuesani bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris .
q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura
fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis
géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin,
duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus.
risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis.
mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup
túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói
dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe
ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo
dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee
ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod
rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus
generaliffimúéter autpofit? Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot
lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin
vniuoclis nus subalternúeftterminus Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe
termin? fimpler plura signifi species vtaial.eeniz genus cásfm
vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde boqo significatfoztezplato
rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác Spesestterminusvniuo/ rationeať
raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil qodiciturterminus fimpler
ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla ercluditter
minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu
iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő
Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna
Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu
rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina
cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale
vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri
lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt
bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin?
uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe
plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai
piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter
termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero
quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti,
làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe
přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica
paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur
cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno qzaditërogatóemfactaper
puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes respondetur
predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er
Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod
tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo
rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin
illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo.
sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7 totaratio
quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofz quod
éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo
conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod
caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo
Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi
rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic
dedriaz idiuiduo dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė
mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať
dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi
afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato. bzunellusfa
dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre
tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis fimúeftquäti.
tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial respectuisti terminihó
alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di
bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur
effe fpeties linea superficiescoz illequi cótineturabeo. nnó
pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi
iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis Lozpozea Jnco: pozea
infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu
zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuz est
forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitas figura us
trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina
Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu
iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale.
tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates
Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum
sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc
cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica
logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå
rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum
Lertijgenerisfpessunto risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz
?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez
cum. quarú idiuidua sunt heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal
quarti generis (pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila
Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra
augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua
funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar
idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo,
camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada.
súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu
altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se
predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu
fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene
tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt.
zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo
fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi
tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis
fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic
gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči.
primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi
generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua
diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b Logica Parva: Critical Edition from the Manuscripts
with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica magna, Venezia:
Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna: Tractatus de
suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan Institute;
Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann, Oxford; Logica
magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et contingentia futurorum,
Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3: Tractatus de
hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4: Capitula de
conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule
6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de
significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II,
Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea,
Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis
de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in
duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval
Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in
libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ
Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super
commento Averrois, Venezia; Expositio
super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus
Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus,
extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B
in Conti, Sharpe: Quaestio super
universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in
two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca
Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem
Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini,
AQUINO (si veda), Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence,
Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di
Alessandria come fonte di N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum
Seraphicum, N. on the nature of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note
on N. and the Oxford Logica” Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the
Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas
(trans.), Notre Dame, IN: University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni
condizionali, consequentiae e PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson]
in N.” Medioevo; La scienza degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle
origini del paradigma nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini:
Maggioli; N. e il problema degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e
scienza moderna, Padua: Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N.,
Scienza e filosofia a Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note
sulla Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.:
Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English
Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in
N., Teoria; Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di
N.,” Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio
muratoriano; Il sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms
in Medieval Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e
strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome:
Edizioni dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”,
Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas
and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Complexe
significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente, Medieval
Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki; Opinion on
Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s Theories
Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; N.’s
Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin
Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima
e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The
Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Garin,
Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the
Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La
supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda),
Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval
logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy; Kuksewicz,
N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza
moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De anima di N.,”
Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez Burleigh et N., Maierù,
English Logic in Italy , Naples: Bibliopolis; Musco, Compagno, Agostino, Musotto,
Universality of Reason, Plurality of Philosophies in the Middle Ages, Palermo:
Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e l’averroismo padovano, Saggi
sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI, Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories
of the Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of the Bearers of Truth
and Falsity, Amsterdam: North-Holland; Medieval Problems concerning
Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari, Mugnai, Storia della Logica:
San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla Logica di N.: la critica
alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si veda), Congresso di
Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the Senses Cannot Occur: N.’s
Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale; Perreiah, Insolubilia in
the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green,
Ohio: Philosophy Documentation Center. Prantl, Geschichte der Logik im
Abendlande, 4 vols., Leipzig: S. Hirzel, Graz: Akademische Druck- und
Verlaganstalt; Ruello, N. thélogien ‘averroiste’?,” Jolivet (ed.), Multiple
Averroès, Paris: Vrin; Introduction,” Ruello, Super I Sententiarum Johannis de
Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Firenze, Olschki; Strobino, N. and MANTOVA
(si veda) on Obligations,” in Musco; Van Der Lecq, N. on Composite and Divided Sense, Maierù, English Logic in Italy, Naples:
Bibliopolis, Wallace, Causality and Scientific Explanation, Ann Arbor:
University of Michigan. Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Paolo da Harborne, and
Paolo da Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera.
Luigi Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Negri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercato). Filosofo italiano. Mercato, Napoli,
Campania. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si è laureato a Napoli
prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo maestro
Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo.
L'intensità con cui Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è
concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo
poi in testi quali: “Giovanni Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile
educatore.” Innumerevoli sono gli scritti dedicati all'idealismo
hegeliano, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni
hegeliane,” e “Hegel nel Novecento,” e le traduzioni di opere hegeliane come
“La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.” A queste traduzioni si
aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e
sociologico. Ha ricevuto il Premio San Gerolamo. A N. si deve
anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana,
come quelle di Emo, Michelstaedter ed Evola. La sua carriera lo ha
visto professore di Storia della filosofia in alcune delle più importanti
università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università
degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico
universitario. Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato
impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle
più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il
«Giornale Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I
Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle»,
«L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic
Studies». Collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il
giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e
«il Giornale». Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per
la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam
(«Filosofi italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani
(«La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione»
della Armando Editore. Gli è stato assegnato, a Palermo,
dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da
Fallica, il «Premio Nietzsche». Saggista sempre molto prolifico, ha
continuato a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti
ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il
De persona. L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e
molteplicità culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia
dell'integralità, Edizioni di Ethica, Forlì. Collegamenti esterni
«Négri, Antimo», la voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana.
Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Ultima modifica 1 anno
fa di un utente anonimo Bertrando Spaventa filosofo italiano Michele Federico
Sciacca filosofo italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante
in Italia nella prima metà del XX secolo Antimo Negri.
Grice e Negri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo
italiano. Padova, Veneto. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on
Pinocchio!” -- Grice: “I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if
he uses the extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’.
He has a gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify
Leopardi’s ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!”
Tra gli anni sessanta e gli anni
settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni
ottanta in poi, si dedicò invece allo studio del pensiero politico di Baruch
Spinoza, contribuendo, insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua
riscoperta teorica. In collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri
molto influenti nella Teoria politica contemporanea. Accanto alla sua
attività teorica, ha svolto una intensa attività di militanza politica, come
co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra
extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua
attività politica è stato incarcerato e processato, all'interno del processo 7
aprile, con l'accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d'insurrezione
armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire
condannato a XII anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale
nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato e diritto -- la genesi illuministica
della filosofia giuridica e politica” (Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano,
Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova, Milani); “Flosofia del diritto” (Bari,
Laterza); “Il concetto di partito politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano
e il comune” (Milano, Feltrinelli); “Il concetto d’integrazione nella storia di
Italia” (Milano, Giuffrè); “Il concetto di stato” (Milano); “Il capitale e lo stato”, “Della ragionevole
ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia
Feltrinelli Fischer); Scienze politiche, (Stato e politica), Milano,
Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); Partito operaio
contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N., “Crisi e organizzazione
operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari e Stato. L’autonomia
operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La fabbrica della
strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti di Padova, Collettivo
editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica dell'economia politica
della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema dello stato e
sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano, Unicopli-Cuem, “Il dominio
e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale,” Milano,
Feltrinelli, “Manifattura, società
borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura e la sovra-struttura,” Roma,
Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre Grice”]. Quaderno di lavoro sui
Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio massa all'operaio sociale. sull'operaismo,
Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,” Milano, Feltrinelli, Politica di
classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi. Milano, Machina Libri,
“Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica, “L'anomalia selvaggia: potere e
potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina tempo. Rompicapi,
liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line. Lettere da
Rebibbia, Torino, Einaudi, Boutang, Diario
di un'evasione, Cremona, Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma,
Pellicani); “Fabbriche del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine,
paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo
ontologico, in "XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta
ginestra: l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto
per l'operaio sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il
lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano,
Milano, Sugar); “Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno,
Carnago, Sugar, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso,
o lo stato postmoderno” (Roma, Manifestolibri); L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione
negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito
operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione
materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e
liberazione comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene:
S Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni.
Politica e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La
sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni
impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo
al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto,
Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli, Europa politica. [Ragioni di una necessità],
a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo
ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma,
Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente,
Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il
ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni”
(Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano,
Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero.
Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma,
Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma,
Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica,
Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews, Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre
Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti
della governance” (Verona, Ombre Corte, Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice:
“Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli, Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il
comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo
non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine,
Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e
multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle
Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea,
Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano,
Ponte alle Grazie. Che l'Europa
politica sia necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno
determinato l'attuale processo costitutivo: la ricerca della pace fra le
nazioni che la compongono, lo spazio economico comu-ne, la comune
determinazione culturale, ecc. Ma che l'Europa sia necessaria sembra
evidenziarsi con molta forza anche da altre ragioni, non più semplicemente
statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma politiche ed attuali. La
necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa in forma del mercato
globale, cioè dal confronto con il processo di costituzione imperiale che sta
realizzandosi. Nell'impero, essendo impensabile una democrazia assoluta
(un uomo uguale un voto); essendo del pari assai dubbia, quando non si tratti
di pura mistificazione o illusione, l'immagine di una società civile globale,
sarà infatti necessario delimitare uno spazio che consenta l'espressione e la
decisione democratiche della molti-tudine, nonché la sua organizzazione
politica. Ora, lo spazio politico europeo (costituito su una continuità
culturale lunga e singolare e una dinamica costituzionale specifica)
sembra corrispondere a quella necessaria delimitazione. lo non so se in questo
spazio sia possibile pensare un soggetto politico adeguato alle dimensioni
dell'impero. Quel che è certo è che fuori da questo spazio, e senza un soggetto
adeguato, non c'è più democrazia per l'Europa. Se queste sono le
condizioni nelle quali dobbiamo muoverci, interroghiamoci qui di
seguito. È possibile costruire questo spazio? E possibile costruire, in
questo spazio, un soggetto politico che si confronti agli altri nell'impe-ro?
O, meglio, che si confronti con gli altri a proposito dell egemonia imperiale?
E possibile una unione politica che ne valza la pena? A noi non sembra
che si possa dare risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle
posizioni che oggi sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune
di queste posizioni appartengono al dibattito comunitario (1), altre
partecipano del dibattito politico sull'Unione (2).Ora le pesizioni che
attengono al dibattito comunitario, si pongono fra gli estremi di questa
alternativa: 1,1 La Comunità curopes come pura area di mercato e
regolazione di questa: 12 la Cawumira euroyea cme Confederazione ti
Stati-nazio- È chiaro che in eninambi questi casi la Comunità europea è
disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come una delle
enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso l'unione
politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività all'interno
dell'Impero. Si obierta tuttavis, da qualche voce, che assumendo la
«deter- minante mititares come pil importante di quelia cconomica
si potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui l'Impero
la destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione,
manifesta- mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi,
nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente
la determinazione militare è separata, gestita dai singoli Sti-narione.
Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter- munante
militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario ne o ruelo
decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare
forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione
nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione
verrebbe del tutto meno. Un'altra altemativa si disegna quando si
considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico
sull'Unione: L'Unione politica europea è da un lato, in questa
prospet-tiva, considerata come un Super Stato giuridico-amministrativo
(msomna, un Impera nell Impero); 22 in altra foma l'Unione europea può
anche enere immaginata (come spesso avviene nel diburtito arruale) come
una Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata
da numerosi Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro
sovrano. Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale
sparia orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono,
queste ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico
pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura
buroeritica che produce le istituzioni come con- seguenza di una dinamica
fonzionalista. In 22 | Unione curopea e consenata a macchinazioni
pelitico-giuridiche piuttosto similt a quelle che reggevano
l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla
combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione
reazionaria del romanticismo. Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si
dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea
esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere costituente»
di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio» può essere,
a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale intera (le
Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle istituzioni
europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla comunità
divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit
costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano
credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente,
difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal
deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da
pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali,
americane, russe, ecc. In ogni caso, qualora la discussione politica e
costituente continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma
non ne varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente
subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in
una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di
repressione. A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa
politica che ne valga la pena? Essa è possibile solo se il progetto
dell'Unione e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea
sono concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni
dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la
pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla
costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali
potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di
strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel
mondo. Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che
dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la
costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far
uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa
politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione,
lotta, decisione di valori di libertà. Ci sia permessa una breve
parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a
metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e
riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa
decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta
contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca,
di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti
europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre
prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva
la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe
sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un
demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro
questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle
profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni
caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali) perché
solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente,
eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non
risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non
fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo
negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è
cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione
dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca
pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato,
nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee
guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc.,
ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il
riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà
attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di
opzio-ni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue,
sarà difficile procedere nel dibattito europeo... Chi ha dunque interesse
all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e
quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello
di impero. Che si propongono come contro-Impero. Insomma, si tratta di
quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per
ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono: uno
statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia mobilità per
sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la
possibilità materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella
produzione di ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune
dei mezzi di produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti
il lavoratore intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro,
cioè del cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si
vuole dunque la libertà. C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal
nuovo modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella
postmodemità, si aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi -
infatti, ogni attività è diventata un luogo da quando la localizzazione
capitalista della produzione è diventata un non-luogo, da quando la fabbrica
for-dista si è dissolta nella società postfordista. E un esodo permanente ed
alternativo, dove un proletariato immateriale e precario si dispiega e si
scontra, dentro il quadro della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile
affidare a questo proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto
Europa? Insomma, porlo contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande
potenza sovrana, un super-potere capitalisti-co, un blocco di forze
conservatrici (verdi o gialle, nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede
un Europa di gente intelligente e povera, divertente e mobile, che sconquassa
ogni assetto di potere costituito. Può cominciare attraverso l'Europa una
marcia zapatista della forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa
delle Nazioni, Europa provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro,
cominciassimo a parlare dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell
Impero? Vale la pena di sottolineare che le condizioni qui poste rap
presentano un diagramma nella costituzione non solo politica ma biopolitica
dell'Europa unita. Dico «biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche
universali (della citradinanza, del reddito, della proprietà comune)
costituiscono la precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio
stesso della libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha
investito il politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non
può che essere ritenuto fondamentale ed irreversibile. Per concludere
provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire: un soggetto europeo
(e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da
una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e
quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche. Il nuovo
soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce
l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione,
nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come
contropotere rispetto all'egemo- nia capitalistica nell'Impero. Per
ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del
«potere costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa
come «anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la
costituzione unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra
civile» all'interno dell'Impero. Al fine di dare realistica base a queste
ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna
ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle
nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione.
Questo rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del
capitale globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana
e nel pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilatera-lismo» americano non
è solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande
metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza
politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale
collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un
tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su
condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo
punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti
non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la
rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni
dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo
voglio- no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste alternative
e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di trasformazioni radicali.
Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e, diventando reale,
presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale e quindi
possibilità di nuova libertà per le moltitudini. Ma ritorniamo al centro
politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. All'obiezione
che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un Europa
sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione, possa darsi
qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli
Stati-nazione), si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più
possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito
nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta
nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della
ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi
nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla
costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di rottura.
Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una sinistra (nuova) a
livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo. Sulla via della
costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo investire il
non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva. All'obiezione che l'Europa è
povera, che non ha materie prime né petrolio, che ha una finanza ed una moneta
completamente subordinate al mercato mondiale, che non ha la bomba né la
capacità di decidere della guerra, ecc.. si deve rispondere che l'Europa
è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella depossessione di materie
prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella estrema impotenza
militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà antica (demotica)
che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione biopolitica che, nel
rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei poveri e la
mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla miseria delle
forme economiche e politiche della modernità. Ciò detto, è necessario
sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio degli anni 70, l'Europa
ha cercato di operare un passaggio istituzionale decisivo, sempre si sono
tempestivamente determinate acute situazioni di crisi. Esse hanno avuto origine
nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente dove si forma il prezzo di
uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e dove dominano i governi più
reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può non essere presa in
considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver coscienza che
costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro che fanno il
prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del Medio Oriente,
contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. Per approfondire l'intera
argomentazione fin qui condotta e rafforzare le conclusioni (l'Europa politica
unita non dovrà essere tanto una nuova figura della sovranità quanto una
«macchina da guerra» per l'estensione dei nuovi diritti fondamentali ai soggetti
dell'Impero) vale la pena di aggiungere qualche riflessione sulmodello europeo
di solidarietà sociale ovvero sul rapporto che si stende, nella tradizione e
nell'avvenire, tra il diritto del lavoro e la costituzione europea. Per
trattare di questo tema penso che dovremo, prima di tutto, ricordare quanto sia
ambiguo il riferimento ad un modello europeo di solidarietà sociale: un modello
che, avendo trovato le sue origini nell'Obrigkeitstaat bismarckiano o nel rozzo
sociologismo della III Republique, si è sempre caratterizzato (dal punto di
vista giuridico) nella forma della subordinazione, (dal punto di vista
economico) nel calcolo del costo di riproduzione della forma lavoro (del
salario diffe-rito), (dal punto di vista politico) in funzione della pace sociale
e del consolidamento dell'autorità statale - ed è stato spesso tradotto in
solidarietà imperialista o bellica... Gli Istituti Nazionali per la Previdenza
Sociale hanno linanziato gran parte delle guerre del X.X seco-lo. In esse s'è
esaltata la disciplina biopolitica dello Stato-nazione, quella che ben si
conclude nel nazional socialismo. Ciò detto, resta tuttavia da aggiungere
che il modello europeo di Welfare ed il diritto del lavoro che gli si
incastonava dentro, sono venuti man mano registrando i movimenti antagonisti
della forza lavo- TO. È sulla base delle lotte dei lavoratori che
Welfare e diritto del lavoro si sono man mano, in Europa, emancipati dalle
determinazioni corporative, populiste, colonialiste, imperialiste che li avevano
percorsi. È così che siamo arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel
quale ci siamo illusi che il modello europeo si fosse liberato dalle sue
iniziali condizioni, che dunque Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del
modello europeo di solidarietà potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire
- la democrazia. Non è stato così... A partire dagli anni 70, le
conquiste democratiche del Welfare europeo sono state scontrate dal
neoliberismo ed i loro effetti spesso neutralizzati. I metodi della repressione
hanno annullato forze altrimenti irresistibili e le hanno piegate alla
sovradeterminazione del mercato globale, politicamente riconosciuto come
potenza autonoma: D'altra parte l'attività del diritto del lavoro
«all'europea» è stata assai disturbata, quando non sia stata colpita nei suoi
stessi presupposti. Ché infatti, se il suo progresso era conflittuale, legato
alle lotte di un soggetto forza-lavoro (che aveva ottenuto riconoscimento
costituzionale), ora questo soggetto (il sindacato) non era stato solo attaccato
nella sua figura istituzionale, rappresentativa,ma gli erano state sottratte le
condizioni di esistenza, Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il
sostrato ontologico (classe operaia) e la figura politica (sindacato) del
conflitto industriale non esistono più come attore centrale. Che cosa
significa più, nel postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione)
europeo di solidarietà sociale quando (senza insistere sulle differenze ma
supponendo omogeneità) le condizioni stesse della continuità non sembrano più
darsi? Che cosa significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte,
in condizioni ormai definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità
della forza lavoro produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro
su scala continentale? E nella globalizzazione dei mercati, che cosa
significa accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione
che si dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per
decreto un nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un
nuovo Welfare: ma come è immaginabile oggi un tale disegno? Ad accrescere
le difficoltà di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema:
quello dell'immigrazione. Nelle condizioni di globalità dei mercati,
questo problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della
regolazione (giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al
contrario, con-sustanziale sia dal punto di vista dell'economia
industriale (disponibi- lità indefinita e costo limite zero del
lavoro) - sia dal punto di vista delle politiche budgetarie
(pensioni-stiche, assistenziali, scolastiche e formative, sociali in
genere...) Sarebbe interessante qui riferirsi a, ed insieme forzare,
quella categoria «frontiera» che Balibar - nei suoi ultimissimi scritti -
considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E comunque sparare a zero
sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su spazi ormai derisori per
la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di lavorare... Di qui
altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal problema
dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa
prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico
sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?
E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea) determinare
un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio- politico e la
gerarchizzazione imperiale della forza lavoro?Antonio
Negri. Keywords: implicature, potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana,
grammatica politica, assemblea, Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Negri," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
Grice e Neri: l’implicatura conversazionale dell’aporia
della realizazione – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “Neri is
an interesting philosopher – he speaks of the aporia of the realization, which
is intriguing, and considers that ‘objectivism’ started with Galileo, which is
realistic!” Professore a Verona. Allievo di Banfi e
Paci, rappresenta una delle ultime sintesi della Scuola di Milano, di cui
riprende alcuni dei temi portanti: ricerca fenomenologica, analisi storico-politica,
studi estetici. Rispetto ai suoi maestri, del cui pensiero è stato uno dei
maggiori interpreti, sviluppa un percorso di ricerca originale, caratterizzato
da una critica delle ideologie del Novecento e dei loro fallimenti, e da una
lettura non dogmatica della storia contemporanea, volta a metterne in luce
discontinuità e aporie. Forte di un'indole scettica e fedele al principio
dell'epoché fenomenologica, Neri ha ripercorso le vicende della dialettica
marxista, focalizzando in particolare la sua attenzione sull'Europa
centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta e dissenso che, a
partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel contesto storico. I
suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e Lukács, Kosík e
Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca teoretica e storica
che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali monografie, ai saggi
su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito conservato presso
l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università degli Studi di
Milano. Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia e Milano, Neri
ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai lontano dalla
fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo umanesimo di
stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli stessi anni di
dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti della ricerca
husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle scienze
europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato
fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di
acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi
delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie
pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e
politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e
l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli
insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi
a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky
(della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio,
e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica. Agli anni di
studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a
Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito,
negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga,
Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che,
in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal
suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e
della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di
Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri
l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza
americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi
inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di
Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di
Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli
scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato
in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale
incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea
filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali
progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie
della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo
realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta,
al maestro Banfi. In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti
dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia.
In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è
decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando
quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della
fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della
vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si
presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si
raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di
riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale
e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in
generale, contro l'impronta culturale del PCI. Neri rientra in questa
nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi
studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un
altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare
i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale
e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a
tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è
seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile
nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti
della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione
di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo
conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue
distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno
del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano. Come si evince
dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di
filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da
una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch.
Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia
e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà
periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi
dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del
libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della
dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza
futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e
della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le
aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la
malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e
al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti,
al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su
Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si
confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini
del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali,
oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica.
Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli
anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria
banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la
svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno
spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei particolarismi
delle filosofie nazionali. L'Archivio N. -- è stato creato presso la
Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano l'Archivio N. In
tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali inediti, che
comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni di viaggio,
corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista di futuri
studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le riflessioni
del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte. Attraverso
la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in corso di
digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di Neri con
altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal Pra a
Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su alcuni
tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione sovietica
dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo reale. A
ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella società, sul
modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte alle scosse
della storia. Saggi: : “La fenomenologia della prassi (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista
italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli,
Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su
Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della
Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente,
Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut
aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la
Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone,
Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano,
UNICOPLI,. L.Frigerio e E. Mazzolani,
Iin Sistema Università, A. Vigorelli,
Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein, F. Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi.
Fondo librario. Grice: Mussolini
used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the
‘nazione’ – and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile
paziente e bastonato. Grice: “Neri made
a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own
Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan?
Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay
on Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way,
he gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice:
“Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the
commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled,
bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass –
when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when
‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la
sensazione, il Galileo di Husserl. Guido
Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo
dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Nerone:
il melodramma di Boito -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Anzio). Filosofo italiano. Anzio, Roma, Lazio. Filosofo
epicureo e imperatore romano. Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to
Nerone, making it extremely like that Nerone was himself a follower of the
doctrines of The Garden. ao ss TN Bo ZA SI gia
SE er ES 7 VIS \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud
o, e RICORDI MILANO 1( @ISERI (mpradigeile) POS \ DI Li ‘A DG DI 8
li 7 LALA Ss INI (EL fn ra SI ; CS ‘ pi” x "n ':
lr” t DS Ù Ì N ? Ò FINE Nine {UMBERTO PIZZI BULOGNA Via
Zamboni Imprimé en Italie BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI AUMENTO COMPRESO LE PERSONE
DELLA TRAGEDIA: NERONE SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA TIGELLINO GOBRIAS
DOSITÈO PERSIDE CERINTO IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE
LO SCHIAVO AMMONITORE I VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje - Fanciulle
Gaditane - Acclamatori - Cavalieri Augustani - Liberti - Fautori di parte
frasina - Fautori di parte azzurra Popolo Schiavi Plebe Senatori Una compagnia
di Artisti Dionisiaci, Tre decurie di Guardie Germane Eneatori Sacerdoti del
Tempio di Simon Mago - Matrone - Classarii - Pretoriani - Cristiani Aurighi
della fazione verde - Aurighi della fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI,
APPARITORI: Una puella Gaditana L’ Arcigallo Un venditore d’idoli Un venditore
di tavole votive - Un mercante orientale Un flamine - L’auriga vincitore L’
auriga vinto Un lanista Due Mercurii Due Caronti Alcuni Etiopi Viandanti -
Lettigarii - Clienti Servi Danzatrici Gaditane Corrieri Mauritani I due Consoli
- Littori Preconi Due Tribuni della plebe Legionarii - Galli - Greci Rheti Indiani,
Armeni, Egiziani, Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri,
Phaiangarii, Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi,
Tre Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori,
Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai % VA Il bh
NI E fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a SOR MN LIERE
T #1"Ri N. TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI PAROLE E MUSICA DI
BOITO RicoRDI PRIMA MILANO, TEATRO ALLA SCALA PERSONAGGI N. Pertile;
SIMON MAGO, Journet E e Galeffi MORERTA SC del 5 Raisa MERA e, » Bertana
ME UCINO n e e Pinza BIRBRIAST: Nessi O i a BERSIDE N. . Sig
Mita Vasari MINT ne, » BERLEMPIERENS e, i Venturini PRIMO
VIANDANTE.Tedeschi SECONDO VIANDANTE Menni LO SCHIAVO AMMONITORE Baracchi
MIS SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E CONCERTATORE TOSCANINI Maestri sostituti: CALUSIO –
CLAUSETTI FORNARINI FRIGERIO - RAGNI - ROSSI - RUFFO VOTTO Maestro
del Coro: VENEZIANI Maestro della Banda: MORRONE Maestri suggeritori:
PETRUCCI e DELEIDE Coreografo : PRATESI - Prima ballerina: FORNAROLI Direttore
della messa in scena: FORZANO Direttore dell’allestimento scenico:
CARAMBA Scene, costumi ed attrezzi su bozzetti di POGLIAGHI Scenografo:
MARCHIORO colla collaborazione di MAGNONI Primo Violino di spalla:
Giro MNastrucci Primo dei secondi Violini: Odoardo Peretti Prima Viola: Koch
Primo Violoncello: Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi Primo
Flauto; Tassinari Ottavino: ATrevisan Primo Oboe: Trapani Corno
Inglese: Ghignatti - Primo Clarinetto: Cancellieri Clarone: Capredoni -
Primo Fagotto: Mazzini Paltrinieri Sarrussofono: Giuseppe Regarbagnati -
Primo Corno: Michele Allegri Prima Tromba: Edriondo Botti Primo
Trombone; UVsberto Montanari Basso Tuba: Saverio Scorza - Prima Arpa:
Giuseppina Sormani Organo e Pianoforte: Antonino Votto - Celesta: Eduardo
Fornarini Xilofono, Sistro e Batteria: Augusto Bergami Gran Cassa e
Piatti: Arancesco Veronesi Timpani: Barilli ispettori del
Palcoscenico: Duma e Cellini Vice ispettore: Rocchi Direttori del
macchinario: Giovanni e Pericle Ansaldo Costumi della Sartoria Teatrale
Chiappa Attrezzi della Ditta Aancazi & C. di Sormani Tragella &
C. Gioielleria della Ditta Angelo Corbella Parrucchieri: Biffi e Sartorio
Piume e Fiori della Ditta Virginia Ranzini Istrumenti musicali della
Ditta Strumenti Musicali Bottali La è fa 9.41 TNT Hi PI n RARI T IR
d wa È Lal AVALETCAUIT ATE PAIA RO i. È un campo situato (per chi va da Roma ad
Albano) lungo il lato destro dell'Appia, alla sesta pietra milliaria. La
via segue una linea obliqua fra questo e gli altri campi che si estendono
dall’altro lato. La notte è nuvolosa. La luna pènetra a stento le dense nubi
che la nascondono. Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità è appena
diradata da un barlume cinereo che non projetta ombre ; il campo nereggia
più cupo. Sul lato destro della via, dalla parte di Roma, s’innalza un
grande sepolcro che si prolunga nell’erba; gli si allinea d’accanto,
progredendo verso Albano, una tomba recente su cui sta per estinguersi
una lampa funeraria. Tra questa tomba e il milliario lo spazio è libero; poi
segue una pietra sepolcrale quadrata e, poco discosto da questa, un vasto
tumulo erboso che porta sul suo vertice le vestigia d’un’ara. Altre tombe
si schierano sulla fronte sinistra della via. Molti rottami d’antichi monumenti
sono sparsi intorno al grande sepolcro ed ingombrano anche il breve spa-
zio che lo divide dalla tomba recente. Fra questi ruderi un uomo,
nelle tenebre, sta scavando una fossa. È Simon Mago. Sul margine della
via un altro uomo guarda, immobile come in vedetta, nella direzione d’Albano ;
egli porta il cappuccio della lacerna sul capo. È Tigellino. La notte è piena
di canti che giungono dalla vasta campagna, dalle lontananze dell'Appia;
frammenti di canzoni portati dal vento, dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA
VIA Canto d’amore Vola col vento, a SIMON MAGO Torna col vento...
i? E lui: Passa un viandante che va verso Roma TIGELLINO con una
bisaccia a spalle ed un bastone.No. LA GUARDIA DEGL’ACQUEDOTTI SIMON MAGO
lontanissima Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo
ancor, là... verso via Latina. SIMON MAGO Pur ch’ei non l’oda!
TIGELLINO È profonda la fossa? | SIMON MAGO Profonda. Ma
dalla parte d’Albano s'è udito un urlo di spavento: Tigellino sbalza sul-
la via e incontra Nerone fuggente, ravvolto in una toga funebre e
che porta un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO ‘ accorrendo
al grido Mio Signor N. ansando di terrore ed accennando dietro di
sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO dopo aver osservato È il tuo delirio.
N. No. La vidi...surse. Cinta di serpi... squassava una face... Poi
la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge, lo fa sedere sulla pietra
sepolcrale che sta fra il milliario ed il tumulo. Qui
ti posa. TIGELLINO Dove lasciasti il corteggio? N. A
Boville. VOCE FERALE NEL LONTANO N.-Oreste il matricida Ancor più nel lontano
risuona il canto di "prima : Canto d’amore Vola col
vento, Torna col vento. Ricominciano le canzoni della notte. Volano
per l’aria le parole d’una stro- fa amatoria di Petronio Dolce ridente
Lalage. Giunge sull’Appia da Roma un’allegra comitiva al lume d’una torcia.
Vanno a passo vivo verso Albano. Risuona una voce con questo
epigramma Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO sottovoce,
come parlando Balza il vento e ne porta le canzoni Or dai monti, or
dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi Ancor quel grido! TIGELLINO È
la canzon d’un ebbro; porgi. Fa per prendere l’urna che N. stringe fra le
braccia. N. No. lo l’urna porterò sino alla méta. N. entra
nel campo coll’urna fra le braccia. Tigellino al suo fianco lo guiderà
fra le tenebre, lentamente. Giunti alla fossa si arrestano. N. Simon.
Mago dov'è? Nerone depone l’urna sul suolo, presso la fossa.
SIMON MAGO che non s’è mosso dal campo Qui supplicante I Mani
d’Agrippina. VOCI LONTANE trasfondeva col bacio il iabro al
[labro... l’anima errante progenie nova dal ciel... . ave,
anima. Una voce lugubre si sparge nella not- te; s'odono queste parole: Voce
dall'Oriente! Voce dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso d’una
atellana: Torna Onesimo dai campi... e dal grido ferale: N.-Oreste
il matricida N. subitamente, atterrito AN! tu mi salva!
Lava il mio matricidio! Orrenda vita Vivo, pe’ gioghi di Campania
in fuga, Meco traendo il delirio, le Eumenidi Flagellatrici e lo
spettro materno! SIMON MAGO Dagli insepolti corpi emanan larve. Pronta è
l’inferie. TIGELLINO Finchè il rito dura, Vigilerò. i Poi
s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato, staccandolo da Nerone,
sommessamente gli dice : Spingilo a Roma, incìta L’audacia in lui;
s’ei teme siam perduti. Ritorna sulla via Appia e s’apposta presso la
colonna milliaria. N. prono sulla fossa ed immobile, incomincia
come chi proferisce parole preparate con arte: Queste ad un
lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi dove stende Roma sue
tombe; Sacro sempre fu ridonare agli estinti la patria. S’inginocchia.
Ecco, mi prostro, m’atterro, m’accuso. Se dei defunti lo
spirto penètri Nell’alme nostre, il mio contempla, madre, Interno
orror. quasi senza suono, inorridito e coprendosi il volto colle mani
lo son l’ultimo vivo Di tua tragica stirpe, in me il Destino
Tutte aduna sue forze e le consuma. M’invade il Nume antico! È l’opra mia
L’opra del Fato! ergendosi fieramente E ben dicea quel grido:
Io sono Oreste! PSA 0) Ho. d, PRI SIMON MAGO E tua Tauride. N. intuendo
con gioja il pensiero di Simon Mago ..è Roma! Passa una
famiglia di gladiatori; la precede il lanista, riconoscibile alla
lunga ferula che impugna; gli sta a fianco uno schiavo con una lanterna. TIGELLINO
Vanno silenziosi verso Roma. dall’Appia, sommessamente ma energico
Zitti! Vien gente. sottovoce, ma concitato Presto. N.
a Simon Mago, con ansia T'affretta. Si sotterri l’urna. SIMON MAGO A
te. N. esita ad afferrare l’urna. Paventi? N. No. SIMON MAGO
Presto. N. angoscioso M’ajuta. Simon Mago
lo ajuta a calar l’ urna nella fossa. grescreazbiapiz indenni DO SIMON
MAGO N. Più profondo. Più profondo ancora. Simon Mago
comprime l’urna nella buca; poi, con la vanga la copre di terra
finchè la fossa è ricolma. N. a Simon Mago È fatto? SIMON
MAGO È fatto. N. Nascondi la vanga. Simon Mago va
a nascondere la vanga fra i ruderi, poi ritorna, prende dal-
l’acerra alcuni grani d’incenso, li spar- ge sull’ara thuraria,
immerge l’aspersorio nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende. SIMON
MAGO copre la testa e il viso di N. col velo, insino al petto.
Ti copra l’atro vel. N. Ajuta! Ajuta L’anima mia!
SIMON MAGO tracciando con l’aspersorio dei segni arcani nell’aria
Redimo te! Ti prostra. Amen rispondi. N. tutto prosteso,
toccando con la fronte la terra, ripete: Amen. Dalla via
Latina giungono col vento gli antichi anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide
ciglia lo stral che riapre l’antica ferita d’amor. Passano sull’Appia due
giovani viandanti; quello che canta poggia il braccio sulle spalle dell’aliro.
Vanno verso Roma. Ancora dalla via Latina s’odono gli anapesti:
...ed io fremo siccome l’ardente corsier che ritorna alle
gare del Circo. ì H ì s dI ì i i fl È
I ANI IOTTZION LE SIMON MAGO Ti rialza. Lo ajuta a
sollevare il capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso. Spargi i
libami. La luna si fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a porgere a
Nerone la tazza libatoria. N. h I E
sangue? SIMON MAGO È sangue; innaffiane la fossa, E
nel versar torci il volto. N. Ho paura. La luna s’è
rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita a versare il sangue
sulla fossa. SIMON MAGO Versa. Coraggio N. inclina la tazza,
gira il capo e, attraverso il velo che lo copre, scorge dietro di sè, fra
il gran sepolcro e la tomba, una figura spettrale sorta da sotterra, che
innalza una face ardente ed ha il collo avviluppato da serpi come un’Erinni. A
quella vista egli balza în piedi inorridito e corre a ripararsi
dietro il tumulo, gettando un grido: Orror! SIMON MAGO (NANO Dopo
un attimo di sorpresa va a prosternarsi ai piedi dell'apparizione. TIGELLINO
che ha udito le grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama: D’onde
uscì ? UN VIANDANTE Qual grido? UN ALTRO VIANDANTE Olà! chi
grida? TIG ELLINO Via di qua! IL PRIMO VIANDANTE Chi è costui ?
IL SECONDO VIANDANTE Chi è costui? IL PRIMO VIANDANTE È
Tigellino. N. come attratto da un fascino verso quella figura ferale che
lo guarda: A sè m'attira. TIGELLINO afferra Nerone al
braccio sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del tumulo. Vieni Il
velo, che copre il capo di N., cade. Appena il volto di N.. si scopre,
L’ ERINNI drizza il braccio verso di lui e con un grido irruente lo
nomina: N. N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo
per inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti fra le
tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im- pietrita,
col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati e fissi sul
tuinulo da dove è scomparso N.. La campagna è ancora immersa nelle tenebre;
solo la face dell’Erinni sparge un circuito di luce. SIMON MAGO sempre
genuflesso, a capo chino, osserva celatamente, girando in basso gli sguardi, se
il campo e la via sono rimasti deserti; accerta-tosene, si rialza, afferra ai
braccio quella figura atteggiata a stupore catalettico e le dice,
calmo: Sei colta. ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA) senza scuotersi, con
voce incolore, come irasognata Chi ama la morte Toccar mi
può. SIMON MAGO abbandonando il braccio d’Asteria, ma badando sempre ad
impedirle la via Non sperar ch’io paventi. L’idre al tuo
collo attorte O son morte o morenti. ASTERIA appoggia la face al
sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi e con gesto lento di
minaccia risponde: Sperder potrei la malìa che le assonna E
avventartele. Simon Mago prende la face e la solleva per rischiarare la
persona d’Asteria. Asteria veste una specie di kalasiris egizia, a
tinte fosche; ha le braccia nude, i capelli nerissimi sparsi in molte
trecce sottiti SIMON MAGO Donna Strana ed
audace, avernalmente bella, Tu sembri al raggio di questa facella
Medusa, Ecate, Sfinge, Fumenide o dimòne. Chi sei? Chi
cerchi? Qual forza ti spinge ? Perchè insegui N.? ASTERIA È
il mio Nume e lo adoro! A notte cupa, Quando negli antri del funereo
suolo Vagolo al pari di piagata lupa Ululando il mio duolo,
lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel Che popola di spettri le
tenèbre, Che scuote sulle plebi infami ed ebre Il sublime flagel.
il mio Nume e lo adoro. Sotto un vel ora apparve a me davante. Poi sparve
là. Con un impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO trattenendola
a forza, l’arresta di colpo. Ferma! o il tuo Dio ti sfugge. ASTERIA
dibattendosi dolorosamente fra le mani di Simon Mago Vo’
seguirlo.... pietà! L’orror m’attira Come un amante.... e nell’estasi
vivo De’ violenti sogni.... ebbra di pianto. E son dell’idre
incanto E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge E il petto mi
rinserra E stringe.... e lambe.... bduerra.ra E nell’amplesso
della viva spira Sento ancora quel Dio che mi martira SIMON MAGO
Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA Sulle rive D’Anxur, tre
notti son. SIMON MAGO Ed ei nel viso
[ha&scorta”? ASTERIA Oh! come mi guardava fiso !
Ma il suo corsier impaurito il trasse Lontan, fuggendo, al lume
della luna. Rimane ancora un poco assorta in ciò che descrisse. Ma
tu chi sei che dell’anime lasse Tenti il facil segreto e il facil pianto?
SIMON MAGO Son tal che rialzar può il volo infranto Del sogno tuo. ASTERIA
Tu SIMON MAGO Sì. Nessun mai sappia Chi sei, nè ciò ch'io
dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO raccoglie l’acerra. S’ asconda
Quest’ acerra. ASTERIA indica a Simon Mago il posto da dov’essa è
apparsa: Qui. SIMON MAGO Dove? Asteria prende la face e conduce
Simon Mago fra le due tombe ove i rottami nascondono un forame del suolo
da cui si discende in una cripta. ASTERIA Qui, sotterra, E un antro
oscuro d’ avelli cristiani Che si riapre dietro a quei delùbri.
Dicendo queste ultime parole accenna ad una località oltre il tumulo,
verso Albano. Simon Mago depone l’acerra presso l'apertura della
cripta, poi va a raccogliere l’ara thuraria, il velo nero e l’idria in
cui pone la tazza c l’aspersorio e ritorna là ove discende; lascia cadere
gli oggetti nel forame della cripta, salvo l’acerra e il velo. SIMON
MAGO Dammi la face. Asteria porge la face a Simon
Mago che sta per discendere nel sot- terraneo. SIMON MAGO Qui sarai
domani Col sol morente. Scende due gradini e s’arresta.
Ascondi quei colùbri. Così dicendo porge il velo nero ad
Asteria che lo prende e lo bacia e se ne avvolge il collo e il petto.
Simon Mago, coll'acerra e la face, è sceso nella cripta fino alla
cintola. S’arresta ancora una volta per dire ad Asteria: Ma pensa
al fato che invochi su te. Bada! il tuo Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor
che non uccide Amor non è! E s’abbandona sulla tomba che le
sta dietro; quivi, giacente, rimane. Simon Mago scende tre gradini della
‘cripta con la face in pugno e scompare sotterra.
Incominciano a diffondersi le prime trasparenze dell’alba. Il cielo si
rasserena. La profonda quiete dell’ora s’estende su tutta la campagna
romana. Una donna in bianca stola, Rubria, viene dalla parte di Roma,
s’arre- sta davanti alla tomba recente, estrae un’ampolla e la vuota
nella lampa funeraria; il lumignolo si ravviva e riarde. La donna s’inginocchia,
inclina il capo sulla tomba, congiunge le mani e, nell’alto \ silenzio
che la circonda, prega così: RUBRIA Padre nostro che sei ne’ cieli, sia
Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno alla tua gente pia, Sia
fatto il tuo voler in terra, come Nell’ Empiro immortale. li
nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu ne perdona. Fa ch'io riveda
quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA che giace sulla
stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole come un sospiro
O soave preghiera! RUBRIA si alza, guarda dalla parte d’onde
viene il sospiro e dice: Anima che sospiri, sorgi e spera. ASTERIA
lentamente sorgendo O divine parole! RUBRIA
appressandosi ad Asteria colle mani sporte e offrendole fiori Spargiam
insiem le rose e le viole Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT
ASTERIA Il dono pio Porgi. E prende, con movenze estatiche da
sogno, i fiori e ne cosparge la tontba, insieme a Rubria, e le zolle
d’intorno; ma, giunta all’ultimo fiore, esita, s’arresta, lotta un
istante contro un impulso interno, poi dice: No.... no.... stuggir
devo gl'incanti Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio ! E fugge
impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla tomba a pregare.
Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la vede,
s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA solleva il
capo, volge il viso, lo vede e lo nomina: ‘ Fanuél! FANUÈEL Non
t’alzar. Il nostro addio Sia questa prece che sale al Signore Fra i
bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare con intenso fervore. Fanuèl
continua a guardarla fissamente. RUBRIA levando gli occhi pieni di
lagrime al cielo In te sperai! FANUEL con voce commossa
Piangi ? Perchè ? RUBRIA Ho un peccato nel core. FANUEL
Lust? RUBRIA Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai? FANUÈL
Seguo mia stella verso ignoti porti. guardandola fiso negli occhi
Confessa il tuo peccato. RUBRIA Perdonar mi saprai se
tutta dico La mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere, s’avvede che
l'apertura del sot- terraneo si rischiara e che un uomo, con una face in
mano, viene salendo lentamente dalla cripta. FANUÈL
sottovoce, a Rubria, indicando il posto Un agguato! V’è un uom fra
i nostri morti. Fa qualche passo nel campo per ravvisario. (E Simon di
Sebàste. RUBRIA tutta sgomenta e a bassa voce Il gran Nemico! FANUÈL
Corri dai nostri, va, narra gli avelli Spiati. x RUBRIA
guardandolo con ansia btu ‘ FANUEL Poichè un periglio incombe
lo resto coi fratelli.) Rubria si vela il viso e s’avvia
rapidamente dalla parte di Roma. La luce, mite ancora e senza raggi, a grado a
grado discopre le cose remote, gli edifici sparsi qua e là nel fondo
della campagna, gli archi del doppio acquedotto dell’aqua tepula e
Marcia, qualche fastigio dei monumenti sepolcrali della via Latina.
Molto lontano, forse dall’ottavo milliario, s’odono squillare, nel puro
silenzio dell’alba, alcuni appelli di trombe. Simon Mago, senza
accorgersi d’essere osservato, s'è messo in ascolto, si dirige verso il
tumulo, lo sale insino alla cima e guarda attenta- mente dal lato donde
giungono gli squilli. FANUÈL che ha seguîto collo sguardo ogni
passo di Simon Mago, s’inoltra nel campo e lo chiama: Simon. SIMON
MAGO dal tumulo, volgendosi Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio
dall’ alto Di queste tombe! Vieni e vedi. Fanuèl. esita
sorpreso, poi sale anch’ esso sul tumulo ov’ è Simon Mago. Le trombe
continuano a squillare. SIMON MAGO S' avanza una gran nube Di turbe.
Echeggian trionfali tube. È il matricida, ei vien col suo corteo D'
istrioni e d’ Eumenidi all’ assalto Del mondo reo, Poi, con un
gesto largo che abbraccia tutto l’orizzonte : Pensa: i Reami, i popoli,
le. Glorie, Le corone, gli scettri, le Vittorie, Tutti i raggi di
Roma e di Nerone Non son che luci moribonde e torbe D’ innanzi al
sogno mio, d’innanzi a te: Sui sette colli un Tempio (o Visione !), Un
Tempio eterno che soggioghi l Orbe, MinESSO l’altare ‘tu, Profeta. e’ Re.
. Tutto l'incenso che 1’ etere assorbe Vapora, immensa nuvola, al
tuo piè! Guarda quaggiù. Pel sangue che l’inonda L’arca
d’oro di Cesare sprofonda, Furibonda ruìna e precipizio. Plebi
nefande confuse nel vizio Plaudono a Roma che canta e che crolla.
Tremano tutti: Cesare, la folla, Le coorti. Fischiò dagli
angiporti Già il greculo rubel. Cadono i morti Nel Circo e cadon
nel triclinio i vivi E i Numi in ciel! Ma tu su quei captivi Del
fango e della porpora distendi Le tue mani, la tua virtù mi vendi;
Due Sovraumani vedrà il mondo allor! Vendi il miracolo, t’ offro
dell’ or. FANUÈL scende dal tumulo e terribilmente esclama: Anàtema .su
te! Maledizione! L’oro tuo piombi teco in perdizione! saran
to” di è ide SIMON MAGO L’ira tua scagli invan contro
il mio scherno, Povero nunziator d’ un Regno eterno Senz’ oro e
senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e forte Or su te confermi il
ciel: colla massima veemenza lo t'estirpo da Israel!
SIMON MAGO Fra noi due c’è guerra a morte! Si sfidano collo sguardo
come due fieri nemici prendendo due vie opposte. Fanuèl ritorna
sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon Mago scende dal tumulo e
s’allontana dalla parte di Albano. N. e Tigellino ritornano ‘da un
sentiero dei campi e s’arrestano al tumulo. La toga di Nerone, tutta
scomposta, lascia vedere una mi- rabile tunica oloserica tinta di porpora
jacintina e sparsa di palme d’oro. N. porta al braccio sinistro
un’armilla di pelle di serpe chiusa da una borchia di gemme. Ha, come
Tigellino, un focale di seta annodato intorno al collo, sul petto una
collana d’ambra mista a molti amuleti: dalla cintola gli pende un largo
smeraldo ovale attac- i cato ad una catenella di perle. N. Nessun
ci segue? TIGELLINO osserva il sentiero donde sono venuti.
No. Sosta il corteo Lungo i campi di Persio. N. guarda
paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria. TIGELLINO Ebbene ? Sparve.
N. sempre cogli occhi rivolti al sepolcro, cupamente S’ergea
fra Roma e me! TIGELLINO Andiam. Che guardi ? A. Oli ren N. volge
gli sguardi inquieti sul posto dove ha sotterrato l’urna ed È esclama
atterrito: Si scorge il labbro della fossa! Tigellino va a
calpestare quelle zolle per disperdere le tracce del
seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla parte di Roma dei
clamori lontani. TIGELLINO prendendo per mano Nerone Andiamo.
N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione TIGELLINO
Fuggir? Dove? N. Non so. Dove migra il cantor trova
una patria E sola gloria è 1° Arte! TIGELLINO E di che temi?
Crede il Senato al tuo messaggio, crede Colta Agrippina ordendo la
tua morte, Poi da sè stessa uccisa. N. Alla menzogna Fingon
dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova. N. Se rivarco le mura a chi mi volgo?
Al Senato? alla plebe? TIGELLINO che da qualche istante
porge l'orecchio alle grida che s’avvicinano, corre sul tumulo, guarda verso
Roma e risponde: E luna e l’altro Per te dall’ Urbe accorrono. N. atterrito
e con sùbita ira Qual folgore Sparse a Roma il clamor del mio
[ritorno? TIGELLINO arditamente dal tumulo lo. N.
con maggior ira e minaccia Tu, ribaldo? Violenza porti Sui
dubbii miei? TIGELLINO Si. Per salvarti. Mira! Si slega dal collo
îl focale di seta rossa e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge: A
questo cenno il corteo s’ incammina. Mentre Tigellino sventola ancora îl
focale, s’ode squillare non lontano una chiamata di bùccine come per un
esercito in marcia. Dalla via di Roma i clamori aumentano. TIGELLINO
scendendo dal tumulo Ecco i corrieri Mauritani. Mira! N. Da ogni
parte m’assalgono! TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE che si
appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il [clamor,
ALTRE VOCI Ecco i Numidici corsieri.. Gioja! Il Popolo
irrompe in scena, restando pur sempre sull’Appia e correndo verso Albano.
ALTRE ANCORA Ei viene! ei viene! egli è là! egli [è salvo!
Corri! s'ode il clamor! ei viene! è là! Tre Precursori Mori, a
cavallo, passano di galoppo sull’ Appia, risplendenti . d’armille e di
falère. Ser IOGE N. invaso da terrore si rannicchia
fra il gran sepolcro e i ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO
avvicinandosi a N erone Ecco le schiere. con grande concitazione
Se indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le tombe Ah!
dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il cappuccio della
lacerna sugli occhi e s’avvicina alla via, ripartendo la sua vigilanza
ora sul corteo, ora su N. POPOLO È salvo! Gioja!mALTRE VOCI
Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI Largo, la via sgombrate POPOLO
Avanti, olà! ALTRI Corri! là! Corri! là! Vengono gli Eneatori colle
loro squillanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI Udite! Udite! Segue un vasto
carro tratto da cavalli, pomposamente ornato, dove stanno ag-
gruppate, gittando fiori e cantando, le Ambubaje cinte il capo di
mitre siriache. Le fanciulle Gaditane seguono la teoria del corteo
danzando e gettando fiori. Portano incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE
Apollo torna. Nubi di fior volino ai zeffiri, |’ lri [baleni nell’
etere. Apollo torna, e con esso Tutto un esercito in danza.
Il corteo s’arresta fra fluttuazioni cou- trarie. POPOLO Avanti!
Avanti, olà! Apollo torna. Avanti! GOBRIAS Torna Onesimo dai
campi. POPOLO Largo alle schiere, largo! Gioja! Gioja! TIGELLINO L’exaforo
s’appressa, ivi ti crede Il popolo clamante. Odi le grida,
scuotiti. PRETORIANI Largo! Largo! Sgombrate ! Si
ristabilisce l’ordine di marcia del corteo. AMBUBAJE AI colle! al
collel AI colle! La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO
Fermi, olà! ALTRI Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE Largo Largo al
corteo ! Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augustani! Giunge
l’exaforo. La via sgombrate! ll corteo si rimette în marcia. Preceduto
dalle fanciulle Gaditane, passa un gruppo di Phalangarii. Poriano sulle
spalle un fèrcolo su cui si innalza una statua di rame,
rappresentante una Amazzone. TUTTI Apollo GOBRIAS L’orco già da’
piè mi tira. Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE Eilwieny
E giunto là! Avanti! Gioja! nia e N. Mi lascia.
TIGELLINO L’eneator t'annuncia. N. Ecco, rinasco Libero e forte. Andiam! DOSITÈO
É là! B là! S’appressa! Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS Fi
torna, è salvo il Dio del Circo! PLEBE È 1a! È salvo il Dio
dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta l’ordine di marcia del
corieo. Passa una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi, d’Indiani,
di Greci, d’Egiziani. Passa- no alcune schiere di soldati ausiliarii
coi braconi alla barbara e passano dei Rheti e dei Galli. GOBRIAS
Roscio risorto Novello Turpione! DOSITÈO Tu snidi il Nilo, fendi
l’Istmo, instauri La terra e il mar. GOBRIAS Trionfator d’ Armenia!
POPOLO Trionfator Eccelso Bello Forte Silenzio! È sacro il coro.
Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E AUGUSTANI Ave,
Nerone, voce di Ciel, Beata Roma che t’ode! Canta, Apollo,
Canta l’ode d’amor non prima udita [dal mondo! TUTTI Ave, N.! Canta lode
d’amor! TIGELLINO Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta.
TIGELLINO Or su. N. fa per avviarsi ardito verso
l’Appia, s’accorge di passare sulle zolle dov'è sepolta l’urna e
indietreggia. Ah! dove passo TIGELLINO Corri dritto alla mèta.
N. Cantano i versi miei. Passano tre decurie di Guardie Germaniche.Fra
le file dei soldati circolano parecchie Ambubaje 0 camminano appajate ai
soldati giojosamente. Frattanto si avanza un carro, tirato a mano da quattro
schiavi, dove sono accatastati degli attrezzi teatrali. Dietro al carro e
d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che indossano le loro vesti
teatrali. DIONISIACI L’ebra Mimàllone già diè fiato alla [Bacchica
tromba, Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi ardenti Evion
gridano ed Evion Peco [remota ripete. TUTH Evion! Evion! Evion!
