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Tuesday, August 27, 2024

GRICE ITALO A/Z N

 

Grice e Nannini: la ragione conversazionale e l’implicature conversazionali dei corpi animati – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini about the naturalism: the ‘anima’ is there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action, ‘l’azione’ – He is the Italian Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the equivalent of the Muybridge series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e, inizialmente, con Cesare Luporini. Ha accompagnato la sua attività di ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni accademici con una intensa attività politica a Siena come militante del Partito Comunista Italiano. È stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di Filosofia Teoretica all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni anche filosofia della mente ed è stato principale cofondatore e direttore di una scuola di dottorato interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre più volte, visiting professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e Oldenburg. Attualmente in pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso l’Siena e dal  è direttore di Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono incentrati sulla filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e la storia del pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia analitica ed in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare il “naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del problema mente-corpo.  Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” --  Una introduzione storica alla filosofia dell’animo, Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo, Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società” Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena), SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia», Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in  L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia materialistica, in «Giornale di metafisica»,  Nicolaci G., Perone U., Ontologia e metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società: Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello: Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano, Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C., Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena), SeB Editori,  In-conscio, co-scienza e intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet,  Sandro Nannini, La Nottola di Minerva: Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Nannini. Keywords: corpi animati, l’interazione dei corpi animati, l’ego come direttore assente, freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi Speranza: “Grice e Nannini: il santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The Swimming-Pool Library. Nannini.

 

Grice e Nardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Alighieri -- dantesco – Alighieri – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spianate). Filosofo italiano. Spianate, Altopascio, Lucca, Toscana. Grice: “The Italians are fortunate: with Alighieri they can philosophise about him!” Primogenito di una famiglia benestante, composta di nove figli, viene avviato sin dalla tenera età alla carriera ecclesiastica. Entra nel collegio dei frati francescani a Buggiano e diventa chierico, assumendo il nome di frate Angelo. Usce dal convento di Buggiano perché non aveva intenzione di continuare nella vita religiosa, avendone perduta la vocazione. Proseguì gli studi di filosofia e teologia frequentando il convento di Sant'Agostino di Nicosia in provincia di Pisa. Volendo proseguire gli studi, i genitori gli indicarono un'unica strada, quella di entrare in seminario e diventare prete. Venne ammesso al seminario di Pescia e diventò sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente al movimento Modernista, condannato da papa Pio X con l'Enciclica Pascendi.  Nel 1908 Nardi sostenne l'esame di concorso per una borsa di studio triennale conferita dall'opera Pia Galeotti di Pescia al fine di frequentare un corso di perfezionamento filosofico presso l'Università Cattolica di Lovanio (Belgio). Nel 1909 Nardi aveva da poco iniziato a frequentare l'Università Cattolica di Lovanio che già decise l'argomento della sua tesi di laurea Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Dante, che venne discussa con Wulf. La lettura dell'opera di Pierre Mandonnet, nella parte dedicata a Sigieri, non persuadeva N. sulla soluzione data al problema della presenza di questo averroista nel Paradiso dantesco. Due pregiudizi la inficiavano: il primo “consisteva in un'inesatta visione storica di quello che nel Medio Evo e nel Rinascimento era stato l'averroismo. Il secondo pregiudizio del Mandonnet era quello di ritenere il pensiero filosofico di Dante conforme in tutto e per tutto a quello d’AQUINO." Nel momento in cui N. Entra a Lovanio abbandonò il modernismo teologico, ma non abbracciò la filosofia neo-scolastica che quella Università belga stava elaborando. Non aveva senso per lui ripetere, sul finire dell'Ottocento, nell'epoca del positivismo, l'operazione culturale d’AQUINO che prevedeva l'unificazione di fede e ragione.  Il metodo di lavoro che Nardi seguì nel corso della sua vicenda di studioso e ricercatore, rimase sempre improntato al massimo rigore filosofico, risentendo come una traccia indelebile dell'esperienza di Lovanio, dove dovette affrontare studi scientifici. Per Nardi l'interpretazione del testo coincide con la libertà, ma tale atto libero non può attivarsi senza uno scrupoloso lavoro di scavo e ricerca del materiale documentario, l'esatta interpretazione filosofica dei testi.  Ottenuta un'ulteriore borsa di studio dall'Opera Pia di Pescia frequenta corsi di filosofia a Vienna, Berlino, Bonn. Oltre alla pubblicazione della propria tesi su Sigieri nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, N. vi pubblica altri interventi spesso critici con la linea editoriale del periodico. scritto ai corsi dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze perché voleva riconoscere in Italia la sua laurea in filosofia conseguita a Lovanio. A Firenze discuterà la tesi di laurea in filosofia dedicata alla figura del medico e filosofo padovano Abano. Collabora alla “Voce”, rivista fondata da Prezzolini con il quale mantenne per lunghi anni una fitta corrispondenza. N. volle abbandonare il sacerdozio. In una successiva lettera  indirizzata al vescovo Angelo Simonetti, spiegava che era stato l'ambiente familiare a spingerlo a chiedere la sacra ordinazione, con preghiere e minacce. Di trasferì a Mantova per insegnare filosofia presso il liceo classico Virgilio, dove vi restò fino al quando si trasferì a Milano. Ha da Giovanni Gentile un incarico per l'insegnamento della filosofia medievale presso la facoltà di lettere dell'Roma. Tuttavia non ottenne la cattedra universitaria (se non dopo molti anni), a causa dell'art. 5 del Concordato in base al quale la curia romana escludeva i sacerdoti secolarizzati dall’insegnamento. Gli fu assegnata la “Penna D’Oro” dal presidente del Consiglio Tambroni. Gli fu conferita la laurea honoris causa da parte dell’Padova e da parte di quella di Oxford.  Le opere e gli studi su Alighieri si è dedicato instancabilmente per di più in mezzo secolo allo studio del pensiero di Dante, anche quando si occupava di Virgilio, di Sigieri di Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo mettere in discussione schemi consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato proposte inedite che ci permettono di avere una più esatta comprensione dei testi danteschi. Una costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria autonomia, se non un vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti culturali in cui si era trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il coraggio con cui seppe polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti accademici, gli fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata considerazione rispetto alle sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti pensare alle sue tesi sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura di Avicenna, di Alberto Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di Gentile parlava come di un "vero e grande maestro", dandogli ragione nella sua polemica con il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi pur tuttavia non aderirà al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e stimoli per le sue ricerche.  