Evion! Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I littori che lo
precedono, coi fasci laureati, respingono la folla. L’exaforo è portato
da sei schiavi Etiopi, una corona di giovinetti asiatici lo circonda e una
torma di Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI E DIONISIACI Ave, N.,
tua lieta stella splende. TIGELLINO spinge N. verso la folla
plaudente, poi corre sull’Appia e comanda ai littori: V’arrestate. VOCI
Chi è là? CATE BELEN e) ANTI GOBRIAS Apri il velario.ALCUNE VOCI
Chi è là? ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA È
Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo! N. în tunica
di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del sole No! Fortuna in
fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla folla. TUTTI Evion!
Evion! Ah! Gioja! Gioja! Almo Sol! Alma Roma! Ave, N.! i giovinetti
Asiatici schiudono le cortine della lettiga, mentre d’intorno a N. piovono
fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande, fra le grida e gli squilli
del trionfo. Tutta la scena è irradiata dal sole. REA
REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III IDA LT ANIRI DRE IRR
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4 k RL Fo A Het. #3) IT è VO, DA i va i | PESSOA VT LA i Me TI ant
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VP Ù ci SESIZ: Dre rana “ o repo nes ton oe erirzomee ERA <A
Mirra 7 d SARI CIRIE PI DAPIIA PEN ERI IENA EIBTATE DATRONEI
ILVTI SVSTE GITE DELITTI RITI: sviene ETTER SPINTE AREACIRI EL BIEIIVTICA VARI
vi È nica È un tempio sotterraneo; visto nel
senso longitudinale appare diviso in due parti. Un'ampia cortina, tesa
fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco trasversale, separa il
sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro misteri, dalla ce//a ove pregano i
fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni classe e d’ogni paese: Matrone
adorne di ric- chissime vesti, portanti in capo una preziosa ?24%24/ od
altre acconciature sfarzose; schiavi in rozza tunica, e, fra questi,
alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei fuggitivarii; qualche
liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi artificiali, gli
sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni fazione. Di fianco all’
ingresso un mercante d’idoli ed un venditore di tavole votive spacciano
la loro merce. Un tempiere sta presso al vassojo delle offerte. DITE
DNTAZI EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano D’un tratto la cortina si spalanca e
si scopre agli occhi dei fedeli il sacrario. Tutti coloro che stanno
nella cella s'inginocchiano. Simon Mago, in manto e tiara d’argento, col
petto scintillante di gemme, sta sulla gradinata dell’altare e fra le mani,
coperte d’un drappo prezioso, tiene alto levato un calice d’oro. Un
raggio fulgidissimo scende dalla volta del tempio e illumina tutta la
persona del Taumaturgo. Due sacerdoti situati più basso sostengono, sotto
il calice, un bacino d’oro. Altri otto sacerdoti sono scaglionati sugli
altri gradini fra le statue policrome, e la loro immobilità è tale che si
confondono con queste. Quattro fiabelliferi ergono dietro il Mago i loro
flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi reggono, colle braccia alzate al
disopra del capo, due urne d’oro da cui vaporano degli aromati fumanti.
Un altro innalza un vaso di bronzo su cui arde una fiammella turchina, un
altro tiene aperto davanti al petto un dittico dove sono tracciati dei
simboli. Ai piedi della gradinata stanno schierati alcuni giovanetti con delle
grandi arpe e delle cetre e dei sistri. Presso i pilastri dell'arco sono
appostati due tempieri, e nel centro dell’arcata Gobrias. (giovane
discepolo di Simon Mago) e Dositèo, vecchio sacerdote, stanno rivolti
verso la folla. Nella cella i devoti guardano, in atto d’ansiosa aspettazione,
il calice raggiante. D’un tratto un largo fiotto di sangue trabocca
spumeggiando dal calice e cade nel bacino sottoposto. Nello stesso
momento sorge dal braciere ardente una densa colonna di fumo che invade
il sacrario e nasconde Simon Mago alla vista dei credenti. La cortina si
chiude; Dositèo e Gobrias sono rimasti al di là della cortina, sul limitare
della cella. SIINO ZARA SENTE DITTE AI SPIRI
TREIA FIIOZIIUSAI DIRPTI SAOIITT RI ERENIITIA È ielialieo e en i
PARTA IATA FINTA AADHRED ERO GMAT IMITA TOMICA VENTI LITI ZIZAIE DAL LEDA
NI LATERIZI PE TARGA ZE RAISI ALITO ANA A TMNTRS IA A PIVA CELIO DRITTO TETI
PIT AA ID LS ae 17 PrO {EDILI IDRICA IEEE I SORIA II TIA DITA terreni:
0 IRR DIGO IE III NILE DD DS TRE T TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS AA
TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO) SIMON MAGO a Gobrias,
mentre î fedeli continuano a cantare il loro salmo. Odi il fedel gregge
mugghiar L’incomprensibil càbbala al ciel. GOBRIAS colla tazza în mano e
con piglio ilare appressandosi a Sîimon Mago Vedi il festin sacro
brillar! Sul lettisternio profuso è il vin! Tempra il falernio succo la
neve; Voglio al divin scifo libar. Corre al desco ove coglie una tazza
già piena e poi ritorna nel gruppo. Dositèo lo segue e lo imita.
PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I
MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI EMPATIA TT R IRE VAT
PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI
IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI (NELLA CELLA) | I FEDELI
inginocchiati Stupor Portento GOBRIAS e DOSITÈO | È compiuto il
Mister. I FEDELI alzandosi disordinatamente Miracolo Simon al ciel volò GOBRIAS
i Preci ed offerte. Iltempiere girafra i fedeli con un piat- ! to
per raccogliere le offerte. ALCUNI FEDELI Proùrche, Bythos, Sigeh, Logos, [
Anthropos, Zoè Noùs Ecclesia, Eccelsa Og-[doade; Gobrias entra nel sacrario
seguito da Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI FEDELI Profondo Abisso,
imperscrutata [origine i Degli Enti primi e immenso mar
[degli Esseri; TUTTII Noi t'adoriamo. 2a reo
anti lar FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT SCA TETI i
FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI INDIZI IE ETA TMTIRET RSI
Ma pria dal vergine labro si deve un Dio propizio la prima asper-
[gine con comica ipocrisia Pio sacrifizio che il suolo irrora Inclina
leggermente il labro della taz- za verso terra în atto di burlesca devozione
e sparge qualche poi ripiglia con Dositèo e Cerinto: occia di vino, Ma
poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure beve dietro l’altar. Tracanna
tutto il vino d’un fiato. SIMON MAGO Zitto! GOBRIAS Siam ilari, si.
beva! Ribeve, DOSITÈO e CERINTO Zitto SIMON MAGO Zitto GOBRIAS
S'esilari l’alma! Si beva! SIMON MAGO S'ode ancor l’inno. cortina. Gobrias
è corso a spiare aitraverso la |SIMON MAGO a Gobrias Che tenti?
GOBRIAS RATORI MOIS NET ZITTA TEA O Esploro, II ALTI GADGET
TILT ELLA IVI su se ALCUNI FEDELI Per te preghiam, per te che gemi [e
sanguini Nell’ombra eterna, agitabonda [Prunikos ALCUNI FEDELI
In te speriam, in te, Divin Paràklito, Disceso in terra col celeste
Pneuma. TUTTI In te speriamo. ALCUNI FEDELI In te crediam, nel tuo
Mister, nel [calice Cruento che in tua man fervendo [imporpora. TUTTI
In te crediamo. FAI ISIONA TA LITRI MOTI DI IEEE TI ISLA NI NITTI
RIA III ER i LATI ATINTATZ TA DEDICATI VA DIL TRITATI RATES ATI APREA TIVA DCI
IPER LIDIA TAL ITOT DATATI ELI ORI DIARI STORIE NETTI rrà GOBRIAS
| Alcuni fedeli, nella cella, appendono ; degli ex-voto alle ginocchia
dell’idolo, SME FRANE altri depongono delle monete nel piat- to delle
offerte che sarà portato in giro dal tempiere. Un vecchio col capo co-
perto da un palliolum che gli ripara anche le spalle, e sorretto
dauno schiavo, sale sul basamento dell’idolo. Guarda! Essi appendono votive
[tavole. S’ode un tintinno d’argento e d’oro. SIMON MAGO Favole
attendono, vendiam lor favole. GOBRIAS Presso la
statua, sul plinto sacro Del Nume un vecchio parla. I RIZZI
METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA TI SIMON
MAGO IL TEMPIERE Che chiede ? | Date le offerte. rase nes
Miane i SRD GOBRIAS Parla all'orecchio del simulacro. SIMON
MAGO ALCUNI FEDELI Oh! quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato
Nume il bronzo o l’è- Paura e speme e il Tempio impera. [bure Per te
cammina, profetizza e palpita. GOBRIAS e CERINTO
Cingiam la chioma coll’eliocriso. SIMON MAGO Nostro è chi teme, nostro è
chi spera. | DEI i Tutti al miracolo che li conquide Noi t'adoriamo i. Drizzano i volti, l’animo e il canto. |
Pregate, stolti! Pregate! Intanto L’àugure ride dietro l’altar. SIR
TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI DEI ELIAA Gobrias beve
presso il lettisternio. GOBRIAS e DOSITÈO alternatamente No, senza riso
non posson gli àuguri Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi corre al
desco e s’incorona comicamente brillo con una ghirlanda di fiori
gialli. CERINTO a Gobrias Ah! Ah! AN! Bevi SIMON MAGO ALCUNI FEDELI
No, no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo! Pronto a celiar. !
GOBRIAS Vo’ ber! Mio dritto quest'è Vo’ ber! interrompendosi CERINTO
No, non déi ber! I SACERDOTI Zitto laggiù! Zitto! Lo scempio
cessiam! GOBRIAS Mio dritto Quest’ è. ALCUNI FEDELI Mo MAGO i
Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos, Zoè,
Noùs, Ecclesia, eccelsa Og- [doade: SIMON MAGO I SACERDOTI
Zitto Un gruppo di sacerdoti circonda Go- | TUTTI i brias, tentando
strappargli la tazza di mano; egli colle braccia alteladifende. Noi t'adoriamo Cerinto,
Simon Mago e Dositèo non | È | fanno parte del gruppo che assedia\ Il
salmo nella cella è cessato; ritorna Gobrias. la calma anche nel sacrario.
| AUF IESE CARS MSA IMI DS LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO RAZOR RIO IAS
PINZA F AVA RAO E PINI A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA
CRI To ce een eee Li e ee ene ai arri) VIII SALZA
È PO i LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI ZIA
AIIEIIZZ IA LEDA TIA EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg SIMON
MAGO a Gobrias Non cantan più. Tu scaccia quelle genti
Pria che giunga N.. Gobrias corre allegramente verso la cortina che
divide la cella. A Dosîtèo Spegni le faci. Arda il sulfureo cero. A
Cerinto, indicando il manto e la tiara Riponi quella spoglia.
GOBRIAS sul limitare della cella, rivolto alla folla
Ite, credenti, e nel varcar la soglia Inchinatevi al Genio
dell’Impero. I fedeli si alzano, s’inchinano davanti la statua di N.,
alcuni vanno a baciare i piedi dell’idolo, altri abbassano il capo davanti la
co- lonna del serpente di bronzo e tutti escono dalla porta a sinistra.
Intanto Dositèo eseguisce gli ordini di Simon Mago: spegne i lumi,
accende un cero che sparge una luce verdastra e lo colloca ai piedi
della gradinata. SIMON MAGO a Dositèo Dositèo, Precedimi nell’antro
ond’io riempio D’oracoli la cella. Sovra l’altare, iridescente stella,
Scintilli il prisma. Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a
spiare dalla porta del fondo. Ai citaredi ed ai sistrati E
voi dall’ipogeo Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti
costoro escono dalla porta bassa dell’antrum. GOBRIAS accorrendo nel
sacrario Giunge N. Simon Mago sale l’altare mentre Gobrias vuota un
simpulum di vino. Gobrias ripone il simpulum nel recipiente del vino e
sale a salti la gradinata. RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E TRIED DTA LINZ
MIE € RATE, SID RITI SIMON MAGO Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio segreto
e indica a Gobrias il nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del bronzo romba
Smuovi quel fulcro e tutto si sprofondi L’altar nella sua tomba. Gobrias
penetra nel nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio segreto su Gobrias,
poi ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum. Ritorna subito dopo
tenendo Asteria per mano. La porta laterale della cella si spalanca e
discopre un'ala sontuosa ove si scorgono N., Tigellino, Terpnos, e dietro
d’essi alcuni Pretoriani e una decuria di Guardie Germane. N. e Terpnos
entrano nella cella, la cui porta subito si richiude. SIMON MAGO ad
Asteria Su quell’altar tu déi salir. ASTERIA Travolta Son ne’
misteri tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO N. qui t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA
Oh, sogno mio supremo! Oh, so- NERONE [gno mio! accompagnato sulla
cetra da Terpnos, i canta: Un supplicante attende e prega
SIMON MAGO Che il sacro vel per lui si schiuda. Lo ascolta! Ei già
t'implora. ASTERIA Ma sull’altar perchè Tu aderger vuoi queste membra
[mortali? SIMON MAGO salendo la gradinata e conducendo a forza
Asteria riluttante insino all’altare Non indagar. Sali al tuo sogno! Sali!
ASTERIA Pietà SIMON MAGO Sali con me! Sali con me! ASTERIA
Fi m’ha nomata! SIMON MAGO sottovoce Egli la Dea ti
crede Che sulla notte e sui terrori ha [ regno. Bada a te! Se
ti sfugge solo un [segno Di tua mortalità, se scosti il piede
Da quest’ara e dal raggio che t’indìa, Tutto crolla. PRAIA II
ATEI RTRT NATIA LIE TODI LONTANE TEA III BISTLIO LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI N.
Placata alfin Ramnusia, in terra, i Indulga; arrida Asteria in ciel. N.,
con un gesto appena accen- i nato, congeda Terpnos che esce tosto
‘dalla porta d’onde è entrato. N. rimane ginocchioni ad aspettare a capo
chino, toccando amuleti appesi al petto e applicandoli alla fronte.
ASTERIA Mi danni alla tortura ! SIMON MAGO dopo aver
cercato con un gesto di far tacere Asteria, le chiude colla palma la
bocca. Nell’antro ov’ io m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia,
Ravviva in lui la speme o la paura E tuo schiavo sarà chi ha
schiavo il mondo. Simon Mago scende. Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata
dalle parole di Simon Mago, appoggiata all’ara, immobile. ! |
I} î ge frenate rs È DIPANA N DIZIA IE INIT ATA R
TIRI I SILE NI LIDI MEDE RATE PERITI NETTI SITAFINIDI DI UTO RATIO ATER II TO
LIMO TNTIZI ATER IRITRN IR DI LITI DIRI LATITANTE TL 2 Simon Mago schiude
un poco la cortina e passa nella cella. Non ri- mane altra luce che
quella del cero e del braciere ardente; anche la fiamma dell’ara è
spenta. SIMON MAGO a N., dopo socchiusa la cortina T'è concesso varcar
l’occulta soglia. N. s’incammina, arriva sino al limite del sacrario e fa per
entrare, ma Simon Mago lo arresta. SIMON MAGO affrettatamente Erri.
Col destro pie’ N. s’arresta sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora
la soglia. T'inchina. N. s’inchina. Passa. N. varca la
soglia. SIMON MAGO Gli sguardi abbassa. Il tetro ammanto spoglia. N., a
capo chino, eseguisce tutti i comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce,
tenendolo per mano, davanti allo specchio magîco. La fioca luce del
sacrario non arriva a illuminare Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in
cui rifrange Sua luce astrale l’infinito Abisso. Solo uno sguardo
intensamente fisso Giunge a discerner la spirtal falange. Qui la
vedrai, se tieni gli occhi intenti, In quel baglior di porpora e
d’elettro. Poscia, indicando lo scudo appeso accanto allo specchio e la mazza
di ferro, soggiunge: E se uno spettro appar che ti spaventi,
Batti quel bronzo e sparirà lo spettro. Abbandona Nerone, solo, davanti
allo specchio magico ed esce dalla porta dell’antrum. ZEN } Un
raggio iridescente scende dalla volta del Tempio e illumina Aste- ria la
cui immagine si riflette nello specchio. A N. Ah! sparisci!
Atterrito impugna il maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo,
ma subito s’arresta. No No. Sei del miraglio L’illusion. i
Avvicina lo smeraldo all'occhio. Ma ben ti raffiguro. Strano
mister. Par specchiato sembiante. S’avvicina, con intensa curiosità, allo
specchio e lo tocca; abbandona i lo smeraldo. Ah! qual pallor sul
suo volto.... e sul mio! Vediam. Si volge e vede Asteria sull’altare.
Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto a quello dello specchio e
si copre gli occhi colle mani. Non m’accecar! Porta la mano destra
alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare d’alzare gli sguardi, si
avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo gradino. Tremenda
Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri Tu promettesti pace a un
matricida. La stessa grazia imploro; inginocchiato su d’un ginocchio solo
al par d’Oreste Io non senza cagion la madre uccisi. Dal suo
spettro mi salva ! Ripiomba col volto sulla gradinata dell’altare.ASTERIA
sempre immota, fissandolo, con un accento languido di sogno Sorgi e
spera. N. sollevando la testa e gli occhi a poco a poco insino ad
Asteria Oh! come viene a errar presso il mio core La voce tua! Al par
d’un bronzo echèo Risponde il core. Sorge lentamente e, guardando
Asteria, si toglie dal collo il monile di smeraldi; mentr'egli compie
quest’atto, Asteria con eguale lentezza: e cogli occhi fissi su Nerone si
toglie dal collo le serpi avvolte e le lascia cadere nella cista mystica
che le sta d’accanto. PON ET NETTA MOVE IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI VITTI
RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I TANARRE DETTATI ATTI AES INIT
ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET MA
NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT PATRIA N. Tu dal sen disnodi La
vivente lorica, io surgo e getto L’offerta ai piedi tuoi. Getta la
collana di smeraldi sul tripode dell’altare, alla portato deîla iano
d’Asteria. Poi, seguendo con lo sguardo le movenze d’Asteria. prosegue: Ecco;
la Dea si china. Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella Fra i
lividi smeraldi Scendi Scendi Sul sognator de’ prodigiosi imeni Come sciolta
dal ciel cade una stella Scendi vèér me, Selène! Ecate! Asteria |!
Vago Eòne lunar! Magica Iddia Dai mille nomi, scendi! Ognun di
quelli Sarà un nome d’amor ! Ma immota resti, Dea degli
alti silenzi, al par dell’astro D’onde tu migri nell’ore incantate.
No... nel tuo cor sangue umano non pulsa Ma il freddo icore de’
Celesti. Guarda lo... rapito dal senso, amor spirante, T'imploro S'è
gettato sui gradini dell’altare sempre cogli occhi fissi in Asteria e
colle braccia tese verso di lei. Essa rimane immobile presso all’ara,
colla testa arrovesciata; come irrigidita dall’estasi. Oh! duolo! Una
Immortal tu sei ! Donna ti voglio e anelante nei fremiti Fieri del
bacio! Ah! ch’io. non maledica La tua Divinità! Già il sacrilegio
Portai su Vesta, allor che a forza avvinsi Rubria, vergine sacra, a
pie’ dell’ara Asteria si lascia sfuggire un breve grido. Nerone s'è rialzato €
prosegue: Ma delitto più nuovo e assai più forte Consumerò Si
slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per afferrare Asteria. Scoppia un
fragore spaventoso come di bronzo terribilmente percosso e s'ode dalla
bocca spalancata del mostro che sorge dalla pareie dell’antru, FISICI: LA VOCE
DELL’ORACOLO N.-Oreste! N. Asteria ! È Nello stesso tempo s'è
spento il raggio che illuminava Asteria. Il sa; crario ripiomba
nell'oscurità. N. ricade come fulminato sulla gradinata. Asteria,
lentament$ scende qualche gradino, s’avvicina a N., chinandosi a poco a
poco, gli si rannicchia d’accosto, mezzo prostrata, mezzo seduta; î
due corpi si toccano. I loro volti riverberano, fra le tenebre, la livida
luce del cero e il riflesso della bragia. ASTERIA | N.. — i come
sognando | lentamente fra le parole di Asteria i Passa una bieca
ora di febbre... un Cieca la salma nell’orror ripiomba... |
[sogno... 6) ? 19 L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo) |
Sento..nell’aura cieca..in fondo i i SI [all’ebbre a le larve SA
non | Parvenze il lento incubo nero. orbe....m’invade il ciel... |
[Oscilla: Al par delle spiranti anime il cero.i Lungo l’altar bagliori erranti
volano. LA VOCE DELL’ORACOLO N., fuggi ! N. Mugola un tetro suono entro
il sacrario. L’aura s'annugola ed ulula il tuono. Ma tu il nefario orror
distruggi, Asteria; Fida guardia tu se LA VOCE DELL’ORACOLO N.,
fuggi N. senza sgomento, ad Asteria, con lentezza estatica L’oracol grida
invan su me, non temo. sorridendo sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando
Sotto i tuoi piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio Blando...
lento... che muor col sogno e bea L’alma e dissonna il senso O Amore BEI
BRASIOA ZI FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI PARTI IM I
RATEALE DORIA TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN
VLAN TTT VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO
ETICI CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA Oh! Amor! Si baciano. LA
VOCE DELL’ ORACOLO sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP PR ESSERE Fuggi,
N.! N. balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente
Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare. POF DI
DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO ENTETANZA ASIA TATA Fuggi, N.! N.,
in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI ITA Prcietruee N. sottovoce,
origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’ ORACOLO Fuggi, N.! N.
scendendo dalla gradinata, rivolto verso l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra
il cero e corre a cacciarlo violentemente, dalla parte della fiamma,
nella bocca dell’Oracolo. DOSITEO Aìta! i: N. ridendo È
colto! Dietro la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con-
fondeva cogli altri marmi, traspare un grande chiarore. PIMOPI
LAICO YIIEV A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA
ERETTA SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE
GRATTTRT EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL N. par la vampa! Il
chiostro insidioso Crolli! Impugna la mazza di ferro e con un colpo
violento spezza la lastra di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo
squarcio della parete si scorge Dositèo, svenuto sul pavimento
dell’antrum, colla barba e le / i vesti în fiamme. Ah! An! An! È Dositèo
che arde! Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e con
grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a
destra. N. corre mella cella, ne spalanca la porta centrale, chiamando:
Pretoriani! Entrano tosto Tigellino, i Pretoriani, la decuria della
Guardia Ger- mana, Terpnos e i servi colle faci. N. strappando le
cortine del sacrario e gridando, invaso da un gajo furore; Accorrete!
Ecco! Mirate! Squarcia il velo del sacrario. Squarciato è il vel
del Tempio! Ah! AN! si rida! Non vi sfugga Simon, ei là
s’asconde. Indica l’antrum. Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì
dallo squarcio del muro. Terpnos ha deposta una face accanto allo
specchio. N. resta solo nel sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano
continua allegramente l’opera di distruzione. Si scaglia per primo
contro l’idolo-automa. N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco!
Vediam che n’esce! Vediam, vediam! E con un colpo di maglio io decapita e
lo atterra. L’idolo cadendo agita le braccia dinoccolate, si rompe e
n’escono i congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena!Intanto Gobrias è
uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e barcollante, contempla
con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato, la ruina
del sacrario, mentre Nerone atterra un’altra statua. GOBRIAS Eh!
son briachi (incespica) i Numi! N. D’onde sbuca costui? d ; sa
wcmerra sana ce iran» — rst Le o RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE
I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE
RIESI n fl s / SIIT TTI ILI IIE O MTERI VITE TL FI rare FIA DERE MA
RE BIDET SR: SAT £ RICE TIT I RR ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO
ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS Da quest’altare, Come il sorcio
ridicolo del monte. NERONE Ebbrioso compar, tu assai mi piaci; T'ascrivo
al mio Teatro. Gobrias s’inchina e scende incespicando. GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume! Rientrano
tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar- die Germane
col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia legate. N. a
Simon Mago, deridendolo O Gran Verbo di Dio! al Decurione
Libero ei sia; Costor dai ceppi han gloria. a Simon Mago
O Paracleto! Già udii narrar di te che t'ergi a volo Nell’aria.
(ride) Ebben, ah! ah! tu volerai Nel Circo il dì delle Lucarie. SIMON
MAGO sciolto dai ceppi SÌ. Purchè il sangue Cristian scorra in quel
giorno. N. Tutto, purchè tu voli. al Decurione, indicando Asteria
che s’è riavuta: Decurione! Questa, degli angui amor, falsarda
Erinni, Incubo dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei
serpi! Il Decurione e due Guardie afferrano Asteria.ASTERIA
dibattendosi angosciosamente Invan mi danni E mentre la trascinano
fuori dal Tempio ripete con accento disperato: Non morirò. Ma deh! per grazia,
uccidimi! lo non son che una povera errabonda Sposa di serpi; alla
mia razza il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte. Liberati da me,
perchè, se vivo, Ti seguirò così, sempre, rapita Dal volo del tuo
turbine, travolta Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei, Perchè
t’adoro N. Vedremo Al vivario Asteria è trascinata dai Pretoriani e dalle
Guardie Germane fuori dal Tempio. Il coro la insegue minaccioso. CORO
AI vivario! al vivario! a morte! a morte! N. piglia la cetra
dalle mani di Terpnos, sale sull’altare ed esclama: Or che 1 Numi son
vinti, a me la cetra, A me laltar! Gobrias prende dalla mensa una corona
d’alloro e gliela porge. N. s’incorona. Gobrias, Tigellino, Terpnos, i
Pretoriani si schierano davanti all’altare. lo canto. S'atteggia
come l’Apollo Musagete e incomincia a preludiare. PEA RA TTT ALT ERRO
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( IRSA PIL] GRITTI i i i ig Hut [eLt 1% f U PARA | y i I i A,
» = vec saio cen L’orto dove s’adunano i Cristiani,
nel suburbio di Roma, è illuminato dagli ultimi riflessi del tramonto. A
sinistra v'è un casolare con un vasto pergolato sostenuto da quattro
colonne. A destra v’è una fonte rustica sul cui margine di pietra è
deposta una ciotola e un’idria. Poco discosto v’è un sedile di rozzo
legno. Dietro alla fonte, e d’intorno, le zolle fiorite formano una
leggera prominenza. Nel fondo s'estende un uliveto. Sotto la pergola vi
sono due tavole; una di queste ha la forma d’un sigma lunare e porta i
resti d’una cena frugale, l’altra è di quelle che servono ai coronari per
intessere ghirlande ed è piena di fiori e di fronde. Intorno I a questa
tavola stanno sedute parecchie donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato alcuni
Cristiani circondano Fanuèl il quale è appoggiato al margine del fonte.
Un’aura di soave pace è diffusa su questa umile gente e sull’ orto.
Un’immensa attesa riempie le anime. FANUÈL în atto di chi continua
una narrazione udir pronte E vedendo le turbe ad Salì sul monte, Le
benedisse E disse: Beati i mansueti, Perchè saranno della terra i Re. LE
DONNE CRISTIANE ripetono sommessamente: Beati i mansueti. FANUÈL Beati
quei che piangono, perchè Saranno lieti. LE DONNE Beati quei
che piangono. FANUÈL Beati quei che vivono in desìo, Perchè li udrà il
Signore. GL’UOMINI Beati FANUÈL Beati quelli che hanno puro il cuore, perchè
vedran la gloria del Signore. PWOASCI Beati FANUÈEL E beati, fra Vanime
fedeli, Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi, Perchè per essi
È il Reame de’ Cieli. TUTE Beati! Rubriîa esce dal casolare con
una lampa in mano; è seguita da Perside e da fanciulle che portano in
grembo dei fiori sciolti e lì depongono sulla tavola insieme agli altri.
Tutte le donne si radunano intorno ai fiori. Alcuni uomini vanno accanto
alle donne, altri entrano nel caso- lare, altri si disperdono nell'orto.
Fanuèl, appoggiato ad una colonna della vite, guarda Rubria. Incominciano
a spargersi le prime ombre della notte. RUBRIA Vigiliamo. È la sera. Arde la
face. D’intorno ad essa ci aduniamo in pace. Viene il Signore ma
nessun sa quando; Beati quei che troverà vegliando. Si mette fra le donne
ed i fanciulli ad intrecciare ghirlande ed a cantare con essi una canzone. RUBRIA,
PERSIDE, LE DONNE alternatamente A me i ligustri, A
te l’allor. Tuffiam le industri Mani nei fior. A me il ciclame E
l’asfodel, L'’aulente stame E il tenue stel. Avrem corimbi D’edera
inserti, Corone e nimbi, Ghirlande e serti. A me il viburno E
l’amaranto. Rigira il canto Mutando turno. Sua gioja espanda La
cantilena Viva e serena Come ghirlanda. OR! date a piene Mani
le rose Vigili spose, Lo sposo viene. Spogliate i clivi, Le valli e gli
orti! Fiori sui vivi Fiori sui morti Fiori silvani Gialli e
vermigli OR! date gigli A piene mani! Casto segreto D’amor ci
leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi Lieto è chi muore Nel Dio
verace. Amore! CISA Fede Amore! Amore! i Speranza! ci pritaza erica
nr srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE LIV NE
PISA POR TINI ESTATI NOIA negro ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI LETT IIS CLI
IE AMET Li VITI en = PN LATITTE FRS, IAC IONI CREA PIATTO TODARO LAZ)
IT AETE TA ADEN IMEBIIREI LIE Ra STAI TANTI NLITTE PORA ONT Te ppie LL
SIIT FIIEAIOI MIEI OASI METZIZIO EIA DNASIORISI E STIRIA TIZIO EE DO DIE I ITA
MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE PL
ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo Pace. ALCUNI CRISTIANI
sommessamente cTsrEATI e en Risponde il ciel ! (IbEEINDI
chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli alberi dell’uliveto si
scorge una figura nera che s’avvicina lentamente. È Asteria. ALCUNE DONNE
Un fantasima E fuggono tutti, tranne Fanuèl e Rubria. Asteria s’avanza
come persona esausta e dolorosa. Giunta sul limite dell’uliveto
s’appoggia al tronco d’un albero, guardando il casolare. Le sue vesti sono
lacere, non porta più le serbi intorno al collo; mormora, gemendo, parole
interrotte. ASTERIA Di pace una dolente a lor favella Crudeli ed essi
fuggono. RUBRIA ode i fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la sorregge
pietosamente e la conduce a sedere presso la fonte dicendo: Sorella,
Che hai? tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi! ASTERIA
vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa. Dolce Nazzarena SÌ
tu se’ quella che il mio duol lenivi Sull’Appia, orando, un dì, nella
quiete Dell’alba T'ho cercata tanto Ho sete. Rubria fa cenno a Fanubl, il
quale s’affretta a riempire la ciotola coll’acqua del fonte e gliela porge. A
ORTO Co ee vee te en e ee e ea ASTERIA sorridendo a Rubria ed
estraendo un fiore dal seno Quest'è un tuo fiore. RUBRIA Bevi. Avvicina
la tazza alle labbra dell’assetata. Asteria beve avidamente. Arsa languivi.
Mentre Asteria alza le mani per sorreggere la tazza, si vedono le sue
braccia ferite e sanguinanti. Tu spargi sangue ASTERIA dopo un
lungo sorso, senza por mente all’osservazione di Rubria Oh, il fresco
umor dei rivi! sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl; a
Rubria: Ma tu non seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi Per salvarti. Per te
mi svincolai Dall’amplesso dell’idre. mostrando le cicatrici Ecco i
lor baci. Rubria fa per bendare la ferita di Asteria. Non m’ajutar.
con parola sempre più concitata e ravvivandosi rapidamente Questi
attimi fugaci Serba per te, te stessa ajuta, fuggi! alzandosi
Fuggite tutti! sulla vostra traccia Vien Simon Mago. RUBRIA Spavento
|! cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI MALIGNA VAIO NT IISIRTARI
PIGRI FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA ITA! III TA LA PVASVDAT:
OSCENI sN TT DA TTT TL LT e rene toe O EIA. x a serest PR LATTA x nti
creni SIOE ZIONI DANTE RITA AZ TI DI TATTICA OZ TTEELATIAA CEI ITA IZ
RISO PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI
IZZO TIZIA INIZIATI SEP AIA I Ù s |ASTERIA i I I var
tenanionIE Distruggi Ogni altra speme che non sia la fuga. Tremendo
egli è ! Bene udii la minaccia: Ei vuol sangue cristiano. RUBRIA a
Fanubl, atterrita Il tuo Asteria si è già allontanata dalla parte
dell’uliveto. RUBRIA ad Asteria T'arresta ! ASTERIA con subita
veemenza e come spinta da un impeto invincibile Il riacceso mio dimon mi
fuga Scompare tra gli alberi del fondo. RUBRIA s’avvicina a Fanuèl
che è rimasto presso al fonte e la guarda, immobile; dopo un momento d’ansioso
silenzio Fanuèl Fanuèl Parla ti desta. ” Salvati, per pietà! Tu indugi
ancora? Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora E dia le vele al vento!
L’infinita Via del vol s'apre a noi, corri alla vita Vieni! mi suscita un
Dio quest’alato FANUÈL fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo
un silenzio Non parli più? L’alato impeto muore AI solo rammentarne?
Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore. SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII
REISER LTT. RUBRIA interrompendolo Ed or te ne
rammenti FANUÈEL A tutte l’ore M’è quel tribolo fitto entro la carne Confessa.
RUBRIA No. Pria fuggiam poi dirò Come potresti or tu
quest’affannata Anima interrogar sì che risponda Sàtana è là nel
tenebrore, Vuol la tua morte FANUÈL Tutto ignoro di te, tutto,
anche il nome. Quando t’accolsi nella fe’ novella Non te lo chiesi,
ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva Tu ne
abbandoni; l’orma fuggitiva Ove ten porti? ove? e perchè celarla?
Forse allor corri al tuo peccato ? Parla ! Parla! Consenti alfin
(ti pregai tanto) L’alto abbandon del lagrimato errore ! E
un’estasi soave in fondo al pianto GOBRIAS con voce artefatta, nasale, dal
timbro bieco dal folto dell’uliveto Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del
charisma Cristian ! RUBRIA inorridita Sàtana è qui! Corre
disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda intorno,
spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl. L'orto è
immerso in una densa penombra. S’intravvedono nel fondo Simon Mago e
Gobrias poveramentie vestiti. Simon Mago ha il capo coperto da una
calàutica î cui lembi sciolti gli mascherano tutto il viso. S'arrestano
là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Va guardingo,
attento esplora; guidami per mano. GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e
risponde sottovoce Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano. SIMON
MAGO Ricomincia il tuo lamento GOBRIAS Ah! Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON
MAGO sommessamente e con grande ansia a sempre sottovoce Fanuèl
che non si scuote Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento,
cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar DI st avvicinanando
meco. GOBRIAS con Simon Mago al casolare e gira intorno gli sguardi. Dilaniata
strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse Cuore il mio grido e non ti
vuoi Odo un suon di voci arcane, di sin- [salvar !) SIMON
MAGO {in bruno ammanto. SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a Gobrias e
sottovoce Sigi mi raffigura, S'ei mi s'oppone,
ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar novella Ed agitar, coi
nostri, la congiura Dell’incendio. Se ajuto qui m'è tolto, L’ultima
audacia disperata è quella.) ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI FOTI TO RL TAN
RNA RIO + OR PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT VE UE EIUS LAI
RI MD RUBRIA disperatamente, ma convocesommessa Mi guardi e taci? Che
pensi? FANUÈL I amaramente SIMON MAGO Che penso Va quando vedi ch’io mi
scopro È peccato d’amor il volto. RUBRIA D’amore immenso FANUÈL
Questa fu l’ora della grande angoscia S’avvicina, calmo, a Simon Mago, Rubria
rimane presso la fonte. FANUÉL ad alta voce Che vuole il cieco SIMON MAGO a
Gobrias Parla tu. GOBRIAS a Fanuèl La luce del charisma Cristian. FANUÈL
terribilmente Così non sia! Mago Simon, cieco e de’ ciechi Duce! dj
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SEDI VITE da TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI ME TECA IENA RETTA EPOCA
LA Ende SERA ILE STATUE AL SIMON MAGO atterrito si scopre il volto e si
getta ai piedi di Fanuèl. Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è
allontanato dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco dopo n’esce con
alcuni Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un Centurione.
SIMON MAGO sempre ai piedi di Fanuèl continua Furar tentai ciò che
negasti, or prego. La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi salvar, morte
m’attende. Un’opra ch’ogni uman segno trascende N. m’impone, Non
si sfugge a N.! Dove ch’io mova un Centurion mi spia. Ma tu, Profeta del
novello Eòne, Tu, coi portenti della tua magìa, Tu sol mi puoi
salvar. FANUÈL Così non sia! Si vedono comparire dall’uliveto due
decurie di Guardie Germane colloro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati
da portatori di fiaccole. SIMON MAGO rialzandosi di colpo e indicando
Fanuèl ai Pretoriani A voi l’uom. I CRISTIANI si slanciano
contro Simon Mago, gridando Morte SIMON MAGO chiedendo ajuto alle guardie
Olà I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone ! PERE e De FANUÈL interponendosi,
con un gesto pacato, libera Simon Mago dall’assalto; poi dice ai
Cristiani: Non resistete al malvagio. L’esempio Ne diè il Signore.
Il Signor sia con voi. Nessun chieda ragione Se piace a Dio di far
possente un empio Per infrangerlo poi.Simon Mago s’allontana. Fanuèl
ripiglia dolcemente Vivete in pace, e in concento soave D'amore, mani
aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave E
l’allegrezza. La giornata è compìta Pel fratel vostro e il suo carco
depone. Voi camminate in novità di vita Ed in pienezza di Benedizione.
Oscurandosi Quando torna la sera, col mesto incanto delle rimembranze,
Unite anche il mio nome alla preghiera, Unite anche il mio nome
alle speranze. trattenendo la commozione V’amai dal dì che il cuor
vostro ho raccolto, Non so quale m’attenda ora crudel Ma so che più non
vedrete il mio volto. I CRISTIANI donne e uomini, gemendo Fanuèl Fanuèl FANUÈL
s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or, fratelli, io
tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi. I CRISTIANI
inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl Amen RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO
TINA E SRI IATA ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL
entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con un bacio
santo. Bacia alcuni uomini ed alcune donne. Seguitemi cantando un
lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per darsi in mano alle guardie.
RUBRIA mettendosi davanti a, Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci
sulla mia pupilla La lagrima cocente dell’addio FANUÈL Donna, ho le
labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che Rubria rimane
in disparte, lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge: Qui sola resti?
RUBRIA subito, con voce appena sensibile SÌ. FANUÈL rivolto
ai Cristiani che lo accompagnano Cantate a Dio! Le donne hanno
raccolti tutti i fiori e li spargono davanti i passi di Fanuèl, cantando
e allontanandosi fra gli alberi dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il
fervore dell'anima, spargendo fiori davanti i passi di Fanuèl Oh date a
piene Mani le rose interrompendosi con un singulto di dolore I
CRISTIANI Vigili spose ANSA DITTA IRE FUSTI ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E
SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6 SDONSSIOIZG N ISIEZO III ì cinrii ALTARE ERI
AZIONA IATA nr SIONI ASTANTI TIA II TIZIA AMI NL TERA IV ZII II DO
RATTAZZI TLT RA RDATAI IZATFNTAI I VORII DTEIA TT AAF Ln ara e ST GPTDT
ELICA VOTATI LN DDT RIT ATI TSI ITINERE o e A È CREARTI IE IEIRRIA
MALARRIIRO E ARTT PONE A MRO II SOI EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE
IE E RETE I RT MENA TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE
Spogliate i clivi, Le valli e gli orti! Fiori sui vivi! I
CRISTIANI allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A piene mani Casto
segreto d’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi. Lieto è chi
muore Nel Dio verace. Amore Fede Amore LA CANZONE LONTANA Rubria è
rimasta sola nell'orto. Il canto s’affievolisce allontanandosi. RUBRIA
dopo aver seguito collo sguardo il i cammino dì Fanuèl Sì,
per salvarti. Ma il mio sogno [è infranto. S’accosta al margine del
fonte e bacia il posto della pietra toccato da lui. Si rialza. Tende
l’orecchio verso la canzone cristiana che si sperde sempre più nella
lontananza. Un sogno santo un dolce sogno fu Laggiù, lontan, nella canzon
che [muore, L’odo ancor. RUBRIA L’odo ancor e canta:
[amore ! Amore. sforzandosi d’afferrare gli ultimi suoni L’odo ancor. dopo
un lungo silenzio, angosciosamente Non l’odo più E cade ginocchioni. Ma RIM
AA 7 NI VAIO QAVTI MALLINMA VO: IT RICA OS NT e tane
carl ieri ian ] a MITA LIETI } Ì i tino.
19 a 0; dI iaia DS x LESLIE TENTA NA LIZ È STATO LANE
SAI LZ ATI Si vede l'interno dell’oppidum fra i suoi grand’archi
centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e quello della f0r/a dompae, a
sinistra, che s’apre verso il foro boario. In questo grande atrio ha sua foce
un criptoportico che si prolunga nel fondo seguendo la lieve curva della fronte
del circo; è chiuso, alla diritta di chi guarda, dal muro delle carceri, e la
sua parete a mano manca è popolata di botteghe e di taverne. Nella
stessa parete, leggermente concava, si scorgono i primi gradini d’una scala
interna che ascende alle precinzioni più alte. Presso all’arco che sbocca
nel circo si vede internarsi nel muro, di prospetto, il primo ramo d’una
scala che sale al podin. Un’ ampia nicchia, fiantheggiante la forfa pompae,
accoglie la famosa scultura Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in
atto d’avvincere Dirce alle corna d’un . toro inferocito. La viva luce
diurna entra dall’arco esterno nell’oppidurm. Ai pilastri degli archi è affisso
l’editto dei giuochi. Vortici di folla irrompono da ogni lato. La maggior calca
ferve intorno ad una quadriga; quivi le fazioni del Circo si affrontano
levando grida di trionfo e d’ira, i agitando toghe e cappelli e pezzuole
verdi ed azzurre. Parecchi brandiscono degli stili, altri minacciano
colle pugna gli avversarii. L’auriga, che ritorna vittorioso dalla gara,
porta i colori di parte prasiza, ha le redini attorte dietro la schiena e i
cavalli rivolti nella direzione del criptoportico, impugna un coltello
per difendersi de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni
FELICIA vano cavia nta PO TAZTI ARE TATE dagl’assalitori. I VERDI
Gloria Vittoria GL’AZZURRI Morte Morte Infamia I VERDI .
Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GL’AZZURRI Furasti con perfida frode,
Furasti con perfida gara La palma cruenta! I VERDI Vittoria Vittoria
La folla vociferando segue la quadriga e s’interna nel criptoportico. Simon
Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione, incontra Gobrias che viene
dall’arena. GOBRIAS a Simon Mago, scherzosamente, coll’inflessione
particolare di chi parla ridendo I Verdi han vinto, è salva Roma. SIMON
MAGO sottovoce a Gobrias Ebben GOBRIAS sottovoce, dopo essersi
appressato a Simon Mago, e rapidamente Siam pronti. La fune incendiaria acoppierà
verso il celio. SIMON MAGO sottovoce E chi la scaglia? GOBRIAS Asteria, SIMON
MAGO con accento di grandz sorpresa Asteria? GOBRIAS
Sì. Viva la trassi Dal baratro de’ serpi ed or ti giova. SIMON MAGO
M’odia, mi tradirà. TT RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt ri I i
nevi ia ceca mann ast romiiomito nea ra re ORTO PATIRE RR RI II LIONE DINI ONTE
IIN i $ i GOBRIAS con accento di chi rassicura
Ama i Cristiani, Vorrà salvarli e te salva con essi. SIMON
MAGO dopo un momento di riflessione Sai l’ordine de’ giuochi? GOBRIAS
indicando l’editto affisso ai pilastri della porta pompae ed
avviandosi a leggerlo È là, si legge. Dal fondo del
portico sopraggiungono alcuni gladiatori armati per combattere e disposti
în ordine di parata; divisi per coppie, preceduti da quattro
Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal Lanista e da un servo,
entrano nel circo. GOBRIAS 1 gladiatori di Preneste - Passano. Il
supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i veitri e colla morte vera Di femmine
Chrestiane. SIMON MAGO interrompendo A mesi deve. GOBRIAS
continuando la lettura Laurèolo in croce sbranato dagli orsi. SIMON
MAGO È Fanuèl. Continua. GOBRIAS ferminando la lettura Il
volo d’Icaro con un gesto d’addio canzonatorio a Simon Mago Buon ti sia Se
ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico. Dal circo giungono
grida di Euoè Euoè Euge Euge Macte Macte mentre un’ondata di folla entra
correndo dall’esterno nell’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso una lettiga
pomposissima portata da quattro lettigarii. Una puella Gaditana esce
dalla taverna con alcuni suoi corteggiatori e si mette a danzare in mezzo
al crocchio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e lieve, al suono
di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un giovanetto, colla
doppia tibia alle labbra, l’accompagna. N. e Tigellino scendono la scala
del podio e s’arrestano presso all’arco del circo. N. Che vuoi dir? TIGELLINO
sommessamente Una congiura. N. Contro me? TIGELLINO Contro Roma. I
Sacerdoti Di Simon Mago, per sottrarlo a morte, pria che la torre ei
salga ond’ei dovrìa slanciarsi a volo, incendieranno l’Urbe. La puella Gaditana
col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si eclissano nella curva del
criptoportico. N. attento ai clamori del circo ed interrompendo Tigellino Taci. Le
grida del circo giungono nell’oppidum da varie altezze e distanze,
seguite da risate e da urli, frammiste a squilli di buccine. GRIDA DAL
CIRCO Non vuol morir! Pollice verso Ot, So E ibiza ea resin
det m m m &m & VNDERITE ATTI TERZA RIAITZI SLI MET III NNT PRIA UNE
RATE EEN ALTRE VOCI Basta! Vogliam le Dirci! MOLTE GRIDA
Uccidi A morte Segue un momento di tregua Tigellino se ne vale per
ripigliare il racconto. TIGELLINO Seguo lor traccia. N. imperiosamente,
interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il tumulto del circo; s’odono a
diverse distanze le grida: Age jam Evax Ahè Ahè Euge Eho Eho Vogliam le Dirci TIGELLINO
I Pretoriani chiedono un cenno mio per afferrarli. N. ascoltando le
grida del circo ACK VOCI DEL CIRCO No no no Basta TIGELLINO risolutamente
a Nerone, mentre continuano le grida lo salvo Roma. Da ogni parte
del Circo si odono le grida di Basta Le Dirci La Tragedia Basta N. in uno
scoppio di collera Taci! Non odi la plebe che rugge Voglion le Dirci S’aggira
concitato verso il criptoportico. Sono entrati dalla taverna Gobrias,
Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro esclama: Olà Presto Alitùro S'affretti la
tragedia, Alitùro esce correndo. A Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E =
REIT FE DIET TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST
AT ONTO ET CR ITA AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna
Dal fondo del criptoportico accorrono moltissimi pantomimi colle
maschere sul viso, portando grosse funi. Ad alcune guardie che sopraggiungono: E
voi scacciate Quei gladiatori. Allo spoliario i morti! Date le
Dirci al popolo Affaccendato come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias
ed a Terpnos con grande concitazione Son pronti i tori e le funi e le
rocce del Citerone e i veltri e i sagittarii chiamando com forte voce I
personaggi d’Anfione e Zeto I due personaggi si presentano Zeto porta una clava
e delle funi, Anfione una cetra. Ecco l’effige del supplizio. Guarda Tebe
una Dirce ed io ne uccido cento. Cento aspetti ha la scena In scena ISTRIONI
In scena Tutti s'ingolfano nel criptoportico e scompajono. N. conduce da
parte Tigellino e gli dice sommessamente, con calma ironica: Astuto agrigentino,
e non t’avvedi ch’'io già tutto sapea? Guai se all’incendio che m’offre il ciel
t'opponi.Ciò ch’io struggo Risorge. Il mondo è mio! Pria di N. nessun
sapea quant’osar può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina lentamente un
corteo strano ed atroce. Le donne cristiane, precedute da Fanuèl, vestite come
la dirce del marmo rodiano, inghirlandate di verbene, colle mani legate e fra
le mani un tirso od altri emblemi bacchici, camminano fra due file di truci
bestiarii che le percuotono a colpi di flagelli se quelle s’arrestano. Seguono
alcuni Sagittarii in completo assetto di caccia con archi, faretre e
saette. Una frotta di pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo. Simon
Mago ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo insultano mentre
egli passa. Frattanto la più sordida plebe del circo s'è riversata nell’oppidum.
N., presso la. porta pompae, attende cupidamente il passaggio delle
vittime. i TIRI ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI
BILIA RSI NA IRINA PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE
LEE: n: IAA III NANI MPIN ID RS ZI ZITTA LIE CIZ ANTI MOMAL TIIA PIACE ELP DZ
MERZIA LA DIRTI TRADITA N TDI II ZI EN DEISAIIOP TRI E SEIT III TAG TOTI I SIIT
AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E DE Li LA PLEBE Morte
Morte SIMON MAGO mostrando Fanuèl alla Plebe Ecco il capo delia torma Le
Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso l’arena. SIMONIACI
Latra i tuoi salmi Abbaja Abbaja LA PLEBE $ | i ! TOGATI Raca
SIMON MAGO Raca Il suo vino è sangue. LA PLEBE Abbaja A morte FANUÈL
con voce alta e serena Credo in un dio solo ed eterno.I cristiani e le
cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl. SIMONIACI E PLEBE
Abbaja Abbaja Latra Latra Sulla scala del podio è comparsa una Vestale. Ha il
capo coperto dall’insula e il viso nascosto da un velo; ogni suo vestimento è
bianco. Un littore co’ fasci abbassati la precede, un flàmine la segue. Giunta
all’ultimo gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano
verso Fanuèl. La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una Vestale ALCUNE
VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi Sien salvi SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—Ih È*
È*ÉÈI* O*èZIè @-@èEQIà Nei ste Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI
PIREO REMI II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA
TIPI TANA SORIA TTD MADAME DE I LI PETER AT SIETE PAD
IOE SIT IO APZIOT NTTSIT IA DAR TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT
DATA TERE CE e terribile e nelle prime parole un po’ ansimante per ira
Chi là dov’'io mi son osò parlar di clemenza? LA VESTALE sempre
colla mano tesa verso Fanuèl e immobile Stende Vesta con me la man che
riscatta le vite. N. lentamente, studiando ogni parola, mentre guarda a
Vestale velata collo smeraldo Ave, 0 Vergine sacra, scopri il volto, poi
giura (Legge è di Numa) che in questi rei non qui ad arte [t'imbatti.
LA VESTALE con voce di persona atterrita Una Vestale a giurar
non s’astringe. N. comuno scoppio di collera Per Giove! Chi le
strappa quel vel? SIMON MAGO Io. Il littore tenta d’interporsi co’ fasci,ma
Simon Mago s’è già slanciato sulla Vestale e le strappa il velo. ALCUNI
Sacrilegio ! FANUÈL la riconosce, accorre ad essa, discaccia
Simon Mago ed esclama: Sorella! RUBRIA Fanuè! Sviene fra le braccia
di Fanuèl. SIMON MAGO È una cristiana. Re I ATI OA PRIA RI, de Pa LA
PLEBE È una cristiana, N. ravvisandola, la nomina Rubria irridendo
Ben tu svieni. SIMON MAGO Morte LA PLEBE A Porta Collina!
Muoja! N. Freneticamente Muoja Nel branco delle Dirci! LA PLEBE
Sì. NERONE con un rapido cenno impone silenzio. Dopo una brevissima
sospensio- ne riprende solenne e tranquillo Dal capo
L’insula sacra il flàmine le svelga Il Flàmine strappa dal capo di Rubria
l’infula e la gitta. Cadan le vesti a brani. FANUÈL Io la difendo. I bestiarii
si avventano su Rubria svenuta, le lacerano le vesti. Fanuèl è circondato dai
sagittarii. La plebe s’accalca intorno, mentre due bdbestiarii sollevano Rubria
sulle teste della folla ruggente e la trasportano nell’arena dove è spinto
anche Fanuèl insieme alle Dirci e ai Cristiani che cantano con voce alta e
serena. CRISTIANI e CRISTIANE Credo in un Dio solo ed eterno. SE = PRA DE RR
ATTRA DI RI PEN TL ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI DET AT SEA, ILS IN I
VIIITUE RI TANTE SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA DE STLTIIIAI ER LA
PLEBE A morte Abbaja abbaja Raca Raca Morte N. con esaltazione Mano alle
funi, alle belve, alle donne Tutte un Eroe denudator le abbranchi, Le avvinca
nude in groppa al furiale Nembo de tauri, ebbre d’orror, fugate Dai
veltri in caccia, irte di dardi, esangui, Belle, riverse, i grembi al sol, nel
raggio del concavo smeraldo agonizzanti. N. si avvia al podio. Tutti i
pantomimi sono entrati nel circo. Scorgendo Simon Mago o E tu non voli?
Ah! AN! La plebe sghignazza. N. indicando Simon Mago a Tigellino e ridendo Dalla
torre dell’Oppido sia tosto Slanciato in ciel. Non voli? Ascendi
all’etere, Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla scaia di legname
che sta a sinistra del criptoportico. GOBRIAS, TIGELLINO, LA PLEBE
I ridendo, a Simon Mago, e beffandolo Vola, La guardia germana, afferrato
Simon Mago, lo trascina rapidamente I Se sai volar Icaro, vola!
I SIMON MAGO si difende con tutte le sue forze; vede Gobrias e lo chiama
in soccorso: Gobrias! GOBRIAS Va! non temer! prolunga la difesa. mo
Correndo e ridendo s’allontana e scompare nel fondo del portico. DELIO
NEVA PETRI SEEM ONE O LIMONI ENELA VD PIET A IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI
TRITATA SLIDE SVITARE PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO TIENITI SIMON MAGO
implorando ajuto da Tigellino Mi salva TIGELLINO rigidamente, ai
Pretoriani Sguainate l’armi SIMON MAGO al colmo dello spavento
Tregua La guardia germanica colle armi in pugno caccia Simon Mago, pungendolo e
minacciandolo, sui gradini della torre dell’oppidum. N. Icaro, vola! Vola!
Vola al sol! N. ridendo sempre più eccitato, entra nel circo. Nel circo non
cessano i clamori: si odono le grida feroci A morte le Dirci, Vogliamo la
Tragedia, Non vuol morir! Pollice verso Ad un tratto s’odono degli urli di
spavento che vengono dal fondo del criptoportico e dalle parti più alte
dell’edificio dove s’incomincia a scorgere qualche cirro di fumo. Le
grida di terrore aumentano e s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum e s’ode
Gobrias che grida: L’incendio è nelle fornici Altre voci gridano Soccorso! Il
circo divampa Salvate le donne Fuggi! Fuggi Di qua No Fermi Ajuto Attraverso le
nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che s’urta, che cade. -
Una fiumana di popolo irruente invade il cripto-portico, spinta verso lo sbocco
della porta pompae. L’Oppidum non è più che una voragine di fumo. PA LED AZ
SEPARATI ZA LIM NITAL TU TOA OL SETS CRA Matte NOLI ARTDIR ATTI AE IO
VITERTE NZIRISTI IL MATTEO II SAINT (ARIA E LEIREIREN LI IT ERI IRE TI GIONI
NEREE DIREI ISEE ARI LIO NSAIIA N VT IERI TAI ZA SI PAR IENE ALT MT TRON ITA
TRLNGTLAE FASI RZAZII RODA Pe agnaiì NATE fi MARTI Dich * n o
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gf” SIORIT MISOLI E GPIZIEIE BITTE PEZZO DL LO ITA EAT NL A CETONA
TOT UIL LT petedimenasa stai nn IZ: III È un sotterraneo del circo dove si
depongono i morti. La luce riflessa d’una torcia che s’avvicina dirada a poco a
poco le tenebre, rischiarando a destra il vano d’una porta e la rampa
d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre giunge dall’alto e ad intervalli
uno scroscio come di cataste o di mura che ruinino. Asteria, con una fiaccola
in mano, discende la scala; giunta alla soglia del sotterraneo s’arresta per
illuminare chi la segue, ASTERIA Scendi. Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme. Cerchiam
fra i morti. FANUÈL Orror di tomba Emana lo spoliario. S'ode
ancor da quest’antro funerario La gran vampa che romba. ASTERIA
Cerchiam. Incomincia ad aggirarsi lentamente guardando a
terra lungo la parete centrale. Al lume della torcia che tiene in mano
s’intravvede, là dove passa, la struttura irregolare del sotterraneo.
Fanuèl va frugando a sua volta nell'ombra lungo la parete di
destra. Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA
‘i pe FANUÈL Cadde la prima, ASTERIA vivamente Allor qui
giace. Tardi per lei scoppiò da questa face Il folgore incendiario!
Fanuèl s'imbatte in un corpo, si china, lo tocca, riconosce al
tatto le fasce crurali d’un auriga. Va oltre. Ecco là dei cadaveri.
Indica un gruppo di morti stesi a terra nell’angolo della parete
sini- stra. Fanuèl accorre e li guarda. FANUÈL Un reziario, due sanniti,
un trace. ASTERIA atterrita Simon Mago! FANUÈL
Ove? ASTERIA indicando con ribrezzo, senza accostarsi, iv cadavere di
Simon Mago gittato un po’ più lontano, in un’insenatura del muro Là. FANUÈL
dopo averlo guardato fissamente Da Dio fu infranto.
Abbominato sia. S'avvia verso il centro del sotterraneo. Il suolo è ingombro
d'armi gladiatorie. ASTERIA Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un letto
funebre, giacente come una morta, una donna în veste bianca. FANUÈL
chiamando con voce agitata Accorri. i BZ IiMRANZIAR TINA TIE I A d
ASTERIA accorre colia face. È lei? FANUÈL cade in ginocchio,
posando la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia! Gieltz, Respira,
Vivrà Asteria appoggia la face ad una pietra vicina, poi corre dal lato sinistro
del corpo di Rubria per ajutarila. Squarciale i panni Salvala Asteria, mentre
Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta. Cerca le
sue ferite, Io l’ho veduta Sanguinar nuda nel nembo infernale Salvala Cerca
cerca sotto il core Là sotto il core la ferì lo strale D'un sagittario. aspettando
ansiosamente Ebben? ASTERIA guardando la ferita di Rubria
attraverso lo squarcio delle vesti Spavento Muore. FANUÈL Muore Non muoja
qui non nell’orrore Di quest’antro Fa per sollevarla e portarla altrove. ASTERIA
opponendosi con impeto La getti nella strage divampa il celio, arde il velabro,
è l’odio d’un dio su Roma. Il circo è un mar di brage. Se la tocchi l’uccidi scoppia
un fragore terribile sulla volta del sotterraneo. Crolla il podio Asteria ha
visto qualche riflesso dell'incendio sulla scala d’onde scese e la risale
correndo e scompare mentre Rubria apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah! FANUÈL tutto
chino ‘presso di lei Non temer, son con te. RUBRIA trasognata Fanuèl.
Dove son? dove fui? Tu salvo Io viva L’anima mia fuggiva M’offusca un vel
Colta da una reminiscenza d’orrore, getta un grido, si sforza di sollevare il
capo. FANUÈL con grande dolcezza No. Una mano pia ti ricoperse con la bianca
stola. Riposa. Oblia. RUBRIA Chinar dovrei le mie ginocchia a terra d’innanzi
a te. Tenta di sollevarsi, ricade. Son ferita non posso. FANUÈL Rubria RUBRIA
Pietà l’orror mi riafferra Il Mostro il turbin rosso. Viscere e carni Ascondimi
M’ajuta! FANUÈL inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha perduta!
(o [4 sd RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I RIINA TOR
ILE TI i i Ì i Ki | Ì i 4 i i
| RUBRIA D’amor io t'amo tanto dopo una breve pausa Fanuèl morirò?
FANUÈL seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote
dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte PISTE STE
SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI sc Vivrai. RUBRIA dolcemente SI
SI Oh com'è buona e calda la carezza della tua man Bacia la mano di Fanuètl. PRANZI
LETI TIT LIA pu PSI IL Più accanto a me più accanto. Così COSÌ.Tu m’insegnasti
questa gran dolcezza Di sorrider nel pianto. M’odi la morte A ogni attimo
mi strugge Non pianger, Fanuèl, stringimi forte, Finchè mi stringi, l’anima non
sfugge. $r O ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed un silenzio di raccoglimento,
soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere Venìa' coll’ idria del
mio tempio... al fonte Dell’orto santo e dopo le preghiere tornavo
all’atrio antico, a piè del monte tentai confonder nella stessa vampa l’ara
ardente di Vesta e la pia lampa della vergine saggia. Ecco il peccata. Or tutto
è confessato, attendo il tuo perdono. Tutta or mi sai, sorridimi. Monda e beata
or sono. ERMETICA A FANUÈL alzandosi e ponendole le mani sulla fronte e
baciandola, con soavissimo fervore, Benedizion d’ immenso amore accensa sul
capo tuo col mio bacio si posa. I iituitiolititiiceste netti rie ss n ur si n
PRETI LTL DATI IE VIII RUBRIA sottovoce Fanuèl! Fanuèl! Estasi immensa!
Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa sul petto di
Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, l’egra mia sposa che sul cor mi giace. RUBRIA
Dimmi, ove siamo? FANUÈL In un asil di pace. Dormi quieta. RUBRIA con
voce sempre più fievole Sento che ascende l’ombra d’un vespero strano. Dammi. Fa
degli sforzi per continuare a parlare; non può. FANUÈL Che vuoi? RUBRIA
con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la mano. Narrami ancora,
mentre m’addormento, del mar di Tiberiade, tranquilla onda che varca in
Galilea. FANUÈL quasi cullandola Laggiù, fra i giunchi di Genèsareth,
oscilla ancor la barca ove pregò Gesù. Raccoglie Rubria sul suo petto. Quella
cadenza languida di cuna invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi tranquilla,
dormi. Meo: AIUTO SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce Ancòra ancòra.
FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna, era quell’ora in cui sorgon gl’incanti.
RUBRIA come un soffio, spegnendosi Ancòra ancòra. FANUÈL colle mani giunte e gl’occhi
rivolti al cielo Escian le turbe oranti per la lunare aurora. Sente Rubria
inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria. Asteria ritorna scendendo
velocemente la ripida scala. Fanuèl continua a ricercare la vita sul cadavere
di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge, ogni scampo di là n'è tolto.
Divampan le torri, crollano gli archi. Vede un uscio sprangato nella parete
sinistra. Un lampo di speranza! Si slancia affannosa attraverso gli ingombri
del suolo verso la porta d’uscita, leva la spranga, apre. Sei salvo. Ecco una
porta. Esce un istante per esplorare; rientra. Libero è il passo sulla soglia
d’onde è entrata Accorri, accorri! FANUÈL sul cadavere di Rubria Morta. Asteria
scuote Fanuèl e lo trascina insino all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR MR
ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA
DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE FANUÈL dalla soglia, con un ultimo sguardo Rubria,
addio. Scompare dalla porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome
ritorna vicino alla morta. ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu? Quella che
il mio truce iddio ghermì sull’ara, tu, rispondi, tace. Lo spoliarium
incomincia ad essere invaso dal fumo. Dimmi Pardor del suo bacio vorace verso
cui tende spasimando il mio, poi, d’un tratto, con immensa pietà martire santa.
S'inginocchia, estrae dol seno il fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla
morta dicendo: Pace, pace, pace. Si sprofonda una parte della volta. Asteria si
salva fuggendo da dove è uscito Fanubl. DEAR er a i Ù detiia Told e ID i DITER)
II RIETI EA ia AI PA a I HU LA n PRI ARENA QUARERAA LOGO ATSIRONT
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De î MOCCENTUCIV I dle i ate PTT, K He VARI
LIRE) ;) 7107 000! LATO: AI ATC (4 #0 viti ; mg:
pi PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Lucio Domizio Enobarbo. Sepolto
a Colle Pincio presso la tomba di famiglia dei Domizii Ahenobarbi Nerone.
Grice e Nesi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono dalle celeste sphere Venere:
perche amore inspiro: dagl’elementi fuoco: perché d’amore accendo
da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché col mio ardore della GRAZIA
della salute viso degni – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze,
Toscana. Grice: “I once had a fight with Nowell-Smith; he was saying that a
philosopher should not be a moralist; I told him that by that token Nesi wasn’t
one!” – “De moribus” Figlio di Francesco di Giovanni e di Nera di Giovanni
Spinelli, si dedica interamente agli studi filosofici. Strinsge stretti
rapporti con i principali umanisti fiorentini dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO
(si veda). Influenzato dall'operato di Savonarola, ricopre anche diverse
cariche politiche. Altri saggi: “Adulescentuli oratiuncula”; “Orazione del corpo
di Cristo”; “Orazione de Eucharestia” “ Orazione sull'umiltà” “Sulla carità”; “De
moribus”; “De charitate”; “Oraculum de novo saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan
Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Obviously, Nesi is not having Davidson in
mind. But Nesi is wrong
in identifying GRAZIA with CHARITA, ‘greco vocabull” – this is an etymological
blunder. The charities were indeed three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they
danced mainly to eroticse Mars, or more frequently Giove and Mars together --.
Of course the expression ‘gratia’ is not cognate! – For Davidson, charity is
what the Italians refer to ‘carità’, formed out of ‘carus’ – the spelling with
‘ch’ is a French corruption! So to be charitable, in Davidson’s interpretation,
is to be kind, caro. Not graceful! --. Grice: “If Davidson doesn’t know his
Greek mythology, that’s not my fault --. Instead of his singular principle of
charities, I will take the liberty to sub-divide it into three maxims – The
first maxim refers to the first charity, Aglae: splendour; thes second maxim
refers to the second charity, Eufrosina, mirth; the third maxim refers to the
third charity, Talia, cheer. In Kantian format, these counsels of prudence
become: be splendorous – or try to make your conversational move one that is
splendorous; be merry – or try to make your conversational move one that will
carry mirth to your co-conversationalist; and ‘be cheerful’, try to make your
conversational move one as if it was spawned by Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi.
Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle of charity, Davidson on charity
on Grice. Who was the first Englishman to use ‘charity’ as a hermeneutic
principle? Butler. Grice speaks of self-love and benevolence. Benevolence – and
charity? Grice is not so much concerned with Beneficenza or Malificenza, but
with Benevolenza, and Malevolenza – where does charity fit? What was Ciceronian
for charity. What is pre-Christian about charity? Charisma, charitas, folk etymological confusion here
– caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico conubio” “tre carità”.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Nicolao: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Among his pupils are the two sons that Marc’Antonio has with
Cleopatra. He writes a biography of Ottaviano, and the two became friends.
Grice e Nifo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale ludicra – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Sessa). Filosofo italiano. Sessa, Caserta, Campania. Grice: “I
like Nifo; first, because he wrote a treatise he called ‘ludicrous rhetoric;’
second, because he tried to refute Pomponazzi against the mortality of the soul
– surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia
Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una
fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo
di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato
con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa,
Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria
visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione
delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova
posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi
di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo
materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa
dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte
dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X
si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri,
ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso,
Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue
dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene
protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia”
(la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il
Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e
conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli
eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca,
della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate
animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro,
infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi
peritia.” Furono poi più volte
ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su
Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et
corruptione liber N. philosopho Suessano interprete & expositore”; “Expositiones
in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros
de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione
animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano
Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros
Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium
metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros
metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica
ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros
Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca
del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et
corruptione interpretationes et commentaria.
G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi
Atellani, Sant'Arpino, C. De Lellis,
Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco,
I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano,
Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G.
Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno,
Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis,
Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis, Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di
Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s
rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct
perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo –
echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case,
it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like
solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation.
The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some
virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He
relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS,
HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to
find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or
that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo
is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious
influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his
soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica”
is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to
attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course
there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if
not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a
principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual
problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is
not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for.
It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians
were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic
assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for
the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this! PORTET
primum colituere quid Abri materia: nomen Co quid verbum: deinde
quid eji negatio, quidue effirmatio: atque enuntiatio or oratio.
MISSIS ventofis exor- dijs: breuibus LIZIO quid pertractare vult
proponit. Nam rei intentio: et subiectum apud graecos ide funt: differunta;
ratione. Vt enim fubiectum habet rationem finis, intentio nuncupatur, ve vero
habet rationem materia: in qua propria infunt accidentia, subiectum, fue
materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum,
fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes constitutiva, que integrales dicuntur,
fünt nomen et verbum. Prima vero et prima-riz pecies sunt
affirmatio de negation. Genus autem enuntiationis est oratio. Hanc igitur
intentionem proponit, et inquit{ Primum oportet conflituere}hoc eft
definire{quid nome & quid verbum,ve integrales par tes enuntiationis,
verbum illudf oportet} non dicit necessitatem simpliciter, sed conditione. nam
fi de enuntiatione per tractaturus est, opus est ve primo de nomine, deg; verbo
percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio, quidue affirmatio?
tanquam primaria enuntationis species atque, tertio quid/enuntiatio} quid
{& oratio} enuntiatio quidem ve intentio, subiectum, ac materia: oratio
vero vt genus fubicâi. Multa graci, vt Ammonius, Philoponus: &
latini, vt BOEZIO (si veda) et AQUINO (si veda) contendunt. circa feriem
verborom: qua, quia ventofa sunt, ad commodumé; non multum accepta, hac
fufficiant. Boetius hiclubie- iedle. ctum,materiam ac intentionem
libri ait efle interpretationem. Nam inscriptio libri ab cius
intentioneficri obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo
Priorum. Obij- ire Dertrum. ciunt côtra quidem viri clarissimi, qui
subtiles perhi- bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro VOCE ARTICVLATA
CVM INTENTIONE QVICQVAM SIGNIFICANDA PROLATA, vel pro voce articulata
prolata ad signiticandum esse vel non esse, primum quidem non. nam tunc effet
nimis commune, effet enim compositis et simplicibus commune quoddam. Hoc autem falsum eft, quia hber hic eit de medijs. Nec
secundum, quia liberhic non eit de Secunda põ. voce, sed de
intentione voces. Propter ha enuntia- Confutatie. tionem in mente fubiectum
efle fingunt. Hacpueri. lia funt, nec digna nostra disputatione. Verum
fipfi chuntiationem mentalem subiectum esse fatentur, ad quem de vocali,
vel scripta inquirere attinebit? Pro- enie quid. pter hac quod graece
“ermenia” appellatur, latine sive “enuntiatio,” sive, “interpretatio” dicatur,
ide eft. Et de hac eft liber præsens, de mentali quidem ve quod, de vocali vel scripta,
vt SIGNVM, de re vero vt caula. Nam veritas in voce est ve SIGNVM, in mente vt subiectum,
in re vt in caufi, vt dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici
folêt, qua quia facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa
facilia fimbrias dilatant, circa vero ardua et occulta voces fummittunt.
Tu vero a nobis contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri
poteft. Sunt quidomigitur ea que in uoce, carum, que IN ANIMA PASSIONVM
NOTE. iEt que feribuntur, corum que in noce. Et
рета луна quemadmodum nec littere omnibus cadem, fie nee
noces cedem. diete scriptura med nico De nomine,
de di verbo, chuntiatione, ac oratione. pertractare propofuit, ante tamen
quam de his prole- Cản de veche quatur, quadam communia de vocibus,
scripturis, ac TI ferime ANIMA PASSIONIBVS intercipit, fed de caufa
intercepti babetsr. ambigunt expofitores. Herminius necesitatem
illus ny- Canfa Hervnd modi intercepti fuifleautumat, vt propofita
rei com- modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft. na vtilitatis
commodiue narratio prohemij pais est, vt LIZIO. in Rhetoricis tradit.
fumus autem nuncipfo in tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius
interpofitz rei Confa Perply caulam propter veterum difienfus circa
vocum figni- ry• ficationes, inquit. nam veterum quida voces,
formas, fue IDEAS SIGNIFICARE credidere, alij CONCEPTIONES, alij SENSVS
fenfation esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur Ariftoteles de
nomine deá, verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa
impedimenta eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit.
Sed nec hoc itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio. partem ad
quamlibet definita, que difturus eft de no mine & verbo, non impedit. Secundo hac res eit gravis, eltés altioris negocij,
tranfcenditg; limina præsentis voluminis, quum de ideis, deá; formis
contendat. Melius igitur cum Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod
Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve genus Expofitie cane
definiendarum rerum colligat. Tum differentiam có-, Fa) Secunda
ve fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum ignificent. Tum
differentiam difcretiuam, vidclicet, vt nomen fine vero & falso,
enuntiatio, & ora tio cum vero vel falso. Hac
enim Arift. animaduertens quedam communia de vocibus, scripturis, ac PASSIONIBVS
preaccipit. Affumitigitur quatuor ad pralentem Que LIZIO pertractationem
conferentia, res videlicet, conceptiones, voces, atque litteras. Oportet autem
primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem propterfi-nem.fiquidem
neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo
petimus horum quatuor, duo effena- tura lefe habentia, vt res
conceptionesá; duo vero po- Prima Petitio. fitione, vt voces et
littera. Veigitur fcias qua horum Secunde. natura fe habeant, quaue
politione, ponit praceptum Preceptum, ciusinodi, e qua aque omnes cadem
funt, hac natura se habent, qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefe habent.
Huius precepti prima pars co patet, a natura in cunétis niformis est
& fimilis. Pofitio vero cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud
omnes erdem fist, natura fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient,
pofitione habentur. Arguitigi- Syllogi frang lit tur, quecung;
funtalorum SIGNA VEL NOTE, positionefe habent. VOCES et scripta SVNT NOTA
VEL SIGNA ALIORVM. nam VOCES SVNT NOTÆ CONCEPTIONVM, cum. Igitur, voces et
scripta sunt positione. praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce
cuiufmodi funt nomina & verba-fearum quin anima palsionum notz, &
que feribuntur] Svnt NOTÆ SIVE SIGNA: {corú que in voce} Hec vt minor
quali concludit, et inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid
graci fen tiất, vim habet lape illativam apud LIZIO. quafi dicat. {Igitur
quemadmodum nec littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in
verbis gracis non est, sed ex vi constructionis sub audiendum. Secunda igitur
pracepti pars perficua, videlicet, ep ea que in voce, & que icribuntur,
politione fe habent. Aliter intelligi poteft, vt dicemus. Queritur verbum
illud, Dulintio:2• figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait
dixiffe igur, quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine
deé; verbo per tractandum, nomina et verba voces funt. igitur de vocibus per traêtandum.
Graeci omnes verbum illud efle notim executionis, de non illationis, affirmant,
quod mihi conuenien- Secanda dula tius eft. Quarit secundo Ammonius
cur primo è vocibus, quamè rebus sermocinari capit. Dicendum de eis primo,
tanquamà magis huic libro conueniétibus, Tertia dubs quicquid Ammonius
dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem igitur ca que in
voce}& non, {funt quide igitur voces; Itéd cur no dixit litter vti,
REsPanpb fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg nomen et verbum
funt partes orationis. prolatz eft enim oratio prolata totum quoddam
integrale ex nomine &verbo conftitutum.nomen vero & verbum
fcripta partes ora tionis fcripta, & qí partes funt in toto magis quam
contra, totum in partibus, nam continet totum partes, & no econtra.
Idcircoinquitffunt quide igitur ea, qua funt in voce} hoc eft nomé et
verbum, que funt in yo ce, hoc elt oratione prolata vt partes fearum que funt IN
ANIMA PASSIONVM NOTÆ, &e ea que feribuntur f videli... cet nomen et verbum
in scripta oratione {corum quie Confitatio. funtin voce.} Sed hac expolitio
ridenda eft. Tum pri mo, quia cum ditficultate intelligitur partes eile in toto,
elle in enim non competit partibus nill improprie quarto Phylica auscultationis,
clt autem loquendum veplures. secundo Topicorum. Tum quia in tam exiguo sermone
æquivocaret de eflein. Nam dum dicit ¿corú qua funti n anima} fumit
effein. vna ratione, dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione
errant qui volunt esse in capi vt inferius continetur in quo fuo
fuperiori. Nam primo in verbo effe in, acciperetur proprie lecundo vero
improprie. Quare melius effe in, in vtrog; codem modo accipiendum est.
Nam nomen et verbum funtin voce vt in subiecto, vt i res artificialis in re
naturali. erit igitur lenfus {funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen &
verbum, qua in vo cebarent, vt in materia & fubiecto, NOTE carú PASSIONVM QVÆ
IN ANIMA SVNT, etiam ve in materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune Ariftotelem
non aquiuocaffe verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur
Arift. Querte dubi» ait paísionum, pathema enim grace palsio eit,
palsio aurem affectus. modo affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo,
quam LIZIO intelligit. Dicendumgtria. videlicet similitudo, CONCEPTIO et PASSIO
idem Salstio funt, alia tamen ratione CONCEPTIO enim et intelletio vt
intelligédi principium, est ratio: ve veroà reipla de-rivatur, similitudo sive species,
vt intellectum ipsum perficit, PASSIO vnde et intelligere et sentire in quodam
pati faltem perfective confiftit, ve dicit in his qua de anima. vnde qui verbum
graecum naBorar in latinum conüertunt “AFFECTVVM,” nee grieciliant, nec graecam
constructionem (entiunt. Quinto quarunt, mul 2uinte duMk taefiein
voce, qua non sunt PASSIONVM NOTE, v gravitas, acuitas, et ACCENTVS [H. P.
Grice on STRESS as non-propositional], & id genus. Dicendum propositionem LIZIO
indefinite effe legendam, non autem vniversaliter. Sexto petijt. vtrum yt ea,
quein vo Sexta duba. ce note funt eorum que in anima, ita ca que
feribuntur, corum qua in voce. Respondet Alexander go lic, wleeRGie
& tunclittera est legenda fie{ funt quidem igitur ca qua in vece, earum que
in ánima PASSIONVM note, quem- admodum qua icibuntur, corum qua in voce.
Nam verbum illud sa graecum, quod latine frequentilsi-mein et convertitur.
Interdum Alexander vult apud graecos accipi pro nota similitudinis, ve
proficut, vel quemadmodum, &id genus. Hec Alexan. diceret. Huic
obijcit Porphyrius. Primo, quia ad simplicem obiedia Pore fenfum nihil addi
oportet. Secundo, quia in tam breui flore. ordine, tamque brevi oratione
non est partitio intercidenda. Tertio, fita lehabent que scribuntur ad voces,
ve voces ad ea, que in anima, tune ve voces varijs litteris permutantur, fie PASSIONES
VARIIS vocibus cua-riabuntur. Mibi videtur cum Alexandro et Alpaxio, Lupi
proprie &ita secundo modo exponi potelt, vt LIZIO pro-lequendo de nomine
verbog; primo colligat inter voces et scripta convenientias. Secundo INTER RES
ET PASSIONES. Voces igitur et scripta conveniunt primo guam-bo sunt ve SIGNA,
voces quidem conceptionum, scripta vero vocum. Secundo o vt voces non sunt
omnibus ezdem, ita scripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua
in anima, PASSIONVM NOTE et qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces et
scripta conveniunt in hoc q ambo funt vt NOTE SIVE SIGNA. Ethec ell prima convenientia.
Deinde subfcribit secundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus,
fieneg; voces exdem. fHac eit secunda convenientia. Dixit autem fin ANIMA} quod
graece elt psyche, & non in intellectu, quoniam intellectus etiam ad diuinum
refertur, aut pincellectus novas PASSIONES non fufcipit, sed de his in libro nostro
de intellectu, et de anima. Ea ergo, qua sunt in voce et ca qua funt in
feriptis conteniunt primo e AMBO NOTA AC SIGNA SVNT. Secundo omnibus cadem non sunt.
Tune ad obiedta con- Defryle fle. tra Alexandrum. Ad primum
dicendum illum simplicem sensum esse potentia et virtute amplum & composituim.
Similiter si oratio est brevis, compendio efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum
probat ibi no esse in toto similitudinem, sed in parte efe potelt, vt
Alexander fentit. Quorum tamen be note primo, cedem omnibus
pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac similitudines, res iam
ecdem. Debis quidem igiur: dietum ef in his que de Anima, altes vius enim
bec sunt negocif. Capit LIZIO, vt Alexander
dicebat, ponere Cim.j. differentiam inter ca que positione talia sunt,
et ca que natura talia. Ea qua in voce et ca qua scribuntur, positione talia
funt. Nune vero qu ANIMA PASSIONES et
resfint natura tales, declarat. Potest autem textus esse pra-milla, et por esse
simplex narratio. Siquidem pramif- f, syllogifnus erit, que eadem apud
oes: sunt per naturam talia-natura.n. vt Ammonius inquit, est vniformis semper.
PASSIONES ET RES EADEM APVD OMNES. Igitur,
natura tales crunt De syllogilmo accepit minorem est in textu. Si
vero est narratio tín, elt tune secunda pars differentia, et inquit. {Quorum ti
he nota primo:fune PASSIONES ANIMA oibus eadem: et quorum ha similitudinestres
iam eadem } funt. Igitur, PASSIONES ET RES OMNIBVS EADEM. 8e ita tales per
naturam. Hac fortaf-fe expositione LIZIO, verba examinádo : argumentum
Herminij contra Alexandrum imbecille est. Noenim Alexã. vult o apud omnes
fint paísiones eademi apud quos voces, ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel
par- 2iPeply. tem differentiz secundam perficiat. Animadversione dignum
Porphyrium in defendendo Alexandrum: affirmare guca quorum voces apud omnes
cadem: 8e ipsa sunt eadem et hoc generatim tam vniuucis ipsis,
quamaque vocis. Devaio vcis quidem cxipsorum no minum ratione conflat. De
a quiuocis vero, QVONIAM ANIMVS AVDENTIS SEMPER fibi nomen ad significationem
debitam, adquamúe A PROFERENTE EMITTITVR [H. P. Grice, UTTERER and REPICPIENT
or ADDRESSEE], ac- Confutatis cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam
enim æquivoca propositio esset distinguenda, nam ANIMVS AVSCVLTANTIS SEMPER cam
conformiter animo proferentis Вкуб Нас. acciperet. Hermenius aliter
sermones LIZIO, intelli Nam VOCES SIGNIFICANT PASSIONES PRIMO ET SECVNDO
RES, PASSIONES autem, tantum Crufidatio. res decernunt. Sed hoc ftare non
potest, primo quod Arittote. dixithac, non igitur lapide efiet hic repetendum.
Secundo verbum illud eadem ad quid adderetur? Ellet enim inutile, nifi LIZIO com
munepafsioni- Dubitais: bus et rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune
dices ad quid verbum illud {primo jadditurAlexander vuleno mina SIGNIFICARE
PASSIONES AC RES, vt nomen iftud homo 8e naturam ipsam hominis existentem, et
eius CONCEPTIONEM SIGNIFICET. verum quia nomen num aque primo duo fignificare
non poteft, idcirco LIZIO adijcit ¿primo., Nã ea nomina, qua in voce sunt,
PRIMO PASSIONES Cantre Alex. fones SIGNIFICANT, SECVNDO vero RES.
Recentiores obii ciunt nam ordo significationum est iuxta ordinem conceptionum.
Sed RES PRIVS INTELLIGITVR, quam cius PASSIO. Igitur, PRIVS voce significatur.
Ad hac nomen semper predicatur de sua SIGNIFICATIONE. Nomen illud “homo” non prædicatur DE HOMINIS
CONCEPTIONE. Igitur, [cf. Grice, ‘shaggy’ does not mean, ‘what the utterer
thinks is shaggy] il- Difesie Ale lam non significat. Dici
potell pro Alexandro ep nomen in voce primo primitate, vrita dicam, subordinationis
PASSIONES PRIMO SIGNIFICABIT. Primitate auré ap- Tradraiale prebélions,
res primo, Quaretextus debet stare. Quo rum tamen ha primo} non autem
{primorum.} Nam graecus codex habet protos et non proton. Vbi enim proton
legerctur, vt fortalle BOEZIO (si veda) noster habebat in latinum primorum
eifet convertendum. Collige igitur inter hzequatuor ordinem: quz
leri- buntur SIGNIFICANT ea que in voce, qua in voce, eas PASSIONES QVA IN
ANIMA qua in anima, ea que in re con- A.D,Th. fiftunt. Licet non
fit ordo effentialis, nam qua feribun tur, et in voce funt, poflunt eque primo PASSIONES
SIGNIFICARE, quum cripture pro supplemento vocum sint adinuente. Verum quia res
hac ad modum est laboriosa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima. Est
autem quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus fine vero falsoque
, aliquotiens autem iam cuire. celfe est horum alteran incife fie c in
noce. Cirea compositionem enim er dinifionem e/t neritas atque falsitas.
Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit, vt nomina et verba efle
in voce & ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum vt
communem habeat differentiam illorum, cú quibus & ora- tio &
enuntiatio ipfa conueniunt. Est enini oratio et enuntiatio in voce et EX IMPOSITIONE AVT PLACITO SIGNIFICANTES et
per eiufmodi genus communemé; différentiam differt à rebus ipfis
conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa lignificare fine vero & falfo declarat, vt
vide- licet secundam colligat illorum differentiam, aut, Alexandro placet,
ostendit enuntiationem significare cum vero falsoque -- vt per hoc etiam et
enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit
multipliciter ad formam fyllogifmi reduci, ve facilius res in telligatur
littere syllogilmus non eft aliter formandus, nifi veiacet.Ideo inquit. Est autem quemadmodumin Sylingl/was. th
anima aliquotiens quidem intellectus fine vero & fat- fo, aliquotiens
autem cui neceffe eft horum altcrum in- effe, hoc elt aut verum aut
falfum, fic & in voce:hac eft maior. Addit & ipfam minorem dicens,
circa compofi tionem enim & divisioné intellectuales est veritas atque
falfitas. Sed circa simplicium intelligentiam, neg; veritas neg; falsitas. Igitur
in voce etiam circa compofitionem vel diuifionem crit veritas aut falfitas circa
simplicitatem neg; fic neg; fic. Et fic habetur totus syllogismus, per quem
habebitur, vt dicemus in textu proximo, gy nomina ipfa & verba ab
enútiatione differút.na nomina 8e verba fimplicia funt, & fic crunt fine
vero & fallo, enútiatio compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo.
Et ita habentur genus & differentiz nominum & verborum. Quantú vero ad
verba graca attinet noc-ma graece, latine est, tum intellectus, cum conceptus,
& gativa. Simplex vt hominis autequi. Et discursivus
-- vt syllogilmus. Modo patet verum vel falsum esse in compositione.
Simplicia vero effe abfq; vero & falso. Hac quo ad verba. cus
fità fimili tín, velà fimili & caufa. Refondet expo fitor ab Ammonio
accipiens hanc manifeftationem ef Le non tín à fimili, fed etiam à caulà,
quam effetusipfe imitatur. Eft enim intellectus caufs, qua vero in voce
effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio non enim vt materia,
autforma: quia conceptus nulla- tenus funt aliquid vocum,nec corum que in
vocenec vt fnis,nam finis vult esse vitimum, vt fecundo aufcul.
shafin tationis phyfica dicitur. Modo conceptus eft prior et voce et
vocum veritate. Nec vtagens, nam ab co gires eft veinon eft oratio
dicitur vera aut falla, vtab agen-te,vt dicitur in predicamentis. Ideo vt
frequenter di- Selotie proprie ximus verü & falfum funt in
intellectu vt in fubiedo, in voce aut fcriptis, vt in figno, in rebus vt in
caula. Vis igitur arguendi non eit demontratiua, fed dialectica à
fimili tantum. Multa adijci pollunt, que ab expositoribus tum graecis, tum
latinis perquire. Hac enim ra- ptim scribimus. Nomina quidem igitur
ipsa aut verba consimilia furt fi-ne compositione co divisione intellectui – ut:
“homo” vel “album” wwFajd quando non additur aliquid; nam nondum falum
aut стт eff. Huius autem fignum hoc eft. hircoceruus er enim significat
aliquid quidem sed nondum verum aliquid ant falsum, mifi esse aut non esse
addatur aut simpliciter, vel secundum tempus, Hac litera poteft introduci
vno modo vt fit conclu fio, quomodo expofitor induxit, innilus forfitan
verbo illatiuo igitur , Alio modo poteit inducis vt fit minor syllogifmi,
fub accepti sub syllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in
intellectu funt cum vero & falso, intellectus line compofitione &
diuilione nec font cum vero nec cum fallo, ex quo voluit habere hanc
conclufionem, in vocefunt quedam cum vero vel falso, quadam non cum ve.. ro aut
falso. modo addit minorem dicens, nomina ipsa verba similia funt intellectui,
qui elt line compositione et divisione. hoc eft nomina et verba sunt voces
fimplices: fubaudi conclusionem. igitur fignificantabiq vero de falso. Illa
itaque particula illativa igitur, addita elt vt notaretur conclulionem
contine- ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens: vthoc
nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito, nondum
corum, ali- Sigum, qued falfum, aut verum eft. Rem hane
Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari. fi
aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet
hircoceruus. Tunc dat oppofitum confequentis di. cens: fed nondum
verum aliquid aut falfum: nifi elle aut non efle addatur. & hocaut
fimpliciter, aut fecundum tempus. Sicigitur patet nomina & verba feor-fum
accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo. Dubitationer. Sed
circa verba textus quarunt primo cur vius eft nomine compofito, & non
entis, Huius caufe poflunt ef- Prima confa feplures: vt è verbis
Ammonij excipi poteft. Primo. quia nomina ciulmodi videntur potifsimum
falfitaté significare: propter partium incompofsibilitatem. Secundo vt
innucret nonfolum nomina fimplicia ad veritatem fignificandam egere
verbo, fed etiam noni Tatia naipfa compofita. Tertio vutur exemplo in
filtis, vt innueret veritarem non folum reperiri in rebus, fed in
Secida duba, his qua funt ab intellectu folo. Secundo quarunt cur ait
compolitionem fignificare cum vero vel falso: & non significare verum vel
falsum . Similiter & nomi-na lignificare fine vero & fallo, & non
ait nomina non Significate ch fignincare verum aut fallum. Dici
potelt e difterunt di fignificare verum, & fignificare cum vero. Nam
hoc nomen verum fignificat verum, vt hoc nomen falfum significat falsum.
quia significant fe: non tamen cum vero: quia fuum significatum non significant
cum ve- Tertiedubi, ro, aut fallo : nili addatur verbum. Tertio
quarunt quid LIZIO vult per limpliciter, aut iccudum tem Primarifie
pus? Reipondent guidam primo o verbum prafens interdum dicit efle simpliciter
vt fubitantiam, ut cum dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics
elt. Dixit igitur aut fimpliciter, aut fecundum
tempus propter hac. Sed hac expolitio non placet. Nam LIZIO loquitur de esse et
non effe generatim vt funt note extremorum: que abftrahunt ab his.
Expofitor aliterait tempus præsens elie simpliciter. Catera
ut prateritum ac futurum elle fecundum quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac
expofitio forte non valeto quia Confutaie quelibet differêtia temporis eft
tempus fecundü quid. Quoniam per aliquid differt ab alijs
differentijs. Aliter Ammonius, quod verbum porcitaccipidu- pliciter.
vno modo abfolute, ve eft, fuit, vel erit,alio Prepria falatie modo
cum aduerbijs temporis: eft nunc, fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur simpliciter.
Secundo modo dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater.
Sed contra hac dubitant nonnulli recentiores. vi- 2wste detur enim
nomen vel verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo, quia AD PLACITVM
SIGNIFICANT. Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad significandum idem q deus
elt. Sed casu posito illa significat cum ve ro vel falso igitur nomen vipote
A.aut a. Secundo hac eft vna copulativa vera, “Omnis homo est risibilis” 8e
econtra. Modo hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra significet cú vero vel
falso. Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum
voluerunt ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo,
& confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant.
quia concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt
concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda pifio enuntiationes.
Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, & ita negant a. efle
propolitionem. vel verum, aut falfum fignificare vt per verba LIZIO vi-detur, et
per rationem:quia funt implicia: qua nunquam cum vero,aut fallo fignificant,
nili addatur effe vel son efle. Sed hac folutio ftare non potelt: quia
vbig; LIZIO accepit litteras pro enuntiationibus: vt in do priorum
frequenter. Alij concedunt hos cafus, quod videlicet. s. vel.a, possunt,
fignificare cum vero vel falso: fed dicunt ciulmodi non effe enuntiationes, aut
propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per modum complexi. Sed
hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio fignificandi ci debetur
modus. Quare fi his competit ratio significandi complexa, criam et modus
debebitur. Propter hec videtur Refepreprie. mihi elle dicendum nomina et
verba quo ad primam corum impositionem non fignificare nifi incomple-xum,neque
cum vero, neque cum falso. Quo vero ad novam impositionem, cum fint AD PLACITVM
possunt fignificare cum vero vel falfo, nunguam tamen erunt propolitiones, aut
enuntiationes. Propterea non valet. A significat cum verovel fasfo, igitur est
propofitio aut enuntiatio. Oportet enim addere in antecedente g significet ex
prima impositione, et non ex nova institutione. Etper hac verba LIZIO et
Alexandri rationes poflunt moderari. DE NOMINE: Quad fit npe
usJrparata Cum interpoluit communia quedam, e quibus de genus et
differétias nominis nancifci pollet, núc de no mineipfo aggreditur.
Sed videtur ordinem cuertif- se, nam in lbro priorum egit de propofitione
antequá deter-determino, modo ita fe habet nomen ad enuntiatio nem, vt
terminus ad propofitionem. Secuido, do- Etrina debet ènotiori
incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in physica traditur auscultatione,
igitur prius ab enuntiatione, que est totum, quam è nomine &e verbo: que
funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo prius quam de enuntiatione ipla,
cur prius è no-mine? Ad primum quicquid, velint veteres graeci, LIZIO in
prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è compolitis procesit. Nune vero
compofitorie, ideo è partibus. Ad fecundum Esculanus fingit
nomen elleve materiam, verbum verovt formam. fed quia materia precedit
formam, ideo è nomine. Sed hoeftare non potest: quoniam materia non eft
fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vt in auscultatione physica di tum eft.
Igitur èforma ipsa, et con- Saunde An sequenter è verbo procedendum esset.
Ammonius ait nomen ipfum fubftantiz modum detinere, verbum
Confilatio. vero accidentis. Modo substantia efo prior accidente.
Necimihi placet hoci quia lubitantia non nifiper cognitionem accidentium
cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo effeprius tradandum, quia facilius
cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine co-gnolci non poteft. Significat enim
esse: quod fine extremis non eft intelligere. At nomen iptüm cum fit absolutum
quoddam: intelligi potelt abíque verbo. Quantum autem ad verba
dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco ergo et rationabiliter
profecto, ve videlicetannotaret definitionem ciulmod ex diuifione proxime
factacol lectam effe. Hac enim est
regula definitionum inue-niendarü, vt Sexto Topicorum traditur. &
fecundo po Iteriorum, vt poft dinifionem fiat partium compofitio. vti conclusio.
Qua ratione procefsit hic. Diximus enim
voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina pal fonesilliumodi delignent:
voces crunt fignificatiur. Vode genus ipfüm Ariftoteles naCtus eft. Dechiratum
eft etiam omne SIGNIFICANS EX POSITIONE ET NON NATVRA SIGNIFICARE AD PLACITVM. Quod graece est
fythece latina FEDVS, PACTVM [– cf. Grice’s High-Way Code, Deutero-Esperanto],
INSTITVTIO, AVT PLACITVM. Sed cum constet nomina significare EX POSITIONE,
iu re AD PLACITVM SIGNIFICANT. Rurfum declaratum est nomen significare fine
vero et falso: omne autem sic significans est sine tempore significativvm: 8e
quius nulla pars se or- ipum significat. LIZIO itaque hac omnia considerant,
per modum consequentis definitionem nominis deduxit. Multa alia hic recentiores
addunt, que, quia patent omittimus. Pater In nomine nim, quod et
equiferus: equas ipse nühil mis se refien ac erple mibel fio
per se significat, quemadmodum in hac oratione, equus Eficant. e
Jerus. Erat vitima definitionis pars, e nulla nominis particula seorfum separata
aliquid significet nunc illam exponit. Et maniseltat hanc vitimam definitionis
particulam in nominibus compositis. in quibus, vt inquit Ammonius, minus
videtur, vt quasi syllogizet è maiori ad minus. Nam
in hoc nomine, quod est equiferus, pars hac “ferus”, aut equus feorfum nihil
fignificat: quemadmodum in hac oratione: “Eqvvs sft ferus”, aut eqvvs
ferus. Quantum ad graeca verba attinet, verbum equiferus graece elt “calippus”,
à “calos”, quod latina est “bonus,” et “hippus”, ‘equus’, sed quia minus sonat “equibonus”,
ve-equiferus, BOEZIO et alii tranftulerunt “equiferus”, Et vbi BOEZIO (si
veda) transulit “ferus” ipsüm nihil per se significat. Graece legitur “equus”,
sed non refert. Amplius verbum illud quemadmodum in hac oratione “equus ferus”:
potest legi cum verbo, sic: “Eqvvs eft ferus” et abíq; verbo: “Eqvvs ferus.” Solum
enim vült habere quod pars nominis et si significet feorfuminon ita significat,
sicut quan do crat in oratione. In capit autem particulam definitionis
vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac particula eft vt
caterarum finis, e omnibus principalior. Modo finis est intentione primus, de
ctiam cognitione. Verum non quemadmodum in simplicibus nominibus, fie fe
habet etiam incompositis. In illis enim millo modo Neminir coi +
liet part frar pars est significativa, in bis nero unt quidem, sed
mullius separata sut in eo nomine, quod est “eqviferus”, particula “fervs.” Sed
dices igirur nomina simplicia et nomina com- Cảm. 8. posita non
differunt. Ideo respondet, quod differunt. Quia in simplicibus nominibus pars nullo
modocit significativa neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam: at
in compositis videtur quidem ali hil feorfum significat. Quantum ad graecam
litteram attinet verbum illud vuir, graece est vouleta. Melius tamen, vt mihi
videtur, sonat apparet, aut videtur. nam nomina composita, ex quo imposita sunt
a conceptione composita, videtur quod illorum partes seorfum aliquid significent.
Nomina vero implicia, cum instituta sint à conceptione simplici, partes corum
feor-fum nec significant, nec significare videntur. Ex his poteit syllogilmus
fsc componi. nullius nomini simplicis nulius nominis compositi pars significatie-
separata: omne nomen aut simplex, aut compositum: igitur nullius nominis pars significat
separata. Minor fupponitur. Prima pars maioris et secunda
declarate funt in textu. Sed querit vtrum alicuius nominis pars significet
separata? Et videtur quod sic. Quia cuiuslibet com. nis separata
fie pofiti ex pluribus nominibus pars significat separa- дерест. ta.
Sed aliqua nomina componuntur ex pluribus nominibus vt “eqvifervs,” de id
genus. Omnesad quæstionem et graeci et latini conveniunt partes nominis
comparari posse ad totius compositi intellectum, aut in ter fe. Primo modo
nulla significat separata, nif in oratione homo est bonus. Seorfum enim illud
idem partes ha significant, quod in oratione tota significabant. Et hoc modo
intelligit LIZIO. Nam licet “eqvvs” et “ferus” forfum
aliquid significet, no ntamen ad intellecum totius. Propterea inquit Ammonius,
nullum nomen componi pluribus è nominibus, quatenus nomina sunt, sed quatenus
tranfeunt in vim syllabarum. “Eqvvs” enim et “ferus” in hoc nomine “eqvifervs,”
syllabarum vices detinent. Averroes autem in paraphrafehu solsin AuT-jusloci
vtitur alijs verbis, quéd partes nominis nunquam per se significant separata, sed
per accidens: quod est dicere: non quatenus sunt partes nominis, sed
quatenus scorsvm sunt, transeunt in 'vim non num. At in oratione partes
feorfum idem significant, quod in oratione, quia vtrobique quatenus nomina
funt. Xamine fint Ad placition uero: quoniam mullum nomen eft fus
natue Pady fo,ud ra ann ed eun fo significantnang or illieratifoni,
ue qui ferarum: quorum tamen nullum eit nomen. Nune tertiam
explanat definitionis partem. Nam primam, quod nomen fit vox et significativa
ex his, que communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam vero, quod
finetempore ex definitione verbideclara- bit. reftat igitur vt tertiam
exponat. Quantum vero ad graeca verba attinct, animaduerte, quod. verbum
verbotransferendo littera LIZIO eft, SECVNDVM PLACITVM vero: quoniam natura
nominum nihil elt, fed cum fit NOTA, nota cnim graece eft SYMBOLVM, latine
etiam SIGNVM. Sed cum hac litera ad verbum translata minimefonet, ideo
tranftuli AD PLACITVM vero: quoniam nullum nomen eit lua A NATVRA SIGNVM, sed
cum sit EX INSTITVTO. Hoc enim differt &à rebus, de AB ANIME PASSIONIBVS, vt
diximus. Et quod natura fignificans non sit nomen exemplo à fonisani-malium
perluadet, de inquit. Significant nanque fua natura et illiterati
font, ve qui FERARVM: quorum ta-men proprer significationem, quam habent
naturat lem y nullum est nomen. Igitur, NOMEN AB INSTITVTO SIGNVM ESSE DEBET: 8
hae ratio valet, fue fit locus à findliun/ contrario, fiue fit locus è simil,
sive aliter. Animinomme son maduerte quod animalium tom
dicuntur “agrammatoi”, hoc elt “illiterate.” Quoniam scribi non possunt: de A
NATVRA SIGNIFICANT. Quia codem modo est in omnibus animalibus.
Habet enim a natura animal ipsum per fuz vocis sonum SIGNIFICARE AFFECTVM [Cf.
Grice on Darwin, The expression of emotion in man and animals]. Quare
propter duo ciufmodifoninomen eifenon pofiunt. rum quia illiterati, tum quia è
natura. Recte igitur diêtum est ad placitum. Mouent qualtionem ex Alexandro
talem. verba sunt voces, voces sunt nomina; igitur, verba funt nomina, conclufso
falsa: & non pro maiori, igitur pro minori. Respondet
Ammonius, quod nomen et verbum sunt voces secundum materiam, vt archa est lignum
fecundum materiam. Materia enim nominis et verbià natura est,
vz VOX. Forma autem nominis ab arte atque institutione, ve archa . quo quidem
ad materiam a natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen
quo ad materiam est res naturalis, quo ad formam est res ab ar-teevtigitur non
valet, hgnum est à natura, ianua est lignum; igitur, ianua est à natura.
Obijcit autem huie Ammonius: quoniam si nomen est ab insttitutione, de non a
natura: tunc SIGNVM aptius in nominis definitione caderet quam vox. Respondet
ipse hoc esse factum: quia in definitione accidentis in concreto debet
poni subicectum loco generis, et accidens pro differentia. At cum nomen
accidens sit voci, ideo di citur nomen est vox Sed hzc repontio nen mihi
placet. Primo, quia li nomen esset forma artificialis, tunc esset quid additum
voci. Hoc autem falsum elt. Nam aut erit substantia,
aut accidens i non substantia vt patet. si accidens: non absolutum, ve patet.
nec relativvm: quia tunc esset relatio realis. nam fundamentum reale est ve vox
‹ terminus realis vt RES SIGNIFICATA. Amplius nomen videtur absttractum. igitur
in definitione debet cadere subiectum in obliquo. Selatio apris, Videtur igitur
mihi nomen ipsum nihil aliud esseni-li VOCEM ARTICVLATAM CVM INTENTIONE
SIGNIFICANDI ALIQVID PROLATA [H. P. Grice: “He uttered x thereby intenind to
mean that p”]. Vt enim vrina est SIGNVM SANITATIS nullo addito sibi: sed quatenus
ab intellectu efficitur SIGNVM SANITATIS. Sic vox est nomen nullo addito. Sed
quatenus ab intellectu instituitur AD SIGNIFICANDVM. Sin-dapfus enim non nomen
est. Sed si AD SIGNIFICANDVM INSTITUITVR: fiet NOTA SIVE SIGNVM: qua ratione nomen
fet vt BOEZIO (si veda) inquit, &e hoc inquit LIZIO cum ait: quoniam
naturaliter nomen mhil est: fedi quando fit NOTA, et ita nomen est vox fecundum
materiam et formam sic instituta vel sgnums Tunc ad argumentum Alexandri
dicerem ibi elie deceptionem propter accidens: vt non sequitur homo est animal,
animal cit dictio. Igitur, homo est dictio. Aut non fequitar.
homo est animal, animal est genus. Igitur, homo est genus. Variatur enim
veforticola fentuntlippositio. Nam, in prima, “animal” supponit
formaliter, in fecunda materialiter cideo non valet.. Sed
dubitát graci. nam LIZIO ait nominum naturaliter nihil efle . hoc eit
nominum significatio non est naturalis. ACCADEMIA vero et Soctates in CRATILO
volunt nomina e natura ipsa esse. Etita ifti font contranj: quod apud graecos habeturre
motum. Circa hane dubitationem quidam, vt Ammonius
Pelitiones. Narrat, voluerunt nomina esse simpliciter de omnino ab
institutione: et nullatcnus e natura, cuius opinionis fuerunt Hermogenes: e discretus
Diodorus. Alay diserunt nomina elle simpliciter A
NATVRA, quatenus sunt rerum naturales SIMILITVDINES. Cuius positionis fuerunt CRATILO
haredeus: atque Heraclitus ephesius. Ammonius
voluit nomina ipsa esse naturalia quantim ad etymologiam . nam omne nomen
vult esse impositum è proprietate repertainre. vt lapis quasi pedemledens: et
petra quasi pedetrita. Quantum vero ad significationem ipsam ab institutione
sunt, Et ficinter hos duos confultat. Et si dicitur viam rem naturalem
plura nomina habere. Respondet, quia à diversis proprietatibus
nomina diversa nancilcitur. Sed pacchorum hoc ftarenon potest.
Primo, quia tunc nullum esset æquivocum à calui, nam omne nomen significaret a
proprietate rei, et ficcanis esset analogum, et non æquivocum casu. Secundo
vtin natura accidunt casus, quorum nulla causa potett darinili per accidens,
ita et in arte. de per consequens possunt dari nominaà calu, nullaque rerum
proprietate. Er videtur hac sententia LIZIO ani primo elenchorum voi
inquit. nomina quidem finita funt, &e ora tionum multitudo, res autem
numero infinita: necef- fe cit igitur plura eandem orationem & vnum
nomen fignificare. Propter quod mihi videtur elie dicen- Solitie
proprie dum in vniuocis & fpeciebus nomina effe omniaim- polita fint,
«* quineca nen 2 mologia: licer in multis illa nos lateat. In
aquiuocis vero et fingularibus nomina effe cafu affero. Vnde BOEZIO (si veda)
in pradicamentis. commento primo. inquit. æquivocorum alia sunt casa, alia consilio:
casu ve Alexander Priami filius : e Alexander magnus. Augustinus Aurelius: e Auguitinus Niphus [“His
favourite example was his self!” – H. P. Grice]. Casus enim id egitvt idem
trilque nomen imponcretur. Du- fint in mente, bitant forticole :
vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per LIZIO
definitionem. namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala parte eft
quod nomen prima & fecunda, vt di-cunt, intentionis est in mente. Amplius
in mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine & verbo.
Igitur in mente funt nomina& verba. al mio fal cendum apud Boetium in
pradicamentis, capite de fubftantia. in mentenon elle orationem, & per
consequens nec enuntiationem. Id autem, cui fubordi- natur oratio fiue
enuntiatio graceefologus, latine in- terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt - exologus : hoc
eit exterior ratio. Apud enim graecos logus est communis rationi et orationi.
Apud nos vero interior ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero
oratio. Tunc dico in mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec
verba, fed bene conceptiones compositas et simplices. Compositas quidem quibus
orationes fiue enun tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus
nomina & verba: & ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed
fignificationes, quibus Nullum oft no hacfubordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen
prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut secunda impositionis.
Onine enim nonien cit ab impositione. Ad secundum patet folutio in mente
eitratio, in voce oratio fue enuntiatio, qua ratio- nilubordinatur.
Ipfion vero non bomo, non nomenet, , fed nel neque Nenfe onbi nomen
pofitum ift, quo ipfum appellare opertet. Nes в finE не que
enim e/t oratio, neque negatio, fed nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter in quolibet eft, co co quod
+/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, & id genus, Catonis & id genus ef- fentnomina. Nam
his competit definitio data. Refpondet LIZIO de excludit duo à ratione
nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: & lic
definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta,
vr di- Accipit igitur duo - primum quod non homo & catera id genus
non funt nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen.
et hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum ,fed vel neque
nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft fecundum. Hec
perordinem declarat, et primo quod nonfit el nomen impofitum. Videturenim cum
duobus con - uenire. cum oratione propter complexionem : & cum
negatione propter particulam negativam. ideo probans secundum inquit. Neque
enim eft oratio, seque negatio. Deinde probat primum: & fingit
il- li nomen, quo nunc appellari liceat & inquit. fed no-men fit aut
vocetur, fi fingere liceat ambiguum: quia vt dicit, & quod eft, &
quod non eit in oratio-ne rerum fine difcrimine vllo lignificat: 8
hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, & co quod elt: o co
quod non et. Hircocervvs enim non homo est, Becquus etiam non homo. Quantum
vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aorilton: quod latine non eft
infinitum. Nomina cim graeca fune diuersa. Graeci enim infinitum dicunt
apeiron. Ambiguum quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen est vox. In
mente autem nulla est vox. Pro ala parte est quod nomen prima et fecunda, vt dicunt,
intentionis est in mente. Amplius in mente est enuntiatio, fed omnis enuntiatio
constat ex nomine et verbo. Igitur, in mente sunt nomina et verba. al mio
fal cendum apud BOEZIO (si veda) in pradicamentis, capite de subftantia.
in mentenon elle orationem, et per consquens nec enuntiationem. Id autem, cui subordinatur
oratio sive enuntiatio graece “esologus”, latine INTERIOR RATIO appellatur. Enuntiatio vero ipsa graece est “exologus,” hoc
eit: EXTERIOR RATIO. Apud enim graecos “logus” est communis rationi et
orationi. Apud nos vero INTERIOR RATIO vno nomine vocatur vt ratio, EXTERIOR
RATIO vero oratio. Tunc dico in mente nec esse enuntiationem,
nec orationem, nec nomina nec verba -- sed bene CONCEPTIONES compositas et simplices.