L'incontro con Dante costituisce per N. l'episodio decisivo della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956: "in Dante trovai il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior gratitudine". Il senso della sua ricerca è stato interrogare il "miracolo" della Divina Commedia, questo "singolare poema sbocciato all'improvviso contro tutte le buone regole dell'arte e del dittare". Secondo N. nella commedia è custodita la Verità, che si è manifestata ad un poeta ispirato da una profetica visione. La lunga fatica del Nardi è giunta a concludere che la filosofia di Dante non si riduce a nessun sistema codificato; è una sintesi complessa tendente a superare le antinomie e che mantiene intera la sua spiccata originalità, il suo personalissimo pensiero. Per arrivare a coglierlo occorre da una parte ristabilire il preciso significato delle parole in rapporto alla terminologia filosofica e scientifica del Medioevo, e ricostruire dall'altra l'ambiente culturale e l'atmosfera spirituale nelle quali Dante si muoveva per arrivare a determinare la fonte, il libro letto da Dante.  N. ha gettato luce su molti elementi e suggestioni che Dante derivava dalla filosofia araba e neoplatonica. Essenziali per comprendere Dante sono Alberto Magno e Sigieri più di Tommaso; così come il neoplatonismo e la cultura araba più dello scolasticismo aristotelico. A N. interessava particolarmente affrontare il tema della "visione dantesca", esperienza profetica che seppe tradurre come nessun altro nel linguaggio della Divina Commedia. La visione di Dante non è finzione letteraria, è rivelazione reale dell'aldilà, concessa da Dio in virtù di un supremo privilegio. Dante visse il rapimento mistico ed estatico al terzo cielo come esperienza reale. Dante credette di essere sceso veramente nell'Inferno, salito veramente al Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia si distacca dagli altri scritti di Dante, perché ne è il loro compimento. Tale culmine si realizza attraverso un'esperienza eccezionale, di origine mistico-religiosa a lui soltanto riservata, una rivelazione che ha il potere di trasformare e rendere nuove tutte le altre opere precedenti.  L'opera dantesca, secondo Nardi, si deve suddividere in tre fasi: la prima fase, che termina a venticinque anni, è sotto l'influsso di Guinizzelli, assente del tutto la filosofia. La seconda fase, quella filosofico-politico, coincide con le rime allegoriche, il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia. La terza fase, quella della poesia profetica, coincide con la Divina Commedia, poema che segna il ritorno all'unità della filosofia cristiana. Dante vi compare come profeta che deve annunciare al mondo l'avvento di un inviato di Dio per la redenzione umana. La Commedia è "poema sacro", la sua è poesia religiosa. Nardi vede in questa terza fase finalmente riconciliarsi la speranza cristiana spezzatasi con l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi l'aristotelismo è inconciliabile con il cristianesimo, e il tomismo pertanto è "il più strano paradosso del pensiero umano". La Commedia testimonia della riunificazione della filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una visione profetica, esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia.  Saggi:  “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI -- ; “Critica dantesca” (Milano,  Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza).  Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale Critico della Filosofia Italiana",  Premi Feltrinelli, su lincei,  Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri, Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”, Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma,  Universitarie; “L'alessandrinismo nel Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico,  I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica” La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del commento al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della verità, soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale” (Universale di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, Corso di storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di Simplicio al “De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il carattere morale di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere inedite di Pomponazzi, “Giornale critico della filosofia italiana” Le meditazioni di Cartesio, Lezioni di storia della filosofia. “La Goliardica”, Roma, Pomponazzi e la cicogna dell'intelletto, “Giornale critico della filosofia italiana” Il dualismo cartesiano, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a Leibniz, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora qualche notizia e aneddoto su Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Marcantonio e Zimara: due filosofi galatinesi,  “Archivio storico Pugliese” Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a Padova alla fine del sec. XV, “Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo alla biografia di Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura e cultura del Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze, Sansoni); “Appunti intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura, Roma); “Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale. Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i Testi di Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in Studi di Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas vergilana – (Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in Umanesimo Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi” (Monnier, Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti di lezioni e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di studi sul Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier, Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina Commedia, Treccani Enciclopedie,  Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza scientifica Società Dantesca Italiana. L’ARISTOTELISMO PADOVANO. STUDI SULLA  TRADIZIONE  ARISTOTELICA NEL  VENETO, UNIVERSITÀ    DEGLI    STUDI  DI    PADOVA, CENTRO ARISTOTELICO. L'ARISTOTELISMO  PADOVANO. SANSONI,  FIRENZE. Il volume  di N. è  stato  pubblicato  a  cura  e  sotto  gli  auspici  del centro  per  lo  studio  della  tradizione  aristotelica  nel   Veneto  e  del Comitato  per  la  storia  dell'università  di  Padova. Stampato  in  Italia. N.  adere  di  buon  animo  a  che  venissero  riuniti  in  un volume,  per  comodo  degli  studiosi  che  ne  fanno  ricerca,  alcuni saggi  sull'aristotelismo  padovano  e  particolarmente  su quell’ interpretazione  del  pensiero  del “LIZIO” (antica ortografia di “Lyceo”)  che  prende  il  nome d’Averrois  che  7  gran  commento  feo  »,  sparpagliati, come  numerosi  altri  loro  confratelli,  in  varie  riviste  ormai  non più  facilmente  accessibili.  