Compotitas quidem quibus orationes sive enuntiationes ipse subordinantur, simplices
vero quibus nomina et verba: et ita concedo in mente non esse nomina neque
verba – SED SIGNIFICATIONES, quibus Nullum oft no hac subordinantur.
Ad argumenta in contrarium fecie, fa patet solutio i nellam enim est
nomen prima aut secunda intentionis, licet sit nomen prima aut secunda impolisionis.
Onine enim nomen cit ab impositione. Ad secundum patet solutio in mente
eit ratio, in voce oratio sive enuntiatio, qua rationi subordinatur.
Ipfion vero non bomo, non nomenet, sed nel neque Nenfe onbi nomen
positum ift, quo ipsum appellare opertet. Nes в finE не que
enim e/t oratio, neque negatio, sed nomen nocetur ambiguum. O goniam similiter
in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem
qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, & id genus, Catonis & id
genus essent nomina [FLATVS VOCIS]. Nam his competit definition data. Respondet
LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo
cafus. nominum: & lic definitioni date oportet fupplere duasillas
particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di- Accipit igitur duo - primum
quod non homo & catera id genus non funt nomina. Secundo quod
ijs talibus non elt voum impofitum nomen. & hocinquit, ipfúm vero non homo
non nomen cit, hoc eft primum ,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum
appellare oporteat. hoc est secundum. Hec perordinem declarat, et primo
quod non fit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con - uenire. cum
oratione propter complexionem : et cum negatione propter particulam negatiuam.
ideo probans fecundum inquit. Neque enim est oratio, seque negatio.
Deinde probat primum: et fingit illi nomen, quo nunc appellari liceat et
inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum: quia vt
dicit, & quod est, et quod non eit in oratione rerum fine difcrimine vllo significat:
8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, & co quod elt: o co
quod non et. HIRCOCERVVS enim non homo eft, Becquus etiam non homo. Quantum
vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aoriston: quod latine non est
infinitum. Nomina cim graeca fune diversa. Graaci enim “infinitum” dicunt “apeiron”.
Ambiguum quod indifferens est ac innominatum aori-guum propter quandam
indifferentiam ad id quod eft & ad id quod non eft: et per hoc
differtà nomine communi i quod licet fit indifferens, non nisi is que funt fub
eo indifferens eft. Differt tamen aoriftatio tranfcendentis ab
aoriltatione termini predicamentalis: quia acriftatio tranfcendens eft fecundum
quid illa pradicamentalis fimpliciter, vt didum eft. Echa dubitatio.
Querunt ctiam, vtrum enuntiatio pofsit aoriftari? Iamblicus Platonicus
orationem fiue enuntiationem aoriftari polle contendit propter aorilta-
tionem fubieti aut predicati fue nominis aut ver- Viram aratio bi,
motus fortalle, quia quod parti contingit inef- valea infni fe, toti
quoque accidit: ve quinto Physicorum hafari. betur, vbi enim capiti
crifpitudo inest, et homini inesse necesse eft. Confatatio,
Sed hoc fare non poteft. ait enim neque enim oratio neque negatio eft: sed
omnis finita. Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e vetbum aoriftari
afferit, nullbi tamen orationem. Balutio sprie. Tenendum igitur
nullam orationemi nollamque cnuntiationem aoriftari posse. Tuno ad rationem pro
iamblico dico quod omne quod parti inest ne- Oratienen pir cefle est toti
inesse. Non tamen quicquid partem infuir. de nomina, necesse eft
totum ipsum denominare: nam albedo dentes denominat athiopis, nequa-
quam athiopem. Dubitant & ad huc forticola: quia videtur nomen
ambiguum esse nomen: quia valet est nomen ambiguum tigitur nomen ab inferiori
ad suum superius. Respondendum non valere: ficut non valct, est homo
mortuus: igitur homo . itemque nec valet, eft albus dentes: igitur
albus. Non enim argui - tur ab inferiori ad fuperius, sed a secundum
quid ad fimpliciter. olioul cafir a nomicie rine Ipsum
nero “Philonis”, aut “Philoni”, co catera id genus non minima fant, sed nominis
casus. ratio autem cius in alits quidem est cadem, quancuam differunt.
Nam est, aut fuit, aut crit addideris,
neque verum neque falsum est. nomen uero ipsum semper, “Philonis”
est, aut non est, non dum verum aut falsum dices. Quidam,
vt PORTICO, casus esse nomina, et rectum esse casum concedunt. Rectum
quidem casum, quia e mente ipsà cadit: et ab ipso cateri casus. obliqua
vero nomina, quoniam voces sunt SIGNIFICATI un AD PLACITVM sine tempore. Excludit igitur casus ipsos è nominis ratione, et
inquit, ipsum vero “Philonis” aut “Philoni” NON NOMINA SVN: sed nominis casus –
H. P. Grice: “Ryle – with his ‘Fido’-Fido theory of meaning – woud agree! -- Addir
tamen convenientiam inter casus et nomina, et differentiam: et inquit, ratio
quidem cius, hoc est nominis: qua pauloante generatim AD-SIGNATA est, in
aljs quidem eadem est: quasi dicat, quod ratio generalis nomini , qua
proxime AD-SIGNATA est, vna eit nomini ipsi, atque casibus quan-quam differant.
nam cum ipsis casibus est, aut fuit sut crit addideris, neque verum neque falsum
eit, nomini vero ipsi, cum supple addideris, semper verum aut falfum dices. ve “Philonis”
ipf est, aut non est cum addes, nondum enim verum aut falsüm dices. Nomen
igitur et casus nominum conveniunt in ratione nominis generali, differunt
autem et quoniam nomen addieum verbo cit., semper reddit orationem aut veram
aut falsam. Ex his vult habere Definitie LIZIO,
hanc esse nominis definitionem. nomen est pajada. VOX SIGNIFICATIVA AD
PLACITVM, cuius nulla pars significat separata, determinata, atque recta: per
hanc rationem habetur tota nominis essentia. Per hac patet solutio ad
rationem PORTICO. licet enim rectus cadatè mente, non propter hoe dicitur casus.
dicetur enim etiam verbum habere casus: sed id dicitur casus, qui ab alio cadit
per inflexionem, vt BOEZIO (si veda) et Ammonius addüt. Curvero vsus Dubiationes est verbo substantivo, curúc
generalem pramifit nominis rationem, Ammonius, è quo expofitor no- Iter
accepit, facile declarat: nam substantivo vius est, quia cum cateris verbis
cafus faciunt nonnunquam orationes veras. Pramilit
vero rationem generalem, quia doarina incipit ab vniversaliori, adiecit specialiorem,
vt generalem compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphrase buius
capituli velle videtur quod tam nomina ambigua, qua vocat infinita, quam cafus
nominum, sint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne
autem diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver
bis Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina absoluta,
nam propter excellentiam videtur rectum nomen: et determinatum nomen esse
nomina: quia videlicet in illis nominis ratio praftantius faluatur: & ita
vule hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum nomen
profertur de potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, & substantia
est ens: verum ens absolute intelligitur principaliter de substantia.
Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis & determinatis fiue finitis,
licet communiter de verifque dicatur. Multa captiunculatoreshiefa-bulantur, qua
cum puerilia sint, pratereunda elle diludico. Multa quoque de nominis
dittinatione Ammonius addit: que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis
relinquantur. Hac de nomine. Ratio uero est vox significativa, cuius
partium alis qua separata significatina est, ut dicio: sed non ut affirmatio,
uelati “homo” significat quidem aliquid, non autem quoniam fie, aut non fit: sed
crit affirmatio aut negatio fi quicquam fibi adideris ana vero hominis fllaba
mullatenus significat, non enim in hac dictione “sorex”, “rex” significat sed
tantum nunc vox est:i n compositis vero signifiacat aliquid sed ut diximus non
pro fc. Сет. Illud, vt diximus, quod principal hic perquiritur, elt
enuntiatio: huius partes et materia nomen, videlicet. et verbum declarata sunt,
pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declarator cur vero, vt Ammonius dubitat, non
co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas licebatur, dictum est. Anima
ducrtendumigitur, gno mini et verbo et ofoni cóia sunt vox, SIGNIFICARE,
ET NON PER NATVRAM, SED AD PLACITVM, vtrum vero catera particula, vt fine t pe,
vel cum tpe, an rete et determinate fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt
aut oño ab vtroque: qm illius pars significativa est ve dictio, nois vero de
verbi non nili per accis, vt diximus, in
definitione praterijt an A NATVRA SIT ofo ipsa SIGNIFICATIVA, an AD PLACITVM, quia
de hoc erit poftea difputatio. Apponit ait illa duo vt q fit vos &
fignificativa, vt habeat genus. proximum,adiecit cuius pars fignificat vt
dictio, &c nó vt afirmatio vthabeat differentiam: qua differt è nomine et
verbo. Prime dubs. Sed ad intellm huius
definitionis dubitemus de lin- An oratio fit gulis. Et
primo, vtrum ofo fit vox: et videtur o nó: ofo Refonio fer non est una vox
sigitur non est vox. Antecedens arguitur: oratio eit muita voces – MVLTA VOCES
NON SVNT UNA VOX; sigitur; oratio non est una vox. Rident forticula concedédo e
oratio elt multa uoces, de ulterius p plu res sive multe voces sunt vox fuc una
sola uox, quem admodum plures hoies sunt unus solus hó, et oita fit probant: quoniamhac
vox est una sola vox, et illa vox est una sola vox. Igitur hac vox, et illa vox
sunt una sola vox. Sed hac vox et illa vox sunt plures voces.
Igitur, plures voces sunt una sola vox: et fie concedút plu res voces esse unam
solam vocem divisive, utd iêum elt. Sed dices contra hos, quia li
plures voces sunt una sola vox, igitur per conversionem in parte una sola vox esset
plures voces. Amplius plures voces non sunt hae una sola vox, nec illa una sola
vox; igitur, nulla una sola vox: et per consequens plures voces non sunt vna sola
Definio, vox.. Respondêt forticola et defendunt partem
fuam 9 pradicatum illius propositionis, plures voces sunt vna sola vox,
confunditur propter vim copulationis, qua includitur in verbo illo plures. Refoluitur.
n. plares lie, et illa 8e illa, vt diximus, mo nota copulationis habetvim
confundendi, dita negant conversionem, quia variatur suppofitio. In
prima illa particula “vox” supponit confufe; in secunda determinate. Et si
dicatur quomodo convertitur, quare ipsos, quia est extra propositum. Ad fedam
dicunt, eplares voces nulla vna sola vox sunt, qí nec illa nec hae. cum quo ti
flatg plures voces fint vna sola vox, qí in hac, iste terminus “vox” stat confusetín,
in illa determinate aut diferete: pP quod ha non contradicunt plures voces sunt
vna fola vox, et plures voces nulla vna sola vox sunt, cum termini non codem
modo supponant. Quanquam hac fint acute dicta, et non possantim probari,
fcasno esse LIZIO di (ta, nec necellaria, nec in talibus captiun-colis debemus
detineri. Multi. n. vt logicam feruêtad vaguem
amittunt philosophiam, et mora in his impe-dit hominem feire veritatem. LIZIO
igitur dicerent op oratio est vna vox vnitate verbi, de ficpôt dici plures
voces simplices, na vero composita ex ilis proprer vnitatem verbi. Aliqui
dubitant fecundo cur di . Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium
aliquid significant Contra The. separatim, et non dixit cuius pars aliqua
signiticat separata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia graecorú verborum In
graaca .n. ;ingua pars, que graece “meros” dicitur, neutri est generis, ideo ad
nos debetvenire, cuius partium aliqua separata significat s &rita poderatio
expositoris frivola est, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie dubi. Afpafius
contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit definitum, cui non
competit definitio. Na hypothetica est oratio, 8e tó partes cius significant,
vt orationes. Ridet Porphyrius hic esse diffinitam solam orationem simplicem,
co quia prior in omnibus reperitur: cui relponfioni etiam Alpafium confentire
ferüt. Obijcit huic, vt mihi videtur, BOEZIO (si veda): on
definitum non debetelle in plusquam dehnitio, Igitur cum oratio sit
communis simplici et compolita: dehnitio etiam di cit esse communis. Sed hac rônon
cogit: dicerent. n. gy licetortio quatenus oratio sit cois simplici et
composite, ta quatenus hic defcibitur non converit nisi simplici perle,
quia cotrafte et no coiter hic defcribit. Miliusigif contradico eis: quia LIZIO
poftea diuidet oionem in enuntiativa, et non enuntiativa, et
enuntiati uam rurfus diuidet per simplicem et compositam: et nullibi iam
ipsam compositam definit alia definitione, igi tur vult cam effehic definitam.
Secundo oño comper sinato tit vniuoca, simplici, et composita:
igitur debet dari vna definitio communis vniuoca, et nullibi dedit
llamsigi turefiet mancus. Alex, vero & Ammonius refpondét
Refienfie.s. p hac definitio eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt
oratio compolita haber partes que lignificant, vt dictio. Huic
opponuntalij ve Philoponus et Syrianus, quia Arift.ait vt ditio:& non
vtalfirmatio.mo ofo compofita habet partes qua fignificantut affirmatio:et ita
male adiecifiet, et non ut affirmatio. Alij foluunt o dietum philofophi
debet intelligi luppiendo fic, ut dictio neceffario, & no necellario ut
affirmatio, et sic competit omnibus. Ego aut dico pace tantorum fe/priepre
dixerim o LIZIO dixit ut dictio: qin licet partes oratio-nis compofita fint
orationes, th non ut orationes, fed ut dictiones lignificant feparata: &c
hocfatis. Dubitát Quarte dubie quarto, curadiecit ut dictio & non ut
aftirmatio, fatis chim fuifet dicere ut diêtio, nunquam enim dictio
elt afirmatio. Repondent quidamiquia LIZIO folitus est nonnunquam
dictionem pro affirmatione accipere: ne igitur ufus impediat, fuppleuit
& non ut aftirmatio: et SIGNANTER ait, & non ur affirmatio, quia
negatio addit ad affirmationem, propterca fi non ut affirmatio fatis
habetur etiam ep nec ut negatio. Hac refponlio fic dia, f el alicuius
expolitoris graeci, tacco, gán ipli yerbaverba LIZIO melius intelligút, et
verecundú est pugnare contra graecos de verbis gracis. Hoeti non tace-
botg vbig; LIZIO di diftione vocat - gracce phafim vocat:affirmationé vero
cataphafim. Sin aliter no me mini me legitie, no ti nego cataphalim compon ex
ca- Nie apria ta & phalis. Ideo dico et fuppleuit nó vt aftirmatio,
ad DE-NOTANDUM partes orationis vt dixi posse significare vt af-firmatio:
sed LIZIO, vult no licintelligere led quatenus habent vim dictionis. Hoc. n. fuppleuit propter orationes compositas: cuius
partes funt affirmationes: sed non vr affirmationes: sed vt dictiones significant.
Viti mo quarit Philoponus: vtrú hc definitio competat solum
orationi perfetta? Ridito foli perfeta hec competitiqí partes non dicuntur nifi
in relatione ad totú: totum aût et perfectú ide: & cú oratio hie definiatur
in relatione ad partes, videf rationabiliterhie dehnin vt perfecta.
Sed contra obijcit BOEZIO primo: quia omne comositü haber partes, cum
aúttam pertecta g impertecta habeat partes:rationabiliter qualibet crit
totú et perfecti. Secundo tune partes orationis & cu iufg compositi
no essent partes nifi in sine compositionis: quia tunc folum compofitum dicitur
effe copofitú. Mihi videf orationes ha non militent: quia nó dicit aliquid
cópolitum, nili propter forma et materia, cum orationi imperfetta defit aut
forma aut materia, aliter effet pfecta, rationabiliter no dicit compolitú nec
totum: Tunc ad rationes dico: ep oratio imperfecta no eft totum, qui vel caret
verbo fimpliciter vel verbo principali: 8 p consequens caret forma: 8e ficnec
eit compositum nec totá, fed quada, vocum multitudo. Ad secundum dico,
partés non sunt partes nisi pofti est ipsum tot,ante enim dicunt partes in
potétia mlngitur intellectus altu componat subiectum et pradicatim cum
verbo. nô erit adtu totü: & ficnce actu partes, et fic concedo id ad quod
deducit, Melius igit cótra illos poteft obijci, gin ftatim oratione hic
definitam fubdiuidit perfectam et imperfecta: qui rem incogrue egillet,
nifi Definitio ena» vtrig; hãc definitioné elle coem
voluiflet. Colligeigi innis abfoluta tur definitioné oratio vero est
VOX SIGNIFICATIVA, cuius partiú aliqua fignificativa eft feparata: vt di
tio, &e non staffirmatio: hoc eft significatione simplici, non compolita,
aut similia. Ori aût aliquid significare vt pars pot esse dupliciters aur pars
copofita, ve in hypotheti-cataut ve syllaba, vt in voce composita, idco duo
facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars co polita,
videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec vel syllaba. De primo
inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut non est,
sed erit affirmatio aut negatio si sibi quici addideris, hoc eit verbu solu.
Et ficper exemplu patet prima pars. Deinde declarat secunda, & inquit.vna
verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod probat p exemplú et locú à maiori:
et inquit. No.n.in hac diétione “forex”, “rex” significat, sed tín vox eit sola,
no habens vim significan- Cotra, tu dices: quia in compositis ve in “hircoceru”
sgnificat pars. Ridet in compostis noibus significat aliquid ipsa pars feorium,
sed, vt diximus, non pro se ad intellectum totius, cuius erat pars. Sicigif
patet ou pars orationis nec significat vt pars compolita, nec vt syllaba Oratio
igitur eft vox significativa cuius partiú propin quarú aliqua est significativa
separata per se quidem vt dictio, non autem semper vt affirmatio vel
negatio. Ордір пра од. Et auten oratio onnis significat ina quidem, non
tamen ut inferanientam, sed quem ad miodom dictum est secundum imturaxin
institutionem. Syllogizabat ACADEMIA in co libro, qui CRATILO
inferibi Cámag. tur, ofoné esse NATVRA, ET NON INSTITVTIONE sic. oro est instrumentum
virtutis interptativa naturaliter nobis ine- xiltétis. Per ipsam.n.
SIGNIFICAMVS – “We, the utterers” (Grice) -- aia affectiones, ceu
Pitevais, per instrumentum. omne aüt instrumentum virtutis naturalis eft
natura: veluti virtutis viGuz oculi, auditiua au res:& eid genus. igif ofo NATVRA,
SED NON INSTITUTIONE est -- hic erat ACCADEMIA fyllogifmus. Huicridet LIZIO et
consentit maiori. negat tá minore.nam virtutis interpreta tiug primü
inftrumentú et proprium est pulmo, guttur, dentes, lingua, et id genus: qua
NATVRALIA sunt. ofo vero est effectus illius virtutis mediamtibus illis instrumétis
et ita minor falsa est. Inquit. Eft aút ofo ois significati- ua quidé,
non tamen ve instrumentú, sed quéadmodá di etü eft )fm institutione, et ita ACADEMIA
minor falsa est. Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult BOEZIO
(si veda) esse pofitú pro natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú
inftrumeta fm naturam ipfari artiú cófiltere ponebat: et ita erit sensus o ofo significat
no ve instrumentum. hoc est naturo Jed/vt diatü eft in capitulo de nome) fm synthecen,
hoc eft Pm inititutione, Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait LIZIO
organon no pro natura pofuit, sed pro inftrumen to:quia perhoc(vt Ammonius
& Alex.aiunt) LIZIO minorem ACADEMIA negareintendit. Sed adhucfo lutio
LIZIO non videtur tuta. ACADEMIA n.quidam Hermippus & Numenius
obijciút.na idem videtur de effectu. Oratio.n. effectus eft virtutis naturalis
per in oratio ipfa natura crit. Secundo, ofo est inftrumentú intellectus, qui
eft virtus naturalis. nam intelleêtus ora tionefignificat, syllogismo,
qui ofo elt, ratiocinatur: definitione, que rurfus oratio eft,
definir.Sed vefupra. omne virtutis naturalis in trumenté eft natura.
igitur oro natura erit, non aut inititutione. Ad hac Ammonius tolutioneinnuit
o quéadmodú in tripudio motus ipsea natura est, modificatio illius (vtita dicã)
ab inflitutione et artificio, ita in oratione voces sive soni natura sunt,
modificationes vero institutione : et ita quatenus voces sive soni ofones
natura sunt, quatenus tales voces institutione formanf. Tuncad
rationépri mam maior falsa est. poteft enim aliquis esse effettus
virtutis naturalis per instrumenta naturalia ve tripudia et esse institutione.
Ad secundum ait Ammonius (p intellectus non cit natura: quonia nullius
corporisaCus est: sed quasi SVPRA NATVRA et sic nihil prohibet
virtutis SVPRA NATVRAM esse eflectú institutione. Sedhzcre-
fponfio ftare non pot: quia faltem intellectus est virtus naturalis: distinguendo
NATVRALE CONTRA ARTEM. Igitur effectus suus debet esse naturalis -- vt distinguitur
contra Artem. Propterea dicendum o artificialium principivm imsoltio peria
mediarú eil VOLVNTAS. He enim est
immediata causa institutionum et propterea gg concurrant intellectus et
naturalia intrumenta virtutis interpretatiuz, quia tamen ola subiacent VOLVNTATI,
ideo inslitutione sunt ET NON NATVRA et hoc nefcivit explicare Ammonius, licet
forte hoc voluerit balbutiri. Alexander
aphrodifius R5 Ales. enititur probare orationem esse institutione:
quia cuius qualibet pars est insttitutione, totum institutione oft, sed
orationis partes vt nomen et verbum institutione sunt: igie tota oratio. Hac
ratio pace sua petere videtur, quia Plato & Socra in lib. CRATILO volvere etiam
nomina et verba NATVRALITER SIGNIFICARE. Amplius similis qualtio est de nome et
verbo: qn ipsa sint effectus virtu Ri melier. tis NATVRALIS instrumenta
naturalia. Ideo melius a SIGNO idé probari pót: que apud diverfos sunt
diuería institutione esse vident. id. n. QVOD NATVRALE EST SEMPER EST VNIFORME sed
orones apud DIVERSAS LINGVAS diuer-fie spectantur, gaide SIGNIFICENT, itur NON
NATVRA, sed Dubitationes institutione sunt: et hac est sua mel
forratio. Sed circa hac recentiores ambigunt, trú nomen, quod SIGNIFICAT
ALIQVID, SI IMPONATVR DE NOVO AD SIGNIFICANDUM ALIUD, remaneat IDEM NOMEN, verbi
causa, ifud nomen “homo” significat Socratem et Platonem, verum si ponatur AD
SIGNIFICANDUM IDEM QVOD “EQVVS” remaneat IDEM nomen. Secunda dubitatio, vtrum
oratio, que de no no imponitur AD SIGNIFICANDO ALIVD primo significabat, vt hc
oratio, “homo eit animal” -- dato prina rideat non nulli recentiorum g
nomen impositum de novo ALITER AD SIGNIFICANDVM et significabat NON EST IDEM
NOMEN. Hoc probant exemplo: quia sicut ex variatione forma artificialis resultat
alia arg; alia res artificialis, ita ex variatione fignification resultabút
Confutatis. alia atg; alia nomina. Sed hac positio stare non pót. Prima quia
ad variationem cius quod de foris de per accidens accedit nihil debet variari: sed
nomen et verbum SIGNIFICANT EX VOLVNTATEM,ita go significatio deforis accidit
nomini et verbo, igitur nomen per illius variationem non variabitur.
Amplius li ad variationé signification varientur nomina, ad convenientia erit
eadem. Igitur “homo” et “anthropus” erunt vnum
nomen: Selatio pra quod nemo dixit. Ideo
dicendum, ey nullatenus varia-pris tur nomen: licet varietur significatio
cum illa fit accidens ipsi nomini. Pót tamen dici variatum extrinicce, qué-ad modum
colúna sit dextra vel finiitra ipso animali va riato. nec valet: significatio
formalis variatur, igif nomen, quia illa est fibi extrinseca, sicut colúna
dextreitas. Ad rationem dico e variata forma artificialis in. trinfece variatur
res artificialis: modo non sic est in nominibus. Ad secundam midentidem o
oratio de novo imposita, significandum non complexum, vim habet dictionis. Hoc
absolute dictum est falsum – QVIA VOLO “HOMO” SIGNIFICET MIHI equi bos animal, et
facio hanc propositionem: “Homo est bos” -- patet o qualibet dictio et pars significat
ve dictio, igif tota non significar ve di Etio. Amplius hac oratio de nouofic significans est oratios igitur
partes cius significát ve ditiones per deffinitionem datam. Propterea
dico quod oratio pôt imponi ad significandum aliquod complexum de non o
dupliciter. Vno modo ponendo o partes significent, ex quarum significatione resultet
significatio totius, hoc modo significat vt oratio, ve argumenta cogunt. alio
modo ponendo q oratio significet, primo illud complexum de novo nihil de
partibus afteredo, hoc eit non p hoc e significatio cius resultet ex significatione
nova partium. Et hoc modo bene dicunt g› significat vt dictio, quoniam sua significatio
non resultat ex significatione partium: quo in casu non erit oratio, licet
partes lint noia: nec propositio, licet significet complexum, sed dictio erit
tín, de hac re supra disputatum eit. Everationibus Enuntiativa vero
non omnis, sed illa, in qua verum aut falsum est, non ait in omnibus el:ucluti
deprecativa oratio quidem e/ft, fed neg, neraneg; falsa cetere quide igitur
relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis consideratio attinet: enuntiativa
vero presentis contemplationis ed. Divisio
enuntiationis, vt BOEZIO est autor, hac ra- Cim ao. tione
sit fumpta oratione pro genere, ofonum alia im períecta, vt – “Plato in Lycio,”
Alia vero pfecta - perfeita vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enuntiatiuv,
alia non enuntiativa qua e; diuisio, ideo p alterum membrum
negativum dat, oi subdividentibus mêbris genus cõe nomen non haber.nó
enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve adfit letitia bacchus dator. Alia
imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an
quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis
imperijs. Enuntiativa Faree mane vero elt vt dies eft:dies no elt.
No countiativari vero fie. {pecies
expofitor reducit adtres. on illa quinqueor- dinata lunt ve vnus ex
intellectu alterius dirigaf:quod quidem in tribus sit modis. Primo
adattédendü men te, et ad hoc oratio deferuit vocativa. Secundo ad re-fondendum
voce, et ad hoc facit interrogativa. Tertio ad exequédum opere, quod etiá
trifaria fit, aut pex prefsionem defiderij, et ad hoc facit optativa, vel
refpa Etu superioris, et ad hoc facit depcativa: autrelpediu inferioris, et
ad hoc facit imperativa. Siquis aut vellet poffet reducere etia has
ad bimêbré, qua res cú non multum côferat, fit hoc fatis. LIZIO.itaq;
mirabile brevitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit fere infimul. orationem dividit,
enunciativa definit: intentioné ad spēm altringit. Dividés ofonem ait.
enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú aliá elle enuntiatiui, alia
non enuntiativa. Deinde innuens definitioné inquit. sed illa in qua verum
vel falsum est. eft igit ENVNTIATIO ORATIO IN QVA VEL VERVM VEL FALSVM EST. Ve
vero clarior esset hac definitio subscribit differentia, qua differtà ca teris.
Qua in definitione posita est, et inquit. non aútin cibus est veri, videlicet
vel falsum, veluti depracativa oratio et cretera id genus oro quidé est, sed
neqi VERA, nco; falsa. Deinde abijciés à consideratione piti orationes nó enuntiatiuas
aftringit intentione in fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: et de
cólipfa oratione locutus est. Et inquit. catera quidé igitur relinquantur, ná
ad ORATORIA SIVE RHETORICA, aut poesim sive poeticam magis illarum confideratio
attinet. Enuntia-tia vero pátis contemplationis est, qua {pés est ofonis
potionhuius vero species sunt affirmatio et negatio. Hac igitur sunt que
LIZIO breuibus cóplexus eft. Quantum vero ad verba graeca attinet verum
vel falsum C falsum in enuntiatione sunt, in intellectu, atque: rebus. Inre
film, bus quidem vt in causa, gn ab eo quod res eft vel non est
enuntiatio sit aut vera aut falsa. Inintellectu vero, quia intellectus subie tú
oium verorum, et ita in intellectu sunt vti in subiecto. In ENUNTIATIONE VERO
IPSA SVNT IN SIGNO, ceu SANITAS IN VRINA. Sed lupradictis emer gút dubitationes.
Prima, videf o LIZIO male definierit enuntiationé per verum vel falsum: qi verum
vel falsum aur sunt dfia, aut propria siquidé propria non erit bona
definitio. si dria, tunc contituit ipés: 8cita p suas spés definisset. Secunda
cur solum de enuntiatione est consideratio. Logica.n. est (cia cois, igit de
oibus. T'ertia de propositione tra @af in lib. priori, et in lib. polteriori.
git non hic de enuntiatione: cuidem fint. Ad
primá rádet Ammonius, g enútiationé signanter definit p verum vel falsum: quia
lunt fines clus: et definitio dat p finé multotiens. totiens. Vel
dici pot, g sunt ve propria, qua ponuntur loco differentiz, qua nobis latet,
etiam si sint differentia et constituunt /pês genus definiri per pés tieri potest,
vt dicit Alexandrus quando vel differentia latent: aut ge-nusnon sit penitus
vnivocum. Ad secundam ridet Theophraltus philosophus
o omnis oratio aut instituta ordinatad; est ad auscultatione auditionege: aut
res ipsas. si ad auscultationes ato; auditiones, sic pertinet ad rhetorem atque
poetam, vt ACCADEMIA ofidit in phedro. et Socrates plilebo. Si
vero ad res, fie enuntiatio inflita ta est ad librum posteriorú et ad feiam: et
ita crit propria huic considerationi. Ad tertiá dici pot, enuntiatio differta
propositionesm propolitio ordinatur ad syllogismus, et quatenus ordinaé
ad syliogismum dicitur propositio, qua si ordinaf ad demonsirationem, ca.
sed si ad syllogilmum limpir vocat propositio absolute. Enuntiatio vero dicit
quatenus subordinat intelleêtui p voces exprimentis de rebus verum falsumume. Et
ita diffèrunt quia enuntiatio est extra menté ti in voce aut scripto: propositio
extra et intra menté, Enuntiatio etia dici pot propositio, et conclulso, et
problema: problema in dialectico syllogilmo, conclusio in demonstratione, itêá;
dici põt qualtio: et id genus: propositio non nili premissa. Hac ti latius explicabuntur in libro priorum et
pofteriorú Quarút rurlus forticola, an eiusmodi propositiones, tonat, corufcat,
lego et id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere, ego lego,
ego Augustinus scribo, et dicere lego ,icnbo. Ad primam rident non nulli
forticole quilliulmodi propositiones, nec sunt orationes, nec enuntiationes:
benetn sunt complexa quedam in virtute. Moventur aurem argumento pillarú vna
pars vipote SUBIECTI EST IN MENTE – videlicet: “ego.” [Grice: “Those Latins
dropped pronouns!”] Alia vero in voce, vipote pradicatá. enutatio
at de ois ofo est penitus in voce vel scripto et c ita ciusmodi esse non
possint orones vel enttiatio- Cofittiones. Sed ifti delirt penitus. Nã
ciufmodi funt in voce aut feripto: et in eis eft verum vel falfum: igitur enuntiationes.Hac.n.fuit
LIZIO definitio. Neccon- perfe pres tra cos alter arguo: sünt. n.hac defe
derifibilia. Anima duerte igit g› ciulmodi sunt enuntiationes, qui verba sunt subiectum
et predicatum et copula, in ilta distione lego -- aut ambulas: est subiectum vi
prima vel secunda: pfone verbi, qua sua natura illá importat. Est
pradica- qua sunt pronomina et prima et SECUNDA PERSONA, deno tatur
affectio aliqua sive pracilio quadá, verbi causa cum dicit ego Augustinus
Scribo, denotatur qua -- ut solus scribo,
aut nullus ita bene scribit. Et tunc iuxta hanc
re bit. Tenet captiúcula per regulá. Secunda,
non valet: “Ego, Augustinus, curro” -- igié ego sum. Ef.n. antecedens verum vi
ego solus curreré: consequens vero falsums sit deus ego sum qui sumqi
alia a deo vel non sunt, vel nonita bene. Bene
tamen concedent hasfum, es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE
in pueriles fabulas. Hac. n. rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu
esaut in his volunt effe intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit
aliqua cnuntia-tio pfeêta, et non cum subieto. Si
vero volunt esse subie- Ea intelligenda. sed intellectus pót explicare voce om
ne quod concipit: et non aliter pót, ( dicendo: “ego sum: vel tu es,” igitur “es”
æquivalet “sum.” Et ego sum : es et tu es. Secundo, tunc hec esset nugatoria
tin deus est: tín ego scribo: et id genus, Propterca vide mihi lilliulmo-di
ofones non differre quantum ad rem: sed solum qua ad vium thetoricum atque:
ornatum. quo. n. Ad veritatem idem est dicere “tu es,” et es, “ego scribo,”
et scribo. Ad dunttamen rhetores pronomina ipsà prima et secunda persona nónung
emphaticos: veluti illud Maro-nis: Me ne incapto desistere viêta? fub illo
pronomine, “me,” intellexit reginam deorum, et fororé, et Iovis coniugem.
Similiter Cicero. Ego omni officio ac potius pietate erga te catenis satisfacio.
sub illo pronomie, “ego”: feillum talem qui cum Ientulo familiarissime vixit, et
qui tot beneficia ab eo acceperat intellexit. Addunt igitur rhetores eiusmodi
ad amplitudinem licet quoad propositionum veritatem, quam logicus considerat,
nulla sit differentia – cf. G. N. Leech on H. P. Grice as proposing a
CONVERSATIONAL RHETORIC – not a conversational DIALETTICA. Et hoc modo
intelligendum est illud Prisciani grammatici. Hae fatis. Et autem una
prima oratio enuntiativa, affirmatio, dea Enuncidiona inceps
negatio: cater e ucro omnes coniuncione sunt und. aliu est voafim alie
con. Necesse et autem omnem orationem enuntiativam esse ex alia
vere cum verbo, dut casu verbi quando o hominis ratio nif refm pes ee.: “est”,
aut “fuit”, aut “erit,” aut tale aliquid adyciatur nequag oras per
afpr. tio crantistina si Qgaobren an quoddam se or nonmul ta “animal,
resibile, bipes”? Neque enim quis propinque di» Pie: Mete. C- Mar.
cuntur: una crit. Erit alterius boc trafare negoay. Coniucniunt expositores
et graeci et latini, g› definitá Сетьат enuntiatione nunc dinidat LIZIO: et
volút gi LIZIO brevibus duas divisiones enuntiationis explicet: quarum vna est
o enuntiationum quedam est vna simplex, quedam vna coniunctione. Qua expositor
eo approbarge etiam in rebus aliquid est vnvm simplex -- vt indivisibile, aut
continuum, alteri colligatione, aut compositione, aut ordine, Secunda vero vt
expositor ait subdivisio est enuntiationis vniusin affirmatione et negationem. Vnderecétiores
volunt divisiones esse huismodi enuntiationum quadam est cathegorica, quadam
hypothetica sive CONDICIONALIS. Cathegoricarum alia est affirmativa, alia
negativa. Mouct BOEZIO dubitatione /vtri id quod ait prima ad affirmationé
referaf, vt lit posterior negatio, An id quodait prima ad simplicem retulerit
orationem: vt secunda sit que ex ofonibus iungif. Hac BOEZIO quæstio resolvit
in tres. Prima verum divisio enuntiationis p vna et coniunctione vna sit prior
divisione p affirmationem et negationem. Secunda vervm affirmatio sit prior negatione.
Tertia vtrvm simplex sit prior coniuncta. Ridet Andivltemi expositor, è quo
accepcrút recétiores: g prima divisio. ciatie in visena enuntiationis
sit per cathegoricam sive vna simplice et hy [ne vnom fit gri] potheticam CONDICIONALEM
sive coniunctione vnam. Huius ratio ab expositore colligit, quia prima entis divisio
est per vnvm et multa Igiê prima enuntiationis divisio esse debet similiter.
Alia vero divisio est potius subdivisio enuntiationis simplicis. Sed pace horum
dixerim hoc stare non pot, gi eriá hypothetica o CONDICIONALIS siue coniunctione
vna est affirmatiua vel negatiua. I giê no divisio secunda sive sub-divisio
alerius uel. P erit, guat fit per firm tiun et negationem. Secundo errant
recentiores qi volunt hanc divisionem esse per cathegorica et hypothetica
sive CONDICIONALIS: qi tune sola condicionalis esset coniunctione vna. Am mo.n. et BOEZIO volunt hypotheticam no esse nili
duobus modis s aut condicionalem, aut disiunctivam qua ét species conditionalis
est vt dicemus. Vñ et grace hypothelis conditio cit. Igit hypothetica condicionalis
est tm. Ideo dicendum ad primão hac dua divisiones enuntiationis aquales
conertibiles cú ipsa sunt. Vt.n. ens dividitur per vú et multa: 8e per
adiú Se potentia et id genus. Qu oe ens aut est vnum, aut multa. Similr
o€ ens aut actu aut potentia. Sicois cúciatio aut vina simplex
aut coniuncta. Et ois etiam aut affirmativa aut negativa. Etita equales sunt divisiones
euimodito non vna sub-divisio alterius. Dico secundo hac diviso p vnam et
coniunctione voi no est divisio per cathegoricam et hypothetica sive
CONDICIONALIS, Nô.n.vt BOEZIO et Ammo, aiút: cathegoricum opponi
hypothetico: sed coniunctione vni. Eit aut coniunctio non vno ma: sed interdi
copulatione, interdüt pe, interdum leco, et id genus. Ha.n. sunt coniunctione
vnz, pn sol exoritur, diescit: quia coniunguntur coninctione tpis He
hmilr, vbi tu disputas, Socrates iacet, et aliz eiusmodi. Que ti non sunt
hypothetica. Recte igitur LIZIO verbo côiori vtens, dicit catera vero oes
coniunctione fune vna: et non di- ateet secteasoes se apoiteacas Ad ed am
sepondet Animo.g affirmatio solum ex parte vocis sit prior Additie
expo negatione quia est simplicior. Nam negativa enuntiatio affirmatiua addit
particulam negativa. Expolitor aûradiecit duas alias rones, et affirmatio sit
prior ex parte intellectus, om affirmatiua significat compositionem
intellectus, negativa slignificat divisione. mỡ compositio est prior divisione,
cum non sit divisio nisi compositori. Sed o ex parte rei: qi affirmatio significat
esse, negatio non esse modo cile et vir habitus na- esfuttio addi turali
prior est PRIVATIONE (cf. Grice, “Negation and privation”). Sed hac additiono
placet Prima quidem non: om a pari diuto elet pior compositione gi non
cit compositio nisi divisiorum. Am plus vt diot Ammo, affirmatio et negatio quo
ad compositione et vitatem non difterurit: qu veragi eli composta ex verbo de
noie. Lacetilla dicatur divisio reri. Secunda vero minime sgi PRIVATIO naturatr pracedic habitü, vt de in
Predacamentis Prius. nicatulus cocus elta viders, et ita fatis
citrelponio Amo.( BOEZIO Simplee stiam approbat. Ad tertiai rádet BOEZIO
gi enúcia- enantiatie fie tio smplex eit naturatlis/ At coniuncta
pon sit vna nili pofitióne & quali ab extrinieco. Sed quod
elbra-turale prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé tiationis
limpiscis voitas eltà natura, etiá ipla crita na tura.eadem.n.ratio.eft
entis,&evnius:proponitionis& voius: ve di in elenchis. Sed
Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio
contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compositione agitur, simplex
enunciatio prior sit, via vero anayitica hoc sit resolutoria composita sit
priortim plici. sed qi LIZIO inilto lib.eltinuentiuus, iurelim
Litera exp. plicem praponit. Inquit igitur, est aut vna prima oratio
enuntiatiua affirmatio et midens ad particuli, prima (ubicribit, deinceps
negatio: gaipla negatio voce posterior est. Ad particulam illam vna, midens
aitalia vero coniunctione sunt vna. ve hypothetica &id ge- Duli Mexi,
nus. Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum divisio enuntiationis per
affirmationem et negationem sit generis in species. Secunda est dubitatio
Ammonij: Scle tran vtrum hec sive enunciatio fue propositio fol existente
super terram dies est, sit simplex, aut coniunctione vna. espondet Alexander
qudiuisio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non ellet
generis in species: qinin genere non eltordo, in enunciatione elt ordo. Refpondet
Ammonius, et BOEZIO, et expositor o bene vna porest esse altera prior comparatione
facta inter fe vt in numeris patet. Sed comparatione adter- tin: vt poread
coc genus nullus est ordogi aqualter funt orones veri vel falli
participes, qua eit definitio enuntiationis et hec responsio potelt stare,
Scias tá q BOEZIO et Ammonius inter afiarmationem et negationem nullum alium
volüt ordinem, nili prolationis et vocum. Expolitoralios affert, quos
deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Secundam dici por quod illa elt coniunctione
vna: ablatiuus absolutus resoluitur per coniunctionem alig, vt dicunt grammatici.
Hee de divisionibus colliguné. Expõ secunda Deinde vt Ammonius et
BOEZIO introducút. LIZIO, vo- partisprime lens disputare de affirmatione et
negatione: que sunt species enunciationis. pramititquoddam vulead fer monem de
illis, videlicet, pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, presentis t
pistaut casu verbi: q' est preteriti aut futuri. Tacuit verbum infinitum,
ve ait Ammo. Tum quia principaliter de afhrmatione loquetur: tum vel
maxime, quia coordinatur cum negativo. haber. hictim co fere cádem vim. Sed
dubitat Ammo. curpreteriit nomen. pót.n.imo constat enunciatio ex nomine de RECTO,
vt fol oritur: et cafu cius, yt me tedet scribere. Respondet primo hoc esse
pratermilium: ga potett esse enuntiatio, de non ex noie vel casu nois: vt: “Kire
tum nihil est”: vbi verbum est subiectum. Nulla ri enunciatio elle põe line
verbo, aut verbi casu. Hec responsio non valet: em vérba illa in enuntiatione
nomina funt. Propterea Porphyrius philofophus, qué BOEZIO (equit, volie prater mififeipfum
nomen: quía verbum est principalior pars, cum sit pars formalis, quafito-tius
enuntiationis compositiva. Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o est
verbum nomen mancilcitur. dicitur. n. cathegorica, hoceit PREDICATIVA. Hac
eit Exp5 propria. vna exposítio,
qua stare pór.Mihi tá videtur o LIZIO refondeat quattioni tacite, dixit. n. efic
enuntiationú alteram limplicé, alteram coniunctione vnam. Lo quis abifciet. ois
enunciatio coltat,ex verbo, verbü aut im portar compositionem, j fine extremis
non efintelligere. Igitur ois enuntiatio di composita. Cuirídet q ois enútiatio
eft composita ex nomine e verbo. Sed di simplex quia non ex pluribus
enuntiationibus constat. Veluti hacfi solesoritr, dies efliqua pluribus
conltatoronibus.Et tunc continucilitera fic: licet enuntiationú fitédam
fimplex, necefle efi tá oem oroné enunciatiua esse ex verbo, aut casu
verbigitur de simplex simplicitate opposita compositioni ex pluribus enunciationibus.
Et hac est expórectior. Primo, ga illa particula Apprebatio ex ADVERSATIVA
(ait) poni non tolet sic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas
tollendas. Sedo, quia interpositio fuif- fetnimis casualis et nopetinens.
Tacuic aut nomen: dú à maion liciga fiqua oro cét enunciativa line verbo
maxime ellet definitio. Mo ingt, on et hois to, nitripm “est”, aut
“fui”, auv “erit” :aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enunciativa sit. Igié
ois enunciativa ofo ex verbo constare debet. Sed qni de definitione locutuselt,
et qualtio de vitate cius elt alterius negocij, ideo se excufat, interponit
tamen consutationé cuiufda falf ráfionis. Di
cebant enim quiddam, ep definitio est vna, quia partes propinquius iacent. Inquit.
quamobre vnum fit et non multa “animal, ressibile, bipes.” Interponit solutionem
falsam: et inquit, negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Tunc redit ad
excusationem, quali dicés, quare Natabile. vnvm sit definitio erit
alterius hoc tractar negocij. Aiadverfione dignum, vt declarat BOEZIO et Ammonius
ad vnitatem definitionis elle necessaria partiú propinqui tatem, quia bi partes
longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit credat hanc elle cau fam vera, remouit illa
&e tranfmilerit nos ad septimum et octavum meta. Etlicet
de vnitate definitionis LIZIO. Dubitatio. Rifie T bre.
tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant expositores graeci que eit causa
vnitatis definitionis Ridet Theophratus in libro de affirmatione et negatione,
e definitio est una ratione fubicati: quod definit. Secundo propter partium
proximam constitutionem. Obij-ciunt contra Theophrast, quia tunc definitio no esset
vna per se, qín ellet vna ratione fubie ti, et ita ratione extrinseca Secundo,
quia tuc oia accidentia essent, vnvm essentialiter, quia funtin vno subiecto,
vel faltéca, qua effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas causas. Prima
elt partiú vicinitas. Secunda vero est, quia in re est aliquid loco materia,
aliquid loco forma. et cum inter hac nihil medvet, rationabiliter faciunt
definitionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in,
g-mera. com.4a. dehnitio vno modo potest fumi vtinfirmenum, quo intellectus inducitur
ad intelligendas essentias rerum, de cú instrumentum fumat vnitatem afine.
Finis aut est definiti essentia, iure ab vitate definiti definitio crit vna. Et
sic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt etipfarei eilentia, que
cum refultet ex vitima diffe- rentia sive vitima forma, que cil
vtmusaCtus, ficbe- Dubitatin The ne Ammonius ait. Sed le res non est
hic tractanda, vi bene LIZIO. Dubitatetia Themitius primo posse. quia videtur a
definitio sit enuntiatio, quia est species ponis immediatz, vt ait LIZIO hic
autem vult non esse enuntiationem. Hanc qualtionem multi fol uere
enituntur, quosin pripo polte confutamus, nunc vero Philoponi expositione
afferimus, g› definitio pa-test colderari vt premilla, et e sic eit propositio et
enuntiatio, vt LIZIO vultibi. Alo modo vt terminus, et lic loquitur LIZIO hic iquia
vt sic non est ENUNTIATIVA ORATIO, sed terminus vt dicit. Elait una ORATIO
ENUNTIATIVA, dutes que unm SIGNIFICAT aut es que coniunione est uns. Plures
vero esse que plu a co non un significat. Aut ee que sine coniuntione sunt.
Cim. as. Expositores fere ois volunt LIZIO divisionem pre-politam nunc
exponere, quod, vt mihi videtur, stare non potest Addit-n, mónulla mébra que
non pdiuilit Primarupt. Confutatin, Ideo LIZIO divisione enuntiationis
rurfus núc alio modo ordit, qua hac forma reducit. Enuntiationú, alia est vna.
Alia plures, yna bifaria dicit, hac quidem simpliciter,illa vero Fm quid vr
dicemus. Plures rurfus biari: en quide
plures, ga piura et no vnvm SIGNIFICAT, ille plures, ga line coniunctione multe
sunt. Huius secunda divisionis prima pars prima parti prima divilionis
ad- Prime duba. versat. Secunda vero pars ciude, secunda illius modi. Referfie Ambigút
que diviso sit hac? Ridet et lane fapide gpeltdiuifioziquinoci infigaificata/ve
i hodiniderdt in verum, et e marmore, nã lola enuntiatio vna est enuntiatio,
plures vero fune vna platione, et METAPHORICA (“You’re the cream in my coffee”).
Secundo dubitant quid LIZIO, velit p enuntiationem vnam limpir, et vnam fm qd:
quid g; p plures imptir: Secunda dabi. et plures fm quid. Ad hac BOEZIO
et Ammo cocorditer rident: et volut eo vnitas et multitudo referan ad enú
Referacãs. tiationis signantiam. Simplicitas vero et compo ad voces. Ex
his fiunt lex coniugationes: quarum dua sunt impossibiles, quatuor possibiles:
vt figura declarat. Eninciations coniugationes fer: quatuor possibiles,
o due impossibiles. Vna Polis Simplex sgod Lmpof Impossibilis
Polis Composita Polis Plures Erita vna simplex est, felt
vna fimpir, vt ho eft ro- nale. cit. o. na quo ad lignantiam.Simplex vero
quo ad voces vna vero composita eit vna Pm gd, vt lifol vritur – ut: “Dies est.”
“Socrates disputat et Plato legit” e id genus. Hec. n. de vna fm gd, quia
colutione vna. Plures etia bifaria funt: plures composita contra primum membrum,
vt g incon-lucta sunt tales, vt: “Socrates legit,” “Plato disputat.” LIZIO mo uef. sunt. n. plures et composite fm voces. Plures
vero simplices – ut: “Canis latrat.” cit quide plures signatu, vocibus vero slimplex.
Simil mo hoc: “AIACE pugnavit cum ETTORE. Multin. fuere Aiaces.
Hec quo opponit ad fam membrum. Sed huic
obiicit expositor. Frimo, quia p defunitione: qua interponit
vi distinguere inter oratione, 9 significat vni, & gelt voa coniunctione.
Secuco, quia supra dixit, gp est vnvm quoddam et non multa aial grefsibile
BIPES: quod vero est coniunctione vnvm o est vnvm, et non multa, sed eit vnvm
ex multis. Sed ifterones frivole sunt. Prima qdem, ga non difigit inter
vna, et coniunctione vna: sed inter vna simplice, g tubintellexit in primo membro,
et vna coniuctione. Adicam dico upenes aliud accipif
vaitas enuntiationis et definitionis hic et ibi. Qía hic fumit vnitas a significatum
multitudo etia. Ibi aliter vdisimus. Terio dubitantois – “Homo vel equus
currit” -- est vna fimplex, aut vna composita. Similt Plato athenielslapiés academic
est in lycio LIZIO LYCIO r est vna simplex, vel vna composita. Silr ois –
“Homo lieft bos mugit, et Socrates et Plato disputant” sunt ne vna simplices ?
an vna composi-tel Quiced velnt BOEZIO, Porphyrius, Ammonius: et ali. dico g
glibet harum est vna simplex. Nã verbum elt vnu, a
quio lumit vnitas enuntiandi. Prima gdem vna de subiecto disiuncto, iccúda
una de subiecto composito. Tertia vna de SUBIECTO CONDICIONATO. Quarta
vero vna de subiecto copulato, et ita qualibet est vna simplex. Quantum
vero ad verba attinet adiccit et no vnü quali dicat propositio sine enuntiatio
est vna simplex, de plures plures qua fignificane plura, et non
vnum. Q in vt Ammonius inquit, sunt enuntiationes
plures de aliquo vniversali, vt aial g “Ressibile bipes est homo.” Potest enim
resolvi hac in plures, sed quia continent sub aiali, sunt vna. Propterea ait.
8e no vaú pp tales enuntiationes. Aut dici potvt Porphyrius philosophus ait hoc
esse di tú ad differentia enuntiation, qua fumüt definitione pro subieêto, aut
pro pradicato. Na videntur multa significare: sed in re vera vnum significant.
Esenciatio fi Nomen quidem igitur aut verbum didio sit solum. Cum non
contingat utis, qui voce aliquid significet, fie dicat, ut cauntier: fue
INTERROGANTE ALIQUO, sive non, sed ipse profert. Videtur o LIZIO inferat
ve per particulam illariua defignar. Videtur vero gy dubitatione excludat, vé
per Icriem verborum haberi pot. Est.n.dubitatio talis, quia dictum
et enuntiationem esse nã ab vnitate significatus, sed nomen aut verbum vaú significat.
Igitur enuntiatio vna erit nomen vnum, aut verbum vnum. Solvit de volt ‹pis,
qui profert nomen aut verbum vnum, vum dicit, et is etiam qui protert
enuntiationem vna, vuû dicitil ed non eodem modo. Nã dicens nomen
vel verbum, dicit nú prolatite, et non enuntiative, at is qui
enuntiatione vá dicit, vnvm dicit enuntiatiue. quatenus enuntiat voú de vno, aut
remouet vnú ab vno. Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbum dictio
fitlo- ในกระcu non contingat vtis qui VOCE aliquid signiticat
sic dicat vt enuntict, sed contingit ve sic dicat vt profe rat tifadiecit fue
interrogante aliquo, fue non inter- rogante aliquo,g qui aliquid nomine
aut verbo fi- gnificat poteft dicere vt enuntict aliquo interrogan-
te, vt fiquis petat quis hodie venenum bibit, & refpon deatur Socrates. Patet
e is qui dixit Socrates: enuntia uit: 8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi
autem nulla pretuisset interrogatio, dicens Socrates em, NON enuntia uit, sed
protulit ditaxat. Igitur enuntiatio differtà verbo hue noie: gi enuntiationem SIGNIFICAT
viium de vno enuntiative, live precedat, liue non precedat interrogatio. At
nomen vel verbú pót enuntiare nú de vno solum precedente interrogatione.
Propterca air cum non contingat vis qui voce aliquid SIGNIFICAT, sic di.
cat vt enuntict, line interrogate aliquo, fite nullo, hoc est vt enuntict
in omni casu. ham non nisi vbi prace-filet interrogatio, sed ipse ita dicit ve
in omni casu PROFERAT nû. Er lie differt enuntiatio a verbo et nomine, Harum vero
hee quidem est simplex enuntiatio, sclut que Tutto imples, aliquid de
aliquo, aut aliquid ab aliquo enuntiat, illa vero ex his composita: acluti ca
oratio quedam que (ane componitur. Ammonius vule vt LIZIO sub-dividat eas
enuntiationes, quas dicimus aut INTERROGANTE aliquo, aut quas volumes dicere
per nos ipsos. Sed hoc est repcte-reidem pluries: quod
non conucnit LIZIO. Melius igitur divisionis pradicte membra exponit per exempla.
Er inquit, harum vero hac quide est simplex enuntiiatio, velut per exempla ca,
que aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo subaudi enuntiat. Hoc est ve
affirmatio – “Socrates est academicus,” aut negation – ut: “Socrates non est
timidus.” Illa vero cit qua ex his componitur, quod trifariam ft, vt Ammonius
ait, videlicer, aut ex ambabus affirmationibus,aut ambabus negationibus, ved
ex alter afirmatione, altra negatione. Cuius exemplum fabdit, & cinquiti veluti es oratio quizdam, qua
fane componitur, fupple ex duabus affirmationibus – ut: “AIACE pugnavit et ULISSE
fürit.” Ex duabos negationibus – ut: “Plato non est crudelis: et Socrates
non est avarus.” Aut ex vna affirmatione, 8e altera negatione, vt: “PLATONE eit
in lycio LYCIO LIZIO et Socrates non in academia.” Et ita per exempla paret
divilso et membra divisionis. Est autem simplex enuntiatio vox que SIGNIFICAT
aliquid Iniciato quid «/Je de aliquo, aut non esse, modo quo tempora distinguitur.
Alexander aphrodifius exponit LIZIO nunc Cin 35- definire simplicem
enuntiationem, qua ait definifle species. Argumento, enuntiatio no genus cit illari, sed veluti æquivocum
quodda. Hac Aspalius ratione hac confirmat: quia eo modo hic LIZIO enuntiationem
definit, quo primo priorum descripsit propositionem: ed illic sic propositionem
descriplit, propositio est oratio affirmativa vel negativa alicuius de aliquo,
aut alicuius ab aliquot igitur de timiliter enuntiationem describere
debet. Obijcit autem Ammonius, vt fumit expositor, quia statim LIZIO definiens
affirmationem et negationem ponit enuntiationem, et non vt differentia migitur
vt genus. Et ita non æquivocum, sed genus erit illarum, et per consequens non
definiendum per species. Porphyrius philosophus cum Alexandro
volens LIZIO definire enuntiationem simplicem, ait non per species dehnifle, sed
per virtutes affirmationis de negationis, efie enim &e non, elle non sunt
pecies enuntiationis, sed virtutes affirmationis et negationis. Sed
obijcit expositor, quoniam sicut in definitione generis non debent poni species.
Ita neg; ea qua sunt propria specierum: MODO SIGNIFICARE esse, proprium est
affirmationi, SIGNIFICARE non esse negationi. Igitur non debent poni in
definitione generis. BOEZIO autem quafihac miscens vult LIZIO Espibe. lemfimul
dividere enuntiationem simplicem, &e definire, vt intelligenti pateti&
longis verbis exponit. Sed hoc expositor refellit, quia si enuntiatio simul
definiretur et divideretur, cum mon videatur definiri nifiatt per species, aut
per virtutes specierum, necessario cum dicere oportebit vel vt Alexander, vel
vt Porphyrius. Com Ammonio vero expositor sentit, &enos quod; sentimus,
videlicet, gi LIZIO enuntiatione simplicem in duas differentias dividit, vt inde
definitiones pécicrum näcifcatur. Et inquiteft autem simplex enunrtiatio,
lupple omnis, aur que SIGNIFICAT aliquid esse de aliquo, quod ad affirmationem
atunet, aut que SIGNIFICAT aliquid non esse de aliquo, quod ad negatione nde ne
intelligatur solum de prasenti tempore, sub-scribit modo quo tempora distinguuntur,
quasi dicat; etiam in aljs verbi temporibus. Hac vero divisio
vt expositor sentit non est enuntiationis in species, sed in differentiaa
specificas, non enim ait quod enuntiatio est affirmatio vel negatio, sed VOX
SIGNIFICATIVA cius quod est esse, qua est dificrentia affirmationis specifica,
vel eius quod est non esse, que tangitur differentia specifica negationis. Propter hac ex his differentiis subscribet specierum
descriptiones. Hac est optima expositio. Verum
illa Alexandri non est de-rifibilis? Propterea primo debes scire Alexandrum
voluisse enuntiationem, non esse simpliciter æquivocum sed ANALOGVM, quasi
analogia genus dicitur analogum speciebus Septimo physica auscultationis.
Hac enim analogia perfecti ad imperfectum rationi generis non repugnat.
Viterius animaduertendum enuntiationem posse bifariam definiti a prioris, et e sic
in pracedentibns definit LIZIO nullas in eius definitione addendo species: aut a
posteriori. Et hoc dupliciter vel per ea que intellectui competunt: et ita
per species acceptas a vero e falso, superius descripsit, aut per ea que
rebus conveniunt, et e ita describit hic icú di cit enuntiatio simplex VOX EST
QUA SIGNIFICAT ALIQUID DE ALIQUO ESSE, VEL NON ESSE. Vox enim loco generis
accipitur. SIGNIFICANS esse vel non esse loco differentir a posteriori accepta
Et hac elt mens Alexandri: que mulcum confsnat littera. Tunc ad argumentum
contra Alexandrum patet solutio. Non enim negat enuntiationem esse genus: sed
ait esse analogum etiam. Per hac patetrefponfio ad illud contra
Porphyriú. Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no
quidé in definitione propter quid, sed in definitione quia: et a posteriori.
Similiter ad illud contra BOEZIO, simul.n. definit vt notat illud genus vox et
dividit ve notat differentia accepta à virtutibus, hoc De
bypatbetis est propriis specierum. Credunt forticola LIZIO- củ.
lem per simplice intelligere categoricam, et per com Prima pofiria.
ciatio sit cathegorica, vel bye que in, gua a pluril categorias confans
con.- etetica. sunctione vna eit: de quonia plures categorica, possunt
coniungi pluribus modis, {queda enim per nota causa, vt quia Socrates bibit
venenum, fuit fortis: Aliz moritur, fepelitur. Et possunt etiam coniung:
plures categorica innumeris fere modis; Ideo hypothetice secundum iltos funt
fera innumera. Quare ois enuntiatio, qua expliribus conflatenutiationibus el hypothetica.
Et sic inductio, exemplum, et enthymema: atgi
syllogilmus: et caetera id genus cum sint enuntiationes coniunte per notam
illationis, omnes sunt hypothetica. Alij ponun thypotheticarum, fex species sive
modos -- vt conditionialem, copulatiua, disiunctiua. Tertia põ. causalé,
temporalem; demú et locale. Sorticole côiter aiunt TRES esse species
vt: CO-ORDINANS: copulativam (p e q), disiunctivam (p o q) et SUB-ORDINANS: conditionalem:
(si p, q). Nam cateras ad has reduci contendút. Theophrastus vero et
Eudemus volunt hypotheticam oêm esse conditionalem et nullá alia nisi conditionalem.
Huic BOEZIO assentit in primo Topicorum suorum vbi air CONDICIONALES
PROPOSITIONES esse, quas graeci hypotheticas (SUPPOSITIO – suppositiva -- vocant.
Amplius in libro de syllogismis hypotheticis ait CONDICIONALEM ENUNTIATIONE fortiri
speciem et nomen ab hypothesi graece, latine CONDICIO sive SUPPOSITIO. R urfus LIZIO
in libro priorum vult ex hypotheticis enuntiationibus costitui syllogismos
hypotheticos. Constat autem per ipsum non nisi ex CONDICIONALIBVS.
CONDICIONALIVM vero graci duas tradunt species altera eltquam continua
vocat. Velifol exoritur: dies est super nos. Altera est: qua disontinua
nuncupant, ve: “vel tu es, vel tu non es.” Oua CONDICIONALIS discontinua
appellatur, quia posita CONDICIONE ep non sis, sequitur te non esse, cumitag;
nihil ponat inesse, CONDICIONALIS eriticum inter partes difun Al formi
que Etio signetur discontinua appellatur. Haceit mês om
Riends, nnium graecorum et BOEZIO) vbi gi. Qua ratione sit ve hypothetica
6t lpés enutiationis coniunta. Nec cathegorica dividit contra hypotheticam sive
CONDICIONALEM sed potius cotra conjuntam. Consequenter videridá de pebus condiciona:
De peba con discontinue. Et dicendum vt Ammonius e BOEZIO fen tiunt péspofie
enumerari aut penes qualitaté cathegoricarum è quibus constat, aut penes forma,
que habetur ex vi notz CONDICIONIS. Si penes qualitate partium: tunc sunt
quatuor species. Prima ex categoricis AMBABVS AFFIRMATIVIS: vel – ut: “SI sol
lucet, dies est.” Secunda ex ambabus negativis –vt: “SI non est animal, non est
homo.” Tertia ex prima affirmativa, et secunda negativa – vt: “SI dies est, nox
non est.” Quarta ex prima negativa et secunda afirmatiua -- vt: “SI dies non est,
nox est pecies colligantur ex nota CONDICIONIS/ {Ouonihac nota si potest
trifariam fumi. aut pure CONDICIONALITER – vt: “SI habere homeri, suderé: Aut permissiva,
vofiad me veneris, mille basia dabot aut illative – vt: “SI dies est, sol lucet
harum trium tertia est in viu graecorum: et proprie CONDICIONALIS continua.
Consequenter quaramus penes quid atrenditur affirmatio vel negatio CONDICIONALIS
continua. Respondent recentiores o nota CONDICIONIS est tanqui FORMA CONDICIONALIS:
quoniam e forma qualitas profici fcif sicut è materia ipsa quantitastiure ea
dicitur negativa, cuius CONDICIONIS nota negatur. Contra vero aftirmativa,
cuius CONDICIONIS nota affirmatur. Qua ratione fievequalibetharum sit negatiua:
non SI dies est, sol lucet. Itemá; non dies est, SI sol lucet. Rurfus,
dies est: non filo lucet. In his .n.oibus semper CONDICIONIS nota negatur.
BOEZIO vero in de hypotheticis PiBu. affirmatione vel negatione naciscitur
ex qualitate consequentis. Vult enim CONDICIONALE esse negativus etiam si solum
consequens negatur. Hac enim est negativa. ficit. a. non el. s. Hac
affirmativa. f nonel. A. c. s. Hac positio persuaderi pot, qín vis tota
hypothetica est in illatione consequentis. Hypothetica enim nihil po nit inesse,
sed solum afferit illationem. Igitur negatio debet esse supra consequens, vbi
vis illationis habetur. Sed dices quales
crunt ha, non SI DIES EST, sol est or tus. et soleftortus SI DIES EST. Videtur
mihi ep etia Dulltitie. ciulimodi sunt negativg gm in omnnibus ijs
vis negationis [Contra BOEZIO] exercetur supra consequente ipso. Et
pro tanto sunt negative pro quanto consequens negatur. Non per hoc quia CONDICIONIS
nota negatur, sed quia consequens negatur lequi ex ANTE-CEDENTE. Quare apud BOEZIO
potest CONDICIONALIS esse negativa trifariam, aut per CONDICIONIS negationem,
aut per negationis prepositione: aut per negationem consequentis. Et de
quantitate agamus Sorticola tenent CONDICIONALE continua nullius esse quantitatis
, gri quantitas est CONDICIO subiectei. Modo illa non est ex subiecto et pradicato,
quare crit ois non quanta. Probabiliter teneri potest omnem CONDICIONALEM
continuam esse quanta Ex hoc a quantitate consequentis.Vocat coim LIZIO syllogilmorum
hos vniversales, hos particulares. et hoc a quantitate conclusionis. Igitur cum
CONDICIONALIS continua sit vt enthymema potest dici quanta ab cius consequentis
quantitate. E tita hac vniversalis, cuius consequens est vniversale, illa
particularis simili ratione. Hac quidem erit vniversalis, fi ois homo currit.
ois homo mo- roes feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule
aliquam conditionalem effe veram, cuius an tecedens & confequens funt
imposibilia: aliquã effe fallam, cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria.
Etita renet conditionalem diuidi per verum & falfum. Pro hac
politione arguút recétiores, cotradictoria diuidunt omnem enuntiatione fm
verum et falium. vt dicit LIZIO primo priorum: sed conditionalis continua
habet contraditorium quia poteft negari et affirmari Igitur est vera vel
falsa. Secundo cuiufli-bet côtraditorij altera pars eft vera et e altera falla.
Hec funt contradictoria, SI dies est, sol lucet. Etnon SI dies est, sol lucet.
Igitur altera vera et altera falla. Et e gdguid dicatur, equitur conditionalem
esse veram ve lfalsam c Confitatio. Sed hac positio stare non
potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit vel no eit, oratio
dicitur vera aut falsa. Sed hypothetica nibil ponit in eile, aut in non esse.
Igitur non poteft dici vera vel falsa. Propria ph. Propter hac
videtur mihi faluo meliori iudicio quod nulla hypothetica debet dici vera vel
falsa, sed bene necessaria vel contingens, quam quidam vocant bonam aut mala. Reêtius
necessariam aut contingente, sive impossibilem. Et hac est intentio Boeuj
vbigi- Tune ad rationes dico. Ad primum, e contradiêto riu in
hypotheticis non cadem ratione accipit veluti in Simplicibus, na in simphcibus
deltruit veritate vel falsitaté, hoc est id quod est in re, vel quod non est in
re. In hypotheticis vero destruit necesitatem vel impolsibilitatem
illationis. Etita contradicere est fere ÆQVI-voce. Tuncad formam dico, g›
contraditoria dividunt verum et falsum in cathegoricis, in hypotheticis necessaria
aut impossibile. Et hoc satis. Similiter ad secundam. contraditoriorü enim
de necesitate alterum est verum, alterum falsum in cathegoricist in hypotheticis
vero alterum necessarium, alterum impoisibile, vel cotingens, hoc est non
necessarium. Et de conditionali discontinua agamus, quag; disjuntiva
dicif. Et primo dicamus o qualibet pars disiunctiva potesse consequens, ve
dicédo: “Tu es, vel tu non es.” Quamqua BOEZIO veatur vig; DVABVS disjuncttionis
notis, ve “Vel tu es, vel tu non es.” Et hoc
ve notetur nihil poni inesse, nec in prima nec in secunda [but cf. Grice on the
metier of ‘or’ as providing pis aller answer to a scenario where alternates are
equally topically apt and held to be liable to being truth.] Dico
igitur o quelibet potest esse consequens. Nam: “Vel movetur VEL quiescit” -- pot
habere consequens altera indifferenter, quia SI non movetur De fimuis quiescit;
et SI non quiescit, mouetur. Tunc dicendum e disiunctiva solum est
negativa vel affirmatiua per negationem propositam. Causa est, quia quicquid
reneatur pro consequente, intelligetur negatum, quod non est De quantite,
ita in ipsa conditionali continua. Secundo dico aliqua est vniversalis, et aliqua
particularis. Sed non à quititate alterius enuntiationis sed quoties amba sunt eiusdem
quantitatis. Causa elst, quia quelibet pot elie consequens, vigitur tenuetur
quantitas consequentis, Dabitatis. oportet ambas esse ciulde
rationis Sed dies velom. ne.n. est: vel quoddam. a. esse quanta est
ista. Dici potelt go hac est alcuius quantitatis in se, quonia ilius cuius
quantitatis est ab ea cathegorica, que fumetur pro consequente: Actu vero est
disiunctiva vniversalis, de disiunctiva Etiuz particularis. Nechae contradicunt.
Pontenim vna met disiunctiva esse vniversalis et particularis hac ratione,
videlicet, disiunctiva vniuvríalis, et disiunctiva ctia particularis. De
sariste. De veritate vero et falsitate ita sentienda, veluti de conditionali
continua. Cum.n. disiunctiva sit conditionalis, et conditionalis nihil ponat
inesse, in re nulla erit vera, 8e nulla falsa, sed qualibet disiunctiva erit aut
necessaria AVT impossibilis, sive possibilis SIVE contingens. Et de æquipollentijs
negatiavrum dicamus. Et quamquam recentiores mula dica, mihi videur, e
negatio praposita toti coditionali AVT nota conditionis, AVT consequenti, facit
æquipollere copulative coltitut ex antecedente conditionalis et opposito consequentis
verbi causa, si homo est animal eft. Siquis praponens negationem dixerit non si
homo cit animal est. Hanc VULT SIGNIFICARE: homo est et non est animal.
Similiter hac, non si dies est, sol lucet, æquipollet huie, et e dies est: et sol
non lucet. Huius causa est, ga conditio non ponit inesse, copulatio vero ponit,
quare cum particula negativa neget conditionem, ponit copulationem, et cum
neget consequens, vi est vis omnis, ponet etiam oppositum consequentis. Simil
ratione: “non vel mouetur vel quiescit,” æquipollet copulativa conslitutz ex
oppositis ambarum cathegoricari, videlicer, et non mouetur, et e non quiescit.
Causa vero quare negatio preposite disiunctiva facit æquipollere vel ponit
copulationem, ele quia copulatio ponit inesse. Verum ponit contradictorium ambarum
partium, quia in discontinua qualibet pars potesse consequens, ideo cuiuslibet
partis oppositum debet ponere. In continua vero eit consequens determinatem
ideo ponit solum oppositum consequentis. Hac de liypotheticis ad mentem
grecorum expositorim volui dixille. Nam ab LIZIO pauca habemus. Sorticola vero,
cum studiorum fuorum finis sit ostentatio, non esse, muita dicunt in confusione
veritatis, que pretereun da funticum in illis non sit felicitas, neqad
falicitaté praparent De enuntiationibus vero coniun Ctis grure gula
funt in numerg, non cit núc prefens per tractatio, verum si ocium dabitur, ad
importunitates forticola- rumatg: captiunculatorum interdum occurremus: ac
quid peripatetice ficientiendun circa corum captine culas et cauillos
exponemus. Nunc vero de his lit di Ctum intantum. Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra,
intellectus, animo intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus
activus, intellectus agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis,
what is so ludicrious about dialectis?– Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”, Grice, “Dreaming” –
Malcolm, “Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library.
Grice e Nigidio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of
Cicerone. He enjoys a great reputation for learning. However, he is on the
wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare, and
Cesare sends him into exile. He is particularly interested in Pythagoreanism
and is a leading figure in its revival in Rome. He specialises in the mystical
side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. Publio Nigidio Figulo. Grice e Figulo – Roma –
Filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Publio Nigidio
Figulo e una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo
consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina. Nella
guerra civile, si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo
vive in esilio. Nella vita politica Occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama
notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei
romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di
cultura. Cicerone afferma che fa risorgere le credenze della setta di
Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente era riapparso come
Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di
Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di Cicerone su lui si limita
al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che
permise ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di
fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su
filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane,
etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale
dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al
padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il
mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: "Commentarii
grammatici," di almeno 29 libri; "De gestu" -- una
monografia retorica."De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un
tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera simile
di Varrone, che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche. E
dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e
astrologici; "De extis," si diffonde sull'arte augurale
etrusca."Augurium privatum" in almeno 2 libri. È dubbia
l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni. Uno
scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri. Si cita di lui
il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De
hominum natura". È probabile abbia composto un "De terris" che
sembra fosse un’opera di geografia astrologica. La "Sphaera" di
lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera
graecanica (descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una
"sphaera barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri
popoli. Probabilmente conteneva predizioni astrologiche. Le tendenze
mistiche, religiose e superstiziose che dominano in lui dovevano conservarsi in
tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo.
Nigidio
Grice e Ninone: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua causa -- Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. One of the
leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. He claims that the
Pythagoreans are elitist and anti-democratic. He also claims to have a
knowledge of their secret teachings and published it in an essay. However,
according to Giamblico, N. Knows nothing of what the sect teaches and his essay
is ‘a work of pure invention.’
Grice e Nisio: la
ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia molisena -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bojano).
Filosofo italiano. Samnium, Bojano, Campobasso, Molise. A pupil of Panezio. Nisio.
Grice e Nizolio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia emiliana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescello). Filosofo italiano.
Brescello, Reggio Emilia, Emilia Romagna. Grice: “I read Nizolio and it’s like
reading myself!” – Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico Observationes
in M. Tullium CICERONE, Brescia, il Thesaurus CICERONE, Venezia, Facciolati, e
il lexicon CICERONE, Venezia, Facciolati. Ha una lunga polemica con MAIORAGIO
per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata con la
Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'antapologia e si conclude con i De
veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos,
Parma, scritto contro gli scholastici, che interessarono Leibniz al punto che
questi li fa ristampare premettendogli il titolo Anti-barbarus Philosophicus,
sive philosophia scholasticorum impugnata, con una prefazione ed una lettera a
Thomasius sulla dottrina del LIZIO, Francofurti, Roma, Bocca. E chiamato da
Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle critiche di Ramo alla logica dei
lizii, anche per lui occorre sostituire all'astrattezza di quella logica un
pensiero che sia concretamente legato al reale, e a questo scopo la strada
maestra sta nel ritrovare i processi del pensiero direttamente nella struttura
grammaticale dell’italiano. Individua cinque principi per fare della buona
filosofia. Il primo principio generale della verità e della buona filosofia
consiste nella conoscenza della lingua romana, in cui sono espressi quei saggi
filosofici. Il secondo principio è la conoscenza di quei precetti che si
trovano nella grammatica e nella retorica di CICERONE, sostituendo la
grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o filosofia speculativa,
dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di ricercare il vero, senza
occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente delle cose trattate. Il terzo
principio consiste nell’interpretare il filosofo antico come CATONE IL CENSORE,
o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di comprendere il modo con il quale
il popolo romano si esprime, essendoci verità in quella schiettezza – Grice:
‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto principio generale del vero è il
libero, e la vera licenza delle opinioni e del giudizio su qualunque argomento,
in contro ogni domma, come richiede il vero e il naturale. Non devono essere
dunque CICERONE o ANTONINO nostril maestri, ma i cinque sensi,
l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e l'esperienza delle cose.
Il quinto principio afferma che, oltre a esporre ogni tesi con la chiarezza
della lingua comune – l’italiano volgare, senza introdurre nel discorso
oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous [sic], avoid
unnecessary prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare problemi che
non hanno realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di oggettività sono la
idea platonica e la tesi del reale dell’universalie. Infatti, il reale è
costituito soltanto da singoli individui e questi devono essere indagati non
attraverso la loro natura propria e privata, ma attraverso la loro comune e
continua successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia togliendo da una
singola realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso fosse reale, ma
comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale. L'universale è una
vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione di ogni singolare
di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza astrazione
intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che comprende il
singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con un'operazione
dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai passare
dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire alla
dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in rilievo
i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica efficace
e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, Testi umanistici su la retorica;
Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano,
Bocca N. in CICERONE observationes Caelii Secundi Curionis labore et
industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae. Ejusdem
libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam CICERONE
consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus et auctus; Dizionario biografico
degl’italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano, Cosmo, Battistella, umanista e
filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento scientifico moderno, Como, Meroni,
Rossi, La celebrazione della rettorica e la polemica anti-metafisica del
De Principiis in La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Banfi, Milano,
Bocca; Fink, Logica aristotelica Universale Idea. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Calogero,
Dizionario di filosofia. Grice: “I was slightly disappointed when I got hold of
Nizolio’s overadvertised masterpiece, the “Lexicon Ciceronianum;” while Urmson
liked it, I found it more to be a common-or-garden dictionary. I did not care
for philosophical concepts, seeing that he starts wih “A”, ‘the first letter of
the alphabet,’ as N. defines it. So, I went straight to the third tome – heavy
as they are, and reprinted in London for use at public schools –‘adolescens’ –
to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As for his advice as to deal with the longitudinal
unity of philosophy and his rhetorical, ‘Plato is my friend but a better friend
is truth,’ I can’t believe it coming from one who dedicated his life to TRACE
every little ‘idiom’ (slogans as the London edition has it) uttered by Cicero!
While I would expect praise against the barbarian scholastic from Roger Bacon,
it sounds hypocritical coming from Leibniz. By N.’s standard, Leibniz was a
barbarian his self. The scholastics actually saved the books from the flames of
the Longobards and the Eastern Goths (earlier on) Roma, Contr. RuJ. Romain
montibus posita, et convalUbus, ccenacolis sublata atque suspensa. de Div.
Certahant, Urbem Romam
Uemamne vocdrent, Post led. in Sen. Roma arx omnium terrarum.
De Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu constituta. de Onu.
Roma domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum imperii et gloris.
Roma luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div.
Bmoul sexennioj post Veios captos a GaUis capta. Rome et reges augnres, et
postea privati eodem sacerdotio prsediti, lem pub. Regionum
autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate
libertas, tam infinita hominum centia. Redu Romam Fonteu cansa. Idns Qu. de
Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam conditam 01 vmpiadis sestss anno
tertio. Romani. Pro Leg.Man. Romani præter ctiteras gentes laudis et gloriæ
avidi. Romani cives facti siculi lege Antoni L. Fara. Romani veteres atque
urbau sales. Tus. Romani serius quam GffKci poeticam acceperant Di.
Romaia nihU in bello sineextis agebant nihU d<»B& sine auspiciis. Off.
Romani toscoianos, equos, volscos, sabinos, Hemicos, victoria parta non modo
conservarunt, sed etiaro in ciritatem acceperant Pro Mur. Romani tempora
voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc. Tus. Romani omnia aut invenerant per
se sapientius, quam Greciaut accepta ab illis fcicerant meliora. Div. Romani
omnibut rebus agendis, quod bonnm, faustum, felix, fortunamque esset
prefabantur. Pro Cnc. Romani eos vendere solebant, qui mUites facti non essent
de Ora. Romani minos qoam liitm Utteris studebant
Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis Carthagienses vicerant Aoad.
Romanorum antiqua juris jurandi formulaet consuetudo. de Or. Romanoram ingenia
raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium prsstiterunt Snavitassemkonis
Atticoram et Romanomm propiia. Tosc. Apod priscos Romanos morem honc
epolaram fiijsseantor est Cato in Originibus, ut deincepi, qui aocobaient,
canerent ad tibiam virorom daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. de Nat
Romana RO JaiioteIbBoa«t, <f«aUs8oif2li« $.S.Fo paU RoaiaBi ovnk
religio in ftcrt etin anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn
defendenda ropnb.sed Sn pUndendo cooso Bieie. Bum
non nodo Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam tolerabile. Fam. Bomaoo
nsoae oommendare. Romano more feqni. de Orat et Ver. Romani ladL Att. Nu Bc
Romanas res aedpe. Romilla, iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se
initiam esse £se-tnram. I, Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem
condidit, ad deos immortales benerolentia famaqae sastulimas. de L.Roawhis post
exoessum suum dixit Proculo Jolio, se deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae
sibi dedicari ia eo loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac
lacttntem, uberibos lopiais inhiantem fuisse meministis. OfF. Peccavit
igitar, paoe vel Qoirini toI Bomali du Eerim. de D. Romuhis
puldier. Ih, Romulus urbm auspicato oodidit Roamlus non solom aospieato Romam
condidit, sed etiam optimos augur feit de N. Romnlos auspicBs, Numa sacris constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii.
Off. Romulus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem
interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S.
Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et
Remus ambo augures fberant Roorali stataa decoelo taeta. Som.
Ronmlo moriente deficere sd bommibas eatingaiqao visus est.
Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque
philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum
et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva,
adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia,
nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra
pseudophilosophos. De nominibus propriis et appellativis, tam cole&li vis
quam simplicibus non cola Letivis, ac decorum proprietatibus et diferentis,
contra philosophastros. s. Deus) 0 (sem (falsis. De denominativis reliquis
capitibus Ante predicamentora, vel supervalaneis vel. Universalia realia etiam
five raese concedantur, tamen non fuisse facienda quin. Que numeross ed
velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura quam quinque hoc est, septem veloflo,
adiecto communi, simils, contrario, arque substantia. De nominibus substantivis et adiectivis. De eorum
proprietatibus ac diferentis, contra pseudo-philosophos. De
generaliomnium rerum divisione oratoria pera et deila pseudo-philosophorum
falsa, simul quede voce universi anni versalis et in summa de falsirate
universaslium realium ut vocant. Universalia realia nec propter scientias artes
quetradendas, nec propter syllogismos eocateras argumentations formandas, nec
propler predications superiorum de inferioribus faciendas necessario ese
ponenda contra pseudo-philosophos. Universalia realta vere in rerum naturaese
non posse. Co propter canone c, uirea Etiffime dicunt nominales. Cintra sultam
illam realium opinionem de universalibus realibus, quorum rationes omnes
plusquam in aneslabefaltaneur. Um suffi.ientia, quam vocant. De toris, et corum
divisionibus, compositionibus quepere, contra falsissimam dialecticorum de his
omnibus doctrinam. De vere philosophico e oratorio genere et de vera eius
definitione. Contra falsum genus dialecticum et falsam cius definitionem. De
vera specie oratoria et vera ejus definitione, contra falsam speciem
dialecticam et falsam illius definitionem. De vera diferentia et vero proprio
philosophicis oratoriis do simulde eisdem adversariorum vel falfsis vel
inutilibus. De accidente vero quid esmedin constanter definite et simul pauca
quadam de falsis universalibus, eorum vanis questionibus in universum. De
preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris et dialecticis falis. De
homonymis et synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus eoru
mufus, contra stultaila aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo unum
et summum et verum á generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum sex
autem s a transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia LIZIO et tria VALLA
(si veda) falsa. Quam ob levem causam LIZIO CATEGORIAS fore predicamenta decem ponenda
existima verii et quam non re et tetria tantum Vallusta rucrit, simul quo pacto
nosar borem generica ma Porphyri analonge diversam, faciendam arbitramur. GENUS
rerum vere in duas rantum species divide in substantias et qualitates, omnia
alia accidentium dialecticorum pradicamenta sub qualitate generalitan quamo
verascius specie spere contineri. Simul de falsa universali. De o sem. De
qualitate generali et omnibus e iustam comparata quam absoluta speciebus,
praferrimquede qualitate speciali, quantum different a speciebus accidentium
dialectic corum et singularim quærario de causa diversitatis. De nominibus scientia
arris quid APUD LATINOS communite rad proprie significe ne, u quormo dis virum
que corum accipiatur et denique; quibus differentis attes elit entia mnter sed iftinguantur,
contra falsas scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generali
scientiarum do atrium divisione nostrar era, et pseudo-philosophorum. De
errales LIZIO in generali philosophia divisione admflis. Dialectica minter
scientias ariesnecut universalem nec ut particularem ul lum omni nolo cum
habere pose sed tanquam non modo falsams ed etiam in utslem de sua pervacuam ex
omni arti nm do scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias
Cartesnecut universalem nec ut parricularem ul lumomn inolo, um habere pose,
sed tanquam partim falsam, parlim inutlim, partim super vacuam ab omni artium
scientiarum numero removendam. De comprehensione universo rufm singularium vere
philosophica de oratoria et simul de abstractınoe universalium
pseudo-philodophia et BARBARA contrafallam LIZIO doctrinam falso de ceniis,
abstrahentiam non efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem,
grammaticam sub se primo, deinde reliqua somnesarl es screntias vere
continentem, ium partese jus majores breviter ex ponuntur omnes, o cidem, qua a
pseudo-philosophis unique fuerunt ablatare stituuntur. De sophisticis elenchis
ab LIZIO in rhetoricam non recte introductis et delio bro sophisticorum
elenchorum quid senciendum, Que et quot fintea, quarequiruntur cascientise
artibus, ex quibu spendetac fitomnis eorum dividio definition o distinctio,
contra falfam de eisdem rebus Pseudo-philosophorum doctrinam. De utilibus et
veris argumentis de que utili vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum
modo, conira partim sulum purtom inutilem ipsorum doctrinam ab LIZIO traduam in
libro Topicorum. De definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum
veris. Pseudo-philosophorum falsis, condealis, queab LIZIO falso vel inutiliter
in libro Sepienpenveids traduntur. Dentilibus et veris argumeniationibus, de
queutilido vero carum usu, contrainu tolemdo vana LIZIO decudem rebus doctrinam
traditam in libris analyticorum. De falsa demonstratione et falsa scientia et
falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili falsoque posteriorum
analyticorum libro. De vanitate eorum, qua a recentioribus dialedicis
appellantur parva logicalia. Libros qus hodie sub LIZIO nomine leguntur
plerosque non vere essesri Roselicos, sed subdititios con adulterinos, contra
communem pseudo-philosophorum opinionem. De ACCADEMIA, LIZIO, Galeno, Porfirio.
Deomnibus LIZIO interpretibus Græcis et LATINIS: reviter quid sentiendum rectte
philosophaturis. De ratione philosophandi o de corrigendis instaurandisque;
Philosophia studis, qua nunc maxima exparte perveriæ corruptsaunt. N. stammt
aus Brescello in Reggio d’Emilia. Als
Geburtsjahrà wird allgemein und als Todesjahr angegeben. Indes ist diese
Berechnung nach der Untersuchung Batistellas auf Grund inschriftlicher
Argumentation um ein Dezennium zu spät angesetzt. Demzufolge lebte N. Ueber
seine ersten Lebensjahre und Studien ist nichts bekannt. Finden wir ihn am Hofe
des Grafen Gambarra, eines eifrigen Beschützers und Pflegers der
Wissenschaften. Ihm widmete auch N. seine erste, abgefasste Schrift, die
Observationes in CICERONE. Nachdem er eine lange Zeit als
Hauslehrer in der gräflichen Familie tätig gewesen, kam er als
professor in Parma. Wurde er, bereits, als Leiter an die von
dem Herzog Vespasiano Gonzaga neuerrichtete Universität zu Sabbioneta berufen. N.
war damals ein weithin berühmter Gelehrter: un vecchio consumato negli studi
dell’eloquenza e della filosofia, chiaro per molte opere, vittorioso nelle
concertazioni letterarie e per lungo usu di leggere sulle cattedre delle città
più cospicue praticissimo, di cui la memoria nei fasti dell’italica
letteratura, non perirà giammai. Altersschwäche
und ein sich immer mehr verschlimmerndes Augenleiden hemmten den Greis gewaltig
in dem schweren Berufe, den er auf sich geladen hatte. Schon
ereilte ihn der Tod, ob zu Sabbioneta, oder in seiner Heimat
Brescello, lässt sich nicht bestimmen. Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub N. Suppl.,
der sehr ungenau ist. Ausführl. biographische Notizen bringt Batistella:
N. Batist. Bat. Bat. Die Tätigkeit des N. erstreckte sich zunächst nur
auf das Gebiet der klassischen Sprachen. Er beschäftigte sich mit der
Interpretation griechischer und lateinischer Autoren, vor allem des
CICERONE. Mit rastlosem Fleiss verband er einen kritischen und vor allem
natürlichen Sinn. Aus dem letzterem Umstand erklärt sich auch wohl der
realistische Standpunkt, den er in philosophischer Hinsicht verfocht. Zu eigentlich
philosophischen Spekulationen kam N. erst spät und zwar durch einen mehr
äusseren Umstand. Während seines Aufenhaltes zu Parma geriet er in
einenheftigen Streit mit MAJORAGIO (si veda), professor der Eloquenz in
Mailand. Es handelte sich in der Hauptsache um zwei Fragen: Lateinischer Stil und Philosophie,
CICERONE und il LIZIO. Majoragio war wie N. ein grosser Verehrer
CICERONE, jedoch zog er der eklektischen Philosophie desselben die reine
Lehre des LIZIO vor und vertrat die Ansicht, dass man die Philosophie
CICERONE mit der des LIZIO in Einklang bringen könne. N.
dagegen strebte dahin, den LIZIO für immer zu verbannen, indem
er mit Ueberzeugung den Standpunkt von der falschen und unnützlichen Doktrin
LIZIO vertrat. Diesem Streit, der auf beiden Seitem unerbittlich und unwürdig
geführt wurde, machte schliesslich der Tod MAJORAGIO ein Ende. Bat. Le
opere ei giudizi dei eritici. Bat. Bat. La polemica con MAJORAGIO vergl. femer Gerh. Phil. und N. in seiner Vorrede zum anti-barbarus, ad Lectores contra MAJORAGIO. Bat.
Bat N. soll in Jahren nicht recht haben schlafen können!
(Jöcher a. a, 0.) non solum calamo et chartis
venenatisimis, sed etiam putrido et fœtenti illo ore suo contra vitam et
mores nostros usque in hunc diem deblateravit et deblaterat, N. ad
lectores in De veris principiis, ipse MAJORAGIO qui licet, de
magnis et obscuris philosophiæ rebus loqui conetur, tarnen vere est
acocfoc, et tantum seit de philosophia quantum asinus de musica, Vorrede.
MAJORAGIO hatte auf die Angriffe des N. eine apologia erscheinen lassen,
die N. mit einer anti-apologia erwiderte. Es folgte nun seitens MAJORAGIO reprehensionum
libri contra N., worauf N. mit seinem anti-barbarus
philosophicus antwortete. Seine AngriflFe fasste N. dann noch einmal zusammen
in seiner Schrift: De veris principiis et vera ratione philosophandi
contra pseudo-philosophos In der Hauptsache war N. mehr gelehrter Humanist als
philosophischer Denker oder Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer für die
Beförderung der klassischen Latinität veranlasste ihn zur Abfassung einer
Reihe von Werken, die uns ein Bild geben von seiner bewunderungewürdigen
Arbeitskraft. Nur die wichtigsten seien genannt. Als sein Hauptwerk ist wohl
anzusehen ein Thesaurus sive latinæ linguæ Lexicon, das, wie auch die meisten
der anderen Werke, zahlreiche Neuauflagen erlebte. Das genannte Werk war
bereits unter dem Titel Observationes in CICERONE, dann als Apparatus
latinæ locutionis und endlich als Thesaurus CICERONE in Venedig, und
erweitert von Zanchi gedruckt wonien, erschien es zu Frankfurt und zu
Padua mit beigedruckten CICERONE Phrasen, die nicht von N. stammen.
Ausserdem verfasste er die bereits erwähnte antiapologia pro CICERONE et Oratoribus
contra MAJORAGIO Ciceromastigen, ferner Defensiones locorum
aliquot CICERONE contra disquisitione Calcagnini,Venedig, und übersetzte aus
dem Griechischen ins Lateinische Galeni explanatio obsoletarum vocum
Hippocratis. Fällt die Herausgabe des Werkes, welches das vollständige
philosophische System des N. enthält und mit vollem Titel lautet: De veris
principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, in quibus
statuuntur ferme omnia vera verarum ar- Bat. Bat. tium et scientiarura
principia, refutatis et rejectis prope Omnibus Dialecticorum et Metaphysicorura
principiis falsis, et præterea refutantur fere omnes MAJORAGIO objectationes
contra eundem N. usque in hanc diem editæ. Parma apud Viottum, Schon die Titel
der Werke beweisen, dass die Tätigkeit des N. eine mehr philologische als
philosophische gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft hat er daher auch stets
warme Anerkennung gefunden. Cælius Secundus, ein späterer Herausgeber
seiner Observationes, nennt ihn im proœmium einen gelehrten Mann, der sich
unstreitiges Verdienst um die lateinische Sprache erworben. N. quasi Deus
aliquis linguæ latinæ tanquam universitatem quandam fabricatus est, quam postea
hominibus non solum ntendam, verum etiam excolendam tradidit Aehnlich äussert
sich Simon Grynacus in der Vorrede zum Thesaurus CICERONE des N. Videtur
hie vir in hoc uuo opere, postquam delectum latinæ dictionis, ne promiscue
hauriremus, puritatemve linguæ confunderemus, optimum egit, simul et viam
loquendi certam post hac et expeditam monstrasse et vim ac copiam sermonis
Latii totius omnem effudisse et CICERONE libros nunc deum legendos omnibus
exhibuisse. Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt das Lob des italienischen
Humanisten begeistert in dem Ruhmespoem N. quem thesaurum congessit in unum, ex
latiæ linguæ fönte, labore gravi: Tro)anas longe gazas superare memento,
jjFortunas Crassi, divitiasque Midæ. Für die Philosophie ist N. hauptsächlich
von Bedeutung, weil er der einzige Grammatiker ist, der Schule gemacht hat in
der Philosophie und ferner als erster unter den filosofi razionali in
Italien ausführhch gehandelt hat Ton der Dottrina metodica. Um indes den
Philosophen N. ganz nach Verdienst würdigen zu können, muss man die Zeit, in
der er lebte, in Rechnung ziehen. G. Bat. Daselbst auch die übrigen
kleineren Schriften. Siehe Bat Die Renaissance ist in philosophischer Hinsicht
charakterisiert durch die grosse Armut selbständiger philosophischer
Spekulation und durch vorläufiges Fortwuchern der scholastischen Philosophie.
Daneben kommen als positive Momente einerseits die Erneuerung antiker Systeme, vor
allem ein von den humanistischen Philologen in engster Anlehnung an
CICERONE gezüchteter Eklekticismus, andererseits eine mit der letzten
Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Behandlung der Philosophie,
speziell der Logik in Betracht. Die neologischen Humanisten mussten den
Schriften CICERONE wegen der Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber
dem entstellten und verwilderten LIZIO der spätscholastischen Philosophie mit
ihrer dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den Vorzug geben. Daher sehen
wir alle Philosophen der Renaissance in dem Streben, durch Beseitigung der
sinnlosen Auswüchse den reinen und ursprünglichen LIZIO für den literarischen
Betrieb der Logik wiederherzustellen und schliesslich die logische Disziplin zu
einer rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt der Scholastik LIZIO
derp hilosophus xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder strittigen Sache, so bekämpfen
die Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben,vor allem die
Ausschliesslichkeit, mit welcher man überhaupt nur dem LIZIO, den
man noch dazu in entstellter Form in Händen habe, Wert beilege. Als
Massstab und Norm will man vielmehr den eigenen gesunden Menschen-verstand
und die fünf Sinne gelten lassen. Und in diesem Gesichtspunkte haben wir die
Brücke zu der sensualistisch-nominalistischen Tendenz, die gleichfalls mehr
oder weniger die Philosophen der Renaissance insgesamt beherrscht. Neben
dem Italiener N. kommen hier als bedeutende Vertreter der
Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer VALLA (si veda), und Agricola.
N. bringt die Bestrebungen seiner Vorgänger zu einem gewissen systematischen
Abschluss, sich grösstenteils an sie anschliessend, vielfach dieselben
aber auch kritisierend. Von seinen Werken mass er selbst dem anti-barbarus
Philosophicus die Hauptbedeutung zu, da er in ihm eine Reformatio
Philosophiæ bewirkt zu haben meinte. Aber dennoch erntete er gerade durch
seinen Index CICERONE seine Berühmtheit, während seine Philosophie
schon beim Entstehen kaum dem Ersticken entging. Philosophia
N. prope in ipso partu suffocationem aegre effugit. Das Geschick
des in tenui labor, at tenuis non gloria bei N. begründet Leibniz durch
den Umstand, dass N. in Italien schrieb, wo damals
LIZIO und die Scholastiker in allzu tyrannischer Weise herrschten. Leibniz ist
der Ansicht, dass nunmehr seine Zeit, wo man wenigstens zugebe, dass auch ein
LIZIO irren könne, auch den Verdiensten eines N. gerecht werden könne.
Welche Wertschätzung Leibniz selbst dem
italienischen Philosophen entgegenbrachte, beweisen
ausser der von ihm besorgten zweimaligen Herausgabe des anti-barbarus die zahlreichen Anmerkungen, dieer in den Text hineinsetzte, sowie die Abhandlungen, die er im Anschluss an die Edition des N.
Werkes erscheinen liess. Unter ihnen ist die ausführlichste und
wichtigste die sogenannte Dissertation über den philosophischen Stil,
Dissertatio Præliminaris de alienorum operum editione, de philosophica
dictione, de lapsibus N., wie Leibniz sie betitelt. Er schickte dieselbe
nebst einer Widmung an den Baron von Boineburg, ausserdem einen Brief an
Thomasius über die Versöhnung des LIZIO mit der neuen Philosophie
De LIZIO recentioribus reconciliabili, sowie Exzerpte aus Briefen des
Thomasius ad Editorem, Leibniz, der eigentlichen Abhandlung des N.
voraus. G. Q. vel hoc saltem in confesso est, LIZIO errare posse.
Renhissanoe and Philosophie.
Leibniz' üebereinstiramung mit N. Die
philosophische Diktion. Gerade die Schrift des N.
musste Leibniz besonders anziehen; war doch desselben Massstab in der
Beurteilung und Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres Leibniz
so durchaus ähnlich. Auch N. knüpfte an die
Scholastik, die Alten, vor allem LIZIO, an, übernahm
das viele Gute, das sich bei ihnen fand und besserte und reinigte, wo
es ihm gut und notwendig schien. In dieser Behandlungsweise fremder
Autoren sieht Leibniz ein Hauptverdienst des N.; er hält ihn daher den Philosophen seiner Zeit entgegen, die nur
darauf bedacht seien, sich ausschliesslich mit ihren eigenen Gedanken-erfindungen
zu befassen. Ein gleiches Mass von Uebereinstimmung mit N.
bekundet Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr Verurteilung
der Scholastik. Mit Recht musste seiner Ansicht nach N.
nach dem Studium des stofflich vielseitigen und stilistisch
glänzenden CICERONE die scholastische Behandlungsweise, die mit
ihren Finsternissen und ihrem geringen Gehalt an Nützlichem irgendwelcher Art jeglicher elegantia entbehrte, verachten. Zwar sucht Leibniz, die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre Fehler und Schwächen zu entschuldigen
mit den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen. Welchen Wert er aber im Innersten seines Herzens der Scholastik beimisst, beweisen die zornigen Vorwürfe, die er denen macht, die noch jetzt, nachdem die Früchte
gefunden, lieber die Eicheln essenwoll en und mehr sich versündigen
durch ihren Eigensinn als durch Unwissenheit. Ihnen
Gerh. Ritter G. vgl. auch G. hält er entgegen den unvergleichlichen Verulamius und die übrigen ausgezeichneten Männer unter den Neueren,
die die Philosophie ex æreis divagationibus aut etiam spatio imaginario ad terram hanc nostram et usum vitae revocaverunt. Im Zeitalter
der Erneuerung der Wissenschaften, so behauptet
Leibniz, hat es viele Gelehrte gegeben,
die gegen die barbarische Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde zogen, aber es war bei ihnen mehr ein Carpere
als ein Emendare. Die einen jammerten, andere mahnten und gaben Ratschläge, wieder andere donnerten gegendie
scholastischen Philosophen und nannten sich im Gegensatz zu ihnen Reales, aber
sie unterliessen es, die Sache selbst in die Hand zu nehmen. Da sei es nun N.
gewesen, der mit Eifer und Fleiss und, wenn man ihn läse, mit solcher efficacia
wie kein anderer Schriftsteller sich wirklich damit befasst habe, den Boden der
Philosophie von jenen spinæ verborum von Grund aus zu säubern. Er verdiene es
daher als exemplum dictionis philosophicæ reformatæ und zwar, soweit es
für die Logik, das vestibulum philosophiæ, gelte, angesehen zu werden.
Leibniz knüpfthieran den Wunsch, dass in seiner an Talenten so reichen Zeit
sich Männer finden möchten, das Werk des N. für
die übrigen Teile der Philosophie fortzusetzen. Er selbst würde,
wie er hinzufügt, sich dieser Aufgabe unterziehen, wenn er sich nicht teils
durch andere Studien daran verhindert sähe, teils aber fürchten müsse,
anderen, die dieselbe Sache besser leisten möchten, vorzugreifen. Diese
Einwendungen halten ihn jedoch nicht ab, auf die N. Erörterungen
wenigstens im allgemeinen einzugehen und ihnen Neues hinzuzufügen. Rühmend hebt
G. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur Scholastik siehe: Jasper, Leibniz und
die Scholastik, Leipzig, ferner Rintelen Leibnizens Beziehungren zur
Scholastik, München, besonders G. Leibniz hervor, wie N. überall nicht nur
fordere, sondern auch selbst in Anwendung bringe eine dicendi ratio naturalis
et propria, simplex et perspicua, et ab omni detorsione et fuco libera, et
facilis et popularis et e media sumta, et congrua rebus, et luce sua juvans
potius memoriam quam Judicium inani acumine confundens. N. stellt fünf
allgemeine Prinzipien des rechten Philosophierens auf, die aber, wie Leibniz
bemerkt, mehr auf die Rede als auf das Denken Bezug nehmen. Als erste
Bedingung fordert er die Kenntnis des Griechischenund des Lateinischen, als
zweites das Vertrautsein mit den Vorschriften und Lehren, die sich bei den
Grammatikern und Rhetoren finden, ferner drittens eine umfassende und
andauernde Lektüre der besten griechischen und lateinischen Autoren und die Kenntnis
des allgemeinen Sprachgebrauchs sowohl, soweit es die obigen
betriflft, als auch des Volkes, das nach Horaz die Gewalt und Bestimmung
hat über die Norm der Redeweise. Ein viertes Prinzip ist die Freiheit und
wahre Willkür im Denken und Urteilen über alle Dinge. Jeder, der richtig
philosophieren will, darf keiner bestimmten philosophischen Sekte anhängen,
sondern soll vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen, seiner Intelligenz und
der Erfahrung als seinen alleinigen Lehrern undAutoritäten folgen. Endlich
fordert N. als letzte und fünfte Bedingung, dass man nicht abweiche von
der gewöhnlichen und bei allen G. N. C. Siehe
auch N. nemini fas est, ut Græci dieunt, ovofAaxoTto-.sIv, hoc est, nova nomina
tingere, nisi populo Atque ideo dialectici non recte faciunt sed maximum
committunt vitium, qui primum impudenter et barbare nominant res a se non
inventas et ab aliis ante nominatas, ut exempli gratia, quæ grammatici et
oratores jam inde a principio vocaverunt nomina, verba, adjectiva, substantiva,
supposita, apposita, propositiones, assumptiones et plurima alia huiusmodi,
ipsi prætermissis et rejectis penitus nominibus antiquis et rectis. appellant
terminos, copulas, concreta, abstracta, subjecta, prædicata, maiores, minores
et alia id genus sexcenta. Gelehrten üblichen Redeweise, nicht za kurz oder
dunkel schreibe oder lese, keine quæstiones inconsistentes, nichts Paradoxes
oder Ungebräuchliches oder Neues in die Philosophie einführe, falls letzteres
nicht unbedingt nötig ist. Besonderen Nachdruck legt N. darauf, dass ja
nicht die mos scribendi et loquendi a populi ac vulgarium lo- [N. allem den dialektischen, und metaphysischen und wo immer er handele von seinen mehr
als monströsen genera, species, secundæ substantiæ, universalia realia,
abstractio, demonstratio u. s. w., verdiene er den höchsten Tadel. In summa
behauptet er von LIZIO: ubi bene dicit nihil melius, ubi male nihil peius posse
excogitari) Auch diese Ansicht des N. teilt Leibniz durchaus nicht.
Er behauptet im Gegenteil, dass er fest überzeugt sei von der genuitas operum
LIZIO, was auch sagen mögen N., PICO (si veda), Petrus, Ramus u. a. Die Gründe,
die N. angibt, sind ihm nicht durchschlagend. CICERONE, auf
den sich Nizolius in erster Linie als
Gewährsmann stütze, könne nicht als solcher
gelten. Denn es sei nichverwunderlich, dass ein Mann wie
CICERONE als Politiker und Vielbeschäftigter -- infinitis curis
obrutus -- die Gedanken gerade der feinsinnigsten Philosophen (subtilissimi
cuiusdam Philosophi) flüchtig gelesen und daher nicht genügend verstanden habe
CICERONE (hie) duo dicit, primum communem esse sententiam quod sint
LIZIO, deinde non negat esse LIZIO, sed saltem conicit, posse
fortasse esse filii. Hæc vero a possibili coniectura communi
illorum quoque temporum sententiae nihil præjudicare debet. Ihm, Leibniz,
selbst ist die Echtheit der Schriften LIZIO vollständig verbürgt durch
jene perfecta hypothesium inter se Harmonia et aequalis ubique methodus velocissiraæ
subtilitatis. In seinem Briefe an Thomasius') De LIZIO recentioribus
reconciliabili schreibt Leibniz: Quæ LIZIO de materia, forma, privatione,
natura, loco infinito tempore, motu, ratiocinatur, pleraque certa et
demonstrata sunt, hoc uno fere demto, quæ de impossibilitate vacui et motus
in vacuo asserit. De cetero reliqua pleraque LIZIO Disputata nemo
fere sanus in dubium vocabit. N. Adnotatio. Q. Nizzoli. Mario Alberto Nizolio.
Nizolio. Keywords: Cicerone, lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s
‘anti-barbaro’. – Refs.: Luigi Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus
ciceronianus” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Noce: l’implicatura conversazionale
– filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo
italiano. Pistoia, Toscana. Grice: “Only in Italy, philosophy and history are
so connected; it would be as if we at Oxford after the war would be only
concerned with understanding Churchill!” Grice: “For us, to do linguistic
philosophy was to get away from post-tramautic stress disorder acquired during
what Winthrop stupidly called the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s not difficult
to understand why Noce’s notes on Gentile were only published posthumously!” --
essential Italian philosopher. «Certo
i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e
ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la
trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima crisi, riconosciuta
anche da certi scrittori laici.» (Risposte alla scristianità, da Il
Sabato). Ttitolare della cattedra di "Storia delle dottrine
politiche" all'Università La Sapienza di Roma. Studioso del
razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel, Marx), analizzò le
radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità, ricostruendo con
cura le contraddizioni interne dell'immanentismo. Argomentò
l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di pensiero che
propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina cristiana
(affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne tenacemente,
per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e comunisti e
previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del fascismo,
sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il comunismo e
fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità. Sostenne,
inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il pensiero dei
sessantottini. Filosofo della politica, preconizzò la crisi del
socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello
mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la
filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in
quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra
dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di
verità e di moralità. Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia
Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la
madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra
mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la
sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni
dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della
nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università
degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi,
Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia
quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì),
mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni
all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain,
che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al
fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla
carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli
dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e
altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di conciliazione
di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve tempo
affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un istituto
superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna all'insegnamento
un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi periodici, tra cui
Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare Dossetti. Scrive e
pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che ripubblicherà vent'anni dopo
nella sua opera maggiore (Il problema dell'ateismo) e nel quale fissa i termini
complessivi della sua interpretazione del marxismo. Nello stesso anno cura
l'edizione italiana di Concupiscentia irresistibilis di Šestov. Inizia la
collaborazione alla Enciclopedia filosofica del Centro Studi Filosofici di
Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato a Bologna presso il centro di
documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel capoluogo emiliano frequenta
Matteucci e collabora stabilmente al neonato periodico «Il Mulino». Scrive su
Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e altri alcuni saggi, uno dei quali,
«Idee per l'interpretazione del fascismo», sarà all'origine delle future
revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa al convegno organizzato
dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure con una relazione
intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella presente situazione
italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un rapporto difficile con
il partito cattolico (altri interventi nei convegni di San Pellegrino e di
Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non ottiene il posto. Pubblica
Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma cattolica e filosofia
moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con una relazione
intitolata Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero l'autocritica
dell'ateismo negativo in Rensi, nella quale espone la sua fondamentale
fenomenologia del pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso anno vince
il concorso per una cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea
a Trieste, dove divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca della
secolarizzazione, che raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni
sessanta. Si realizza il tanto atteso trasferimento a Roma, dove,
all'Università "La Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine
politiche e poi dal Filosofia della politica. Si infittisce la sua
collaborazione a riviste e periodici, sui quali interviene anche riguardo
all'attualità politica e culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura
moderna», dell'editore torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al
pubblico italiano autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin.
Partecipa vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni
settanta inizia il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione
partecipando a convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il
saggio Il suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione
del marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di
Rodano (che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della
conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione
continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della
rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno
viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il
Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito
della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale
Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di
Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini.
Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce
“Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo
e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e
rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a
Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta,
diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e
Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia
della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico
che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che
tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la
postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici
e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere
dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla
Scolastica. La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è
-come evidenzia appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come
«necessità» bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e
necessario sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da
qualsiasi riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro
way of life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi
innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo
positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di
un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico
(«notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine
l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e
particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della
filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier. Posta questa
propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico
moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da
pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia
epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà
l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica
medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che
proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece
colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni
metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre
una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista
del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con
la Natura impersonale e senza ordine. In realtà però Cartesio, nel suo
sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana
riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le idee
dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio,
quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà
ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale
realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la
quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione
dell'idea se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il
tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha
come punto centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del
reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a
quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il
rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico
all'idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso
della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in
tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non
contro Sant'Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire
necessariamente la «perfezione» dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni
perfezione, cioè dall'idea di Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi
come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei,
già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel
Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge
inoltre che proprio Cartesio, fiero avversario del libertinismo dilagante nel
suo tempo, fu colui che tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico
nella sua forma razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato
appunto un libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi
sulla persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva
davvero credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del
Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a
prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale
fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla
Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il
Cristianesimo, rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo
un ostacolo per lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga
presenta la definizione kantiana di illuminismo). Da Cartesio in poi sono
comunque due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti
compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte
infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito
propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra
invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi
del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra
ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla
Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione
in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei
filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del
problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di
Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile
condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male
metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il
Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè
senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con
l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo
laicizzato che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli
nota, infine, che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta
cercare quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel
Novecento avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi
complementari allo scientismo per una completa e non riduttiva visione del
mondo senza Dio, e per una definitiva «ateologizzazione» della ragione.