Questi  saggi  abbracciano  un  periodo assai  lungo  di  ricerche  dal  igi2  al  ig^ó,  e  nel  loro  insieme offrono  un  quadro  sufficientemente  completo,  per  monografie che  si  richiamano  fra  loro,  della  filosofìa  a  Padova  dai  tempi di  Abano (SCHIAVONE, si veda) a  quelli  di  ZABARELLA (si veda) e PICCOLOMINI (si veda), quando  ormai,  a  Padova  e  altrove, il LIZIO comincia  a volgere  decisamente  al  tramonto,  per  il  nascere  delle  nuove  scienze della  natura  e  del  nuovo  metodo  di  ricerca  filosofica. Fuori  della  presente  raccolta,  già  abbastanza  pingue,  son  rimasti i  saggi  stille  opere  inedite  di POMPONAZZI (si veda),  meno  quello relativo  alla  miscredenza  di  VERNIA (si veda),  perché  essi  potranno essere  riuniti  a  suo  tempo  in  un  volume  a  parte,  ed  altresì quello  sulla  letteratura  e  cultura  veneziana, apparso  in  La  civiltà  veneziana  pella  Fondazione  Cini,  che  potrà  meglio  figurare  insieme  ad  altri, che  vado  preparando ,  sulla  filosofia  veneziana  del  Rinascimento. Nella  formazione  del  presente  volume  non  è  stato  sempre rispettato  l'ordine  cronologico  nel  quale  i  saggi  qui  compresi sono  apparsi,  per  il  bisogno  di  contemperarlo  con  la  successione storica  degli  argomenti  trattati.  Ad  ogni  modo,  sono  stati  sempre indicati  in  nota  la  data  e  il  luogo  ove  ciascuno  ha  visto  la  luce la  prima  volta.  Inoltre,  ritengo  opportuno  avvertire  che  tutti sono  stati  più  o  meno  leggermente  ritoccati,  e  qualcuno  in  modo assai  notevole. Quello  che  mi  ha  guidato  in  queste  non  agevoli  ricerche,  non è  stato,  cerne  forse  taluno  potrebbe  pensare,  il  gusto  delle  notizie erudite,  pur  sempre  indispensabili  alla  ricerca  storica,  sibbene il  bisogno  di  prospettare  le  particolari  condizioni  e  circostanze d'ambiente  culturale  in  cui  certi  problemi  filosofici  eran  posti dagli  aristotelici  padovani,  e  lo sforzo  da  questi  sostenuto  per  trovarne  una  soluzione  e  per  eva- dere da  abitudini  mentali  e  pregiudizi  che  alla  soluzione  di  quei problemi  s'opponevano. Su  alcuni  di  siffatti  problemi  discussi  e  ridiscussi  mille  volte nel  corso  di  quasi  quattro  secoli,  era  naturale  che  avessi  a  fermarmi con  insistenza  e  abbondanza  di  citazioni,  perché  chi legge  avesse  modo  di  rendersi  conto,  quasi  toccando  con  mano, dell'  imprecisione  e  non  di  rado  dell'  avventatezza  di  talune  af- fermazioni da  parte  di  non  pochi  storici  che  la  storia  delle  idee non  hanno  mai  preso  sul  serio,  contenti  troppo  spesso  di  luoghi comuni  e  vacue  generalità:  Per  oppormi  appunto  a  questo  andazzo e  per  restituire  ai  pensatori  sui  quali  mi  sono  fermato i  lineamenti  della  loro  umana  fisionomia,  m'  è  parso  non  fossero da  sdegnare  notizie  particolari  e  perfino  aneddoti  che  rasentano il  pettegolezzo,  ma  intanto  rivelano  curiosi  tratti  del  loro  carattere morale  e  aprono  uno  spiraglio  su  quell'ambiente  scolastico,  per tanti  aspetti  così  diverso  di  quello  d'oggi. La  distinzione  poi  che  s'  è  preteso  di  fare  tra  filosofia  e  cul- tura s  è  rivelata  inconsistente,  non  solo  quando  s'  è  tentato di  giustificarla,  col  definire  in  termini  rigorosamente  logici  il concetto  di  cultura  come  diverso  da  quello  di  filosofia,  ma  più ancora  quando,  in  omaggio  a  quella:  pretesa  distinzione,  nel tracciare  la  storia  del  pensiero  d'un  epoca,  s' è  tenuto  conto quasi  esclusivamente  dei  pionieri  e  si  sono  disprezzate  forme  di pensiero  meno  avanzate  e,  diciamo  pure,  piii  umili,  come,  ad esempio,  per  il  Rinascimento,  le  credenze  magiche  ed  astrolo- giche, condivise  da  dotti  non  meno  che  dal  popolino,  e  le  opinioni intorno  al  potere  delle  streghe  e  al  loro  commercio  col  diavolo, cui  davan  credito,  non  meno  del  volgo,  insigni  cherci  e  letterati grandi  e  di  gran  fama,  non  che  giuristi  e  teologi  i  quali  s'argomentavano d' estirparne  la  mala  semenza  con  gli  esorcismi  e col  rogo.  Così  del  Rinascimento  s'  è  mostrato  solo  un  aspetto, mettiamo  pure  il  migliore  e  più,  seducente,  ma  unilaterale  e  incompleto, per  aver  relegato  nell'ombra  il  rovescio  della  medaglia,  cioè  quelle  forme  di  pensiero  che  persistevano  non  solo nelle  masse  popolari  e  incolte,  ma  altresì  nei  ceti  borghesi  di media  cultura,  nella  nobiltà,  nelle  corti  principesche  e  nel  clero. Eppure  anche  siffatte  convinzioni  rappresentano  particolari maniere  di  raffigurarsi  la  vita  e  il  mondo  e  costituiscono  an- ch'esse modi  di  pensare  la  realtà,  che,  per  quanto  arretrati,  furon condivisi  dall'  enorme  maggioranza  degli  uomini  nel  periodo che  si  dice  del  Rinascimento. Altrettanto  si  dica  della  distinzione  fra  «  ciò  che  è  vivo  e  ciò che  è  morto  »  del  pensiero  del  passato,  quasi  che  potesse  morire quel  che  non  è  mai  stato  vivo,  e  che  vivere  non  fosse  un  correre alla  morte,  cioè  un  continuo  rinnovarsi. Singolarmente  penosa  appare  infine  l'ansia  che  per  il  con- cetto, la  natura,  il  metodo,  le  sorti  della  storia  e  per  il  valore del  giudizio  storico  dimostrano  taluni  che,  chiusi  nella  loro specola  teoretica,  senza  scomodarsi  colla  ricerca  e  la  critica  dei documenti  e  delle  testimonianze,  indispensabili  al  giudizio  sto- rico, pretenderebbero  di  dedurre  a  priori  gli  eventi  della  storia universale.  Sì,  lo  sappiamo,  per  interpretare  il  linguaggio  dei documenti  e  delle  testimonianze  ci  vuol  cervello;  e  per  cervello intendo  la  «  categoria  »,  cioè  la  capacità  a  inserire  il  fatto  accer- tato nella  trama  logica  del  pensiero.  Ma  la  «  categoria  è  vuota senza  V  intuizione  »,  e  la  mola  del  pensiero  frulla  a  vuoto  se dalla  tramoggia  non  cala  giù  il  buon  grano  falciato  nei  campi arsi  dal  sole,  battuto  vagliato  e  seccato  sull'aia.    che  a  ragione pareva  al  Vico  «  aver  mancato  per  metà  così  i  filosofi  che  non accertarono  le  loro  ragioni  con  l'autorità  de'  filologi,  come  i  fi- lologi che  non  curarono  d'avverare  le  loro  autorità  con  la  ra- gione dei  filosofi. Il  già  celebre  e  oggi  invece  quasi  sconosciuto  medico  e filosofo  padovano,  Abano SCHIAVONE (si veda),  vien  classificato  ordinaria- mente dai  rari  storici  moderni  della  filosofia  medievale  che  si degnano  consacrargli  qualche  linea,  fra  gli  averroisti:  da  qual- cuno è,  anzi,  presentato  come  fondatore  dell'averroismo  al- l'università di  Padova.  Ma,  cosa  strana,  dell'averroismo dell' Abanese  tacciono  affatto  gli  antichi  storici  che  pur  lo fanno  passare  come  astrologo,  mago,  eretico,  e  che  a  queste accuse,  riguardanti  le  dottrine  di  lui,  ne  aggiungono  ben  altre riferentisi  al  carattere  personale,  per  quanto  queste  ultime abbiano  l'aspetto  di  favole  se  non,  spesso,  di  denigrazioni evidenti.  Scorrendo  la  monografia  che  gli  consacra  S.  Ferrari  ', il  sospetto  che  l'averroismo  del  medico  d'Abano  non  fosse una  pretta  leggenda,  si  accrebbe  in  me  a  tal  segno  che  decisi di  consultare  per  conto  mio  il  Conciliator  differentiariini  phi- losophormn  et  praecipiie  medicorum.  Sennonché,  essendo  l'opera relativamente  rara  e  trovandomi  da  quattro  anni  quasi  sempre all'estero,  non  mi  fu  così  facile  procurarmela;  quando,  nell'essere a  Bonn  m'abbattei  in  un'edizione  senza  data,  ma  che porta  in  testa  questa  nota  manoscritta:  impressus. Me codex  est  Venetiis  a.  1483  per  Jo.  Herbart  de  Selgenstadt, alemanmmi.  Mentre  andavo  trascrivendo  i  passi  più  impor- tanti dal  punto  di  vista  filosofico,  quasi  quasi  non  sapevo credere  a  me  stesso,  finché  non  li  ebbi   collazionati   con   altre *  Già  apparso  nella  «  Riv.  di  Filos.  Neoscolastica»,  I\',   Solo  qualche  lieve  ritocco. I  /  tempi,  la  vita,  le  dottrine  d’Abano.  Saggio  storico-filo- sofico di  Sante  Ferrari,  Genova.] edizioni  e  specialmente  con  quella  del  1476,  di  cui,  oltre  le  copie possedute  a  Padova,  a  Firenze,  a  Torino  ecc.,  una  si  trova con  mia  grande  sorpresa  proprio  nella  Capitolare  di  Pescia. Dico  che  non  sapevo  credere  a  me  stesso,  perché  i  passi, a  cui  il  Ferrari  rimanda,  lungi  dal  rivelare  le  preoccupazioni averroistiche  che  egli,  con  critica  bizzarra,  crede  scoprire ad  ogni  pie  sospinto  attraverso  le  dichiarazioni  di  Pietro d'Abano,  dimostrano,  al  contrario,  che  questi  aderiva  espHci- tamente  e  senza  riserve  o  esitazioni  di  sorta  ad  un'altra  teoria intorno  all'anima,  che  era  l'antitesi  perfetta  di  quella  del filosofo  arabo  di  Cordova.  Quei  passi  sono  così  chiari  che  il Ferrari  stesso  si  sente  imbarazzato  e  suda  due  camicie  per interpretarli  a  rovescio,  come  fa.  Dovrei  forse  dubitare  della buona  fede  di  lui  ?  Certo,  nell'opera  erudita  del  Ferrari  si rivela  qua  e    un  gusto  matto  di  sorprendere  nel  filosofo  da lui  studiato  atteggiamenti  e  pose  d'eretico  che  agli  occhi  dell'autore lo  rendono  più  simpatico.  E  quando  gli  fanno  difetto i  documenti  e  le  dichiarazioni  esplicite,  ricorre  a  stravaganti congetture  o  a  insinuazioni  ridicole.  Ma  io  ritengo  Ferrari un  perfetto  galantuomo,  e  per  dubitare  della  sua  completa buona  fede  non  ho  motivi  sufficienti.  Penso  invece  che  gli manchi  l'esatta  conoscenza  del  pensiero  medievale;  in  ma- niera che  egli  non  sa  comprendere  nel  loro  giusto  significato certe  dottrine,  le  quali  non  si  possono  capire  se  non  in  rapporto ai  movimenti  d' idee  a  cui  mettono  capo.  Ora,  infatti,  sostiene che  Pietro  d'Abano  fu  accusato  di  materialismo;  più  tardi, invocherà  la  stessa  condanna  per  dimostrare  che  questi  non era  sincero  quando  dichiarava  prava  la  teoria  averroistica dell'unità  dell'intelletto. Ora  gongola  di  gioia  perché  Pietro,nel  riferire  l'opinione  del  Commentatore,  la  lascia  passare senza  una  nota  di  biasimo;  una  pagina,  dopo,  ti  verrà  a  dire che  la  nota  di  biasimo,  che  l'Abanese  quest'altra  volta  invece ha  affibbiato  agli  averroisti,  va  presa  per  «  ....  un'ostentazione a  ufficio  di  scudo  »  !  E  via  di  questo  passo  -. -  Op.  cit.,  pp.  340-353.  Il  Ferrari  avrebbe  fatto  bene,  invece  di  ri- mandare alle  opere  di  Pietro  d'Abano,  che  il  lettore  non  sa  procurarsi con  tanta  facilità,  di  offrire  estesamente  citazioni  più  abbondanti  e meno  laconiche.  Il  pubblico  poi  che  si  occupa  di  queste  materie  sa- prebbe, credo,  fare  a  meno,  e  quanto  a  me  molto  volentieri,  della  tra- duzione che  il  Ferrari  sostituisce  ai  passi  citati,  i  quali  nel  loro  latino scolastico   sono    molto    meno    oscuri. LA    TEORIA    DELL  ANIMA  3 Confesso  la  verità.  Arrivato  in  fondo  al  capitolo  dove  il Ferrari  parla  della  «  Psicologia  genetica  e  metafisica  »,  non sono  mai  riuscito  a  raccapezzarmi  sulla  vera  dottrina  del medico-filosofo  d'Abano.  La  quale,  pertanto,  se  si  piglia  in mano  il  Conciliator,  è  abbastanza  chiara,  nelle  sue  linee  gene- rali, ed  è  ben  diversa  da  quello  che  il  Ferrari  va  fantasticando. Ecco  qui  uno  dei  passi  più  importanti  e  nello  stesso  tempo meno  ambigui.  Alla  differentia  48  ^  si  discute  la  questione  se il  seme  umano  sia  o  no  animato.  E,  a  proposito  di  questo problema,  il  medico  padovano  espone  la  sua  teoria  sullo  svi- luppo dell'embrione  e  sull'origine  e  natura  dell'anima.  Egli dice: Rector  autem  huius  tain  divini  operis  [cioè  dello  sviluppo  embrio- nale] virtus  est  dieta  informativa  ab  anima  parentis  decisa,  per  im- pulsionem  coeuntis  incitata,  quam  Galenus  de  virtutibus  nahiralibus, secundo,  ca.  2,  appellat  summam  artem  praesidem  et  intellectivam sine  mente,  Aristoteles  autem  intellectum  vocatum  sive  intel- lectivam divinam,  ceu  ei  Haly  ascripsit.  Nominavit  autem  eam Aristoteles  intellectum  vocatum,  ad  differentiam  intellectus  po- tentionalis  et  agentis  pars  existentium  animae  intellectivae,  ut terfio  de  anima  inquit:  Dico  autem  intellectum  quo  anima  opinatur et  sapìt,  ad  differentiam  intellectus  quem  ponebat  Anaxagoras chaos  dieta  ex  eodem consimilia  sequestrantis.  Et  ideo  apparet hic  erroneus  intellectus  lacobitarum  me  persequentium  tam- quam  posuerim  animam  intellectivam  de  potentia  educi  mate- riae;  differentia  9;  cum  aliis  mihi  54  ascriptis  erroribus.  A  quorum nianibus  gratia  dei  et  apostolica  m.ediante  me  laudabiliter  evasi. Da  qua  quidem  virtute,  ló.  animalium,  Avicenna:  '  Virtus  infor- mativa est  illa  quae  dat  vitam  et  est  proportionalis  virtuti  su- percoelestium  '. Arrestiamoci  a  precisare  il  significato  di  questo  passo. L'Abanese  parla  qui  non  dell'anima  umana,  ma  della  virtù i  il  formativa,  la  quale  più  sotto  è  così  descritta  sulla  scorta del  De  animalibtis,  XVI,  e.   i,  di  Avicenna: Virtus  informativa  est  illa  quae  dat  vitam  et  est  proportio- nalis virtuti  supercoelestium,  et  ista  virtus  facit  similia  secundum quid  virtutibus  supercoelestibus  quousque  sit  possibile  illam recipere  vitam,  et  est  dispersa  per  universam  substantiam  cor- poris  sive  sit  humiduin  sive  siccum:  et  in  spermatis  substantia est  potentia  potens  recipere  hanc  virtutem  et  est  spiritus  primus deferens  calorem  coelestem  et  ipse  est  causa  omnium  partium  sper- matis. Estque  haec  virtus  a  corpore  abstracta,  cui  etiam  ab  Arist. accipiens    commentator.        metaphy.    i^Comm.    37]:  Arist.    dixit in  libro  de  animalibus,  quod  ipsa  sit  similis  intellectui  in  hoc, quod  non  agit  per  instrumentum  corporale  et  membrum  pro- prium. La  teoria  della  virtù  informativa,  qui  esposta,  è  tratta  dal secondo  libro  del  De  generatione  animaliuni  d'Aristotele  3  e la  si  ritrova  quasi  negli  stessi  termini  presso  S.  Tommaso  4. Siccome,  per  altro,  i  Giacchiti  di  Parigi  credettero  che  Pietro intendesse  parlare  dell'anima  umana,  per  questa  ragione, com'egli  dichiara,  lo  accusarono  dell'errore  d'Alessandro d'Afrodisia  e  di  Galeno,  l'ultimo  dei  quali  sosteneva  che  l'anima fosse  la  stessa  complexio  del  corpo  organizzato  \  e  il  primo che  r  intelletto  materiale  o  possibile  dovesse  farsi  consistere in  una  certa  virtìt.  risultante  «  ex  universa  illa  temperatura  vel constitutione  »  propria  dell'organismo  umano  ^.  Lo  accusa- vano, dunque,  dell'errore  opposto  all'averroismo  e  contro  il quale  il  celebre  commentatore  dello  Stagirita  aveva  aspra- mente polemizzato  a  più  riprese.  A  quest'accusa  aveva  dato certamente  motivo  l'appellarsi  che  Pietro  faceva  a  Galeno e  al  di  lui  fidelissimus  interpres,  Haly  ben  Rodoam.  Questi aveva  saputo  trovare  presso  Aristotele,  non  si  sa  come,  la teoria  dell' intellectus  vocatus,  della  cui  provenienza  aristotelica il  Nostro,  con  quella  sua  espressione:  «  ceu  ei  Haly  ascrip- sit  »,  sembra  tutt'altro  che  convinto.  L'  intellectus  vocatus  è la  traduzione  letterale  del  ó  xixXoù\j.tvoc,  voui;  del  De  gene- ratione animalium  7,  Basandosi  su  di  essa,  Haly  sosteneva che  r  intelletto  separato  di  Aristotele,  distinto  dall'anima individuale  e  identico  al  voij?  d'Anassagora,  fosse  la  stessa virtù  informativa,  ossia  l'influenza  degli  astri  la  quale  per mezzo  del  seme  paterno  presiede  allo  sviluppo  e  all'organiz- 3  Cap.  3,  736  b.  29  sgg.  :  tkxvtwv  (xév  yùp  év  tcò  oTuéppiaTi  ÈvuTrdcpxei OTTEp  TTOiEÌ  yóvifxa  elvai    CTTrép[xaTa    xaXou(i,evov  -!>£p(i.óv.  xoùxo 8'où  TTup,  oùSè  xotauxY]  SuvafjLit;  Icttiv,  àXkà    l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov èv  T(p  CTTÉpfxaxi,  jcai  èv  xo)  à9p(óSEi.  