Compimento e dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua interpretazione
Del Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il suicidio della
rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema dell'ateismo in
quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo una delle linee
filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè quella che nella
storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel tentativo di
trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo,
materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra
problematica della civiltà postmoderna. La giustificazione epistemologica
di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento
inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in
azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la
«non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche
necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo
portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca
a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della
cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il
marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da
parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio
dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione
gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di
Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto
superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in
modo universale. Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo
gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano
oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto
dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno
dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra
rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore
dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase
dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore,
ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il
punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente
filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo
pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo
aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e
aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera,
mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica
(sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario
pur se negativo della storia universale. In questo senso N. ha potuto
mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in
Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e
hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il
momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella
formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo culmine.
Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del secondo
sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo
rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di
ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo
aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita
della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare
questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica
tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo,
non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo
mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi
anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che
ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della
rivoluzione politica. In Germania invece la dialettica fra kantismo e
hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la
riconsiderazione hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di
Dio --, secondo il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento
storico un grado dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur
nella sua negatività. In questo senso Hegel è colui che diede forma alla
corrente tradizionalistica dell'illuminismo, ove la tradizione non è più
peròcome per Tommaso d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che
solcano trasversalmente la dimensione temporale mediante il passaggio delle
generazioni, ma è bensì la struttura dialettica eterna che necessita
l'evoluzione delle verità, e quindi la sua temporalizzazione. Per questo N.
afferma che l'idealismo hegeliano ebbe nei confronti del kantismo la medesima
funzione che in Francia ebbe il positivismo comtiano nei confronti del
socialismo utopistico: egli ricorda la critica di Comte nei confronti
dell'illuminismo settecentesco, la sua rivalutazione della tradizione (in senso
dialettico), nonché la celeberrima teoria degli stadi che costituisceancora una
voltauna forma secolarizzata della teologia gioachimita. È dopo questa
dettagliata analisi che Del Noce innesta il discorso sul marxismo, il quale
appunto si configuròper stessa ammissione di Marxcome ripresa critica di Hegel
attraverso la filtrazione di Feuerbach e della sinistra hegeliana (celebri sono
le marxiane Tesi su Feuerbach) e come fusione fra la dialettica hegeliana e la
politica del socialismo utopistico: alla base del cosiddetto socialismo scientifico
rimane ancora il desiderio di palingenesi politica propria di Saint-Simon o di
Fourier, ma onde evitare il risibile utopismo di questi ultimi ad esso Marx
applicò la dialettica hegeliana con cui solamente si sarebbe potuto analizzare
il capitalismo e prevederne così il necessario fallimento. A tal punto
però l'analisi marxiana di come potrà nascere la società comunista introduce
l'elemento di distacco non solo dall'idealismo hegeliano ma anche dalla
filosofia stessa, ovvero la necessità di tradurre il pensiero analitico in
azione politica e di affidare alla storia invece che alla ragione il compito di
dimostrare la verità delle tesi marxiane. In questo N. si riallaccia a una
lunga storiografia socialista, uno dei cui esponenti più noti è per esempio
Lukács, che afferma la stretta e necessaria continuità fra filosofia di Marx e
di Engels, politica di Lenin e politica di Stalin, senza concedere alcuna differenza
né alcuna opposizione fra socialismo reale e socialismo ideale (quasi a guisa
di giustificazione storica). Il fattore fondamentale di continuità fra Marx e
Lenin è infatti quella struttura tipicamente gnostica che equalizza il male
all'ignoranza e il bene alla conoscenza e quindi divide il genere umano fra la
massa degli ignoranti e la ristretta cerchia degl’lluminati, che nella
riflessione leniniana erano gli intellettuali borghesi che per una non spiegata
differenza dal resto della borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la
rivoluzione; in questo senso la politica leniniana, poi proseguita coerentemente
nella politica staliniana, sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica
incarnazione possibile della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di
una certa apologetica socialista- un tradimento di Marx. Ancora una volta
si rifà a una lunga storiografia critica nel considerare il marxismo non come
una filosofia ma come una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione
non del suo carattere di religione civile bensì di religione gnostica: in tal
modo il marxismo leninista sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove
quest'ultimo è inteso come gnosticismo laico, religione non di Dio ma
dell'Idea/ideale che non ha bisogno dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto
l'uomo stesso avrebbe potuto e dovuto far incarnare tale Idea nel mondo
attraverso la sua azione. Questo è il senso dell'appellativo delnociano di
«non-filosofia» per il marxismo, giacché la contemplazione metafisica in
esso viene interamente assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la
politica è la vera metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la
morale. Eppure è proprio questo punto a costituire secondo N. la
contraddizione fondamentale interna al marxismo e quindi la causa prima del suo
fallimento storico: se infatti la «riconciliazione con la realtà» iniziata da
Hegel, proseguita da Feurbach a portata a compimento da Marx deve rivoltare
l'intera comprensione del mondo in trasformazione del mondo, cioè in
rivoluzione, allora in ciò non rimane giustificato il riferimento ideologico
all'avvenire come sede immaginifica della società comunista, ovvero non rimane
giustificato il carattere ancora religioso del marxismo per cui esso ha
sostituito il futuro all'eternità e il lavoro dell'uomo alla redenzione del
dio-uomo. Il fallimento storico del comunismo, quindi, sarebbe stato non
solo la dimostrazione sperimentale della falsità delle teorie marxiane ma anche
il coerente compimento del marxismo come auto-distruggersi nella sua forma di
religione. Con ciò si spiegherebbe per N. l'attivismo comunista nonché la
graduale decadenza del socialismo nel mondo fino alla sua profetizzata fine,
simboleggiata dalla caduta del Muro di Berlino. È propria di lui infatti la
teoria secondo cui il compimento e la dissoluzione del marxismo non siano due
momenti separati o addirittura opposti, ma siano bensì il medesimo momento
dispiegato coerentemente nel tempo. L'interpretazione del fascismo Sul
fascismo e sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo dedicato
gran parte dei suoi studi e delle sue opere, partendo appunto dalle opinioni
comuni e molte volte ideologiche degli storici nei confronti del fascismo e
delineando una struttura paradigmatica tanto controversa quanto precisa e
fondata. È a partire dalla definizione data dallo storico tedesco Nolte di ogni
movimento fascista come «resistenza contro la trascendenza», intesa come
trascendenza storica e non metafisica, che N. sottolinea la continuità fra
questo serio giudizio e la communis opinio del fascismo come movimento
reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista, e per converso di ogni
forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando implicito e forse
inconscio al fascismo. Di questo fa una critica serrata, facendo notare
innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del fascismo, cioè Gentile
e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di politica reazionaria,
tradizionalista e nazionalista e come invece affini rispetto al socialismo, del
quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si noti che l'obiettivo che N.
intende colpire e abbattere è quella generale concezione del fascismo come
momento singolare e controcorrente rispetto all'intera storia moderna, dalla
rivoluzione francese in poi, mentre ciò che intende mostrare è la continuità
quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il fascismo come
tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi
dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua formazione culturale,
notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo spontaneo confluire nel
socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo per l'evoluzione fascista
del suo pensiero. È in particolare sul concetto di «rivoluzione» che pone
l'accento, essendo questo un concetto base del marxismo che però,
attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca «filosofia dello Spirito»
risorgente in Italia, dovette radicalmente trasformarsi e portarsi dal livello
sociale della «classe» a quello personale del «soggetto». È insomma l'incontro
intellettuale di Mussolini con la filosofia di Gentile ad aver reso necessaria
la trasformazione della rivoluzione in un senso non più finalistico o
escatologico (come era nel marxismo puro, il cui fine è appunto la società
comunista) ma in un senso propriamente attivistico e lato sensu solipsistico,
in termini gentiliani cioè attualistico. Con ciò N. può connettere la
psicologia di Mussolini con il vero e proprio formalismo pratico del fascismo,
il quale non aveva in realtà alcun contenuto definito, ma proclamava bensì una
forma di azione tanto vaga e generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto
sociale (anche il proletariato) e di frangia ideologica, in alcuni momenti
persino quella marxistica. Il concetto di «rivoluzione» infatti contiene
in sé già un termine finale ben preciso verso cui lo stato attuale del mondo
andrebbe rivoluzionato, mentre nella politica fascista il termine rivoluzione
deve necessariamente essere sostituito dal termine «riforma» (si pensi appunto alla
riforma Gentile) in senso non più tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è
stato de-formato, bensì in senso creazionale, cioè come dare una nuova forma
(indefinita) alle antiche cose, perciò rimane un concetto molto affine a quello
di marxistico di rivoluzione, e permette l'affiancamento ideale dell'attualismo
gentiliano al modernismo teologico fiorente a quel tempo e condannato come
eresia dalla Chiesa. Saggi: “Teologia della storia” (Torino, Filosofia);
“La solitudine di Faggi” (Torino, Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla
politica italiana, Cultura e libertà” (Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna,
Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna, Mulino, Brescia); “In contra del domma
cattolico-romano” (Torino, Erasmo); “Contra il domma cattolico-romano” (Milano,
UIPC); “L'amore di Dio” (Torino, Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il
partito comunista italiano” (Roma, Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario”
(Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano, Rusconi); “L'interpretazione trans-politica
della storia contemporanea,” Napoli, Guida, “Secolarizzazione e crisi della
modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile: per una interpretazione FILOSOFICA
del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di
filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza e libertà.” Spir, Chestov,
Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi, Martinetti, italiano Rensi,
italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli, italiano Capograssi” (Milano,
Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”; Scritti su l'Europa e altri,
Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,” Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo:
errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e
vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia
contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità
e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca
Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia
contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo.
N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del
fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto. premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.
wordpress. Armellini, Razionalità e storia, in Il pensiero politico, Roma,
Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti,
Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e
politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e
secolarizzazione nell'analisi di Samek Lodovici ed N., PUSC, (scaricabile in
PDF dal sito sergiofumagalli) Gian Franco Lami, La tradizione, Angeli, Milano,
Marietti, Genova-Milano. Enciclopedia ItalianaV Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Ratto, Ipotesi sul fondamento dell'essenza
dissolutiva del marxismo e del fascismo, in Boscoceduo. La rivoluzione comincia
dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo.
L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara,
il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea
Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella
riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier
Tilliette, Omaggi. Filosofi italiani del nostro tempo, traduzione di
Sansonetti, Brescia, Morcelliana, Natascia Villani, Marxismo ateismo
secolarizzazione. Dialogo aperto con N., in Pensiero giurdico. Saggi, Napoli,
Editoriale Scientifica, Augusto Del
Noce, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Repertori Bibliografici, su centenariodelnoce).
La metafisica civile: ontologismo e liberalismo dalla rivista telematica di filosofia
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Culturale,//centrodelnoce. Fondazione //fondazione augustodelnoce.net. centenariodelnoce.
Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi
Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da
Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune
dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi.
«Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini
dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa»
da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma
europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri
cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di
porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna
del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni
dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba,
non un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione
(Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto
gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato.
«Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto]
da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"»
dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il
Sabato. Le connessioni tra filosofia e politica da Il Tempo. Pci, l'impossibile
conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice:
“Unfortunately, Noce is a philosopher, like me. We cannot lay word on history.
Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s Play Group. Being Italian, Noce
thinks different. He thinks history is guided by philosophical principes. It
wasn’t Mussolini’s charisma that led the populace, but Gentile’s attualismo
puro. He makes a good point about the distinction between Hitler and Mussolini.
Hitler is a Protestant, Mussolini ain’t! Most in Mussolini’s circle were just
as heathen as those in Hitler’s circle – different heathenism, though. No Odin,
but Giove. Not Siegrfied, but Enea! Noce does not know the first thing about
this. He never socialized with any of the people he is philosophizing about. In
any case, there’s Garibaldi, which is a stain to Italian history. Italians, and
a Ligurian friend of mine can testify to this, never wanted the UNITY. It was
forced ON them. So it’s only natural that Gentile and Noce regard the UNITY
brought by Risorgimento (alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that
was furthered by Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that
his movement was ‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a
little thing about Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di
flosofia’!” Non si
può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di proporre ipotesi
interpretative del pensiero contemporaneo anche in radicale antitesi con
la pubblicistica corrente e con gli intellettuali più ascoltati dal
potere culturale dominante. Come si è visto a proposito del marxismo, la
nettezza del giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai
ceduto ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale
con i suoi interlocutori. Nel caso dell’interpretazione del
fascismo N. esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni
Sessanta (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già
la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente
argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in questo caso, come in
quello del marxismo, N. procede da una considerazione attenta del fascismo
che ne faccia emergere le specificità culturali, lo renda
identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze più o meno
evidenti. Quest'opera di studio e di approfondimento dei contenuti
del fascismo è già un aspetto rilevante dell’interpretazione, dal momento
che, ancora oggi il fascismo è stato rappresentato da una parte come una
sorta di barbarie irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della
coalizione di tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di
interessi particolari. In questa prospettiva il fascismo viene
identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo, caratterizzato
come male assoluto, mitizzato come un abisso di negatività al di fuori di
qualsiasi analisi critica e storica. Da ultimo, trasformato in una sorta
di essenza, il fascismo diviene la categoria alla quale ricondurre tutti
gli aspetti legati alla tradizione, alla metafisica, al tema
dell’autorità ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare la
tradizione senza essere nel contempo, almeno incoattivamente, fascisti e
repressivi. AI contrario, per N. il fascismo è un momento di quel
percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli precedenti) in cui
consiste lo sviluppo del razionalismo e che può essere designato più
opportunamente come secolarizzazione, per intendere quel tentativo di
creare una società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di Dio.
Il fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile in
quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha inizio con il
marxismo. È questo il punto più incandescente dell’analisi di N.: il
fascismo si presenta come un tentativo rivoluzionario di origine
marxista, nel quale il marxismo viene corretto per essere inverato, cioè
per essere effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo
e fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso del
razionalismo che porta a una progressiva secolarizzazione del mondo,
l’ideale rivoluzionario tende ad assumere il ruolo sociale occupato
precedentemente dalla religione. In questo quadro, secondo N., la
rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si fonda, come
si è visto, sul materialismo e sulla sua opera decostruttiva; oppure
quella attualista, che è una interpretazione dell’ideale rivoluzionario
da un punto di vista soggettivo-spiritualistico, che assume le
caratteristiche di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta
il materialismo marxista. La spiegazione del fenomeno fascista trova
perciò in Gentile una figura centrale, attraverso la quale N. mette in
evidenza il nesso storico e teorico tra idealismo e fascismo. Per
comprendere questo nesso, però, occorre che venga pienamente riconosciuta
la complessità e profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato
a personaggio di propaganda e di apparato. D. non solo riconosce in
Gentile una figura chiave del pensiero italiano, ma nel suo pensiero
coglie una svolta epocale, quella del tentato inveramento del marxismo:
perciò in esso egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso razionalistico
del pensiero che così fortemente ha determinato le sorti dell’epoca
contemporanea. Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale
e connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò dal
quel presupposto naturalismo e materialismo che rappresentavano ai suoi
occhi un limite nella comprensione del vero spirito idealistico. È in
questa temperie culturale che avviene l’incontro con Mussolini. N. è
certo attento nel precisare che i fenomeni storici si verificano per una
complessa serie di fattori che non possono essere ridotti a uno schema
concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di incontro intende
evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi biografici e storici, ma
anche il congiungersi, si potrebbe dire fatale, di indirizzi di pensiero
che per consonanza e necessità logica danno luogo a un connubio creativo.
Nel caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime N. parla, per
esempio, di armonia prestabilita, quasi a evidenziare una sorta di
attrazione fatale che ha compenetrato traiettorie di pensiero che avevano
origini distinte. Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso
una revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo
riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più sbiadita
rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene perciò sul terreno
comune della volontà di ripresa dello spirito rivoluzionario, in una
chiave però compatibile con la tradizione risorgimentale italiana.
All’interno di questa struttura significativa, certamente gioca poi un
ruolo determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro
molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è tuttavia perfetta
espressione esistenziale-politica di quell’ansia rivoluzionaria che
si traduce in attivismo come pura affermazione di potenza e in
solipsismo, inteso come soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la
realtà esterna in sé sussistente se non in funzione del proprio processo
di autoaffermazione. Si comprende dunque perché N. abbia
parlato spesso di fascismo come errore della cultura e non errore
contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante
nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come fenomeno
estemporaneo di improvviso impazzimento della società italiana succube di
forze oscurantiste, ma segna un passo decisivo di quell'epoca della
secolarizzazione che contraddistingue l'evoluzione ultima del
razionalismo moderno e che, secondo N., ha il suo inizio con
l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più coerentemente
inteso realizzare il farsi mondo della filosofia secondo quanto
prospettato da Marx. In questo senso, tra l’altro, si comprende perché
sia senz’altro errato interpretare il fascismo come fenomeno reazionario
e conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione dello
spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il quale la tradizione
e l’identità storica rappresentano puri strumenti per l’affermazione
dell’azione trasformatrice, che sarà perciò inevitabilmente violenta e
inesorabile. Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi
il fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del
marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria capace di realizzare
effettivamente una nuova società: è Gramsci. Anche in questo caso N.
dimostra un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel
presentare le sue ipotesi. Egli infatti mette a punto una serie di studi
che confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della
rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che, nel tentativo
di riformare il marxismo, incontra in realtà l’attualismo e trasforma
l'ideale rivoluzionario marxista in una filosofia della prassi
perfettamente funzionale e coerente con il realizzarsi del nichilismo.
Gramsci, perciò, identificato in quegli anni come il vero punto di
riferimento dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il
realizzarsi del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da N. come
un autore gentiliano. Che cosa è infatti la revisione gramsciana del
marxismo se non il rifiuto del suo materialismo e del suo economicismo,
per fondare una filosofia della prassi che porti a realizzare la
rivoluzione prospettata dal marxismo a partire da una lotta per
l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali militanti? Secondo
N. non è più marxismo, ma filosofia della prassi con tutti i caratteri
dell’attualismo. In che senso allora N. parla di suicidio
della rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire
il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della prassi
non materialista, Gramsci riduce il pensiero a ideologia strumentale per
l’affermazione del potere, svincolandolo da qualsiasi riferimento alla
verità. Pensiero senza verità, pura affermazione di potenza, e
perciò nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario
che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il costituirsi del
predominio sociale di una classe borghese cinica e disincantata. Diciamo
che Gramsci rappresenta il paradigma italiano di quella dissoluzione
dell’idealismo e del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è
detto, nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era
proposto. Il primo testo del capitolo è una conferenza confluita in
L’epoca della secolarizzazione, che propone una definizione storica
generale del fascismo e consente uno sguardo sintetico d’insieme
sull’interpretazione di N. delle figure di Gentile e di Mussolini. Il
secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della rivoluzione, che
imposta l’assunto fondamentale del libro, soprattutto nel mostrare la
vicinanza filosofica tra Gentile e Gramsci. Appunti per una
definizione storica del fascismo. Il fondamento del progressismo, così nella
sua forma di illuminismo laico come in quella di modernismo religioso,
è un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su una
zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra le due guerre. Ora,
l'attitudine contraddittoria a cui ha dato luogo e per la cui
designazione ho usato il termine di millenarismo negativistico, porta al
problema della sua revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente
di mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si
tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state coinvolte
nella sua catastrofe. È il primo saggio che tenta
un’esaustiva comprensione storico-filosofica del fascismo
come fenomeno epocale, quello di NOLTE? Sostanzialmente, si può dire
che esso abbia dato espressione rigorosa all’idea che informa i giudizi
correnti: quella secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire
sussunti sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel
suo aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il fascismo
sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza contro la
trascendenza», termine con cui intende non la trascendenza religiosa, ma
quella che oggi si suol chiamare «trascendenza orizzontale», trascendimento
storico, insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle
sue forme, è il nemico, deve essere individuato nella libertà verso
l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale nell’evoluzione
universale, minaccia di distruggere ciò che si conosce e si ama». Sul
piano più strettamente politico questa «resistenza contro la trascendenza»
si affermerà come lotta sino alla morte contro i movimenti che la
rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là dell'ordine
presente, verso una realtà sociale più ampia. Si dovrebbe perciò parlare
di un’essenza comune che si sarebbe specificata in diverse forme nei vari
paesi europei, a seconda delle loro diverse situazioni politiche,
economiche, culturali. Le principali di queste forme
costituirebbero altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea
unitaria di sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato
dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo dal
nazismo. Come è facile osservare, una tale interpretazione corrisponde
alla veduta corrente, secondo cui i termini ultimi dei contrasti presenti
sarebbero le parti dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore
venendo assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni
atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più
inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una possibilità
fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è che questo giudizio
non condiziona la ricerca, come presupposto polemico, ma invece appare
essere il risultato di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la
sua importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio
corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.
Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di un’«epoca del
fascismo? Da questo: è esistito un periodo in cui, in seguito
all’arretramento e al chiudersi in se stesse delle potenze periferiche
(Stati Uniti, Unione Sovietica; isolazionismo americano, socialismo in un
solo Paese per cui la Russia ridivenne una terra incognita ai limiti
del mondo) l'Europa, pur dopo quell’anno, in cui la prima guerra
mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto di stati nazionali,
poteva nuovamente considerare se stessa come il centro del mondo, e
affermarsi quale proscenio degli avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si
deve denominare un’epoca, caratterizzata decisamente da contese
politiche, sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli
avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo, ebbene, in tal
caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle guerre mondiali epoca del
fascismo»; termine che «presenta il vantaggio di non esibire alcun
contenuto concreto, e di non presentarsi al pari della parola
nazionalsocialismo con una pretesa contenutistica non però giustificata. Col
dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non pretende affatto a una
particolare originalità. Ha cura, anzi, di sottolineare com’essa fosse
già stata affermata da rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel
giro di brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era
stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del
massimo suo potere. Ma, su questo punto, avversari decisissimi si erano
trovati d’accordo, con opposto accento valutativo. Così Mann nel define
il fascismo come «una malattia del nostro tempo, che è di casa
dappertutto, e dalla quale nessun paese può dirsi immune». Così, nella
nota opera La distruzione della ragione Lukacs ha indicato «nello
sviluppo spirituale e politico tedesco null’altro che la manifestazione
più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito
del mondo capitalistico. Bastano già queste citazioni per vedere il posto
che l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo.
Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso liberale, della
malattia morale e dopo quella marxista. Luk4cs aveva parlato di una linea
unitaria di processo verso l’irrazionalismo da Schelling a Hitler»,
includendovi tutti i pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte
di Hegel. Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di
verità, Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il
prefascismo di Weber, e naturalmente il dissenso su questo pensatore ha
un contraccolpo decisivo per quel che riguarda l’intera linea indicata da
Lukacs. Forse — non ho verificato quest'idea — il suo libro potrebbe
esser definito come un rifacimento per l'Europa intera di quello
che Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato
però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di Weber. Ora,
nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo libro, io mi ero
proposto il suo medesimo problema — di una definizione del fascismo in
sede trascendentale — arrivando però a prospettive diverse. Infatti, nel
saggio di N., Il problema dell’ateismo, definie la peculiarità della
storia contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il
mio punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era
semplice: se si riconosce un carattere genuinamente filosofico
all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la sua frase secondo cui
la sua concezione è quella di una filosofia che diventa mondo (che si
oltrepassa nella realizzazione politica e cerca in questa la sua
verifica) opposta a quella di un mondo che diventa filosofia
nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può essere
compresa che in relazione alla rivoluzione comunista, essa acquisisce un
carattere nuovo, diverso da tutta la storia precedente, soprattutto dal
Rinascimento in poi. Non soltanto una storia che può essere compresa dal
filosofo; una storia fatta dal filosofo, perché il valore del
pensiero è per Marx quello di realizzare la condizione per
un’azione efficace a trasformare la società e il mondo; e per
riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi parve di
doverla definire come l’età dell’espansione dell’ateismo. Preferirei
oggi, per indicare la stessa cosa, parlare d’epoca della
secolarizzazione, servendomi di un termine che ora è divenuto corrente.
Secolarizzazione e dr O ateismo sono certamente le due facce della
stessa moneta; ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che
questa età vuol essere — processo verso una situazione in cui si
possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e siccome qui si
tratta di un’analisi interna di quest'epoca, prima che di un giudizio
valutativo, qui è la ragione della mia preferenza. Ora se
l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir definita come epoca della
secolarizzazione, l’inizio non può essere cercato che nell’opera di
Lenin; quindi, davanti a una rivoluzione che nell’intenzione è mondiale,
non mi sembra possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente
europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà invece parlare
del «momento fascista» dell’epoca della secolarizzazione. Credo
inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti come necessaria.
Nell’epoca della secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che
si può dire sacrale (in relazione al fenomeno delle religioni secolari,
che accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo profano;
a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria delle date, possiamo
dire che il primo si chiude con la morte di Stalin. Fascismo e nazismo
appartengono interamente al periodo sacrale; fenomeno nuovo che
caratterizza in maniera precipua il periodo «profano» è la società
opulenta. Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire
che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione dell’Action
francaise rispetto al radicalismo e quella del nazismo rispetto al
comunismo. Non vorrò negare che la simmetria vi sia, ma, appunto,
soltanto una simmetria; è infatti altrettanto impossibile vedere nel
nazionalsocialismo la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion
frangaise che nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più,
mi sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando deve
trattare del termine medio tra Action francaise e nazismo, cioè del
fascismo propriamente detto. Nel considerarlo, infatti, egli accentua,
molto giustamente, i tratti segnati da un persistente influsso marxista,
e le curiose affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel
momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel momento iniziale
(Action francaise) e di nuovo scompare nel momento conclusivo
nazionalsocialista. E, allora, non è almeno singolare definire l’intera
epoca con il termine di fascismo? Siamo con ciò arrivati al
punto veramente centrale: se si possano sussumere sotto il comune
concetto di controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro
la trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti
e nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti all’ispirazione
dottrinaria dell’Action francaise, come il fascismo e il nazismo, in modo
che si possa parlare di una stessa essenza, che si è specificata
diversamente a seconda delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi
in cui si era realizzata, o se invece l’attenzione debba
prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette in questa
seconda via si delineano poi due diverse possibilità interpretative. Si
devono distinguere qualitativamente i movimenti nazionalisti dal fascismo
e dal nazismo, riconoscendo però una stessa essenza a questi due
ultimi fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di
nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si vede, il punto più
delicato, e quello che ora cercherò di affrontare, è proprio quello di
assegnare il punto giusto al fascismo italiano: che alcuni associano al
nazismo, mentre altri sono proclivi a considerarlo come una semplice
variante dei regimi autoritari. La distinzione così di fascismo
come di nazismo dal nazionalismo propriamente detto può essere stabilita
facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un
tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità, quest’eredità
essendo per lo più legittimata per rapporto a valori trascendenti, anche
se poi vi sia la tendenza a vederli soltanto nella funzione di legittimare
un’eredità (per ciò si può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di
un’inesatta idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece
la nazione non più come un'eredità di valori, ma come un divenire
di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia non è concepita come
una fedeltà, ma come una creazione continua che merita di rovesciare nel
suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta, del resto, di
una distinzione su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels,
che riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il
primo movimento che avesse combattuto marxismo e comunismo da un punto di
vista non reazionario; * sta in ciò la ragione della devozione
indubbiamente sincera che Hitler mantenne sempre per Mussolini. Assai più
che i tratti comuni importano però le differenze. In quello stesso libro
sostenevo che il fascismo deve essere storicamente definito come la piena
realizzazione e il completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che
ha accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e
dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx (o pensandola
come una posizione contraddittoria di spirito rivoluzionario e di
materialismo); e che la biografia di Mussolini è il miglior documento per
lo studio dell’idea di rivoluzione totale sganciata dal materialismo
marxista e connessa invece col clima di pensiero dominante in
Europa nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di De
Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che avevo allora
accennato, mi pare offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione
del fascismo, tre mi sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir
portata l’attenzione: che fu fondato da colui che giustamente può
essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra mondiale,
del comunismo europeo; che l’ascesa di Mussolini ha temporalmente
coinciso con quella della cultura idealistica, che l'avvento del fascismo
ha coinciso con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi
è una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e
dell’altra; che questa cultura
idealistica italiana prende inizio da quella prima grande disputa sul
marxismo teorico, che segna l’europeizzarsi della cultura italiana.
Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della «misteriosa
vicinanza e lontananza insieme che lo collegava alla figura di Lenin»,
punto ben visto da Nolte, ma non sufficientemente approfondito. Il
mistero della lontananza viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a
quella distinzione tra il vivo e il morto in Marx che la cultura
idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di fatto
accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità inscindibile tra
materialismo radicale e azione rivoluzionaria, rifiutato. La
vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte: «Se per
comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi da quella
riformistica, disposta alla collaborazione, del partito socialista,
Mussolini può essere a ragione definito il primo e, da un certo punto di
vista, l’unico comunista europeo del periodo, in quanto in tutti gli
altri paesi europei la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza
del bolscevismo russo, formatosi, nei limiti di una situazione affatto
diversa. In ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi
del comunismo italiano postbellico... egli fu anche il
promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta
intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria
fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è tentato di contrapporre
alla sua ortodossia marxista, non è che l’espressione teoretica della sua
intransigenza. Tale volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente
contro la teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto
analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del decorso
spontaneo. Dove è giusto parlare di analogia, non di ortodossia marxista.
Il «volontarismo» di Mussolini non è la «dialettica» di Lenin; è il
rifiuto del materialismo marxista, in relazione alla generale critica
allora corrente del materialismo naturalistico e del positivismo
evoluzionista. Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa
diventa l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più
rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella
liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato dal momento
materialistico e dall’utopistico? L’essenzialità del materialismo a quella
che giustamente è stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova
prassi della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo
punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai chiara. Sotto
un primo riguardo il momento materialistico significa la sconsacrazione
dell’ordine che si deve abbattere; sotto il secondo assai più importante
— che implica la conservazione, e non la semplice negazione, del
pensiero utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla
finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta all’instaurazione di
una nuova idea dell’uomo, materialistica nel senso che è separata da ogni
traccia del divino, in quanto il pensiero dell’uomo è praxzs, attività
sensitiva umana, pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla
oltre la sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e
radicale materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo. Separato
dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di
mistica dell’azione, in quel che si suol dire con un termine diventato
logoro perché sciupato nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»;
tensione verso un’azione che è voluta per sé, come
semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine,
con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di dar
significato all’azione, sono pensati valere soltanto come strumenti che
possono promuoverla. Ma non basta: la logica che gli è intrinseca lo
porta anche alla negazione della personalità degli altri, alla loro
riduzione a oggetti; dato il conferimento del valore alla pura azione,
gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi per diventare
puri strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra cosa
dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del disconoscimento morale
si tratta di un rifiuto pratico di eseguire quel che la legge morale
comanda; nel caso, invece, dell’attivismo si tratta di una prospettiva
totale per cui gli altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più
senso parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come definire
quest’attitudine? Io proporrei il termine di solipsismo, e personalmente
sarei portato a credere che l’unico senso preciso che si possa dare alla
nozione di solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica,
il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La totale
spersonalizzazione che l’attivismo include porta a togliere alla realtà
l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra che essa non esista che nella
mia azione, come ostacolo che proietto davanti a me per superarlo. Sul
termine si potrà discutere; ma è comunque certo che all’azione di
Mussolini non si addicono la qualificazione di anarchica, perché
resta sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e invece
Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria, perché non si può
rintracciare la tradizione che Mussolini abbia riaffermata e difesa; né,
ovviamente, di giacobina e di comunista. A me pare che partendo da
una fenomenologia dell’attivismo diventino comprensibili quegli
aspetti contraddittori che rendono così difficile, come De Felice
ha giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini!
Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di personalismo, di
scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se medesimo e al tempo stesso
di sfiducia nell’intrinseco valore di ogni atto, e, quindi, nella
possibilità di dare all’azione un significato morale, un valore che non
fosse provvisorio, strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal
personalismo. Bene Cantimori lo ha delineato. Questo senso della
potenza, questa volontà di predominio che lo fa identificarsi
spontaneamente con la sua patria, questo fortissimo protagonismo
politico, diventa, nei momenti della lotta più aspra per un’affermazione
della propria volontà, consapevolezza e affermazione della propria
individualità... e questa consapevolezza di sé, questo esser
continuamente presente, cosciente della propria volontà e della
propria individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea
con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale
consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in dominio, in
compiacimento per la disciplina e obbedienza ottenute». Per sé,
l’identificazione con la causa del proprio popolo caratterizza ogni
politico ed è da essa che questi trae la propria forza; ma in Mussolini
si compie in una volontà di predominio, in un protagonismo politico che
è consapevolezza e affermazione della propria personalità; che
altro può significare questo se non un’identificazione che si opera a
rovescio di quella dei grandi politici attraverso una specie di
assorbimento, per così dire, del popolo in sé? Di qui quei caratteri che
sconcertarono quegli uomini della vecchia generazione politica che furono
in rapporto con lui: l'esclusivo e feroce culto di se medesimo,
l'eccezionale energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e
il male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è
da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di Mussolini a questo
semplice immoralismo, neppure si potrebbe intendere il suo successo. In
realtà, nella disposizione attivistica abbiamo una singolare
coincidenza di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di
autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel disconoscimento
della personalità morale degli altri. Qui è anche la radice ultima
dell’antiliberalismo fascista, se il liberalismo è caratterizzato dal
rispetto dell’altrui persona. Si spiega pure il tratto, su cui
particolarmente aveva insistito Gobetti, del suo tatticismo e
trasformismo: l’assenza della finalità ultima dell’azione gli concedeva
infatti una disponibilità massima per ogni tatticismo e
trasformismo, ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un
valore che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra
contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che come creatore,
mentre di fatto la sua azione non poteva esplicarsi che come
distruttrice. Per la radicalità di questa azione distruttiva, pensiamo
infatti al posto che gli verrà dato, tra qualche decennio, nei manuali di
storia: c'era una realtà storica nuova, il Regno d’Italia, e fu
Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo rapporto,
veramente l’antiCavour. Si intende anche l’osservazione acuta di
Gramsci per cui Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò, però, non
già perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il tipo
concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione proprio della
sua disposizione attivistica. Costretto da essa a trattare gli altri come
forze, veniva a sua volta visto dagli altri come una forza di cui
disporre. Da ciò anche la continua minaccia di restare prigioniero delle
forze con cui si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste
forze con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di
contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si davano per
tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto che «credendo così di
essere l’arbitro di tutto, non si accorgeva che, di compromesso in
compromesso, il suo margine di autonomia si riduceva sempre più e che la
logica delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione,
lo soffoca progressivamente, e lo riduceva a un piccolo Laocoonte
che appariva forte solo perché poteva gonfiare i muscoli, ma era
irrimediabilmente stretto in un groviglio di spire che lentamente lo
avrebbero soffocato. Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua
incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il ricorso al
pessimismo di MACHIAVELLI per sentire questa solitudine come forza; per
questo riguardo il suo Preludio a MACHIAVELLI è tra le pagine che meglio
illuminano la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come
potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di parlare al
popolo e di trascinarlo in quanto massa, e l’incapacità di colloquiare
con gli uomini in quanto singoli, e di giudicarli. Perciò ebbe su di lui
tanta presa la lettura della Psicologia delle folle di Le Bon; gli
rivelava i meccanismi che determinano il comportamento collettivo, lo
istruiva nella tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei
suoi interventi. Diventa pure chiara la sua incapacità di formare
un’élite e di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché
questi uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro
volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo essere le
coscienze più diritte. Questi non sono che esempi che ho addotto
per proporre un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico,
in Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con
l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei tratti
psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la psicologia di
Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà dalla sua iniziale scelta
per l’attitudine rivoluzionaria, pensata come contraddittoria col
materialismo; dalla irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della
posizione rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser posto il
problema del rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna
però guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della
cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e ignoranza
di Mussolini; discorso che si traduce poi in quell’ordinario ritratto che
lo rappresenta come un semplice demagogo, sia pure con qualità, in questo
genere non comuni; o nell’altro che vi vede
l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni
cambiamento, a seconda della possibilità di successo; di cui poi è
specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto al
socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non poté incontrare i
problemi culturali che da politico; e pensò contro certe idee che trovava
incarnate in posizioni politiche, e aderì a certe vedute culturali
piuttosto che ad altre, in relazione a questa polemica politica. Una
volta che si è detto questo, si deve vedere quali pensatori abbia
dovuto incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e
quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine
della sua polemica è chiaro: si tratta del socialismo riformista e della
cultura che lo accompagnava; del marxismo ripensato nella cultura
positivistica di fine Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza
ai rivoluzionari. Perciò anch’egli fu detto e si disse volentieri
idealista perché «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee,
procurò a infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria
della violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo,
il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni
era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo. È il noto
giudizio di Croce, non inesatto, ma tuttavia generico, e che per questa
genericità rischia di sviare. Maggior significato si deve dare alla
rievocazione, singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini
illustra a De Begnac il processo che l’aveva portato più di vent'anni
prima alla fondazione dei Fasci di combattimento. Le guide spirituali
erano rimaste indietro di mille anni a noi che avevamo sofferto
l’esperienza della lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta
mesi una sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un
libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma pochissimi
erano culturalmente in grado di comprendere il suo discorso. Gli
economisti riaprivano il nostro animo ad un qualche interesse alla vita.
VITI, MARCO, EINAUDI, RICCI e, soprattutto, PANTALEONI e Pareto. Sorel
sembrava appartenere ad altra età, ormai. GENTILE preparava la
strada a chi — come me — avesse desiderato camminare su di essa. Certamente,
si tratta di una veduta retrospettiva: è difficile pensare che Mussolini
abbia guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo
Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però
una veduta importante, anzitutto come indicazione dei limiti che si
devono dare all’influenza di Sorel su Mussolini: al momento in cui il
Mussolini «fascista» succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei
protagonisti della disputa italiana sul marxismo teorico, CROCE e
Sorel, non gli parlavano più. Mentre invece la sua veduta sul
momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la veduta
affermata dal Gentile scrittore politico non si può separare in alcun
modo dalla sua filosofia; e questa a sua volta (pongo qui una tesi che
non posso ora dimostrare con la precisione sufficiente, ma che tuttavia
penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista
come l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò
passare qui a definire il senso dell'incontro di Gentile e Mussolini.
Presenta certo degli aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse
per il Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per
il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di un’influenza di
Nietzsche, come pure degli altri autori che possono aver esercitato
un’influenza su Mussolini: Sorel, Pareto, Le Bon. Genericamente
possiamo dire che fu un incontro per negazioni: per un verso l’attualismo
gentiliano era travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre
per l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a modellare
e a prospettare un movimento politico; di più, nel riguardo delle forme
politiche esistenti, pronunziava le stesse negazioni che pure pronunziava
il fascismo. Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva
bisogno di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da
ciò al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata
dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e la
conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini
come Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è
strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel primo lavoro che
fu dedicato, nel mondo intero, alla filosofia di Marx da Gentile (La
filosofia di Marx) non è affatto un episodio marginale della sua opera.
Si può infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato
dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo definire il
senso dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve venir
vista come unica, perché non si può ascriverla a quella dei tanti
fiancheggiatori di ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile
che aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra
storica), e meno che mai, si intende, a quella dell’intransigentismo
diciannovista. Fu egli l’unico a vedere in Mussolini non già una forza
atta a servire o per il consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo
costruito a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace
di compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che
pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini, che decise la sua adesione alla
repubblica sociale, O l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi
secoli, debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma
ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto indicava che il
fascismo stava per concludersi in una catastrofe, Gentile non poteva
staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l'impegno
a restar fedele nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel
momento della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso
converrà prender le mosse dallo saggio su Origini e dottrina del
fascismo. La data è molto importante. Esso appare dopo che il fascismo
aveva rotto definitivamente con il liberalismo prefascista e dopo che
Croce non soltanto si era messo all'opposizione, ma dopo che aveva
ragionato i motivi di questa nella Storsa d’Italia. Il primo paragrafo si
intitola Le due anime del popolo italiano prima della guerra, e contiene
un’interpretazione estremamente significativa dell’interventismo e
della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla
vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde perché
«c'erano nell’anima italiana due correnti affatto diverse, e quasi due
anime irreducibili, che combattevano da quasi due decenni e si
contrastavano il campo accanitamente, per riuscire a quella conciliazione
che richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale
col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare del vinto,
quel che è conservabile». La partecipazione italiana alla prima guerra
mondiale è sentita essenzialmente come rivoluzione; la guerra è lo
strumento perché la parte risorgimentale possa vincere sulla parte non
risorgimentale: entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la
nazione, dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e
la Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e
militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero potuto
arrecare... In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue
questa Nazione formatasi più per fortuna che per valore dei suoi figli...
Cementare la Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti
i cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa passione,
una comune speranza... Cementarla, questa Nazione, per farne una Nazione
vera, reale, viva, capace di muoversi e di volere, e farsi valere e
pesare nel mondo, ed entrare insomma nella storia, con una sua
personalità, con una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota
sua originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e
al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla dunque davvero
questa Nazione, come soltanto è possibile che sorga ogni realtà spirituale:
con uno sforzo attraverso il sacrifizio. Abbiamo qui il passaggio
dall’impostazione democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per
la libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme
del saggio è estremamente interessante per far cogliere la rottura tra
l’interventismo democratico e l’interventismo fascista; insomma, tra il
fascismo e quello che successivamente prenderà nuova forma come
Partito d’azione. Com’erano definite queste due Italie? «I
neutralisti stavano per il tornaconto e gli interventisti per una
ragione morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla
bilancia. La prima parte era per Gentile quella dell’Italia giolittiana,
la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto nella continuazione di
Mazzini che avverrebbe per Gentile il suo incontro con Mussolini. Mazziniano
(quest’ultimo) di quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella
sua Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per
riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, ricca di
esperienza e di meditazione, nutrita della più recente cultura italiana,
tutta l’ideologia socialista. Particolarmente importante è quanto vi è
detto sulla separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che
per il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la volontà
e la personalità dell'individuo, perché concepita come obiettivamente
esistente, indipendentemente dalla coscienza dei singoli; esistente anche
se questi non lavorino a farla esistere, a crearla. L'individuo nel
nazionalismo diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il
suo antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o
condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve vivere e deve
morire; mentre per il fascismo lo stato e l'individuo si immedesimano, o
meglio sono termini inseparabili di una sintesi necessaria». In breve,
quel che caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal
nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da cui
proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in
una certa maniera un Gentile che si inserisce nello sviluppo del fascismo
per contenderlo a conservatori, nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso
atteggiamento viene da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel
nazionalismo essa era un presupposto in quanto faceva parte del
processo di formazione storica della nazione italiana. E viceversa
per Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato
ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista, che
svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo gli autori».
Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un puro scritto
di circostanza, e ciò perché la visione del Risorgimento che Gentile vi
afferma è in continuità diretta con quella già delineata addirittura nei
suoi primissimi scritti, espressa già nella prefazione a SERBATI e
Gioberti; e SERBATI e Gioberti e La filosofia di Marx sono due libri
inseparabili. * Gentile era ossessionato dal termine di «riforma»
al modo in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma
della dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato, ecc.; ma il
termine di riforma significava per lui non già rettificazione di un
ordine costituito, ma nuova forma attraverso cui il passato deve essere
restituito a nuova vita; è più prossimo cioè a quello di rivoluzione che
a quello di riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è
veramente inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica,
continuazione in certo senso di quella riforma cattolica giobertiana in
cui già si trovano tutti i motivi del modernismo; né ha senso per lui
come puro sistema speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli
è l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una
linea che va da BRUNO a Gioberti, né del resto egli presentò la sua
filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir detto l’ultimo
dei risorgimentali. Gentile curiosamente ritrova la figura del
filosofo politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e
Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può essere espresso
nella formula che segue: il marxismo separato dal materialismo e il
giobertismo separato dal platonismo, e perciò immanentizzato, si
identificano. Da ciò era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento
che si ricollegava a quella di Gioberti nella forma di
continuazione e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però,
per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare
l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si stabiliva pure una curiosa
analogia tra Gentile e Marx; si può dire che come Marx pensa alla
rivoluzione francese come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al
Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal
mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità di religione e
di politica, seguiva quella serie di negazioni che coinvolgeva, oltre
l’intero sistema giolittiano, anche lo stesso
nazionalismo. Procedendo per accenni, è importante osservare quale
scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra mondiale, e
particolarmente Caporetto che gli parve segnare il crollo dell’Italia
post-risorgimentale, e quel che seguì, in cui egli ravvisò la rinascita
dello spirito risorgimentale. Ebbe allora l'impressione che le cose
venissero a lui, confermando la sua veduta filosofica e permettendone la
realizzazione, onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e
la marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e Dopo
la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi di religione,
in cui l'accento cade sull’impostazione di una politica religiosa.
Possiamo così renderci conto della necessità dell'incontro. Era
naturale che Gentile pensasse che come egli, a partire dalla critica
teorica di Marx, aveva incontrato il pensiero risorgimentale, lo stesso
dovesse avvenire per Mussolini a partire dalla critica politico-pratica
del marxismo.” Si vede dunque come, in sede di un giudizio
storico e non moralistico e polemico sul fascismo, la questione
delle illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba
esser posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come
viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò ad aderirvi, per
un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior filosofo italiano del
tempo. D'altra parte non può non essere senza significato il fatto
che le stesse critiche fondamentali mosse contro l’attualismo, di
attivismo e di solipsismo, servano come criteri storici essenziali per
intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è facile
ricostruire l’idea che Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che
Mussolini si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato
ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può pensare che
egli non abbia troppo gradito di venir considerato come lo strumento di
una riforma religioso- politica pensata da un altro, e di cui neppur bene
afferrava i termini; e ho già detto della sua incapacità di vere
amicizie. Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da
parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del Fascismo;
così mi è sembrato molto significativo quell’accenno nella conversazione
con De Begnac, avvenuta in un momento in cui Gentile non era certo troppo
in auge. Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che
così. Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il
fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione rivoluzionaria,
di origine marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i
risultati di quella critica del marxismo teorico che fu svolta in Italia
negli ultimi anni dell’Ottocento e di cui l’attualismo può essere
considerato la conclusione filosofica. Naturalmente, questa definizione
non concerne che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare
la sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si sarebbe
data senza una serie di occasioni storiche: la guerra mondiale, il modo
in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la trasfigurazione della
battaglia di Vittorio Veneto nel mito della vittoria mutilata, la
rivoluzione russa, il biennio rosso, ecc. Come si inserisce
in quella che prima si è chiamata l’epoca della secolarizzazione? Sotto
questo riguardo deve essere definito come alternativa al leninismo (al
leninismo, si badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e
il richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar
confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine
alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi: quello di
opposizione assoluta, o quello di inveramento, in una forma adeguata a un
paese di civiltà e di cultura superiori alla russa; non dell’Italia
soltanto, anzi, se Mussolini poté pensare a una prossima
fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo secondo senso che
Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la differenza tra fascismo e
nazismo. Due uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare
la vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve
riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente sincero.
Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua giustificazione storica,
nel senso di condizione della sua possibilità, nel fatto che il
marxleninismo non ha potuto realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha
dovuto arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare
però che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a
dire che debba esser considerato come fenomeno reazionario; né a
giustificare i giudizi secondo cui Mussolini avrebbe deliberatamente
ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia
rivoluzionaria. Ma la considerazione dell’esito non può servire come
criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice che il
comunismo è fallito perché ha portato a una nuova classe, più oppressiva
di ogni altra, non vuol certamente dire con questo che il comunismo sia
sorto in un’intenzione reazionaria. Perciò, se è inesatto parlare di
fascismi, altrettanto lo è il giudizio che la loro catastrofe coinvolga
quella degli ideali tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta;
giudizio, il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche.
Quel che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo propriamente
detto coinvolge, è la linea dei riformatori religioso-politici italiani,
linea unitaria che è insieme antiprotestante e in posizione eretica
rispetto al cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile,
al tentativo di inveramento idealistico del marxismo. AI solito, si
risponderà che nessuno pretende realmente affermare che la caduta del
fascismo coincida con il crollo degli ideali tradizionali; ma questo
significa soltanto che nessuno ha potuto seriamente dimostrare che
l’affermazione di tali ideali sia legata direttamente alla politica
fascista; non che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso
livello, non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la
sua caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del nuovo
mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato
come un fascista più o meno consapevole, o quasi sempre inconscio; e
«fascismo» è fatto sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare
a simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono ben
certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto che la formula
di resistenza contro la trascendenza facilmente si cangia a livello inferiore,
in quella di «spirito di repressività. Per il significato di quanto ho
detto, valga un esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia
trovato un sostegno valido in quella parte del mondo cattolico che più
era avversa al modernismo; e in realtà, si può ben ammettere che
un'illusione vi fu, in molti dei suoi componenti; obbedienti a quella
visione cattolica dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una
condanna globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in
ciò la critica del modernismo, e che effettivamente e prevalente (come
dimenticare che diede anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro
il fascismo combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e
il socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,
lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se questo è
vero, occorre però aggiungere che si trattò, per costoro, di
un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo caddero troppi (si pensi
a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo
sarebbe in gran parte la loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto
facile: quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che
abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega come quasi
nessuna figura di rilievo della storia italiana del nostro secolo non si
sia, per un momento almeno, illusa su di lu (anche Salvemini e Gramsci,
al tempo dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece
l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può essere
considerato come il più coerente dei modernisti (in polemica con altri
modernisti per questa sua coerenza)? sia stata intellettualmente
obbligata. È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come
interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di qualsiasi
parte, e invece scusabile perché motivata da illusioni quella degli
assertori dello spirito di modernità. E proprio contro quest'idea,
solidificatasi ormai come abitudine mentale, che il presente discorso è
diretto. Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità
sia sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è
intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa conferisce un
significato magico, di parola-forza, al termine rivoluzione; oggi quasi
sempre, come perfettamente osserva Monnerot, «la parola “rivoluzione” è
presa en donne part; quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca. Re:
Gentile e Gramsci, alcune premesse sono necessarie. In che senso dico —
prego intendere quanto scrivo alla lettera — che il pensiero di Gentile
rappresenta una svolta di capitale importanza nella storia della
filosofia, in un senso la più importante del Novecento, e lo dico senza
essere per nulla gentiliano? In quello che ha portato
all'estremo non soltanto, come normalmente si dice, l’idealismo o la sua
forma soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire,
chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si trovano,
portate all'estremo, tutte le possibili linee del pensiero
antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, il rapporto di necessità che
intercorre tra la coerenza rigorosa della filosofia del divenire, e la
più radicale negazione della metafisica. Parlare perciò di una svolta
gentiliana della storia della filosofia» significa questo: la sua
considerazione ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero
antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni per cui
non possono venire affermate dopo l’attualismo. Con l'aggiunta: il suo
pensiero si svolge interamente entro la filosofia del primato del
divenire; perciò, se si pensa concluda in uno scacco, permette anche di
definire, facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea
in cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in altre
parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che condiziona, sia
che si parli di successo come di scacco. Che la mia persuasione sia la
seconda, non ha ora importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile,
dopo un lungo periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero appartenga
al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime opere che, per la loro
data, possono essere considerate come i due ultimi grandi libri di
filosofia apparsi nell'Ottocento, e in cui tutto il suo pensiero
successivo si trova già virtualmente precontenuto, Rosmini e GIOBERTI
e La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta come la sua
filosofia, suscettibile di essere definita, se vista nell'angolo visuale
della prima, come «la riforma cattolica giobertiana resa coerente
attraverso lo hegelismo, rappresenti il punto ultimo, soltanto ora
raggiunto da coloro che si definiscono nuovi teologi, del modernismo
religioso. Per quel che riguarda la seconda ho già accennato — ma devo
confessare che il mio pensiero al riguardo non era ancora, al tempo in
cui ne scrissi, sufficientemente chiaro — alla sua definizione come punto
ultimo a cui deve giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma
della filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo rispetto
a cui il marxismo non si trova nella possibilità di rispondere.
Si dirà che, la sua fortuna anche qui in Italia — e si era
trattato, del resto, di un successo che aveva avuto scarsa eco oltre
frontiera — è andata costantemente declinando rispetto a quella di
Heidegger, e che l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo,
questo, di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività.
È vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della storia
della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche, coincide
singolarmente con quella proposta da Gentile, ma con segno rovesciato: è,
cioè, letta come processo verso il nichilismo. In questo senso, penso sia
possibile dire che la filosofia di Heidegger è la verità della filosofia
di Gentile, quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la
filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di
Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua eccezionale
importanza attuale; è attraverso il suo studio che possiamo renderci
conto della profondità della crisi del pensiero teologico-metafisico e
delle sue radici. D'altra parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci)
nello hegelo- marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs.
Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di Heidegger come versione
del suo pensiero in forma di filosofia speculativa; per sottrarsi deve
tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione della sua
opera principale Storia e coscienza di classe, al materialismo
dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero nella cui
critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei convergenti punti di
partenza dell’ attualismo. Tratterò in questa occasione della questione
seguente: se la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto
ultimo dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia
della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo per
affrontarla in una posizione privilegiata in ragione dell’esistenza
dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello Spirito», Gramsci. Uso
il termine filosofia dello spirito, invece di altre sigle — neoidealismo,
neohegelismo, eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle
negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che genericamente
viene detta idealistica, e che è la prima filosofia dopo Marx che sia
sorta nel mondo facendo inizialmente i conti col marxismo, non può
infatti venir caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello
Spirito»: contro la metafisica per la negazione dell’intuizione
intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione alla
metafisica, che lo costringe a esprimersi come naturalismo. In questo
senso generale la filosofia dello spirito abbraccia così l’opera di Croce
come quella di Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo
del Marx filosofo, CROCE e GENTILE rifiutano così Platone come
Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo
naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo assunto,
rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo del neomarxismo in
Italia dopo la «filosofia dello Spirito» non può quindi venir inteso come
un accidente, dato che è la riapertura di un problema interno al suo
processo di costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol
essere la riaffermazione di Marx dopo la filosofia dello spirito,
correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si rendeva
necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di vittoria sul marxismo,
all’interno della riforma dello hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo
al massimo rigore critico, liberandolo da tutte le incrostazioni
positivistico-naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche
o neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico, dato che
la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova della sua verità
filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno per lui tutt'uno. Si può
enunciare perciò il suo problema nei termini seguenti: come la
rivoluzione mondiale, perché totale, è possibile? È noto come su
questo neomarxismo circolino due giudizi opposti. Per il primo sarebbe la
forma più rigorosa che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica
che possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al
successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo sarebbe una
sorta di marxismo diminuito, accompagnante il processo di dissoluzione
della rivoluzione come sua involuzione borghese, condizione
dell’affermarsi della nuova classe borghese quale che possa essere il
successo del suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze
estreme da un comunista non secondo a nessuno per integrità morale,
BORDGIA (si veda). Entrambe le vedute sono vere; ma quel che può sembrare
paradossale e curioso (ma si dimostrerà come non lo sia) è che la prima è
vera per il non marxista e non comunista, la seconda per i marxisti
e comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il mio
punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il marxismo
contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la sola forma in cui esso
può riaffermarsi dopo la «filosofia dello Spirito»; questa posizione non
può però venire assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà
storica a cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel PRINCIPIO
SPERANZA. Ma, d’altra parte, è inutile cercare dopo Gramsci un miglior»
marxismo, a cui corrisponda una più adeguata politica. Ricordiamo
per brevissimo accenno le tesi del marxismo antigramsciano. Esse hanno a
punto di partenza i giudizi di chi prende posto nella storia
contemporanea come il più intransigente moralista in nome del marxismo
letterale e del comunismo nella sua versione ideale, BORDIGA (si veda),
e hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno dei
migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti, quello del
marxista eterodosso Riechers. Riechers, che pure non mostra di avere una
conoscenza approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di
accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del marxismo a quella di
Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano teorico critica Gramsci per aver
sostituito al materialismo marxiano un idealismo soggettivo di stampo
kantiano-fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe sul
piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di sinistra. Scrive,
infatti: «Questi fascisti di sinistra la maggior parte dei quali confluì
dopo la fine del dominio fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno
soltanto da sostituire l'attributo fascista con quello di
democratico, socialista o comunista, per scoprire negli scritti di
Gramsci una posizione analoga alla loro. Tolto il tono polemico, la
frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di Gramsci
appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo, di cui fascismo e
postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso
orizzonte; e lo stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio
degli antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un
errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno studio
approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del Riechers, portandola
a un altro significato che coinvolge la critica anche dell’eterodossia
marxista. La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi
la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi stupefacente. Soltanto
la discussione del tema Gentile-Gramsci ci mette in grado di formulare
adeguatamente le categorie interpretative della storia
contemporanea. Con la sua discussione giungiamo al momento
conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione transpolitica
della storia contemporanea, cioè quella che privilegia, in detta storia,
come l’essenziale, il momento filosofico; o che è attenta al parallelismo
tra filosofia e politica come tratto nuovo che la
specifica. Possiamo parlare in questo senso di un paradigma
italiano, decisivo per una lettura veramente adeguata di detta storia
(dato che Gentile e Gramsci possono trovare spiegazioni soltanto nella
storia del pensiero italiano). Si tratta, del resto, di paradossi
soltanto apparenti. Il carattere che accomuna le filosofie di Marx e di
Gentile è di essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel
senso della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il
più rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe le
filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di riaffermare il
marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione rigorosa della
questione. Ma perché ho parlato altresì delle categorie
interpretative della storia contemporanea, e della possibilità di
graduare, nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento
di verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale
problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia contemporanea non è altro
che il passaggio alla realtà di queste due filosofie della prassi. La
rivoluzione marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro,
l’idea di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione
russa, in quanto adeguata a paesi superiori per civiltà e cultura, o per
essere più esatti, per grado di modernizzazione. Non a caso questa idea
maturò soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di
riforma dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la
guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la filosofia di
Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino alla morte (ma la lotta
fino alla morte caratterizza pure le forme divergenti sorte
sull’orizzonte del marxleninismo). Poniamo ora si riesca a dimostrare —
ed è l’assunto che mi propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è
più marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo che la
politica che esso promuove prende posto in una rivoluzione ulteriore alla
marxleninista, non già, cosa che Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui
esplicitamente lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché
il modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi
occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che sorge è se,
nonostante l'opposizione mortale, non si debba vedere una continuità tra
il periodo fascista e il postfascista, come continuità di un processo di
dissoluzione. In termini filosofici, se la filosofia del primato del
divenire, dopo aver elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta
al suo punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di
processo verso il nichilismo. Trasportiamo la considerazione sul piano
mondiale. Se l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della
filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia, nel
senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha trasformato il marxismo in
ideologia). Perciò la rivoluzione che esso ha promosso ha dato luogo alla
forma estrema dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico,
con cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo
sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la forma
filosoficamente più rigorosa, non realizza la rivoluzione, ma il suo
opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve però
produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si osserva il
fatto che la contraddizione della filosofia della prassi, come termine
ultimo della filosofia del primato del divenire, non può esplicarsi che
storicamente e praticamente. È In dipendenza delle
considerazioni sinora svolte, la trattazione presente deve articolarsi in
tre punti. Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx, perché la
filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di ritraduzione del
marxismo in forma di filosofia speculativa. Ossia, egli pensa di aver
compreso il segreto di CROCE. Questi aveva presentato l’avversario contro cui
muoveva, ora come il positivismo, ora come la filosofia
teologizzante, o anzi, come il genere filosofia senz'altro (con la
proposta della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora
come l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il
marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di vincerlo.
Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo emergerebbe nella sua forma
più rigorosa. In questa asserzione c’è del vero nel senso che la
filosofia di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia
speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la
filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si può
dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque, nel suo lavoro di
«ritraduzione storicizzante» non incontra Marx, ma invece Gentile, pur
credendo di incontrare Marx. Questa tesi può avere la sua riprova nel
fatto che le novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto
a Lenin — novità che nessuno può negare — non possono trovare
spiegazione come sviluppo del marxismo o del marxleninismo, mentre invece
si accordano con la forma gentiliana della filosofia della prassi
(rappresentano il cedimento rispetto a essa. Come può dunque Gramsci
essersi illuso di aver ritrovato il marxismo, se anche un marxismo
diverso dal marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera,
anche dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre
distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana, dall’interpretazione
che lo stesso Gentile ne aveva dato e dalla politica con cui l’aveva
connessa. Effettivamente anche un’altra ne è possibile, quella svolta da
Gramsci. Si tratta quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e
più precisamente nella veduta attualista della storia della
filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il
risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al
rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione che si
rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione che si rovescia
in dissoluzione è: «contestazione. Non è un caso che Gramsci sia forse
l’unico filosofo marxista la cui fama abbia resistito alla contestazione
nelle sue forme anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata. Se
dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la filosofia del Croce
rimane una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia di trascendenza
e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, ha poi
storicamente torto nell’identificare col marxismo la filosofia della
prassi che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea
dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario sempre presente
alla mente di Croce, anche se ossessione quasi sempre sottaciuta; perché
la tentazione rivoluzionario- marxista era stata accesa in Croce da
Labriola, e poi criticata senza troppa difficoltà in questa forma
labrioliana, e i motivi della critica rivoluzionaria si erano rovesciati
nella critica della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto,
con Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo
Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al moralista che
nella prima gioventù gli aveva fornito un purismo etico, giovevole come un’armatura,
onde egli mi rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato
dall’associazionismo, dallo psicologismo e dall’evoluzionismo e
dall’utilitarismo che stava sempre nel fondo di questi tentativi, ma al
filosofo che aveva sentito l’importanza della distinzione; e affermato
una linea che porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia
del momento economico alla hegeliana riconciliazione con la realtà.
Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata, ma che la
corrispondenza rende chiara — del Gentile de La filosofia di Marx è di
portarlo al suo pensiero attraverso una considerazione del marxismo più
profonda di quella di Labriola, condizionante una critica più rigorosa di
quella di Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda
di quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si
atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle esigenze
spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da spiegare perché
questo tentativo doveva andare fallito; separando Croce le accettate
critica dell’intuito metafisico e affermazione del formalismo — che
rendono possibile anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un
tempo dalla metafisica e dal naturalismo — dalla filosofia della
prassi. In quegli anni Labriola e Gentile si contendono CROCE, senza
riuscire completamente né l’uno né l’altro nel loro intento; e senza
intendere appieno, né l’uno né l’altro, le ragioni della
resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se
rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce e di
Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua ritraduzione, avrebbe dovuto
ritrovare Gentile, o ripensare in forma attualistica il marxismo, dato
che la filosofia di Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia
speculativa, non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile.
Avrebbe dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo
detto non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. Potrebbe
infatti darsi che Gramsci avesse condotto un parallelo tra lo storicismo
marxiano e il crociano, mostrando la superiorità del primo, e avesse poi
voluto far coincidere questa ricerca con la dimostrazione che il
ripensamento italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere
con la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero
essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della seconda non
inciderebbe sulla valutazione della prima. Non è tuttavia così, e
realmente quel che Gramsci chiama marxismo è il risultato coerente della
ritraduzione di Croce, così coerente da ricostruire dopo il
crocianesimo l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al
testo originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La
prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana dello
storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la formulazione nuova
che in Gramsci trova il concetto marxiano di società civile, con le sue
implicazioni, tra cui quella dell'abbandono dell’economismo e del
materialismo marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola,
# inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire che
l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece recepito da
Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il blocco storico. La quinta
è il giudizio sulla funzione capitale accordata alla filosofia italiana
nel processo di modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza
da Lenin rispetto alla nozione di egemonia. Per gli ultimi
cinque di questi punti, se ne trova la miglior conferma in uno scritto
che Norberto Bobbio ha dedicato a Gramsci e la concezione della società
civile e che è il più penetrante nella linea, per dir così, gramsciano-azionista, che
è anche accettata, sostanzialmente, in quanto riforma del marxismo e del
leninismo che è insieme loro sviluppo, dal comunismo occidentale. Da uno
studioso di cui è nota la scarsissima simpatia per Gentile e che non pone
infatti la domanda essenziale: se quella che pur chiama «la
profonda innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione
marxista possa essere considerata uno sviluppo del pensiero marxiano, o
risulti invece dall’accettazione della critica gentiliana, inconsapevole,
ma necessaria, dato l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il
pensiero speculativo di Croce. È piccante osservare come le
precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano più avverso a
Gentile rappresentino le tappe per la dimostrazione rigorosa del
cedimento in Gramsci della filosofia della prassi marxiana rispetto alla
gentiliana. Cominciamo con l’osservare come la critica
gramsciana dello storicismo crociano coincida puntualmente con
quella svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al
divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che questa
sostituzione coincide con quella del divenire reale con un divenire
dipinto; che la «non definitività» della filosofia ricopre di fatto la definitività
della società liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in
realtà chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per
usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente sostituito
all’apologetica diretta dell'ordine esistente un’apologetica indiretta.
Che lo storicismo di CROCE, come storicismo separato dalla filosofia
della prassi e dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo
chiuso al futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui
Gentile conclude definitivamente i suoi conti con CROCE, Storicismo
e Storicismo, riscontriamo una corrispondenza perfetta. Gentile parla
dello storicismo crociano come appoggiato a fondamenta semplicemente
dipinte, perché all’interno di un realismo e di un naturalismo
presupposti; così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui
«il futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque possibile
futuro, è logicamente un passato rispetto al pensiero che lo raffigura
nel sistema necessario della logica. Passiamo ora all’innovazione profonda
che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha
in questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società
civile vista come appartenente non al momento della struttura, ma a
quello della sovrastruttura; cioè per Marx la società civile, intesa come
«il vero focolare, il teatro di ogni storia», comprende secondo la
definizione dell’Ideologia tedesca, poi ripresa nella Critica
dell’economia politica, tutto il complesso delle relazioni materiali fra
gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle
forze produttive.& Affermazioni che sono la premessa della
celebre definizione della Critica dell'economia politica. L'insieme di questi
rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società,
ossia la base reale sulla quale si eleva una struttura giuridica e
politica e alla quale corrispondono forze determinanti della coscienza
sociale. Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca
tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della
struttura, con la teoria materialistica del riflesso (le idee come
riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per «società civile» tutto
il complesso delle relazioni ideologico- culturali della vita spirituale,
si rimette la dialettica sulla testa, sia pure in modo diverso da quello
che aveva fatto Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia
economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia della filosofia.
È quel che attesta il passo gramsciano così frequentemente citato,
secondo cui «la filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo
movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto
tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma
protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è anche una
politica e una politica che è anche filosofia».& Detto questo, le
altre novità gramsciane che BOBBIO mette in luce con tanta precisione non
possono servire ad altro che a illuminare meglio la coincidenza tra il
distacco di Gramsci da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la
sua, certamente non voluta né consapevole, subordinazione
all’attualismo. Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero
di GENTILE da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana sul
concetto di storia della filosofia, in cui la storia, in obbedienza, per
così dire, al mondo rimesso sulla testa nel giovanile libro su Marx,
viene risolta nella storia della filosofia. Con la conseguenza, per
Gramsci, che il concetto «borghese» di «modernità» si sostituisce alla
versione rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla
base della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente gramsciano
tra la borghesia progressiva e il comunismo, quell’incontro così
severamente giudicato da BORDIGA (si veda), ma non da Bordiga
soltanto. La novità rispetto all’idea della società civile è
correlativa all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure BOBBIO
acutamente avverte, senza però osservare che avviene esattamente nei
termini che Gentile auspicava. Per LABRIOLA la tesi che «le idee non
nascono dal cielo» era equivalente alla loro spiegazione a partire dalla
struttura economica, secondo la notissima sua frase per cui la
struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i modi di
regolazione e di soggezione degli uomini verso gli uomini (il diritto, la
morale, lo stato), 1 secondo luogo e per indiretto gli obiettivi della
fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della
scienza». Le idee non nascono dal cielo neanche per Gentile e per
Gramsci; ma le concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni
una funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un
potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era appunto il
senso del congedo del materialismo marxiano — dell’ antDibring in nome
dell’elemento più positivo e rigorosamente critico delle tesi — proposto
dal Gentile anti-Labriola. La concezione gramsciana della società civile
porta alla critica dell’economismo a cui consegue quella del
materialismo. Marxismo dissociato da materialismo e da economismo; ma non
è una definizione che vale esattamente per l’attualismo? Con un paradosso
soltanto apparente si potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a
Croce da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato
Gentile. Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di blocco
storico, in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti gramsciani
siano scarsissimi, si suol riconoscere il nucleo fondamentale» del
gramscismo. Ebbene, in due di questi pochi passi si dice che nel «blocco
storico» le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma,
affermazione a cui Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che
la distinzione di forma e di contenuto è meramente didascalica,
perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza
forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze
materiali; così che l’unità-distinzione tra la struttura e la
sovrastruttura viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito.
Frasi di cui è inutile sottolineare l'accento
attualistico. Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana
sul primato italiano nella promozione della rivoluzione comunista a
rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del popolo italiano è nella
ripresa «del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella forma più
moderna e avanzata» non in quella nazionalistica rivolta al passato. Quanto
a dire è nella continuazione, nella forma che si è detto, della
filosofia dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più
alto sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla
sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere mondiale della
rivoluzione. Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi
al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di società civile ha
tra l’altro la funzione di permettere, attraverso una giustificazione
filosofica, la fondazione in linea di diritto della novità del leninismo
rispetto a Marx: la nozione di egemonia, ossia l’idea del partito
come strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva
parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in ciò oltre al
marxismo nella direzione volontaristica e partitica; per Gramsci bisogna
subordinare questa direzione politica alla direzione culturale. Si
potrebbe dire che il progresso politico di Lenin su Marx importa
filosoficamente per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che
può trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima
alla seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto che
meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione. Anche se non si
possono trovare citazioni precise, credo si possa considerare pensiero
centrale di Gramsci quello che la riforma teorica del marxismo
conseguente alla riforma italiana del pensiero classico tedesco rende
anche possibile la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti —
non sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si va
fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella di Stalin e
quella di Trockij. Perché si può dire che in entrambe egli dovesse vedere
la conseguenza del non risolto problema leninista; nello stalinismo
prendeva la forma della subordinazione della teoria alla pratica, con la
conseguenza della trasformazione del marxismo in un’ideologia di
potere che doveva, in definitiva, portare al
social-imperialismo. Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non
troncare il processo rivoluzionario non poteva trovare
soddisfazione sino a che non si fosse elaborata una filosofia
rivoluzionaria con significato veramente mondiale. La
priorità della direzione politica poteva cioè portare alla formazione di
una volontà collettiva, nel senso di volontà universale, solo a
condizione che fosse subordinata a una concezione del mondo, non più
usata strumentalmente, ma valida perché vera, tale da imporsi agli
intellettuali. Ciò aveva portato alla delusione degli stessi
intellettuali marxisti occidentali rispetto al comunismo russo, e alla
loro solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici
nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse fenomeno russo e
non inizio della rivoluzione mondiale. Come reazione di Gramsci a questa
impressione deve essere inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione
del popolo italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere
dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente critica del
marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr ewig [per sempre] a cui
egli si accinge dopo la sconfitta politica e a cui lavora negli anni del
carcere. Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole,
alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso
sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può confessare, e che
non può confessare perché è insuperabile. Ora, soltanto #/ necessario
cedimento di Gramsci rispetto a Gentile ci permette di definire questa
insuperabilità. Davanti alla filosofia dello spirito italiana non ci sono
per il marxismo filosofico che due vie: o respingere assolutamente
tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o trasformarsi nel senso
gramsciano. Finché si porti l’attenzione sul solo Croce, la tesi del
marxismo di Gramsci può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà,
essere sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere
sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di
soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la forma più
liberale che il marxismo sia suscettibile di assumere. Le cose cambiano
completamente, come si è visto, quando si ponga il problema del rapporto
con l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile
perché sia marxismo che attualismo si presentano come l’esito della
filosofia classica tedesca. Bisognerebbe dimostrare che l’attualismo è
un’involuzione, ma dove ravvisare l'elemento involgente? La
considerazione del modo con cui Gentile incontra il punto nodale del
pensiero marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso
sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo,
nell’ideologia italiana, eccetera; tutti i discorsi del cattaneismo oggi
corrente. A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche
definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano. Ha ragione
quando afferma che il neomarxismo di Gramsci non è effettivamente più
marxismo; non però perché contagiato da influenze che avrebbe subito, in
qualche modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il
modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si deve invece
dire che rappresenta esattamente quel che il marxismo deve diventare
quando vuol prendere posizione rispetto alla «filosofia dello Spirito»
italiana. Meglio ancora: come già si è visto, l’originalità
incontestabile del pensiero gramsciano, quel che ne fa il più notevole
tra i commenti filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che,
richiamandosi a LABRIOLA (si veda), ha posto il problema
dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché la rivoluzione non
venga riassorbita nel vecchio mondo; da ciò l’eccezionale
importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica di sinistra
non può procedere oltre dopo il rilievo del nonmarxismo di Gramsci: la
sua verità rispetto a giudizi di fatto abbisogna di una diversa
giustificazione teorica. Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat
come ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio,
le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che riguarda le
conseguenze pratico-politiche del gramscismo. Non sa tuttavia indicare la
forma di marxismo critico che possa venir sostituita alla posizione di
GRAMSCI; ed è dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione
nel senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare tutte
le forme in cui sinora si è realizzata o si propone. Quanto si è detto
porta al non piccolo risultato del riconoscimento di un’impotenza non
superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile del
marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto nello scacco
dell’attualismo, da intendere non come scacco- fallimento, ma come
scacco-occasione di una svolta nella storia del pensiero. Ogni altra
critica appare esterna rispetto a questa: che mostra come, percorrendo lo
svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non
si possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale portata
sia questa critica ci accorgiamo considerando come quella che si potrebbe
chiamare «prigionia gramsciana del marxismo nell’attualismo» porti a
rovesciare la rivoluzione, nel senso marxiano del termine, in
dissoluzione. Non è senza significato che oggi si affacci l’idea che
la contestazione (definibile appunto come rovesciamento della rivoluzione
in dissoluzione) abbia compiuto un’opera selettiva tra i teorici del
marxismo, risparmiando il solo Gramsci come elaboratore dell’unica
strategia capace di render possibile il passaggio al comunismo nei
Paesi occidentali. Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di
GENTILE e di GRAMSCI? Analizzare così il particolare fascismo di GENTILE
come il comunismo di Gramsci può portare a una visione della storia
contemporanea diversa dalle abituali. Nelle relazioni che ho ascoltato mi
è sembrato di sentire una certa reticenza nei riguardi del fascismo di
Gentile, quasi si trattasse di un tema su cui fosse preferibile non
insistere. Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere
nella funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini,
nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque, data la prossimità
di posizioni filosofiche, il fascismo di Gentile e l’antifascismo di
Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità
politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al riscontro
testuale. Tali possibilità sono due, la risorgimentale” e la
rivoluzionaria. La prima si imparenta alla sua interpretazione in termini
di «filosofia cristiana». La grande cesura nella storia sarebbe
rappresentata dal cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo
al soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,
in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da questo e in
relazione alla sua critica del materialismo marxiano, da lui associato
con l’idea rivoluzionaria, GENTILE può pensare a un Marx oltrepassato in
GIOBERTI (si veda), e all’idea di rivoluzione oltrepassata in quella di
Risorgimento, elevata a vera e propria categoria filosofica. Risorgimento
che viene conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale
alle posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti
al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e amoralismo, spirito
rivoluzionario, negazione della tradizione. Da ciò lo sganciamento totale
del Risorgimento dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione
francese e la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di
vera restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non come
semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa e affinamento di una
tradizione, dopo che essa era stata messa in crisi, così che potremmo
complessivamente dire che per Gentile spirito risorgimentale ha il
significato di riaffermata religione di SPIRITO (si veda), come
spiritualismo purificato da ogni traccia di naturalismo e di
soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo per lui, per così
dire, una forma di naturalismo iperuranico. Se separiamo però l’attualismo
dal suo carattere «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo
autore gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per
quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia
(particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione pisana L'esperienza
pura e la realtà storica). Ossia: tutte le concezioni del mondo prima
dell’attualismo si sono mosse nell'orizzonte di una realtà e di una
verità presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di
un processo di erosione della concezione oggettivistica e trascendentistica,
e con ciò prepara la «maturità dei tempi»; ciò non toglie però il salto
tra esse, e il rigoroso immanentismo. L’attualismo non è soltanto il
punto d’arrivo di un processo millenario, ma una rivoluzione; e il
passo ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi vedesse
questo; la rivoluzione filosofica attualista, perfezionamento del
marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione comunista, negatrice
delle formulazioni riformistiche o evoluzionistiche del
marxismo. Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da
Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la domanda inversa:
l’interpretazione in termini di attualismo, di soggettivistica filosofia
della prassi, non porta al rovesciamento dell’idea di rivoluzione in
quella di dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto
per indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo non può
non venire in mente la diagnosi di Nietzsche: l'avventura della
rivoluzione a contatto con l’attualismo può servire a mostrare che l’idea
rivoluzionaria non riesce a sormontare il nichilismo. È qui che si
manifesta massimamente quell’enorme potere di negatività, che è il
proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che
l’attualismo è oggi attuale, o torna a esserlo, proprio per questo
motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette in primo piano la
figura dell’intellettuale; e si sa quanta importanza la sua definizione
abbia assunto per GRAMSCI. Ora, si consideri: l'influenza gramsciana
nell’ultimo quarto del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a
quella della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di
intellettuale che oggi prevalgono sono quello del dissacratore
o demistificatore e quello dell’esperto o del tecnico; quale
rapporto hanno con la figura gramsciana dell’intellettuale organico?
Rispondo che sono il frutto della sua decomposizione. All’intellettuale
era assegnata da GRAMSCI una funzione un po’ simile a quella che
Marx assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso,
libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in funzionario
dell’industria culturale, dipendente da una classe di potere che ha
bisogno così dell’intellettuale dissacratore (quale custode del
nichilismo) come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non
è del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si
configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte l’economismo,
l'opposizione diventerà quella tra intellettuali tradizionali e
intellettuali progressivi. Come storicisti, questi non potranno più
parlare in nome di un socialismo utopistico; neppure però di un
socialismo scientifico, dato l’abbandono dell’aspetto
materialistico-economicistico, oggettivistico, del marxismo. Semplicemente
in nome della storia come processo di
autotrascendimento. L’interpretazione dell’attualismo in chiave
illuministica porterà a una sorta d’illuminismo dopo il marxismo,
dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la conseguenza che
l’intellettuale progressivo prenderà la figura dell’intellettuale
dissacratore: del devalorizzatore dei valori finora considerati come
supremi. Quella rivoluzione per erosione, e non per rottura brusca, che è
poi la «guerra di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica
rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una
dissoluzione entro l'ordine dato, che viene privato dei valori ideali che
lo fondano, così che viene chiusa la via a una loro riaffermazione
purificata. GRAMSCI, naturalmente, non ha il minimo sospetto di questo
possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che avrebbe detestato
gli intellettuali profittatori dei connubi tra marxismo, psicanalisi di
sinistra e decadentismo sadico. Ci si può render conto di questa assenza
di previsione, se si pensa alle circostanze politiche che furono
l’occasione della sua riflessione filosofica. In GRAMSCI ordinovista c’è
la persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la
rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto attuarsi in
Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto imprevisto del
fascismo che attrae a sé il consenso della maggior parte di questa
cultura; in diversi gradi, ma praticamente è sufficiente il giudizio
della sua minore pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo.
Per il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare
all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso l’unica
via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo coerente del suo motivo
più originale deve portarla all'incontro col marxismo autentico, o, per
dir meglio, alla sua scoperta. SPIRITO dice che GENTILE è il
creatore del fascismo. Si tratta di una frase forse un po’ a punta, ma
che è vera, quando venga bene intesa. Senza la cultura gentiliana il
fascismo non avrebbe potuto prender forma. Ebbene, si deve dire che GRAMSCI
e il creatore dell’antifascismo, quando lo si distingua
dall’opposizione mossa in nome del prefascismo (quella di CROCE,
per esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del
fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi naturale che,
trasportato in una situazione in cui il fascismo non sussiste più,
l’antifascismo non possa esplicarsi che come fenomeno dissolutivo. Per
esprimere tutto in una rapida formula, direi che, visti nella loro radice
filosofica, fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui
quella filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel
farsi mondo. Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo
necessario che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della
rivoluzione totale. Il pensiero di GRAMSCI, in quanto vuole assegnare al
termine materialismo un significato soltanto metaforico (al di là del
mondo storico non c’è nulla), ne è la completa riprova: la funzione
primaria data agli intellettuali come all'elemento attivo e unificante e
al partito moderno Principe come intellettuale collettivo porta in realtà
alla captazione borghese-illuministico-modernista. Osserviamo
infatti. In questa concezione storicistica gli intellettuali possono
operare soltanto come dissolutori delle verità eterne, svolgenti perciò
una critica che include quella dell'aspetto escatologico del marxismo. Il
momento negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal
positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente, dei
valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione dissolutiva che
non distrugge le classi, ma porta al dominio di una nuova classe, che
tratta ogni idea come strumento di potere. Il processo è quindi da uno
stadio all’altro, più razionalmente organizzato, del dominio di
classe. Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta
attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte negli ultimi
anni, così su GRAMSCI come su GENTILE. Così, è stato giustamente
osservato da Riechers come il socialismo si riduca fondamentalmente per GRAMSCI
a un modo di produzione capitalistica separato dalla figura
dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è controllato dagl’intellettuali
organici (la nuova classe); e che per lui sembra esistere un’economia
indifferente alle classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova
impedito da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione
è scissione completa col vecchio mondo, e tutto il suo lavoro è
svolto a definire l’idea, in questo significato scissionistico; di fatto,
questa purificata idea rivoluzionaria è destinata a rovesciarsi nel senso
che si è detto. [sal Si potrebbe dire che negli atteggiamenti storico-politici
opposti di GENTILE e di GRAMSCI si conclude la polemica tra MAZZINI e
Marx. Si conclude però nel modo più singolare, estremamente istruttivo
così per il pensiero filosofico come per il politico. Marx aveva
stabilito la solidarietà tra filosofia della prassi, rivoluzione totale e
materialismo; l’approfondimento gentiliano della filosofia della
prassi porta alla cancellazione del materialismo; GRAMSCI tenta
vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale dopo la
riforma gentiliana della filosofia della prassi. CROCE pensa che nelle
discussioni italiane il marxismo teorico avesse subito la sua critica
decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero italiano di
portarsi al livello più alto del pensiero mondiale. È un giudizio da
rettificare piuttosto che da escludere; a parte la consapevolezza che
egli stesso o altri abbiano potuto averne, il protagonista della grande e
insolubile crisi del marxismo teorico è GENTILE. E la crisi avviene
effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile tra
l’opera rigorosamente teorica di GRAMSCI e quella di BORDIGA (si veda),
che è costretta al marxismo letterale, e non può raggiungere una
formulazione teorica seria, proprio perché non ha affrontato Gentile, ma
che è nonostante ciò sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo
di GRAMSCI. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica,
all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea marxiana
della rivoluzione totale, autocritica che si esprime nella forma di
rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di GRAMSCI ne è la decisiva
conferma. Se è vera la prospettiva che ho enunciato nel mio libro su I/
problema dell’ateismo, secondo cui il razionalismo, inteso come negazione
senza prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della
rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In ciò il
senso della svolta decisiva che la filosofia di GENTILE
rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords:
saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi,
Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e del Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Noferi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della setta di Firenze – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano.
Firenze, Toscana. Important Italian philosopher, especially influential at what
Grice called Italy’s Oxford, i. e. Firenze“Palla Strozzi was more a mentor than
a philosopher, but I would consider him both a Grecian and Griceian in spirit.”
alla Strozzi Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio dell'Adorazione dei Magi di Gentile da
Fabriano. Grazie alla ricchezza accumulata nelle ultime generazioni dalla sua
famiglia, il padre puo far istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse
e all'intelligenza, divenne di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini.
Ricco e colto, commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella
Basilica di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto
irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la
sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a
Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da
Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari
e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione
strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di
fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con
uomini chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a
lui solo due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato
o lo scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura,
e a capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile,
Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima
l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate,
cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo
comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della
“liberta”. In questo e diverso d’Albizi.
Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che
avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei
gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli
avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito
anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi
conquistare. Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di
filosofi, nel periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali
più notevoli della penisola italiana, per certi risultati artistici più
importante della stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due
fiorentini come Giotto o Donatello. Lascia la sua raccolta di libri rari,
arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno padovano, al monastero di
Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso il Prato della Valle. Sepolto
nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere dello Speron d'oro nastrino
per uniforme ordinaria cavaliere dello speron d'oro Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di
Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to
philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He
loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in
Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather philosophers,
since what’s the good of knowing the classics if you cannot converse? He never
touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! Strozzi-Noferi. Noferi. Keywords:
“Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very Italian in an
exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi
Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Nola: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’urina – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. Crotone, Calabria. Gice: “At Oxford, we are proud of our philosophy,
at Bologna, and in Italy in general, they are proud of their physicians, as
they call them – students of nature!”. Di origini napoletane e zio di Molisi, insegna per lungo
tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto per suo saggio, “Quod
sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem speciei adversus
Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli, Elementi
dell'arte di ragionare in medicina” (Napoli, Gabinetto); S. Renzi, “Storia della medicina” (Napoli,
Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina,
Roma); Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio
storico di Crotone. 1, quem ad modum
Ciuitates tunc optime gubernātur, (vt inquit Platoin lib. de Philo. cùm iniustidant
pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor, &
scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, Auctore. Med. Doctore scientias ac
artes perfetè, et breui cuns et isaffequiliceret: at queitaetia muerè scientes,
acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso contradicentibus statuta nullafit,
no immeritòe inoptimosuiros, arbitror, impurissimum quen queac in eruditum iuuenem
inuehiandere et admodum paucos vere scientes, artifices quereperiri, cum&
passim scribere omnibus liceat, & unicuique sententiam ferre apud vulgus.
Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam fit quibusdam, easdem docere artes, ac
publicè profiter i , qui uel omnino inertes fint, aut parumeas intelligant: cùm
ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non est fidgeipfierrent, & alios
aberrarecogant. Quandoquidem oporteret (utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui
aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere, fix OVOD SANORVM
AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et bique
fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam
quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria,
ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint,
pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa
Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent.
Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores
patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos
animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut
discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ
fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint.
Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem,
nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector,
liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon
foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum
Plusquam commentatoris, tum etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz
whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile, longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM
ægrorumý; corp. biqueconsentire, e nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto
ses utipfeait. quod sita fieretnequehic incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse
taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus
pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus male eruditusac impulsus,
eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas. Quas omnes
passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor, quod
huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque reliquiin
posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. virisindies utilia, Artisg; medicæ apprimè
necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim dicam, universam pene
medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem, uteaquæa doctissimoac
Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta sunttuear,
sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et reliquaomniaque
hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et rationibus comprobata,
ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis etiam aliorum do
tiffimorum, si quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea; primus omnium quosuiderim,
propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo iudicio, ueritate mattigerint,
et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores calumniasset, quorumnca
quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret cunéta quaibitemerenarrat
cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam desedimentosentit,
quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et Gal. sententia
demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag. conscriptos,
manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis modă.
Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords:
Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig,
brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ –
universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e
Nola” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Noto: all’isola -- la ragione conversazionale
e l’implicatura conversazionale di IVPITER – filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pollina).
Filosofo italiano.
Pollina, Palermo, Sicilia. Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter,
who DIED there – are obsessed with God – Noto wrote his thesis on that,
evidence and lack thereof for God – the part concerining the refutation for
those who deny evidence is fascinating! And typically of an Italian
philosopher, he narrows down his research to ‘secolo XIII,’ where we at England
and Oxford hardly existed!”Fa gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e
al Convento del Bosco ai Frati. Vestì
il saio francescano a Fucecchio e professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai
Frati, il Convento di San Vivaldo, Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano.
Emise i voti a Fiesole e fu ordinato sacerdote a Siena. Andò a Parigi e
frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e il Collège de France. Conseguì il
Dottorato in filosofia e il Diploma di studi superiori alla Sorbona. Essendo
andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma di lingua inglese che in
seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel periodo estivo. Pubblicò la
tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia" (Ed. MILANI, Padova). Si
imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove insegnò. Lì ricoprì gli
incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in Italia e fu per un anno
direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si trasfere a Figline
Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse alla Università
Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in Italia. Aveva
iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per infermieri
dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un laboratorio
linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle lingue. Deceduto
nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da miocardite in
diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male nella notte
dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva tenuto
lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi. Alle 18
andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua inglese per
adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico cardiologo che ordinò
il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata stroncata da un
complesso attacco cardiaco polmonare. Ai
funerali, presieduti dal Padre Provinciale nella Chiesa di San Francesco in
Figline erano presenti tanti religiosi e sacerdoti, i parenti, molte suore
oltre che un grande pubblico di studenti e popolo che riempiva la chiesa. È
stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento di Giaccherino Convento del
Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di Sargiano Montemurlo L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo
XIII. Grice: “Noto is
playing with his surname. There’s no ‘significare’ in Italian. They use
‘notare’ – Now, how is God signified? When Cicero said ‘god’ he meant Jupiter.
Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede was killed in self-inflicted
accidental with a boomerang. Her mother said: “His corpse is here, but he was
raped by Giove --. Taking this narrative literally – Ganymede was RAPED, so the
rape is the way the god gets ‘noted’. Noto. Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Novara:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Euclide – filosofia
piemontese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Novara). Filosofo italianao. Novara, Piemonte.
m. Viterbo. matematico, astronomo e
astrologo italiano. Tra i più importanti scienziati e matematic (anche
Bacone lo cita come uno dei più grandi matematici a lui contemporanei), Campano
è conosciuto anche come Johannes Campanus (che è tuttavia anche il nome di un
Johannes Campanus anabattista belga del Cinquecento). Elementa
geometriae, Campano da Novara Tetragonismus idest circuli quadratura. Pubblicato
un'edizione degl’Elementa geometriae d’Euclide ed un importante commento
all'opera, introducendo un sistema di calcolo degli angoli del pentagono. Il
testo e utilizzato per circa due secoli e sarà stampato a Venezia
(Preclarissimus liber elementorum Euclidis). L'opera si basa su una traduzione
in lingua araba dell'originale testo greco. N. ha inoltre probabilmente
presente la traduzione latina eseguita da Bath. Cappellano di papa Urbano
IV (in un documento delle Curia pontificia se ne attesta la presenza e se ne
parla come di uno dei quattro migliori matematici viventi) e medico personale
di papa Bonifacio VIII e viaggia in Arabia e in Spagna. Su ordine dello stesso
Urbano IV egli si occupa anche di astronomia e realizzerà la Theorica
Planetarum, nella quale descrisse geometricamente i moti dei pianeti e il modo
per realizzare un planetario. I dati sui pianeti sono tratti dall'Almagesto e
dalle Tavole Toledane dell'astronomo arabo Azarquiel (al-Zarqālī). Dopo
trent'anni di presenza nella curia pontificia a contatto con i maggiori
filosofi naturali dell'epoca, raccolse un enorme patrimonio immobiliare,
stimato alla morte da un ambasciatore aragonese in più di 12 000 fiorini: una
ricchezza legata con ogni probabilità alla sua attività di medico. Negli
ambienti curiali fu assai fortunata una benefica pillola da lui fabbricata, di
cui poi si lesse la ricetta nel Breviarium Praticae. Si ricorda anche una sua
splendida dimora presso Viterbo, in una zona di bagni termali, nella quale
abitò negli ultimi anni della sua vita. Di lui ci restano l'Abbreviatio
equatorii planetarum, il Canon pro minutionibus et purgationibus, il Computus
maior, il Tractatus de sphera, il De computo ecclesiastico, un Calendarium, i
commenti ad Euclide e all'Almagesto. Secondo una recente ipotesi sarebbe a lui
attribuibile anche lo Speculum astronomiae, importantissimo catalogo di opere
astrologiche, che distingueva magia lecita dall'illecita. Da lui prende il nome
un sistema di domificazione in astrologia. Gli è inoltre stato intitolato il
cratere Campano, all'estremo sud-occidentale del Mare Nubium, sulla Luna.
Parte di questo testo proviene dalla relativa voce del progetto Mille anni di
scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Francis
S.Benjamin Jr., G.J. Toomer, N. and Medieval Platenary Theory, The University
of Wisconsin Press, N. (et alii), Tetragonismus idest circuli quadratura,
Impressum Venetiis, per Ioan. Bapti. Sessa, Agostino Paravicini Bagliani, N., Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, N. Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Campanus, su Enciclopedia Britannica, ALCUIN, Università di
Ratisbona. Modifica su Wikidata (EN) Campano da Novara, su MacTutor, University
of St Andrews, Scotland. Portale Astrologia Portale Astronomia
Portale Biografie Portale Matematica Categorie: Matematici
italiani Astronomi italiani Astrologi italiani Nati a Novara Morti a Viterbo Astronomi
medievali [altre]. Giovanni Campano da Novara.
Grice e Novaro: la ragione conversazionale e implicatura
conversazionale ligure -- l’infinito del ponente – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Diano Maria). Filosofo italiano. Grice:
“Novaro comes from my favourite area in Italy, “La riviera ligure”!” Grice:
“Novaro wrote a nice little treatise on the nature of the infinite – a concept
which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da famiglia economicamente
agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi liceali, ottenendo la
laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore comunale per il partito
socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel locale liceo, con i
fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla madre Paolina
Sasso. Pur dedito all'attività
imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo anni del
Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino alla sua
cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli, Roccatagliata,
Jahier, Boine e Sbarbaro. Scrisse saggi
di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie, che hanno come tema
principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume intitolato Murmuri ed
echi che vide le stampe. Fu anche il curatore dell'edizione delle opere di
Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto di carattere etico. Saggi: “Finito ed iinfinito” (Roma, Balbi), “Murmuro
ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura ecoica” --; “All'insegna
del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure Nicolas Malebranche. Tra
Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro, su parchiculturali.
Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Scheda biografica nel
sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Se il
concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana, uno
degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una definitiva
soluzione delle difficoltà che esso presenta non e tuttavia che
straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il rilegare, come a
priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e si considera il
regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando si ammette senz’altro
che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere eh' esso arrivi a comprendere
l’infinito. Hobbes, De
corpore; Descartes, Principien, ediz. Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano);
Locke, Essay on humane Underslaning, ediz. Ward, World Library, Hume,
Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons,
Principia of Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la
posta. S’è lasciato intatto il mistero che sembra involgerla. Già tutti i
concetti che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti
ontologici dovettero per questo attendere a lungo prima di venir trattati
in corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si
ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare
applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo,
l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle
difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame
degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti
secoli prima della ripresa della questione per Locke, trattarono il
problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la
loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di
Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello
spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i
tropi dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der
That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht
werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut,
und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen
Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge,
welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart
bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati della
estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti
ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a
confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le
esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a
riconoscere evidentemente per tali. E più d’uno nel confutarli à seguito,
come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu
infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche
Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire
che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa & i
matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni svelate dai veliani
avevano dovuto per forza rinunciare a far uso del concetto di “infinito” e
lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di Antifontem continuarono
a lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare alla rigorosa esattezza
delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito” non compare mai
esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha seguaci anche dopo
che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i suoi cosi
fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non avere l’autore
stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente giustificarlo,
nè dargli un denotato preciso, si che egli molte volte ha a espri supposizione
che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio Èrtovi come se la
critica del velino non valesse indifferentemente tanto per il continuo
dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr. Cantor. Er (Aristotele) lòst
das Paradoxon der Duschlaufung dieser unendlich vielen Raum-punkte in
endlicher Zeit, durch das neue Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit
unendlich viele Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul
concetto di “infinito” in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo. Il
LIZIO dà una divisione dei vari generi di infinito, che come sempre 0
spessissimo presso lui è più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre
è la sua trattazione oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che
l’infinito *potenziale*, il quale nasce dal non trovar la nostra
immaginazione alcun limite così nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta
l’infinito attuale. L’infinito, dice Aristotele, non è grandezza nè à
parti così, come il suono è per sò invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non
esiste dunque in realtà, perchè non v’ è grandezza cui possa attribuirsi. Ma la
contraddizione che Aristotele crede dover evitare rigettando il concetto
dell’infinito attuale è appunto nascosta invece in quello del continuo.
Altrimenti Aristotele non avrebbe così leggermente creduto di aver
superate le difficoltà dei veliani. li Montucla, Histoire cles recherches sur
la quadrature du eercìe. Paris, Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi
Alterthum und Mitelaltcr.] juersi sulla sua nozione in modo affatto
contradittorio. E se i filosofi non riuscirono a chiarire i loro concetti
riguardanti l’infinito trascurando la maggior parte di aiutarsi con un
esame accurato dalle difficoltà che incontrano anche i matematici, questi dal
canto loro si sono del pari in grau parte appagati dei risultati, senza
sentire troppo acuto il bisogno di rendersi conto esatto dei concetti dei quali
hanno a fare un continuo uso. Che anzi per le difficoltà, oscurità
o contraddizioni dell infinito tranquillamente si
rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più razionalmente intorno
ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in fondo una evidente
ambiguità sulla natura generale del concetto d’“infinito”. Lascia infatti
alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se si diano
propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene pure per
indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per
arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito
rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e
Schriften, Gerhardt I' , dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi
come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli
parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto
incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo ivi. Infatti dopo
l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di
Berlino, presieduta da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva
un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On
demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en
mathcmati jue. On sait que la
haute geometrie fait un usage continuel des infiniment grands et des
infiniinent petits. Cependant les geomètres et meme les analystes
anciens, ont eviti* soicneusement tòut ce qui approche de l’infini, et
des grands analystes modernes avouent que les termes grawleur infmie sont
contradictoires. L’Acad^mie sou- haitc donc qu’ on explique comment on a
déduit tant de theorèmes vrais d une supposition contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad. des Sciences.
Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico filosofo
dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche dilucidazione definitiva,
Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse à dato una
cosi bella e tuttora insuperata sistematica trattazion generale,
non solo non fa fare un passo alla questione, ma neppure seppe
bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di Carnot, il quale
prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono cosi i filosofi
che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si direbbè che lo fa
in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente cangiato li suo
metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come egli in realtà è
qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli stesso còlto 1’ultimo futto
della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito di Locke, oltre aver
risolto l’infinitamente piccolo e grande nel processo formale dell’animo,
l’aver dimostrato come un tale concetto sia solo propriamente applicabile
a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con ciò ogni nebuloso
abuso scolastico e metafisico di esso, era reso impossibile, e ogni sua
applicazione ad altro che a concetti di grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi
da Locke e approfittando della luce che Carnot getta sulla natura
dell’infinitesimo, il Duhnng à finalmente completata la razionalizzazione
di [ Leibniz, passo citato, Gerhardt e Montucla, Histoire des
mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia può sollevare sul
concetto dell’infinito, il matematico “a droit de ne s en pas plus
embarasser que des disputes des physiciens sur la naure de 1 etendue et du movement.” Locke,
On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring
costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi
filosofici. Soltanto- nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad
una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo.
La sua dimostrazione è però geometrica, e non insieme algebraica. Manca
quindi di generalità. Cosi si spiega come Diihring ritenga ancor ora
inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à
assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel
passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito non viene dapprima
reso chiaro e incontradittorio nella matematica, la rocca in apparenza
più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La
nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto
d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno
comuni le radici o i principi e la matematica e la logica.
La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa,
ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si
cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*,
sia che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non [Nat Uri
iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione
è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo,
malgrado il viro desiderio di molti suoi ammiratori, quali per un esempio
v. Gizicky e Riebl. Vedi specialmente dello stesso, nei “ Xeue
Grundmitteln u. Erfindungen zur Analysis, ecc. il capitolo terzo.
L’analisi critica dell’infinitesimo ivi data riassumiamo noi brevemente
nel numero seguente, modificandola però nel senso della corretta legge
del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und
KVssenschaftstheorie, è un differente problema quello di Senone di Velia,
da quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal
seicento in poi. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”,
le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale
nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito*
stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima l’indisivibile di CAVALIERI, e
pensato assurdamente quale risultato di una infinita divisione, o come l’elemento
più piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra ogni
grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità data e pensato
l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni data grandezza l’infinitamente
grande, arrivando anche qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile
per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque
piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di intermedio. Questa
ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata
quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore
d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo
irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero.
Minore d’ogni quantità assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di
“momento”, già Hobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il
fondamento della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di
qualsiasi assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca
definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo
un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti a essenziale
relatività. V. De Corpore. Delimemus CONATUM
esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn bile è però soltanto
lo zero; una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile grandezza.
Tra la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda finzione. A meno
che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod datar, id est
determinatur, sine expositione vel numero assignatur ìaest per punctum.
Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet per punctum non
intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod nulla ratione
potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura) sed id cuius
quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque pars ulta
inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non habeatur prò IN-DIVISIBILI.
Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO non
prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita mtelhgendus est, ut sit quidem
motus sed ita ut neque tempori in quo fìt neque lineai per quam fit
quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis
vel line cuius ipsa est pars. Quanquam sicut punctum cura puncto, ita conatus
cum Canata comparaci potest et unus altero maior vel minor
reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto
dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur
moindre que toute grandcur donnée de la meme nature. On est conduit
naturellement a ridde des infiniment petits, lorsqu’on considère les
variations successives d’une grandeur soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par des
degrés mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque
petit quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un
corps croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne
peut fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les
positions intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance,
aussi petite qu on voudrn, entre deux positions successives. Les
infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement
un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione
non pochi matematici, quali Bernouille
“oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo.
Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il continuo esteso
in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar poi il modo di farlo
generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi
Lasswitz, Galileis Thieorie der Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph., a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di
dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita
divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni
qualunque piccola quantità data. Come nella serie dei numeri noi possiamo
(prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità,
cosi possiamo farcene uno della possibile divisione
dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che
il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai
compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai
senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto
oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già
compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente
quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito
come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO
IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso
dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni
possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur
sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge
formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der
bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn. edizione Kirchmann. Sohald
etwas als quantum discretum angenommen wird, so ist die Menge der
Einheiten darin bestimmt, daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring
però, e qui sta il grave errore della sua teoria dell’infinito, à
tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come
diciamo noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come
totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una
qualunque data comunque già piccola per sè. La illimitatezza riposa sul
concetto della infinita possibilità della ripetizione, non è dunque un
concetto di effettività, ma di mera possibilità. Il moto nevi realizza
come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità
di parti nel finito. Moto non è che il concetto di ciò che la
stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un
altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di
posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la
cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro
concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo,
ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere
senza limite alcuno. Ma effettivamente nè la natura nè noi possiamo
fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un
punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro punto
fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento
assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente,
se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di
infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo
una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente
aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o
coincidono, o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata
distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque
noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare
unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa
illusione è nel dire che una quantità cresce per gradi minori di ogni
comunque piccola grandezza data. E vero che m matematica le quantità
continue crescono per gradi e che ogni nuovo incremento elementare
possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più piccoli
incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà bisogni. Che
esistano dei limiti a questa illimitatezza che è solo della facoltà del
nostro ANIMO, è anche vero che le quantità non constano di elementi per
sè esistenti, e che invece noi solo distinguiamo in esse delle divisioni
e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il concetto di
continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude solo la possibilità
di un infinito porre di limiti, ma non una infinità di limiti posti. Esso
è quindi come quello dell’infiuitamente piccolo un concetto di pura
posibilità. La illimitatezza nella scomponibilità in parti che
possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una qualunque
piccola grandezza data, e dunque ciò che di razionale s’ à a sostituire
al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene evitata quella
ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di azione del nostro
animo, o di una mera possibilità, la quale è inchiusa nel falso concetto
della grandezza minore di ogni altra assegnabile, come di qualcosa
realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma pur reale di una
infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo o infinitesimo, ma
solo una infinita possibilità di rimpicciolimento. 1 Si deve dunque
pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza finita relativamente
piccola, la quale nel complesso delle operazioni può e deve rappresentare
ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta per eempio, dice Diihring, di
una lunghezza. Può questa, come infinitamente piccolo, essere secondo le
circostanze un milionesimo di millimetro ovvero una distanza
solare. L’essenziale non istà in queste eventuali determinazioni,
ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza, scelta in relazione a un
tutto come parte insignificante, possano nelle operazioni sostituirsi
altre ed altre senza limite alcuno sempre più piccole verso lo zero. L’
infinito o la illimitatezza non è dunque ipostasiata nel differenziale,
si bene sta nel nostro animo che questa grandezza rappresenta qualunque grado
di piccolezza oltre il suo. Razionalizzato cosi il concetto fondamentale
del calcolo, non à più ragione quella ripugnanza che i migliori
matematici anno sempre sentito per quella oscura ipotesi o idea falsa, come la
chiama Lagrange, dell’infinitamente piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring,
un calcolo d’ approssimazione, ma si noti bene- non di semplice
approssimazione, bensì di approssimazione infinita. I sensi trascurano nel
piccolo le quantità insignificanti che loro NON SONO più PERCETTIBILI, e
se fatti più acuti procederebbero del pari in analoghe proporzioni; cosi
fa il calcolo nel trascurare quantità che nelle [l'reyeinet: Étude
sur la métaphysique du haul calcul. Cfr. Carnot : Reflexions sur la
métaphysique du calcili infinitesima!, Comte: Cours de philosophie
positive] loro funzioni darebbero in ultimo per risultato una grandezza che per
la sua ultima piccolezza non à importanza alcuna. Accanto a quantità
finite si trascura nel risultato e con ragione, un infinitamente piccolo,
poiché è nella sna natura di poter venire senza fine rimpicciolito
verso lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo
e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito
rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà
sempre finite, comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più
piccole verso di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente
grande si à analogamente a distinguere tra [Non altro significa il
luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non
arriva a dar l’ultima chiarezza alla nozione dell’infinitesimo. Infatti
non avrebbe altrimenti creduto vi fosse bisogno (per dimostrare come i
risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà
esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale,
anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi
frantese affatto ciò che di veramente importante e duraturo conteneva lo
scritto di Carnot, e ravvisa così il merito di lui appunto nella
dimostrazione della compensazione degli errori (Cours de philosophie positive),
la teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile
che solida. l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne
definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però non venne
schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli dispute a cui
diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che
avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo.
Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta
strada nelle menti dei matematici. Ma non basta questo a razionalizzare
l’infinitesimo. Dove colla relatività di esso si ammette però ancora (v.
ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni
quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.
questo e 1’ infinito assoluto o transfinito. Qui cometa si à una differenza
qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro
il concetto proprio di grandezza è scomparso. Il non aver distinto
questi due concetti non à forse meno contribuito della contraddizione di
un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del
differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili
difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde
perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza
fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi i casi ci è data
la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come
compiuta, poiché essa deve rispondere alla illimitata possibilità di
ripetizione- del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per
quanto piccola o grande di cui non si possa sempre raggiungere un’altra
ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto
di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già
grande, può senza fine venir considerata ancor sempre più grande secondo
il bisogno. In ogni aso non sarà però ella mai altro che finite. Come
la nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può --
Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione
dell't/t/unVo relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring
dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui
Wundt e Lasswitz chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del
resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce
di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”, lasciando
al contesto conversazionale l’ulteriore specificazione. mai
esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente grande è un concetto di
mera possibilità e non mai di effettività. Non è quindi propriamente
applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie progressiva dei
numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro esempio
dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare ad un ultimo
membro delle serie, perchè la possibilità di aggiungerne altri riman
sempre la medesima. E nella natura dell’infinitamente grande di non poter
venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data oggettivamente,
ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande può rappresentare
ad arbitrio una grandezza sempre maggiore oltre la sua. Inteso cosi
è senz’altro chiaro che rinfinitamente grande non è un infinito in atto e
non può senza contraddizione venir scambiato con questo. L’aver confuse l’infinito
assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente
grande è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto [Locke,
On bum. Underst, Our idea
of infinity being, as I think, an endless growing idea, biit the idea of
any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be
it as great as it will, it can be no greater than it is), to join
infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave
no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of
a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say,
a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless progression that
can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that
of number always to be added. But thereby never amounts to any distinct
idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of
division, as often as we will think of it. But thereby we have no more a
clear idea of infinite parts in matter than we have a clear idea of an
infinite number, by being able still to add numbers to any assigned
nember we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a
rifiutare risolutamente il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla
nozione di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata
possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività
compiuta cui l’infinitamente grande non arriva mai. Nel transfinito o
trasfinito ogni grado di ingrandimento è già anticipatamente dato. Esso è
realmente maggiore di ogni assegnabile grandezza, e dal finito non c’è
modo di farlo originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile
obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè le possono sempre
venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE
IRRAZIONALE dell’infinitamente grande,
partendo ella da un falso concetto del transfinito o tras-finito, secondo
il quale si avrebbe questo a lasciar pensare come un tutto, ossia,
contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato
al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il
transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir
esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione
per rifiutarne il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in
ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito
per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue
parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio
conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da
un capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto tale,
ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility
giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts
than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea
of an actually infinite number, both being only in a power stili of
increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le
proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre
nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è quella
che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni
ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo
abbia raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il
numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I
know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso
e con ciò di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito
non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile.
Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente
grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente
piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più possibilità di
rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o
tras-finito. Questo è la negazione della grandezza misurata nel grande, e
lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della
grandezza nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come
l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità
diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un
continuo flusso, lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il
principio generativo dei primi non è applicabile ai secondi. Dall’infìnitamente
piccolo allo zero e dall’infinitamente grande all’infinito assoluto c’è,
a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito
assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra «quindi Lasswitz
che nega esserci qualcosa di corrispondente a que- [Nel primo caso il
passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la
quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto
risolutivo col quale si sottrae interamente il resto stesso. Nell’un caso
si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta
propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene
mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del
sempre nuovo resto. Bsogna togliere in ima volta l’intero resto
altrimenti si avrà una convergenza continua verso l’irraggiungibile
zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe
veramente esaurita la grandezza. Non bisogna prender per esaustione reale
una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un
infinitamente piccolo. Ma questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione
non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero passaggio. La
inter-polabilità infinita di posizioni tra punto e punto non toglie che
da posizione a posizione il passaggio debba rimanere E come v’è un salto
da un punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al punto
ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col st’ultimo.
(Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats - hcfte); come
pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza
essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants Kosmologische
Antinomien u. das Problem der Unendlichke.it Philos. Studien: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso
gut in Siane einer unendlich zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im
Sinne des bereits vollzogenen Processes- dieser Abnahme gedacht werden
kann. Hier fàllt niimlich ein wesen-
tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten vollig hinweg. -- passaggio
allo zero si à però un risultato differente non tanto per quantità quanto
per qualità dagli altri. D’altra parte lo stesso risultato
qualitativamente differente si à nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente
grande al transfinito o tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero
dal caso dell’incoutro di due rette a distanza infinitamente grande al caso
delle parallele, in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo,
e si pone come identico il risultato solo infinitamente approssimativo.
In realtà però mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi
delle due rette al parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che
questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della
linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo
le farebbe finite. Ed à luogo allora quella illimitatezza od infinità
assoluta della retta, la quale è la negazione della grandezza misurata
nel grande, come lo zero è la negazione della grandezza in
generale. Un indubitabile significato si lascia dare al transfinito
o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei
processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma
dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della
realtà, poiché esso trova e suppone necessariamente come dati sempre piu
membri della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a
pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione
reale del nostro conti) Diihring , luogo citato. «etto ; ma rimanendo
insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO o il numero dei stelle sia
o no infinita, non si à che l’applicazione di esso allo spazio puro. Ed
ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce
appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La
tangente di un angolo che differisce da 90° di una infinitamente piccola
differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di
riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della
tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si
tagliano si fa sempre più lontano. Rimane però sempre dato un incontro
reale delle linee fin che sia data una per quanto piccola
divergenza da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia
se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più propriamente una SECANTE nè
una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano
più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la CO-SECANTE
e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna grandezza, allo stesso modo
che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già
una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione
quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte corrisponde dall'altra
l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso
dell’infinitamente grande si distingue da quello dell’infinito assoluto
per questo, che la possibilità (della illimitata estensibilità) non
figura come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività.Di pio
quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di
un’altra, in modo che dall’infinito rimpicciolimento e dal grado di
questo dipende l’infinito ingrandimento e rispettivo grado costantemente
corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à fatto in
riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene
con qualche riserva, da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto
quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di
Diihring. Crede Cantor che la serie dei numeri si lasci pensare non solo
come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che
si lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo. L’aver
sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o
tras-finito è la cagione dell’assurda nozione che s’è fatto Cantor di
questo. Infatti perciò à e Cantor potuto credere che il transfinito o
trasfinito pnssa trovarsi nel finito stesso quasi come suo sostrato, e
servire cosi alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma
qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede
egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito
assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento
della reale serie dei numeri intieri Duhrinq. Logik. Cantor:
Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre; Zur Lehre vom Transfinite.] oltre
l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico numero intiero
infinito, si bene una infinita serie di tali numeri come benissimo tra
loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe
sarebbe la serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe
dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine
determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla 3 a e alla 4 a classe e cosi
all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das
eigentlicbe Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire
Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal
guisa non si arriverà mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur
soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo è
un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito,
quantunque determinato e maggiore d'ogni finito, avrebbe assurdamente
comune col finito il carattere della illimitata aumentabilità. Cantor dà
per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti,
confessa però non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei
numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito non poter venir
concepito, quantunque necessariamente postulato. Qui dunque ritorna la
difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla
sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della
sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in
fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur
Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie
Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari numeri della nuova serie
al DI là DELL INFINITO. Cosi il
non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p) è una evidente ASSURDITà che rivela una
inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente
in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere,
come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad
esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità.
Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché
invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur
essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito
assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza
precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa
assai più facilmente rannodarsi a quella del Locke e di Ivant da una
parte, e dall’altra a quella di Carnot, che non si lasci questa sua
nuova distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci)
Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come
espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische”
und die “synkathetische”. “Katlietisch” oder einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende
hat.” Syn-kathetisch” unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine
endliche Gròsse giebt und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder
Eines gròsser als jenes Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb
fiinde, welckes den Abschluss bildete; aucli dieses ist immer eine
Gròsse, aber nickt wenn es mit Gròsserem verglicken wird. Man erkennt leicht dass das kathe- tisck
Unendliclie Bradwardinus das Ueberendliche oder Transfinite ‘mente l’INFINITO
POSITIVO di Descartes, di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce
un’origine quasi del tutto- ancora scolastica. L’infinito inteso coinè
attributi necessario dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra
chiara la sua derivazione da un altro concetto. Quantunque esso non ha in
BRUNO questa sola origine ‘divino’. unserer neuerer Philosophen
ist, dem von Anfang an das Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen
Gròssen zukommt fehlt, wàhrcnd das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen
oder Infinitcn ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli
unbegrenztes Wa- chsen hervorgelit. BRUNO capovolge la dottrina di
Aristotele. Risolve arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde
liberarsi dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi
anche ma meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la
infinità del mondo. (V. Acrotismus, citato dal TOCCO, Le opere di BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però
avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa
giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il
progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità dell’animo,
mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a
distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito,
-- dum non promere subiectae credat con- formia rei. — Intìnitae
progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus
usus ARTI-FICIALIS obsecundat. De Min. Tuttavia anche alla matematica
vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del
corpo matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo
anzi non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale
ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo
strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili o
atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni
del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì
à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d. Griech. Philosoph.
dove ne è anche data la traduzione) Della dottrina atomistica di BRUNO
riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift
f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano
e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico
infinito in riguardo al quale non possa esservi divisione possibile uè
disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti. L’infinito
assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei
quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici,
esempio ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già
illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come
è impossibile che la materia mossa tra due cerchi possa realmente
dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una
infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata dalla relazione di
quelli. Poiché data questa infinità non è nè può essere. Altrimenti la
potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea
da’suoi punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che
venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non
può esser che un caso di infinita possibilità come lo è quello
dell'infinitamente grande. Philos.): “BRUNO hat darci» (lcn
erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc
Verdienst erworben, den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt
zu haben. So lange
das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf
ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass es ein Krfordcrniss dcs
Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung zn liaben, macht den
Atombegriff za einem nothwendigen. Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per
inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne
aveva rifiutato il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia
ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo
non può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i
termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi però mai esaurire da
successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola
d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di
queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun
numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio
pensare come raggiunto il risultato d’una operazione infinita ossia da
ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito
relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in
realtà l’infinito assoluto. Esso è soltanto lo stesso infinito relativo
nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo. Ammette inoltre
Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di
meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli
altrove che SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel trova la
distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da
quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo
fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni
determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo
stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso
questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono
suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti
che ei dice avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La
infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi
non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo notato del
transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari
esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il
complesso della serie dei numeri intieri positivi. Etica, I, prop.
XV. è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di un
altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano
potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual
razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa
tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e
divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una
grande acutezza soltanto le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito,
non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke
ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO
coll’illimitato progresso, riempiva tanto l’infinito del tempo che quello
dello spazio. Ed è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di
infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra
(2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke
nell’esame dello spazio, e fissa l’idealità di questo. Una idealità che
se è conseguenza delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai
veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga
superiore. Ma quanto al concetto proprio di infinito Kant non fa un passo
oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di
quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella
trattazione lockiana dell’infinito, in cui la funzione SINTETICA dell’animo
trovava una cosi Locke: Essay on Human Under ai. giusta e importante
bencliè non del tutto consapevole applicazione. Hume, senza esaminare
particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a
considerare l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza
il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della
infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser
diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo,
confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come
composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”)
; e il tempo della somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si
domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli non dare una
grandezza infinitamente grande? o, come può un tal numero esser compreso
allo stesso modo in una data grandezza che in una doppia di quella?
Come può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di
parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse
contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone
conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO
senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il
non aver più acutamente esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono
la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è
insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World
Library. Exsai/s (4; Hume: Essai/s. meno sino a Diiliring, che
segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di
infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla
natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot, e con Cauchy,
in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur
sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici
dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è
ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss poi, e dietro a lui
con Riemann e con Steiner e con tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia
che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi
quale indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale non
sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza che cosi grande
aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti
per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il
notato carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al
secolo precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove
l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si
stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata
di tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo mo¬ derno
la questione della reale estensione dell’universo si è fatta
essenzialmente empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio
non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si
lascia dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo; È
chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo
della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La
nostra rappresentazione dello spazio il la sua spiegazione nella costante
unità della coscienza e nella sua libertà del porre e dell’oltrepassare
continuamente il posto. Ora a questa funzione de nostro ANIMO non si deve
attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino
infinito il mondo appunto perchè è infinito lo spazio, ritenendo che la
materia stia allo spazio come questo a quella: “ e se non v’ha differenza
tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto
occupato dal nostro sistema planetario sia pieno e tutto il resto
dell’immenso spazio vuoto. „ Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.).
il quale commenta gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe
farli servire a dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il
finito noi non possiamo raggiungere e non possiamo mai giudicare se altro
non vi sia più oltre da raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o
no dei limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito
COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per
la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta
inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo
comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi
costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da
noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della
forza non basta, come crede Rielil, a dimostrare la finitezza della massa
dell'universo. Seia massa si fa infinita, dice Riehl, verrebbe a mancarle
con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col
concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe
però naturalmente se considerata solo nella sua
trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di
masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande principio della
costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera
e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente
l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il
principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza
della materia infinita come tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella
del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del
finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus. non è (lata analiticamente
colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è
toccato da addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita
la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza
contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo
sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od
empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al
tempo concorrono invece necessità dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo
nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à
tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto
principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il
tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come può
senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il
cangiamento abbia una volta cominciato è, per il principio di causalità,
impossibile ammettere. La ausa di un cangiamento deve cercarsi a priori
in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento
assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono
nell’essere ultime ragioni dei processi, ma non ultime cause. In ogni
punto del tempo è esistita la serie delle variazioni. Non che nel
concetto di sostanza si trovi unita necessariamente coll’esistenza
l’azione, come crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi
disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga ad esser
perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal cangiaménto.
Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla
essenza. La forza potrebbe però concepirsi ovunque come in equilibrio
stabile, e con ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una
condizione del divenire cbe non entra mai come membro nella serie causale
-- è questa il fondamento ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro possibilità. Un
tal fondamento riman quindi come fuori del tempo ossia veramente ETERNO,
senza origine nè fine. Non è cosi dei cangiamenti o degli stati momentanei
dell’essere. Lo stato precedente a un DATO momento nella serie molteplice
dei cangiamenti, se fosse sempre esistito, non avrebbe mai prodotto un
effetto cbe si origina solo nel tempo; auche quello deve dunque aver
avuto una causa, e cosi all’infinito. Delle cause non ve ne può essere
una cbe da sè inizi assolutamente una serie; ogni causa di cangia¬
mento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò un’altra causa, un
altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e un principio
assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per cui avvenga
qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a connettersi
coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere senza una
causa che la faccia cessare è un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe
una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non possiamo
accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la
legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto),
cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono
soltanto la sostanza e le sue qualità originarie, ossia in generale gli
elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è
applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa di un
cangiamento non può mai esser che un altro cangiamento, non una cosa come tale.
E quindi unicamente l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO che
non à nè causa nè ragione, se non quella almeno che con Schopenhauer
potremmo chiamare la ragione dell’essere, o di identita. La medesimezza
con sè stesso è infatti la ragione della sua eterna esistenza. Dove non
c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché causa non è che la
ragion reale del cangiamento. Una variazione che non procedesse in base a
qualcosa di stabile è un assurdo. Degli elementi non si dà quindi nè
generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che
la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la uniformità e
costanza del loro succedersi. Tanto l’essere universale quanto la materia
e la forza sono fuori della catena causale. Nn sono per sè causa, si bene
la ragione della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si
può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il più remoto
fenomeno immaginabile quanto il presente presupponendo l’essere, il fare
dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da
un sistema STATICO, come neminanco può a questo passare. Sempre le forze
si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed
altri ànno prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e
lavoro sono sempre stati necessari da una parte per conservare i
cangiamenti lenti concretatisi, ossia in generale le forme durevoli, e
d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il
voler dunque trovare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che
credere che la materia una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a
un dato momento nell'universo, che il momento innanzi noi possiamo
immaginare come affatto privo di vita conscia, non è uua creazione
assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza
dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi non l’abbiamo
a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è
creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come
occasionata dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di
sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale non à causa;
ad essa come agli elementi ultimi d’ogni realtà è applicabile soltanto
ciò che s’è detta la ragione dell’essere. Altra è però la questione della
sua fenomenologia- In questa come nella fenomenologia generale la
causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si presenta come
originata dal NULLA, gli è perchè le sue cause, nella loro natura
oggettiva materiale, non possono in essa evidentemente comparire. Gli
elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella
realtà inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data
combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del
cangiamento in generale implicherebbe invece una derogazione alla legge
fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire,
e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile
non è per sè stesso intelligibile senza un identico a sostrato. La
identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del
cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi contenuto
della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica.
Ammesso che cangiamenti potessero avvenire senza conseguire ad altri,
verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto
di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento.
Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro
che come l’animo è la condizione inevitabile della esperienza, e con ciò
del nostro mondo fenomenico, cosi le sue leggi o funzioni generali devono
anche di quello esser leggi a priori, o assolutamente valide
indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi
possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria
delle cose, ossia non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè
nelle cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi in
riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica
dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi necessario di veder nelle
leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un
riverbero o meglio null’altro che l’espressione soggettiva delle
determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un
principio del tempo reale e con ciò un cominciamento delle causalità non
si sfugge d’ altronde alla domanda. E perchè non prima? Se il primo
cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto
solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non
si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco
si dice che qualche cosa l’abhia impedito di nascere prima. Per questo,
per quanto lo si allontani dal presente, esso riesce sempre troppo
vicino. Richiamarsi alla originarietà dell'essere come fa Duliring,
alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni
ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero
non può mai ricevere completamente in sè stesso, mai fondare in senso
assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto alla
stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente si
contraddice. Si contraddice, dico, poiché, lasciando da parte l'analogia
del pensiero che ammesso il cangiamento non sa vedere come esso possa
originarsi in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà conoscenza
alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni cangiamento che
apparentemente si presenta come tale — il nuovo nell’evoluzione — noi lo
riduciamo è vero alle forze o forme, agli elementi costanti
dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il perchè
della loro manifestazione appunto in un tale momento e non in
altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto a
quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della
realtà, che nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi,
quando diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del perchè
quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia già stato in passato o non
abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo
suo essere Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza
stessa universale : dacché come questa non à inai avuta fuori di sè la
ragione del suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire
interno. In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,
non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal
suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non
c’ è un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno in cui
esso non abbia un suo stato determinato. E cosi che del divenire v’ è
sempre la ragione in un divenire anteriore, ma del divenire in senso
assoluto, v’è tanto poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi.
In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò che à
esistito la ragione di ciò che esiste. Nella origina¬ ria nebulosa è la
ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri
processi cosmici ebbe essa stessa la sua origine, i quali se la scienza
non può oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile che
un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il
cangiamento non à dunque avuto principio. Ed ecco appunto dove sorgono
specialmente gravi, e a molti filosofi son parse insormontabili, le
difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato,
e Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si enim numerare
possumus decem revolutiones praeteritas, et centum, et mille, et omnes. Si
quis dixerit non omnes esse numcrabiles, sed practeriisse infinitas, et
dixerit imam futuram revolutionem in futuro anno, essent igitur tunc
infinitae et una, quod est impossibile. Bacone, Novum Organimi , odi/.. Fcllow, Ne- Kant
è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che ponendo la
mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene
conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una
infinità di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice
al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma
anche, tra gli altri, il più acuto forse dei filosofi post-kantiani,
Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a
stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi
casualmente senza ragione alcuna avuto un assoluto principio nell’essere,
cosa evi- quc. cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit
ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit
infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia
inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut
consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale dichiara
insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema cosmologico,
ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel passato e non si
lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore di un altro che
sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a momenti diversi della
serie temporale. Non sa però pensar l’infinito assoluto in modo razionale
poiché crede di vincere quella supposta contraddizione obbiettando: «
similis demonstratio est siquis ex co quod numerorum parinm numerus sit
infinitus, totidem esse conclu- deretur numeros pares quod sunt
simpliciter numeri, id est pares et impares simul sumpti ». De corpore La
impossiblità del “regressus in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS
IN INFINITUM -- e un principio riconosciuto della scolastica. È vero però che
gli scolastici lo facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo,
o, secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele
nella sua dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa
assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di
Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma
anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie,
Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è
sur un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che
la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza
contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente,
assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto
possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi alla
infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale
applicazione sia necessaria, egli à fatto invece quella ingiustificata
della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me
superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato
sin’ora. I cangiamenti infiniti di cui si discorre non
involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come
totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la
contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un
principio del cangiamento. Di fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni
principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie
infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque? Si pensa con un tratto
indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre
in- -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera
filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u.
Paralipomena: Wenn cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die
jetzige reale Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou
liingst gewesen, dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir
irgend einen. jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der
min aber, wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic
hinaufruckén, mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino
sempre alla medesima distanza. Qualunque punto del tempo si scelga, anche
milioni di milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto
vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi per quanto risalghiatno
addietro non possiamo esaurire l’infinito che fu, cosi non dobbiamo
inavvertentemente ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti
partito da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà
ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti dietro a sè una stessa
infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in
senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò
ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata
bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è
assolutamente infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma
prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far
terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il
passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi
senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri
sta nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò
una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto,
e non ammette quindi alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè
ogni numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring,
l'assurdo di una contata (o percorsa , come direbbe Kant) serie infinita (“den
Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe
una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò egli
ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo
reale? In verità è quella serie non contata, ma innumerata e innumcrabile,
ciò che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto
non à principio nel tempo, e: sino a un punto qualunque del tempo è
trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente.
Con è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò che è
impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione scompare subito che si
dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra
rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die i
cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa
senza contraddire al concetto di ogni assenza di principio. Una infinità
di cangiamenti, una infinità di momenti del tempo non è trascorsa,
sibbene l’infinito trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la
serie dei processi. La successione perpetua è appunto la forma
della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si
scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo in vece sua
quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti.
Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita
nel passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua natura non
può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono
incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva
delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti
del passato è infinita — quale contraddizione nel pensare che ogni
cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo
di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni
per sè non suppongono se non i fenomeni che immediatamente li precedono ;
e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro
nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere
all’ora presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito
perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto
giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che
quello dal quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve
solo avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non
è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito
fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli
stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter
questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva e che
il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di
sciogliere il sofisma Kantiano con un altro sofisma, distinguendo tra
assenza di principio e infinità del tempo. Schopenhauer cosi infatti
obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin,
dass statt der Anfangslosigkeit der Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die
Rede, plutzlich die Endlosigkeit (Unendliclikeit) derselben
untergeschoben und nun bewiesen wird, was Xiemand bezweifelt, dass dieser
das Vollendetsein logisch widerspreclie und dennocb jede Gegenwart das
Ende de Vergangenheit sei. Das Ende einer anfangslosen Reilic làsst sich
aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich
aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik
der reinen Venunft”, ed. Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G sentanone
della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il
concetto di totalità non esser applicabile ad una serie infinita.
Tuttavia per dimostrare che le cose coesistenti non possono essere
infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto
contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco nel rigettare quindi
un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir
pensato tale dovrebbe lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive.
Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque una totalità
infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant
: una infinità non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser
finita, dunque non può esser data; vien rigettato l’infinito
semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo
l’infinito nel finito è realmente un assurdo, poiché come tale dovrebbe esser
necessariamente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò contenere soltanto
un numero finito di elementi numerabili. Ma quanto al temilo non c’è
ragione di negarne la infinità ; numerabili sono i processi da un punto a
un altro della serie, non la serie stessa in senso assoluto, perchè
ella non è mai data come un tutto, Is eli infinito assoluto o
transfinito che è proprio del tempo, non abbiamo più veramente una
grandezza ma 1 assenza di essa, poiché è data la necessità della mancanza
di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza è oggettivamente
mallevata come nello schema spaziale della mente essa lo è
soggettivamente. La ragione della infinità dello schema spaziale, come di
quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della
serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà estramentale.
E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente
attuare un significato reale del transfinito. Poiché una simile
illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio
ideale o matematico, in quanto questo viene ogget- tivato e lo
possibilità che realmente è solo nella funzione mentale vien naturalmente
considerata come oggettiva e per sé esistente indipendentemente da noi.
L’infinità del passato non à, come tale, determinazione alcuna
quantitativa, non si lascia esprimere col numero ; in essa è invece ogni
numero e può porsi ogni determinazione rimanendo ella assolutamente
indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per quanto grande la
si immagini, se si à riguardo alla sua relazione all’infinito del
tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto
essendo propriamente la negazione di ogni grandezza nel grande non può
venir posto in relazione con altre grandezze. La nostra fantasia non può
correre che all’ infinitamente grande del passato. SOLO L’ANIMO ne
intende la infinità assoluta. Della seriedel tempo non possiamo ottenere
una assurda totalità; per padroneggiare quella bisogna uscire dal
cangiamento e volgersi al fondamento della infinità temporale, ossia
all’essere come presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile.
Meravigliarsi che la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina
all’infinito assoluto che la più piccola, è analogo al meravigliarsi che
la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in
sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si tratta di una
differenza qualitativa che nou si lascia esaurire pei aiiazioni di
quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande grandezza non
s’è mai più vicini che con altra infinitamente minore al
transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite
a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma consideiandolo
invece come una quantità determinata; nel qual caso sarebbe veramente un
assurdo dire che da esso disti ugualmente un dato punto e un altro che
fosse prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato non
c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo;
dunque tutte le grandezze sono per riguardo ad esso insignificanti.
Parimenti è un assurdo credere di poter addizionare una unità al
transfinito o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento
esisterà pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in
riguardo alla retta stessa nella sua infinità. In una retta infinita
nelle due direzioni è indifferente il far la divisione più in un punto
che in un altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti
sono sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella
retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B ossia ( co’A-H AB ) — B oo
uguale cioè (A oo — AB). Si vede cosi contrariamente alla dottrina di
Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie als bestimmt
und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche hinzu- gelugt und
mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch eine Aufhebung der
letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang, die llinzufugung einer
unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J—
1 secondo la sua notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da
essendo co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro
infinito: tanto sarebbe infinito il tempo ritroso se la serie dei
cangiamenti fosse terminata migliaia di secoli fa, quanto se esso
continui all’infinito a trascorrere ancora. Il passato si può misurare tanto a
minuti che a secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così esprimersi,
a numero infinito di minuti o a uno infinito di secoli; non
pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più nè meno. E la ragione
di ciò è che la quantità transfinita non è misurabile. La immensità
supera ogni numero, come direbbe Spinoza. Nella infinita
serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può chiamarsi),
maggiore di ogni numero assegnabile ; oltre ogni raggiungibile anello
la natura ne offre costantemente altri ulteriori. Nella natura la
contraddizione non può esistere ella non ef¬ fettua il passaggio che da
un momento a un altro; e questo passaggio non può farsi attraverso
l’infinito. Per quanto noi risalghiamo all’indietro nella serie
causale, come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi non la
troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un ziierst,
gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass eine
Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre: “Ist co die
erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat man: 1+01=10, dagegen
u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene Zahl
ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also alles an. Una tale
inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe
per Cantor servire inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e
pari e dispari insieme o anche nè pari nè dispari. . 5dato
cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la
totalità della serie delle cause anteriori, si bene soltanto la causa
immediatamente antecedente; e il principio di ragione domanda unicamente la
immediata condizione e non una totalità di condizioni. In quanto la
stessa richiesta si rivolge successivamente alla causa della causa e cosi via
all’infinito, si viene a domandare costantemente una nuova condizione e questa
è un nuovo membro della serie e niente di più. Al tempo è essenziale la
posizione in atto di un solo momento. Fatta astrazione dai
cangiamenti, e supposto l’essere affatto immoto in una rigida stabilità
assoluta, noi lo poniamo però sempre in qualunque punto del tempo
ideale che noi fissiamo ; la sua esistenza la poniamo cosi
necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere la
contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti pensiamo invece
l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un
tutto infinito, quale non può qui esser dato, poiché la successione
perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo qui una serie
che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno
è infinitamente grande, e per sé è transfinita come la tangente
dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s
kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione
de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico del
tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è e cosi
gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1 eternità
del processo della natura. Il concetto limite del in.
Kant crede che la sua dottrina della idealità del tempo e dello
spazio o della transcendentalità in generale, spiegasse la supposta
antinomia del problema cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la
ricerca di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo spazio
al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione se questo, che Kant
non può a meno di accettare, si abbia a pensai’e come fondamento di un
mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere che
la serie regressiva delle percezioni nostre non può essere realmente
infinita perchè come tale impossibile, e neppure finita perchè nessun
limite dei fenomeni può venir concepito come assoluto, e dichiarare con
ciò insolubile la questione. Dacché l’oggetto trascendentale
condiziona realmente, come egli ammette un determinato regresso
empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ; doveva Kant pur
ammettere che rimaneva sempre a ve- regresso infinito (o a dir proprio
infinitamente grande) non è già un concetto trascendente della creazione
quale dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della
natura (v. Wundt, “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.);
quel suo concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito
assoluto del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro
infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità
del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito
regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto
non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per
cui Wundt concepì il tempo passato sotto il concetto dell’infinitamente
grande concordando in fondo col Kant, come il Lasswitz si trova in questo
d’accordo con lui. (Ein Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der
reinen Vermnft. dere se l’oggetto trascendentale determinasse un
possibile regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii
processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la
possibilità deirallungamento della catena dell’esperienza dalla
percezione attuale indietro alle condizioni che la determinano nel tempo;
pure egli, per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile
regresso delle nostre percezioni secondo le soggettive leggi della mente, non
supponga un regresso oggettivo determinato dalla realtà inconscia
indipendentemente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita distanza
dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre ancora nuove percezioni? E
cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi
necessariamente sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra
necessaria produzione dello schema dello spazio e del tempo, non
potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni dove l’oggetto
trascendentale non le condizionasse e si mostrasse con ciò finito. Lo
spazio e il tempo ideali non sono per sè garanti di una corrispondente
possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del
tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità della serie
regressiva dei cangiamenti. Poiché non si può conchiudere la mancanza di
un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge
der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg
gegeben ; sie sind aber ftir mieli nur Gegenstànde und in der vergangenen
Zeit wicklich, sofern als ich ecc.). Saranno però dunque sempre non
null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della
possibilità dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente
percezione indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da
questo, che ogni limite è necessariamente da noi pensato come relativo.
La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e
oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale
cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in
cui comprendiamo il reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in
sè della cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e
limitante non può evidentemente mettere nella realtà il suo secondo
termine se nella realtà non è dato. Questo secondo termine, il limitante,
rimane, se si astrae da ogni altra considerazione, un puro complemento
ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa
contraddizione che Kant e Dtihring, per non dir che di loro, credettero
inchiusa nella concezione di una serie regressiva infinita di
cangiamenti. Visto che la contraddizione stava nel concetto di una
infinità la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente
[Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue
Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo
all’infinito del tempo e dello spazio, che se la ragione non ci fa
piegare necessariamente nè da una parte nè dall’altra, pure in realtà il
tempo e lo spazio dehban essere o finiti o infiniti. (Cfr. del resto
l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL).
Spencer poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto
e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il
maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del
tempo e dello spazio che quella della divisibilità della materia e altre
ancora. Egli pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di
moto, di materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e
ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First
Principles”, la quale io stimo certo l’opera più infelice del filosofo
inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare la
numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle
cause e delle variazioni. Numerabili, dice egli, sono le cose, non i
processi. In quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,
deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come legge del numero
determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione
non vale per i processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per sé
stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione mentale che
essi ottengono una tale determinatezza. Un argomento dunque che vale per il
numero non può senz’altro venir applicato al tempo, poiché mancano
in questo per sé considerato e non riferito allo spazio, degli effettivi
processi indipendenti, separati l’uno dall’altro, o posti insomma come
numerabili. Noi possiamo distinguere dei processi nel tempo soltanto in
determinato numero finito, nessun processo è però indipendente [Il
Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava dapprima decisamente a porre
con Duhring un principio del cangiamento. Soltanto nella seconda parte del
secondo tomo, tormentato dalla necessità del principio di causalità cangiò
opinione (quantunque non lo abbia fatto notare egli stesso
esplicitamente); ma per uscire dalla presunta contraddizione dell’
infinito regresso, pensò, al contrario di prima, i processi come
assolutamente, e con ciò assurdamente continui. Si vede del resto
evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato di parere, non ò nemmanco
ancor ora troppo certo della sua nuova teoria; poiché la tratta troppo
brevemente e troppo alla larga, come se gli scottasse di dover render più
minuto conto di ragioni che a lui stesso non possono parere troppo
convincenti Ciononostante l'opera sua e specialmente la seconda parte del
secondo tomo è un lavoro filosofico non solo di grande valore, ma anche
molto attraente, il che è una cosa assai rara. 1C e distinto da quello che immediatamente lo
precede o segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta
contraddizione à dunque rinunciato a concetti di cui l’esatto pensiero
scientifico non sa nè può lare a meno, senza che ciò del resto gli abbia
giovato per la eliminazione della temuta assurdità come più innanzi vedremo. La
questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che lo spazio. Solo si à
sempre a distinguere tra l’esistenza loro ideale ; cioè il loro schema
mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi solo
pensare lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale dobbiamo
invece necessariamente porla numerabile. Poiché estensione reale è
coesistenza, e la continuità assoluta non può essere reale ma soltanto
ideale ; altrimenti essa inchioderebbe la contraddizione dell’infinito
compiuto nel finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione.
Porre la continuità assoluta come effettiva è non spiegar nulla e mettere
il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo
dobbiamo soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del
tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo
che contro quello dello spazio; non meno contro lo spazio percorso da un
pendolo in una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In
parti ultime non si può dividere il tempo nè lo spazio ideale, perchè
essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti
non possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi semplici,
e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi
del tempo e dello spazio leali, dove la natura viene necessariamente
aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone
l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo per ciò ci
appaiono indipendenti, che partono da cose spaziali e si trasmettono ad
altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può aver indipendenza
solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo
unicamente. Ma è naturale che tutti i processi siano nel mondo materiale
(e non vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello
spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della realtà spaziale,
e unicamente i processi della coscienza in sè considerati possono venir
riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa
ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente continua
come lo spazio mentale, ossia non costituita da atomi? Anche della
materia allora si dovrebbe dire che gli elementi distinti solo la nostra
mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la
riferenza dei processi temporali allo spazio ci faccia considerar
questi come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità
nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe al contrario anche secondo
il Riehl esser lo stesso che negare nello spazio gli atomi o le cose
ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi. Ogni grandezza nella
realtà à parti elementari, non esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di
cangiamento è una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il pensiero
come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo
temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di
nebuloso E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e
per cui la mente non avverte o avverte assai meno la inintelligibilità di
quello. Colla posizione dell'atomo o minimo, la natura non più oltre
scrutabile del tempo si affaccia bruscamente all’intelletto. Il tempo
come rappresentazione rimane naturalmente strettamente continuo pur essendo
discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta ideale è una
proprietà necessaria dipendente dalla natura della coscienza, la quale
tra due processi per quanto infinitamente vicini interpola pur sempre la
sua unità. Non c’è un minimo concettuale del tempo come c’è invece
e si richiede il minimo reale. I n minimo nella rappresentazione del
tempo sarebbe un punto inesteso, e considerarlo come elemento della
durata tanto varrebbe quanto rendere impossibile il concetto di
questa. Non deve più urtarci l’accettar gli atomi, o meglio
la concessione atomistica, per la materia, che accettarla in riguardo
alla forza e al cangiamento. Non crediamo siano più intelligibili gli
elementi materiali che quelli del divenire. La facoltà nostra mentale di
pensare gli Schopenhauer trattando nella quadruplice radice del principio
di ragione del tempo del cangiamento, mette in piena e con ciò
stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità assoluta del
tempo, quale egli trova acutamente espresso presso il LIZIO. “ Come tra due
punti v’ è ancor sempre una linea, dice egli, così tra due ora vi è ancor
sempre del tempo. È questo il tempo del cangiamento ; esso è come ogni
tempo divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento percorre in
esso un numero infinito di gradi per i quali dal primo stato nasce a poco
a poco il secondo. Egli conchiude con Aristotele dalla infinita
divisibilità del tempo, che ogni contenuto di esso e con ciò ogni
cangiamento, o il passaggio da uno stato all’altro deve essere
infinitamente divisibile, e che dunque tutto- ciò che diviene s’origina
in fatti da punti infiniti. atomi come ulteriormente divisibili vale per
tutti e due gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la
mente di ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio clic par
darci questa necessità, non è in fondo che ca¬ gionato da quella nostra
come ripugnanza a riconoscere che l’analisi mentale della realtà deve a
un dato punto arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad elementi
i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il reale potrebbe
sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale non porta con sè una
reale divisione. Solo il tempo ideale può venir diviso a piacere all'
infinito, e non à quindi elementi numerabili, ma il tempo reale col suo
vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque noi, come ci
accade per gli atomi della materia, non arriviamo direttamente a’ suoi
elementi. Non meno delle cose o degli elementi delle cose sono anche i
processi numericamente distinti. E se in astratto la grandezza non à
divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir esattamente concepita
che come risultante di una immediata ripetizione numerica d’uno stesso
identico. L’assenza di elementi reali è solo nel nostro pensiero che può
a- strarre da ogni divisione nel considerare una grandezza, ed è
pienamente libero di dividerla o accrescerla all’ infinito, allo stesso modo
che esso procede co’ numeri. Tanto la natura che il pensiero ànno del
resto la possibilità dell’infinito accrescere e interpolare ; ma ne’ loro
prodotti non possono dare che il determinato: l’infinito si riferisce
solo al loro operare, non al loro operato. Il concetto del continuo
assoluto applicato al tempo reale sarebbe del resto affatto inutile anche
quando fosse giustificato. Poiché empiricamente un tal continuo noi
non lo incontreremmo mai. Il fatto che noi della sintesi della natura
(come dice Diihring in qualche luogo della “Dialettica”), non abbiamo
altro che rappresentazioni di effettività, non ci dà il diritto di fare
delle possibilità del nostro pensiero la misura della realtà. Come in
sé sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’ altro, non può
venir inteso. Tanto varrebbe domandare perché esiste il tempo o magari
l’essere stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi
del tempo è uno sconoscere la natura del pensiero; noi non li possiamo
ridurre ad altro perchè il tempo non è un prodotto della mente, è condizione
anzi dell’esperienza, e non à una natura puramente logica. Il passaggio è
una determinazione della realtà che noi non possiamo che
riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi della materia; noi
non possiamo che ammetterli o riconoscerli; una pretesa spiegazione di
essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà, ma vien confinato da
qualcosa che se pò dare ad esso un contenuto formale, non può però
dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del cangiamento si fa il passaggio
in quanto il cangia¬ mento stesso ci si mostra come fatto compiuto.
Noi non dobbiamo quindi illuderci col concetto misterioso del
continuo assoluto di penetrare più addentro nel fare della natura, nel
divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai altro che constatare gli
avvenuti cangiamenti, nuH’altro possiamo. E cosi in realtà non conosciamo
come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è fatto. Tornando ora alla
soluzione di Riehl, nemmanco col fare la serie dei cangiamenti
assolutamente continua sfugge egli, secondo crede, alla temuta e presunta
contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1' errore suo si fa più
stridente e palese quando egli sostiene che la infinità del tempo si
mostrerebbe esaurita se si dovesse pensare ad un suo fine nel futuro.
Ei crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione, si dovrebbe
ammettere un principio assoluto del tempo. E così fa dipendere, cosa
enorme, la infinità del regresso dalla infinità del progresso nel futuro.
Ma la fine del tempo non è invece punto contradditoria. É questa
una questione di natura empirica; e cosi secondo lui non dovrebbe esser
allora inconcepibile e contraddittorio neppure un principio del tempo. Il tempo
reale, ove fossero date le condizioni di un equilibrio universale,
potrebbe finire ad ogni momento senza assurdità alcuna. Poiché ad
ogni modo nella natura ogni fine non è della serie infinita ma
dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure, ammettiamo che i processi
non siano per sé distinti e numerabili, ma siano invece assolutamente
continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo sono senza
dubbio determinate numericamente. Ora come risponderebbe egli alla domanda — nè
vi può in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare che insieme sommate
le oscillazioni dei pendoli che possono dall’eternità esser mai esistiti
in infiniti mondi, possano venir compresi da un numero finito? E se no
sotto quale concetto una tale somma o regola di somma dovrà venir
pensata? A ciò non à egli risposta. E più ancora come risponde Riehl a
quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità ad ora nate e
morte è egli infinito o finito? Poiché qui manifestamente abbiamo delle
esistenze separate, indipendenti, numerabili anche secondo lui. L’unica
giusta risposta è che un tal numero è necessarianente infinito, o,
propriamente, transfinito. Nel corso perpetuo del tempo non solo non è
contraddittorio, sibbene è necessario che un infinito numero di corpi celesti
(dato che le moderne teorie cosmiche siano, come pare, inevitabili) abbia
gradatamente avuto nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo
cangiamento, nemmanco vi fu una prima terra. Il concetto dell’infinito
assoluto o transfinito è applicabile solo alla serie regressiva dei
cangiamenti, non alla progressiva. La natura di questa consistendo appunto
nel crescere suo continuo verso il futuro non può cadere, se infinita,
che sotto il concetto dell’infinitamenfe grande. Poiché in nessun punto
iminaginabi'e del futuro non si sarà compiuta, a partire da un punto
qualunque del tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E
ciò che si avrà sarà solo la continua possibilità di sempre nuove
mutazioni. La questione però se realmente nella natura dell’essere sia la
disposizione a qnes'.o infinito futuro è affatto empirica, non essendoci, come
s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a priori ci impedisca di pensare
possibile un termine d’ogni cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il
concetto del tempo per sé non ci dà alcuna soluzione; la questione è
puramente di fatto. La soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello
schema spaziale non porta seco necessariamente un infinito riscontro
nella esistenza materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza
del tempo ideale porta con sè quella del tempo reale ossia una serie
infinita di reali cangiamenti. Essa non ci impedisce in modo alcuno di
considerare come possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati
di pensare ad un tempo vuoto non è però il pensiero di esso che gli dà un
contenuto reale in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata
tanto è del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane mai
nel nostro pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza
dell’essere, indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può
mai mancare di farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza
tra la rappresentazione dello spazio e quella del tempo. Mentre a niun
punto arbitrario del tempo viene a mancare il contenuto materiale, non
così necessaria¬ mente ad ogni punto dello spazio. A parte i
cangiamenti in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad.
esso venir applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre
quello che è, cosi il tempo non à a suo riguardo significato alcuno. In
un qualunque momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è
tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse
realmente a mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo
impropriamente venir considerato come nel tempo; la durata dal
punto in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso perchè
noi la immaginiamo misurata da quella piena di cangiamenti della nostra
coscienza. Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità
del passaggio di un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il
tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza
fine – V. anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le
due infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale
inchiude la realtà eterna, la realtà che fu e che sarà. La pienezza
dell’essere non ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita
sua fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è
elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia a originarsi.
Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo
ci si svela la sua natura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che
per la coscienza l’essere immoto in una rigida inerzia non avrebbe valore
alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in
un qualunque punto matematico del tempo. E cosi T importanza del
tempo finito non si perde di contro alla infinità passata e futura del
processso: ogni momento del tempo ci dà l’essere sub specie aeternitacis,
nè altra mai è stata la esistenza della realtà che quella del
momento. Solo in questa considerazione della permanenza eterna del
reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura
sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far
considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che
l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi.
Giova quindi, per la concezione universale dell’esistenza, oltre che
aver riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel tempo
considerare gli altri sistemi parziali del cosmo nel loro coesistente
diverso grado di svolgimento, per cui si lascia forse quasi pensare come
in ogni momento attuata nello spazio la evoluzione temporale dei
singoli mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da
processo a processo, per il filo della causalità materiale spiega
l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva
unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella
rappresentazione non basterebbero per sè a escludere una radicale
disparità nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente
forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà non possa dare
origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si
riconosce che l’unità stessa del reale è che crea quella dello spazio e
del tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬ tura
meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della natura esprimersi in
relazioni di spazio; nelle necessità spaziali è la logica immanente delle
forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo avuto
riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà materiale. Il
pensiero per sè non trova alcun impedimento a riunire ogni spazio in uno
spazio unico nel vuoto schema spaziale e non può trovar quindi ragione di
considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi la pluralità degli spazi
vorrebbe dire pluralità di esseri. Ora una tale pluralità non solo non
può mai venir oggetto del nostro pensiero e per noi non può quindi
assolutamente esistere, ma è dalla realtà smentita, perchè anche
l’esperienza colla omogeneità universale della materia mostra esser
l’essere uno. Le posizioni delle distanze nello spazio reale non sono che
rapporti di forza. Ogni elemento dell’ esistenza materiale è quindi
nello stesso unico spazio. Non esistendo cosi elemento alcuno fuori d’ogni
relazione cogli altri. Analogamente è del tempo reale ; la sua unità suppone
quella dello spazio materiale e dipende insieme dalla universalità del
cangiamento. Per la natura radicalmente omogenea delle cose e per la
temporalità d’ogni cangiamento è uno anche il tempo oggettivo. E
cosi che i principii meccanici si estendono presumibilmente e con sempre
maggior certezza ad ogni massa dell’universo, a ogni sistema di stelle
fisse e gruppo di sistemi. Poiché la base dell’esistenza è di natura
meccanica. Solo la sensazione come tale o il campo della coscienza ne resta
fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una eterogenea sebbene costante e
parallela illustrazione. L’unità dell’essere non à riscontro in una
fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale; rifrange invece
per dir cosi la sua unità in quella di molteplici coscienze individuali.
L’unità oggettiva estramentale e la unità della coscienza: due abissi del
pari inscrutabili ma rispondentisi. Albana e all’altra sta a base e direi
quasi a tergo quella che noi non possiamo concepire che col
concetto formale di ragione o di fondamento unitivo e subfenomenico dei
due fatti. Non è meno inscrutabile l’una unità dell’altra, sebbene quella
della coscienza implica per sé quella materiale oggettiva. Infatti che
cosà di meno oltre analizzabile dell’unità radicale che con la
mutazione si appalesa esistere negli elementi dell’essere? Come spiegare
la effettiva comunione delle sostanze, il fatto che lo stalo di un atomo
porti seco un dato altro stato di un altro? Queste riflessioni ci
richiamano alla infondata originarietà delle cose, e alla natura per
così dire superficiale della conoscenza e del pensiero. Quelli sono
resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già per difetto del nostro
istrumento, ma per la necessaria natura stessa del conoscere, chè altrimenti la
realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta dal pensiero. La
analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno però bisogno
d’esser limiti della conoscenza nel modo in cui falsamente per lo più
vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia pur solo
logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è incondizionatamente
applicabile al reale il principio di ragione, tanto meno lo sono altri concetti
essenzialmente relativi quali quelli di grandezza e di scopo. Se
l’universo è infinito, non à evidentemente per ciò stesso determinazione
alcuna quantitativa; se finito è vero però che in relazione ad una sua
parte esso à una grandezza determinata, sebbene nell’estenzione variabile
da un momento all’altro. E che possiamo quindi dirlo più piccolo di una
grandezza posta mentalmente superiore alla sua ; che anzi possiamo anche
considerarlo infinitamente piccolo in relazione all’infinito assoluto
dello spazio ideale. Ma in sè non si potrebbe dirlo propriamente nè
grande nè piccolo, perchè fuori di esso non vi è nulla che possa darci
una unità di misura. E del pari è affatto relativo il concetto di durata
e inapplicabile perciò in modo incondizionato all’essere. Questo
non dura nè tanto nè poco; e la ragione di ciò è che esso non è nel
tempo. Considerando però la serie dei cangiamenti, al contrario di quanto ci
accade per lo spazio, lo schema ideale del tempo riceve necessariamente
un contenuto reale perfettamente corrispondente. E sciogliendo la
difficoltà che più che tale a molti filosofi è parsa sinora una stridente
contraddizione, abbiamo visto che come per mezzo del tempo si fa
possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe contraddittorio,
cosi per il cangiamento trova una necessaria applicazione alla
realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario Novaro. Novaro. Keywords:
implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice echoing Kant, echo, implicature
ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth, Strawson’s echoic theory of truth,
Skinner on echo – ecoico, eco, implicature ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi
Speranza, “Grice e Novaro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera
Ligure.
Grice e Novato: la
ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Seneca’s
brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates two of his
philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that if Novato
was not a follower of the Porch, he was a the very least a sympathiser. Lucio
Anneo Novato. Novato.
Grice e Numa: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la logica del regno –
Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cures). Filosofo italiano. Cures, Fara
in Sabina, Rieti, Lazio. The second king of Rome. A book was discovered. It
wasn’t written by Numa, but the Romans said it was. It was very philosophical.
The Roman senate ordered that it should be burned. It was! But most Italians
can recite by heart all the indiscriminate teachings it contained. The big
polemic came from Cicero. He didn’t want Roman philosophy to have a start other
than in Rome, so he denied the school of Crotone and much more any Etrurian
influence via N. Still… N.dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume
Rouillé 2º Re di Roma Predecessore Romolo Successore Tullo Ostilio Nascita Cures
Dinastia Re latino-sabini ConiugeTazia Figli Pompilia N., Cures Sabini, -- è
stato il secondo re di Roma, e il suo regno durò 42 anni. Numa Pompilio, di
origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci grazie
soprattutto a Tito Livio e a Plutarco, che ne scrive anche una biografia, era
noto per la sua pietà religiosa e regna
succedendo, come re di Roma, a Romolo. N. e un re pio, e in tutto il suo regno
non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di N. non avvenne
immediatamente dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo, i senatori
governarono Roma a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo
di sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre
maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa
efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno, i senatori furono
costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa
delle tensioni fra i senatori romani che proponevano il senatore Proculo ed i
senatori sabini che proponevano il senatore Velesio. Per trovare un
accordo si decise che i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i
Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I
Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella
a Cures ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che N. fosse
nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. N., concittadino di Tazio, e
noto a Roma come uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di
leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di ‘pio.’ I Sabini accettarono la proposta rinunciando
a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i
due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini, per
offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei
senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, N. vi acconsente solo dopo
aver preso gl’auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli. N. fu
quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. La leggenda afferma che
il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da N. fu a lui
dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei
boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A N. viene
attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le
istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle religiose, raccolte per iscritto
nei commentarii N. o libri N., che andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla
base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano
amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le
Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. N.stabilì di unificare
ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani per eliminare le
divisioni e le tensioni, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove
associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nomina, a fianco del
sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un
terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, gli dei più importanti
dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio
sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni.
Numa proibe ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale
perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini. Durante il regno
di N. non furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio
sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa
ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestal, sulla
moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di
carattere sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a
queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro
della città. Le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio
ne aggiunse altre due. Istituì anche il collegio dei Feziali, i guardiani della
pace, che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i
conflitti e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi
diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei salii,
sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra -- per
i romani il periodo per le guerre anda da marzo ad ottobre. Era, questa
funzione, molto importante per gli abitanti di Roma, perché sanciva, nel corso
dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini soggetti
all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a milites -- militari
soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni
militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Numa migliora
anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di
partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia assieme ai loro
padroni. La tradizione romana rimanda a N. la definizione dei confini tra le
proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa,
statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis,
e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fa costruire il
tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via
Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse
solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo
regno -- Secondo Marco Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo, il re N.,
ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda
(ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto N. e un
convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già
in voga in quei lontani tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re N. poi
incluse a Roma il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto
da mura. A N. e ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli
lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo
divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con
l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine
dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la
persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre,
ottobre, novembre, dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei
giorni fasti e ne-fasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna
decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più
difficili, la tradizione racconta che il re N. segue i consigli della ninfa
Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Atque
omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia
tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desuntque sex dies solido anno
qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita
dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis
omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit,
quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat. Anzitutto divise l'anno
in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non
arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare
l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi
intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano,
tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo
ventennale del calendario. Egli fissa pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo
cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni
politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe condita) L'anno così
suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni
alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni,
togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere
queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche. Floro
racconta che N. insegna i sacrifici, le cerimonie ed il culto del sacro ai
Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri ed i salii. La tradizione vuole che
Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la festa di Quirino e la festa di
Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio. La festa dedicata a Marte si
celebra a marzo, e venne officiata dai salii. N. partecipa di persona a tutte
le feste religiose, durante le quali e proibito lavorare. A queste
riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di
pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il
regno di Numa le porte del tempio di Giano non furono mai aperte. N. muore ottantenne
e non di morte improvvisa, ma consunto dagl’anni (per malattia secondo Livio),
quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, ha solo cinque anni, circondato
dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace
di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti
rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito
insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa
esperienza del regno di Romolo, N. seppe con la sua saggezza fornire un saldo
equilibrio alla nascente città. Durante il consolato di Marco Bebio
Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua
sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed
altrettanti di filosofia. Per decreto del senato, i primi furono conservati con
cura. I secondi furono pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che
aveva sposato la figlia Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da
Tullo Ostilio e si lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra
Pompilia e Marcio e nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune
fonti raccontano di un secondo matrimonio di N. con una certa Lucrezia da cui
sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali
avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni
e dei Marci. L’esistenza di N., come accade per quella di Romolo, è discussa.
Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per
metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento
religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto
al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo
alcuni N. viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito
sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua
figura. Strabone, Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio:
Ab Urbe condita. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non
posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu
quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum
praeficere. Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito,
Annali, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum
significatione. Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio,
Periochae ab Urbe condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio
Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di N. Antonio
Brancati, Civiltà a confronto, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae, Livio,
Ab Urbe condita libri; Periochae. Plutarco, Vita di N.. Fonti storiografiche
moderne, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, Milano,
Einaudi, Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron,
Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, Gabba, Dionigi e la storia
di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, Matyszak, Chronicle of the roman republic:
the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra, Thames and Hudson,
Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, Pallottino, Origini e storia
primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano,
Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli,
Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie Età regia di Roma Rex (storia
romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia romana). N. Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Sanctis., N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
N. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. sapere.it, De
Agostini. N. Enciclopedia Britannica, Goodreads. Predecessore Re di Roma Successore
Romolo a.C. Tullo Ostilio Storia romana Plutarco Portale Antica
Roma Portale Biografie Portale Mitologia Categorie:
Sovrani Sovrani Romani Nati a Cures Sabini Personaggi della mitologia romana Re
di Roma Oracoli classici [altre] Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in
quarto libro tradit Cneum Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua
N., qui Romae regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse
libros a rege Numa scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta
N. libros Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam
tradit libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a
scriba senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos,
permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim
eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros
mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos
non tetigerant. Tamen, lectis libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica
philosophia et propter hoc a praetore ussi sunt. Hoc idem tradit Piso quoque in
libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris pontificii, totidem
Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera sua etiam senatus
consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico autore di annali,
nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio avesse disseppellito
nel Gianicolo il sarcofago, nel quale N., che aveva regnato a Roma, era stato
sepolto. Aggiunge inoltre che nel sarcofago erano stati trovati i libri scritti
dal re Numa cinquecentotrenta anni prima. Cassio scrive anche che i libri di N.
erano di carta, pieni di molte cose misteriose. Cassio tramanda anche che i
libri nel sarcofago fossero stati trovati integri con grande stupore di tutti e
che fossero stati portati dallo scrivano al senato. Poiché tutti notavano che i
libri, sepolti sotto terra, erano rimasti integri, Cassio Emina stesso fornisce
la sua spiegazione. Dice, in effetti,
che questi libri erano stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e
per questo erano rimasti integri.
Inoltre, poiché i libri erano stati cosparsi con grande cura di olio di
cedro, i tarli non li avevano toccati. Tuttavia, letti i libri, furono trovati
molti scritti sulla filosofia pitagorica e per questo furono bruciati dal
pretore. Questa stessa notizia la
tramanda anche Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette
libri del diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di
Anzio inoltre nella sua opera tramanda anche la consultazione del senato nella
quale fu ordinato che essi fossero bruciati. The original Romans are the ones who did the choosing
part. They don’t select anyone from the Sabine senators but find a man in the
Sabine city of Cures, the birthplace of the former king Titus Tatius, famous
for his justice, wisdom, and piety. His name was N.. The people, happy with
this choice, accepted their new king quickly. Only one small problem now
occurred – the man who was chosen to rule after so much effort and such a
lengthy and difficult process was not really keen on reigning at all. When a
delegation from Rome approached him, he humbly refused. It required much much
persuasion from his father and brothers with arguments about honour too great
to refuse, but in the end, N. finally agreed and became the king of Rome. Numa Pompilio. Numa.
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