TTVEUjj'.a  xal  rj  Èv  xw  TTVsufAaxt ,  quando viene  a  parlare  del  capitolo  de  electionihus.  Egli  intanto  di- stingue la  ricerca,  invero  innocente,  dell'  «  bora  laudabilis  in- cipiendi  aliquod  opus  »,  affinché  l'opera  da  intraprendere abbia  felice  risultato,  pur  senza  tentare  di  modificare  il  corso o  r  influenza  del  cielo,  dai  tentativi,  per  mezzo  d' immagini 33  Cfr.  Ferrari,   P.  d'A.,  pp.  355-356. 34  Cap.   13. 35  Capp.   10  e   14. 36  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI e  di  scongiuri,  di  modificare  favorevolmente  le  influenze  ce- lesti per  la  buona  riuscita  dell'opera  che  s' intraprende.  Che  la prima  ricerca  non  abbia  niente  d' illogico,  dati  i  presupposti astrologici  che  noi  conosciamo,  o  di  temerario  dal  punto  di vista  della  dottrina  teologica  del  tempo,  è  evidente.  Perciò l'autore  dello  Speculum  non  solo  la  ritiene  legittima,  ma  di- chiara che  sia  opportuno,  come  pensa  anche  Pietro  d'Abano, conoscer  l'ora  favorevole  al  concepire,  al  prender  medicine  e alle  operazioni  chirurgiche  36.  Per  quel  che  riguarda  invece  la costruzion  delle  immagini  a  fine  di  modificare  l' influsso  ce- leste, egli  stima  necessario  far  molte  riserve:  «Parti....  electio- num  dixi  supponi  imaginum  scientiam,  non  quarumcunque, sed  astronomicarum.  Quoniam  imagines  sunt  tribus  modis. Est  enim  unus  modus  imaginum  abominabilis,  qui  significa- tione  et  invocatione  exigit....  Est  alius  modus  aliquantulum minus  incommodus,  detestabilis  tamen,  qui  fit  per  inscrip- tionem  characterum,  per  quaedam  nomina  exorcizando.... Tertius  autem  est  modus  imaginum  astronomicarum,  qui  eli- minat  istas  spernendas  suffumigationes  et  invocationes,  et non  habet  neque  exorcizationes,  ncque  characterum  inscrip- tiones  admittit,  sed  virtutem  nanciscitur solummodo  a  figura caelesti  ».  Posta  tale  distinzione,  mentre  egli  condanna  gli esorcismi,  gì'  incatesimi  e  la  necromanzia,  pensa  di  non  po- tersi arrogare  il  diritto  di  condannare  o  di  negar  l'efficacia delle  immagini  astronomiche. D' immagini  astronomiche,  ammesse  dall'autore  dello  Spe- culum, si  parla  nella  già  citata  differenza  X  e  nella  CI  del Conciliator.  Ma  Pietro  d'Abano  sembra  andar  più  oltre  ed ammettere  anche  quel  genere  di  pratiche  condannate  dall'au- tore dello  Speculum^i.  Si  tratta  per  altro  d'un  equivoco.  Egli crede  al  fascino,  all'arte  notoria,  alla  pvaecantatio  e  alla  magia (e  questo  deve,  senza  dubbio,  aver  contribuito  a  crear  la  sua fama  di  mago  e  di  necromante)  ;  ma  intanto  spiega  i  fenomeni e  i  resultati  ottenuti  con  queste  arti,  sforzandosi  di  traspor- tarli sul  terreno  della  magia  bianca,  allora  ritenuta  lecita  dai teologi. 36  Conciliator,  diff.   io  (Champier,  II,  8). 37  Conciliator,  diff.  135  e  156.  Champier,  III,  8,  g,  io.  Intorno  alle interessanti  varianti  del  numero  8  nelle  varie  edizioni  del  Conciliator, cfr.  Ferrari,  Per  la  biografia  etc.] Così  egli  ammette  l'efficacia  del  fascino  e  degl'  incante- simi, come  r  ammetteva  Avicenna  e  come  due  secoli  dopo l'ammetterà  il  Pomponazzi,  ma  esclude  da  essi  ogni  carattere sovrannaturale  e  segnatamente  l' intervento  di  demoni  38, pur  senza  negar  l'esistenza  di  essi.  Per  lui,  l'anima  di  certi uomini  è  fornita,  per  uno  speciale  influsso  celeste,  di  virtù eccezionali,  e  si  comporta,  nel  modificare  le  influenze  astrali sulla  terra,  come  le  immagini  artificiali  costruite  dagli  antichi sapienti  dell' India  39.    La  praecantatio  è  utile  al  medico,  come gli  è  necessaria  la  fiducia  da  parte  dell' infermo  40.  Ma  le  parole dell'  incantesimo  verbale  desumono  la  loro  efficacia  dalla virtù  celeste,  come  dalle  disposizioni  favorevoli  delle  costel- lazioni deriva  l'efficacia,  secondo  Albumasar,  della  preghiera astronomica 41.  L'efficacia,  insomma,  di  tutte  queste  pratiche è  desunta  dall'astrologia:  siamo  fuori  del  dominio  della  magia nera. 8.  -  Una  censura  speciale  dello  Champier  riguarda  anche una  dottrina  la  quale  non  ha  niente  che  fare  con  le  dottrine di  carattere  prettamente  astrologico,  che  abbiamo  riferite; ma  che,  anzi,  sotto  un  certo  aspetto,  è  opposta  a  quelle:  in- tendo la  dottrina  della  produzione  delle  forme  nel  mondo infralunare.  Essa  suona  così:  «  Ponentes....  creationem,  etsi verissimi  in  lege  sint,  in  philosophia  tamen  non  sunt  admit- tendi,  cum  ipsam  levem  faciant  omnino,  ac  primam  quasi causam  multiplicibus  vexent  laboribus;  decorem  non  minus  et ordinem  et  per  consequens  perfectionem  removentes,  secun- dum  Peripateticos,  ab  universo  «42.  Lo  Champier  pretende  che, con  siffatta  dottrina,  l'Abanese  venga  a  contradirsi,  «  quia simul  stare  non  possunt,  quod  lege  sint  verissimi,  et  tamen admictendi  non  sint  in  philosophia;  quia  omne  verum  conso- nat  ».  Dove  non  sai  se  egli  accusi  il  filosofo  di  aver  negato  la creazione,  o  di  avere  ammessa  la  dottrina  averroistica  della doppia  verità.  Ma  nell'uno  come  nell'altro  caso,  ha  frainteso senz'altro  il  pensiero  di  Pietro  d'Abano,  come  avremo  modo  di dimostrare  nel  paragrafo  che  segue. 38  Conciliator,  diff.    135. 39  Ibid. 40  Ibid. 4'  Conciliator,  diff.   156. 42  Conciliator,  diff.  loi  (Champier,  III,  2;  cfr.  I,  3).  Cfr.  soprap.  14  e  16. 38  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI realtà,  di  tutte  le  dottrine  censurate  dalla  Champier, tre  appena  sono  tacciate  di  eresia  e  segnate  di  un  biasimo  spe- ciale, e  cioè:  i)  quella,  ora  accennata,  intorno  alla  creazione; 2)  l'avere  Pietro  affermato  che  Dio  non  possa  operare  nel mondo  infralunare  se  non  per  mezzo  d' intermediari;  3)  l'aver ritenuta  efficace  la  praecantatio.  Ora  la  prima  dottrina  è  stata, come  vedremo,  semplicemente  fraintesa  da  lui;  la  seconda  è esagerata,  poiché  così  come  l'Abanese  la  intende,  non  suonava affatto  eretica  ai  tempi  di  lui;  quanto  alla  terza,  egli  non  si è  accorto  come  la  praecantatio  e  le  altre  pratiche  affini  avessero perduto  in  Pietro  d'Abano  quel  loro  carattere  originario  deri- vante dalla  magia  nera  che  le  rendeva  singolarmente  sospette. Se  lo  Champier  avesse  esaminato  il  Conciliaior  coll'animo scevro  dai  pregiudizi  di  una  scuola  teologica  che  aveva  già perduto  per  sempre  il  senso  della  libertà  nel  campo  scientifico, quel  senso  di  libertà  che  si  era  così  poderosamente  affermato nel  secolo  XIII  ;  se  egli,  dico,  avesse  studiato  l'opera  del  medico- filosofo  con  quel  senso  di  tolleranza  che  rivela  il  teologo  autore ■dello  SpectUum,  e  non  colla  grettezza  sospettosa  degl'  inquisi- tori parigini  e  padovani,  avrebbe  potuto  forse  risparmiarsi quasi  tutte  le  sue  censure  e  castigationes. Notevole,  per  altro,  che  nemmeno  lo  Champier,  che  con tanto  zelo  si  dette  la  pena  di  spulciare  l'opera  ritenuta  peri- colosa, abbia  formulato  le  accuse  ben  altrimenti  gravi  che, con  altro  scopo,  ha  sollevato  contro  Pietro  d'Abano  il  suo moderno  biografo.  Sante  Ferrari. III.    Eresie  di  P,  d'Abano,  secondo  il  Ferrari:  Dio E  il  mondo,  Scienza  e  Fede. 1.  L'averroismo  di  P.  d'A.  secondo  il  Ferrari.    2.  Dottrina  della  crea- zione; lo  schema  neo-platonico;  il  concetto  di  creazione  mediata.  — 3.  Eternità  della  materia  ?    4.  Il  problema  circa  l'eternità  del mondo.    5.  La  pretesa  tendenza  al  panteismo.    6.  Il  miracolo.  — 7.  La  doppia  verità. I.  -  L'ultimo  processo  alle  dottrine  filosofiche  di  Pietro d'Abano  è  quello  intentato  ad  esse  nella  voluminosa  e  farragi- nosa biografia  scritta  intorno  al  nostro  filosofo  da  Sante  Fer- rari. Anzi  che  colla  serena  comprensione  dello  storico,  si  di- rebbe che  questo  autore  si  sia  accinto  allo  studio  del  pensiero dell' Abanese  colla  stessa  parziahtà  dello  Champier  e,   quasi direi,  colla  stessa  mentalità  degl'  inquisitori  parigini  e  pado- vani: coll'aggravante  di  una  minore  disposizione  a  intenderlo, derivante  dalla  scarsa  conoscenza,  che  ha  il  Ferrari,  di  una filosofia  così  complessa  e  ricca  di  motivi  come  quella  medie- vale K La  scarsa  conoscenza  del  pensiero  medievale,  che  verremo documentando,  si  rivela  subito,  fin  dal  primo  tentativo  col quale  il  Ferrari  vorrebbe  caratterizzare  la  dottrina  filosofica di  P.  d'Abano,  ora  asserendo  che  questi  inclina  e  simpatizza per  l'avverroismo  ^,  ora  sforzandosi  d' inquadrarne  il  pensiero nel  movimento  d' idee  noto  sotto  il  nome  di  «  averroismo  la- tino »  3. All'averroismo  più  o  meno  latino  avrebbe  inclinato  il  maestro padovano:  i)  per  la  negazione  della  creazione  dal  punto  di vista  filosofico,  per  avere  ammessa  la  materia  eterna,  la  ne- cessità d' intermediari  tra  la  causa  prima  e  i  fenomeni  del mondo  infralunare,  e  l'eternità  del  mondo;  2)  per  una  non  ben precisata  tendenza  al  panteismo  e  per  un  certo  naturalismo che  lo  porta  a  negare  la  possibilità  dei  miracoli;  3)  per  aver professata  la  dottrina  della  doppia  verità;  4)  e  finalmente  per la  dottrina  dell'  intelletto  separato. In  questo  paragrafo  discuteremo  il  giudizio  del  Ferrari  sui primi  tre  punti  ;  al  quarto  punto  riserveremo  il  paragrafo  che segue,  giacché  ne  vale  la  pena. 2.  -  Alla  fine  del  paragrafo  precedente,  abbiamo  visto che  lo  Champier  segnala  come  errore,  et  horrendus,  l'af- fermazione di  Pietro  d'Abano,  che  la  dottrina  della  creazione, pur  essendo  vera  dal  punto  di  vista  teologico,  è  da  rigettarsi da  quello  filosofico.  L'  interpretazione  sbagliata  che  lo  Cham- pier colla  sua  censura  dava  di  un  passo  male  inteso,  diventa ^  Un  esempio  caratteristico  dell'  incapacità  a  comprendere  e  a  giu- stificare, nel  loro  genuino  significato  storico,  le  idee  del  passato,  è  il capitolo  che  il  Ferrari  dedica  a  P.  d'A.  astrologo.  Egli  riassume  pur- chessia le  dottrine  astrologiche  del  Nostro,  ma  non  le  spiega;  anzi, ad  un  certo  punto  non  sa  far  di  meglio  che  uscire  in  questa  goffa  escla- mazione :  «  Piaccia  al  nostro  lettore  che  non  ci  smarriamo  in  tali  labi- rinti del  pensiero  umano  che  mettono  avvilimento  e  pietà»   (P.  d'A., V-  375)  ! 2  Pietro  d'Abano,  p.  348  e  sgg. 3  Per  la  Biografia,  etc,  p.  92-98.  L'accusa  d'averroismo,  per  altro, risale,  sebbene  non  precisata  come  presso  il  Ferrari,  per  lo  meno  al Renan  e  al  Tiraboschi.] addirittura  una  mostruosità  storica  sotto  la  scorrevole  penna del  Ferrari. Udiamo,  infatti,  qual  concetto  questi  si  sia  fatto  della  rela- zione tra  la  divinità  e  il  mondo  secondo  la  mente  di  Pietro: «  Le  azioni  del  mondo  superiore  sulla  terra  e  su  noi  vengono infine  da  Dio;  salvoché  le  une  producendosi  per  una  serie  di mezzi,  sono  coordinate  a  questi  e  ne  hanno  la  misura,  la  co- stanza, la  prevedibilità,  oltre  che  sono  relativamente  ad  essi inevitabili;  onde  le  possiamo  in  certo  modo  ridurre  alle  qua- lità degli  elementi,  anche  se  non  vediamo  precisamente  il come;  le  altre  si  esercitano  senza  movimenti,  absque  medii alteratione,  o  da  Dio  stesso  o  dalle  stelle  imprimenti  una  spe- ciale virtù,  com'  è  nel  caso  del  magnete,  la  cui  virtù  attrattiva è  collegata,  lo  attesta  l'esperienza,  col  polo  artico.  L'opera divina  è  del  resto  palese  nell'ordine  universale  e  nella  finalità che  governa  il  cosmo.  I  platonici  (non  si  dice  Platone)  4  ripo- sero le  cause  universali  in  divinità  secondarie,  specie  di  mini- stri alla  prima,  che  danno  le  forme  alle  cose,  onde  Averroè disse  che  Platone  in  un  modo  alquanto  oscuro  aveva  asserito che  il  creatore  fé'  gli  angeli  e  ordinò  poi  loro  di  creare  le  altre cose  mortali,  il  che  veramente  non  si  dee  prendere  alla  lettera. Aristotile  le  forme  delle  cose  terrestri  volle,  secondo  che  pa- reva anche  a  Temistio,  fossero  generate  dal  sole  e  dal  suo  giro. Alcuni  ammisero  che  le  forme  fossero  nella  nostra  terra  la- tenti, quali  Anassagora,  Empedocle,  Democrito.  Altri  parla- rono di  creazione.  I  primi  traggono  le  cose  dal  caos,  i  secondi vogliono  invece  che  Dio  le  produca  dal  nulla.  E  quest'ultima opinione  induxit  loquentes  trium  legum,  quae  hodie  sunt,  dicere aliquid  fieri  ex  nihilo....  adeo  quod  diciint  quod  homo  cum  moveat lapidem  expellendo,  non  est  movens,sed  agens  illud  creai  motum.... Di  tali  sentenze  possiamo  leggere  in  Giovanni  Filopono.... Ma  tra  le  due  opinioni  opposte  e'  è  luogo  per  due  intermedie, anzi  per  tre,  che  convengono  nell'ammettere  due  tesi:  la  ge- nerazione essere  un  tramutarsi  delle  sostanze,  e  niente  pro- dursi dal  niente.  Convengon  in  ciò,  ma  si  discostano  poi  nel 4  L'osservazione  è  meravigliosa  !  Neanche  a  farlo  a  posta,  Pietro cita  subito  il  Timeo,  nominando  espressamente  Platone:  «  Quare,  12. Metaph.  [comm.  44],  Commentor:  '  Plato  suis  obscuris  verbis  dixit quod  creator  creavit  angelos  manu....'».  Cfr.  sopra,  p.  13.  Del  resta alla  diff.  71  si  legge:  «Plato  namque  posuit  substantias  separatas,_ quas  ideas  appellavit  ». modo  di  pensare  l'agente.  L'una  pone  che  l'agente  crei  la  forma e  la  dia  alla  materia,  sia  poi  esso  congiunto  o  no  con  materia: opinione  di  Temistio  e  lino  a  un  certo  punto  di  Alf arabi.  La seconda  nega  che  l'agente  sia  affatto  legato  alla  materia  e lo  chiama  dator  delle  forme,  come  pensarono  Algazel  ed Averroè  5.  La  terza  è  quella  di  Aristotele,  che  l'Afrodisio  giu- dicò non  ambigua,  e  alla  quale  non  si  può  non  assentire; l'agente  non  fa  se  non  il  composto  di  materia  e  forma,  mo- vendo la  materia  finché  ne  esca  in  atto  la  forma  che  vi  giace in  potenza....  La  sentenza  aristotelica  in  qualche  cosa  somi- glia a  quella  dei  creazionisti  e  in  qualche  cosa  ne  differisce.... ma  è  la  sola  vera,  perché  sol  essa  non  porta  a  conseguenze  im- possibili, come  vi  portano  le  opinioni  di  Platone  e  di  Anas- sagora, che  furono  da  Aristotele  combattute  vittoriosamente. Coloro  che  invocano  la  creazione,  etsi  verissimi  lege  sint,  in philosophia  tamen   non  sunt  admittendi  »  ^. Dopo  questa  che  vorrebbe  essere  una  parafrasi,  invero molto  libera,  di  un  importantissimo  passo  del  Conciliator,  il Ferrari  scrive  ancora:  «L'essenza  della  materia  rende  inevi- tabile l'uso  di  qualche  mezzo  o  strumento,  per  certe  produ- zioni, a  Dio  stesso.  In  altre  parole  Dio  produce  e  governa  i cieli,  gli  angeli,  le  anime,  ma  nulla  poi  potrebbe  fare  nei  regni inferiori  delle  cose  corporee  senza  il  loro  mezzo,  per  la  troppa distanza  tra  i  due  termini.  Gli  è  così  che  per  una  serie  di  me- diazioni, e  con  armonia  meravigliosa  discende  alle  infime cose  terrestri  l'azione  divina,  passandosi  per  gradi  dalle  cose incorruttibili,  anzi  dall'imo  semplice  ed  immobile  agli  esseri composti,    variabili   corruttibili  »  i. Parrebbe,  dunque,  a  sentire  il  Ferrari,  i)  che  Dio,  sorgente prima  di  tutte  le  azioni  del  mondo  celeste  su  quello  terrestre, avesse  di  fronte  a    un  principio  eterno  di  passività  che  sa- rebbe poi  la  materia;  2)  che  questa  materia  fosse  eterna  al pari  di  Dio  e  non  prodotta  ^  ;  3)  che  l'azione  divina  sul  mondo '^  Leggasi  Avicenna,  e  non  Averroè,  il  quale  ha  sempre  combattuta la  teoria  del  «  dator  formarum  ».  Le  edizioni  hanno  solo  un'  A.,  che ovunque  è  abbreviazione  d'Avicenna.  Il  Ferrari  un'altra  volta  legge Aristotele,  arruffando  tutto  il  senso  di  un  passo  importantissimo  della diff.   57.  Cfr.  P.  d'A.,  p.   347.  V.  anche  sopra,  p.   11. 6  P.  d'A.,  pp.  249-251.  Il  luogo  del  Conciliator  qui  parafrasato  è stato  riportato  per  esteso  sopra,  p.   16. 7  Ib.,  p.  251. 8  P.  d'A.,  p.   351. 42  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI corruttibile  non  potesse  in  nessun  modo  esercitarsi  se  non attraverso  una  serie  di  mezzi,  che  sono  i  cieli,  gli  angeli  e  le anime.  Se  gì'  inquisitori  parigini  e  padovani,  che  se  n'  inten- devano, avessero  lette  queste  cose  negli  scritti  del  maestro d'Abano,  non  avrebbero  aspettato  ad  arrostire  un  cadavere, né  r  imputato  sarebbe  sfuggito  loro  dalle  mani.  Il  fatto,  in- vece, è  che  il  pensiero  genuino  di  lui  è  ben  diverso  dall'esposi- zione che  ne  fa  il  Ferrari.  Vediamo  dunque  di  chiarirlo. Secondo  lo  schema  neo-platonico  di  Alfarabi  e  di  Avicenna  9, riassunto  anche  dall' Abanese,  dalla  prima  causa,  che  è  mo- tore immobile  e  quindi  «  idem  et  stabilis  permanet  »,  non  può derivare  ciò  che  è  molteplice  e  mutevole  ;  ma  «  solum  unum immediate  »,  cioè  la  prima  intelligenza  col  primo  cielo.  Da questa  è  prodotta  la  seconda  intelligenza  col  secondo  cielo; e  così  di  seguito,  di  grado  in  grado,  secondo  un  ordine  di  ema- nazione discendente,  fino  all'  intelligenza  lunare,  la  quale produce  la  così  detta  «  intelligenza  agente  »,  «  gubernantem quae  sunt  in  activorum  et  passivorum  spaerà  simplicium  et compositorum»,  cioè  tutte  le  forme  del  mondo  infrahmare  ^°. Pietro  d'Abano  accetta  in  parte  questo  schema,  ma  v'  intro- duce profonde  modificazioni. Egli  pone,  tra  la  causa  prima  e  la  materia,  una  serie  d' in- termediari che  gli  servono  a  spiegare,  come  a  Dante  ",  la  con- tingenza nel  mondo  inferiore;  ma  in  nessun  luogo  afferma  che la  materia  sia  eterna,  come  vorrebbe  farci  credere  il  Ferrari, per  il  quale  eterna  vuol  poi  dire  non  creata.  E  sebbene  dica, «  secundum  Aristotelem  et  Commentatorem,  quod  Deus  nihil potest  in  haec  [interiora]  operari  absque  medio  «i^,  è  evidente che  egli  intende  parlare,  non  di  una  necessità  di  natura  e 9  Pietro  d'Abano  come  gli  scolastici  del  suo  tempo  mette  con  Avi- cenna anche  Algazele.  In  realtà  questi  scrisse  un'esposizione  delle  dottrine di  Alfarabi  e  di  Avicenna,  alla  quale  teneva  dietro  la  sua  confutazione fatta  dal  punto  di  vista  della  teologia  mussulmana  ortodossa.  Fino  ai tempi  del  Nostro  solo  la  prima  parte  era  tradotta  in  latino;  la  Destructio philosophorum  si  conobbe  assai  più  tardi.  Di  qui  l'abbaglio.  Cfr.  M.  Asin Palacios,  Algazel,  Zaragoza,  igoi,  pp.  141-143.  Il  Duhem  tuttavia crede  che  quando  Algazele  scrisse  la  prima  parte  dell'opera,  egli  accet- tasse quelle  dottrine  neo-platoniche  che  rifiutò  poi  nella  Destructio (Duhem,  Le  système  du  monde  etc,  Paris,   1914,  t.  IV). 10  Conciliator,   diff.   loi.  Cfr.  sopra,  pp.   i4-iS- 11  Farad.,  XIII,  61-78;  XVII,  37-38;  VII,  67-69.  Cfr.  il  mio  saggio Dante  e  P.  d'A.    (nei  Saggi  di  filos.  dant.,  pp.   50-55). 12  Conciliator,  diff. assoluta,  ma  di  una  necessità  conseguente  a  quella  a  perfecta ratio  ))  che  è  poi  la  stessa  sapienza  divina,  la  quale  ha  volon- tariamente stabilito  l'ordine  mondano;  ordine  che  è  sospeso alla  volontà  divina  la  quale  è  immutabile.  Ma  se  la  causa prima  ha  fissato  l'ordine  cosmico,  nel  quale  gli  eventi  del mondo  infralunare  dipendono  dal  moto  e  dalle  ^'a^iazioni  che accadono  nei  corpi  celesti,  intermediari  tra  i  due  estremi dell'atto  puro  e  della  pura  potenza  —,  non  ne  segue  logica- mente che  non  possa,  in  quanto  è  superiore  a  quest'ordine da    stabilito,  derogarvi.  Anzi  troviamo  esplicitamente  as- serito il  contrario:  «  Potest....  primus  sua  mera  benignitate, cum  sit  agens  supernaturale,  per  voluntatem,  absque  motu et  transmutatione  in  haec  in  inferiora  operari,  quicquid  dicat peripateticus))i3.  Ora  se  Pietro  può  pensare  ad  un  intervento diretto,  anche  se  fuori  dell'ordine  naturale,  della  causa  prima sul  mondo  della  generazione  e  corruzione,  vuol  dire  che  la necessità  degl'  intermediari,  affermata  da  lui  sulla  scorta  di Aristotele  e  del  Commentatore,  non  è  la  necessità  assoluta  dei platonici  arabi,  per  i  quali  è  sempHcemente  impossibile,  cioè AL    secolo    XIV    AL    XVI anche  ancilla  e  jamula  della  teologia,  la  filosofia  è  riconosciuta indipendente  da  quella  e  autonoma  entro  la  propria  cerchia di  ricerche  naturali.  Così,  non  ostante  tutti  i  tentativi  più  o^ meno  ingegnosi  per  unificarle,  quella  filosofia  e  quella  teologia non  rimanevano  meno  distinte,  se  non  opposte,  per  i  loro metodi  propri  di  ricerca  e  per  il  loro  spirito. In  questa  distinzione,  accettata  da  tutti  i  teologi  medievali del  tempo  di  Pietro  d'Abano,  era  il  germe  latente  dell'eresia di  cui  a  torto  si  vorrebbero  render  responsabili  solo  i  veri  o pretesi  averroisti.  Una  volta  proclamata  la  legittimità  della ricerca  razionale  e  filosofica,  per  mezzo  di  metodi  propri  e  di- versi da  quelli  teologici,  quale  autorità  teologica  in  terra  avrebbe potuto  più  mettere  un  freno  a  coloro  che,  intrapreso  il  cammino della  ricerca  scientifica,  intendevano  percorrerlo  fino  in fondo  ?  ^.  E  infatti,  si  era  appena  riconosciuta  quella  distin- zione, che  fu  subito  avvertito  il  contrasto  tra  filosofia  e  teo- logia, contrasto  che  venne  sentito  più  o  meno  da  tutti  i  pensa- tori scolastici,  da  Sigieri  di  Brabante  come  da  Tommaso d'Aquino,  da  Pietro  d'Abano  come  da  Duns  e  da  Dante  Ali- ghieri; e  tutti  cercarono  di  risolverlo  con  particolari  e  diversi atteggiamenti   spirituali. Il  contrasto,  da  prima  latente,  doveva  portare,  e  portò,  al  con- flitto fra  i  rappresentanti  delle  due  principali  facoltà  degl'istitu- ti universitari,  quella  delle  arti  e  medicina  e  quella  di  teologia. Nella  facoltà  delle  arti  si  leggevano  e  si  commentavano  i  libri d'Aristotele  e  le  trattazioni  di  Avicenna,  d'Averroè,  di  Galeno, di  Tolomeo  e  di  numerosi  altri  autori  greci  ed  arabi.  E  vi  ri- fiorirono così,  e  si  accrebbero,  l'antica  astrologia,  la  matema- tica, la  medicina,  l'alchimia  e  la  magia,  tutte  insomma  le scienze  create  o  sviluppate  dal  genio  greco  ed  arabico.  Che queste  scienze  fossero  infestate  da  inveterati  pregiudizi  meta- fisici, non  toglie  che  il  loro  sviluppo  abbia  concorso  in  larga misura  allo  sviluppo  del  sapere  scientifico  e  al  progresso  dello spirito  umano.  Per  mezzo  di  esse  si  inaugurò  nell'occidente cristiano  il  metodo  della  ricerca  filosofica,  s' iniziò  la  libera indagine   delle   cause  naturali   dei  fenomeni   del  mondo  ter- 8  E  di  porre  un  freno  si  tentò  più  volte,  ordinando,  come  a  Parigi nel  1272,  agli  scolari  della  facoltà  delle  arti  di  astenersi  dal  determinare cantra  fidem  quando  avessero  da  discutere  di  un  problema  che  /idem videatur  attingere  simulque  philosophiam.  Cfr.  Carthularium  University Parisiensis] restre.  Al  pregiudizio  teologico  si  sostituì,  è  vero,  quello  astro- logico. Ma  l'errore  di  aver  riposto  le  cause  dei  fenomeni  na- turali in  influenze  astrologiche,  non  è  poi  così  grave  e  imperdo- nabile, se  esso  significava  anzitutto  libera  ricerca  di  cause naturali,  affermazione  di  leggi  ed  esclusione  dell'arbitrario dal  mondo  dell'esperienza.  E  intanto  quell'astrologia,  quell'al- chimia, la  vecchia  medicina  e  la  stessa  magìa  venivano  racco- gliendo da  ogni  parte  ed  accumulando  preziose  osservazioni ed  esperienze,  che,  nella  Rinascenza,  dovevano  portare  al  supe- ramento dei  vecchi  pregiudizi  e  concetti  metafisici,  e  contri- buire direttamente  al  rinnovamento  della  scienza. Al  quale  non  si  sarebbe  mai  giunti,  senza  l' inaugurazione di  quel  metodo  razionale,  la  cui  legittimità  era  stata  procla- mata all'unanimità  dagli  stessi  teologi  scolastici,  non  solo  in teoria  ma  anche  in  pratica.  Vediamo  infatti  Tommaso  d'Aquino esporre  con  intera  libertà  e  senza  prevenzioni  le  dottrine  di Aristotele,  fino  a  dichiarare,  contro  il  parere  dei  vecchi  teologi, che  l'eternità  del  mondo  non  implica  contradizione  e  che  la tesi  della  creazione  nel  tempo  non  può  dimostrarsi  colla  sola ragione.  E  Alberto  di  Colonia  insieme  al  pensiero  aristotelico esponeva  quello  degh  altri  peripatetici,  greci  ed  arabi,  pur notando  che  non  di  rado  esso  cozzasse  coi  dommi  cristiani. Ora  all'esempio  di  Alberto  si  richiamavano  espressamente o  tacitamente  Pietro  d'Abano  e  Sigieri  di  Brabante,  quando dichiaravano  di  trattare  «de  naturalibus  naturaliter  »,  senza farla  da  teologi  9. De  naturalibus  naturaliter:  ecco  il  programma  di  quegli ambienti  laici,  che  erano  le  facoltà  delle  arti;  laici,  s' intende, solo  per  i  metodi  dell'  indagine  scientifica  e  filosofica  in  con- trapposizione con  quelli  della  teologia.  Di  questi  ambienti laici  Pietro  d'Abano  incarna  perfettamente  lo  spirito.  In  questo spirito  è  la  sua  vera,  la  sua  unica  eresia;  un'eresia  inconsa- pevole che  s'era  già  insinuata  nella  coscienza  di  tutti  coloro che  avevan  fatto  buon  viso  al  rinascente  pensiero  aristotelico, e  che  era  penetrata  fino  nelle  scuole  di  teologia  io.  Senza  pre- stargli dottrine  eterodosse  che  negli  scritti  a  noi  noti  egli  ha 9  Cfr.  il  mio  studio  La  posizione  d'Alberto  Magno  di  fronte  all'aver- roismo, cit.,  pp.   197  sgg. 10  La  filosofia,  infatti,  questa  povera  ancella  della  teologia,  aveva  il compito  di  stabilire  i  praeambida  /idei  e  dichiarare  il  contenuto  delle formule   dommatiche.   Le  opere  teologiche   della   Scolastica,   compresa espressamente  riprovate,  senza  attribuirgli  quel  continuo sdoppiamento  di  coscienza  che  piace  a  chi,  per  il  gusto  di  farne un  eretico,  ne  farebbe  volentieri  un  ipocrita,  pronto  ad  af- fermare il  contrario  di  quello  che  in  cuor  suo  pensa,  per  sal- vare la  pelle  dal  rogo;    le  sue  audacie  dottrinali,  dal  punto di  vista  della  teologia  imperante,  sono  evidenti:  maggiore di  tutte  quelle  intorno  ai  miracoli  e  ai  fatti  meravigliosi. Pietro  d'Abano  è  lo  scienziato  forse  più  caratteristico  di quel  periodo  di  cui  Tommaso  d'Aquino  fu  il  maggior  teologo, e  Dante  Alighieri,  il  sommo  poeta.  Per  la  vasta  erudizione, pur  senza  essere  un  rinnovatore  e  un  precursore,  rappresenta la  scienza  della  fine  del  secolo  XIII  e  del  principio  del  XIV, in  tutti  i  suoi  molteplici  aspetti,  in  ogni  sua  tendenza.  L' idea centrale  della  scienza  di  lui  è  un'  idea  astrologica.  E  i  creatori della  leggenda  popolare  di  un  Pietro  mago,  sebbene  non  co- gliessero  i  veri  caratteri  della  sua  magìa  (magìa  bianca,  ben differente  dalla  necromanzia),  ci  hanno  tramandato  un'  im- magine dell'uomo,  che  forse  è  meno  difforme  di  quel  che  non si  creda,  dalla  sua  storica  personalità. la  grande  Summa  dell' Aquinate,  son  impregnate  di  razionalismo;  ra- zionalismo che  si  afferma  nettamente  in  Raimondo  Lullo.  L'ancella cominciò  ben  presto  a  farla  da  padrona  ! Ili Se  Pietro  d'Abano  non  fu  un  avverroista  nel  senso  vero  e proprio  della  parola,  avveroista  fu  invece  l'eremitano  Paolo Nicoletti  da  Udine,  detto  comunemente  Paolo  Veneto,  il  quale professò  a  Padova  un  tipo  d'avveroismo  guardingo,  che  forse «gli  vi  portò  da  Oxford  e  da  Parigi,  se  pure  non  v'era  già arrivato  da  Bologna,  e  che  risente  della  lettura  dell'opera  di Sigieri  di  Brabante,  De  intellectu  ad  jratrem  Thomam  ',  op- pure degli  scritti  di  Tommaso  di  Wilton  impugnati  a  Bologna, ottantacinque  anni  prima,  dal  francescano  Guglielmo  di Alnwick  -. Paolo  \'eneto  era  andato  a  studiare  a  Oxford,  insieme  a un  suo  fratello  germano,  maggiore  di  lui,  fra  Paolo  Fran- -cesco,    anch'egli   eremitano,   alla   fine   d'estate    1390,   e   v'era *  Dal  voi.  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano. Roma,  Edizioni  Italiane,  1945,  pp.  115-132,  salvo  una  modificazione fino  al  quinto  capoverso. '  Cfr.  Sigieri  di  Brab.  ecc.,  pp.  18-23.  Che  l'averroismo  padovano abbia  origini  bolognesi  è  ipotesi  verosimile;  ma  non  si  può  escludere un'origine  oltremontana.  Che  poi  Averroè  fosse  tenuto  in  gran  conto a  Padova  assai  prima  di  P.  Veneto,  è  provato  dagli  affreschi  di  Giusto de'  Menabuoi  nella  cappella  Cortelieri  nella  chiesa  degli  Eremitani, anteriori  al  1370,  e  dei  quali  ci  resta  la  descrizione  di  Hermann  Schedel di  Norimberga  che  era  studente  a  Padova  dal  1463  in  poi.  Giunto aveva  raffigurato  Averroè  insieme  agli  eremitani  maestro  Alberto  da Padova  e  al  beato  Giovanni  da  Bologna.  Cfr.  J.  v.  Schlosser,  Giusto's Fresken  in  Padua  n.  die  Vorlàufern  der  Stanza  della  Segnatura,  in «  Jahrbuch  der  Kunsthistor.  Sammel.  des  allerhòch.  Kaiserhauses  », Wien,  1896,  XVII,  pp.  17,  45,  47,  94;  S.  Bettini,  Giusto  S.  M.  e  l'arte  del Trecento.  Padova,  1944,  P-  n?-  Paolo  doveva  ben  conoscere  quegli affreschi. 2  A.  Maier,  Wilhelm  v.  Alnwicks  bologneser  Quaestionen  gegen  Aver- roismus    [1323),   in   «  Gregorianum  »,    XXX,    1940,   pp.    265-308. 76  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI rimasto  almeno  un  triennio  3.  Il  soggiorno  di  Paolo  in  In- ghilterra non  era  rimasto  ignoto  ad  Antonio  Cittadini  da Faenza,  che  a  Ferrara,  nel  1476,  dettò  un  commento  polemico dei  Logica  minora  dell'eremitano,  in  principio  del  quale  si legge: Ferunt  autem  quidam  non  auctoritate  indigni,  hunc  libellum in  Britannia,  ubi  olim  et  dialecticae  et  philosophiae  studia  flo- ruerunt,  in  antiquissimis  litteris  compertum  esse,  ut  ex  illis  con- staret,  prius  opusculum  hoc  extructum  fuisse  quam  Paulus  Ve- netus  natus  esset.  Quod  eo  magis  a  non  nulhs  creditur,  quod certuni  est  Paulum  apud  Britanos  visendorum  gymnasiorum gratia  aliquando  commoratum  esse,  ac  postea  in  Italiani  rever- tentem  multos  libros  secum  detulisse,  quorum  auctores  Italis penitus  erant  incogniti  4. Più  tardi  soggiornò  anche  «  in  tlorentissima  universitate Parisina  »,  ove  fra  Paolo  espose  gli  Antepraedicamenta  di Aristotele  5. Nel  1408,  egli  era  lettore  nella  facoltà  delle  Arti  a  Padova, e  quivi  compose  quella  Summa  naturalium  nella  quale  è esposta  la  dottrina  del  libri  fisici  e  della  Metafisica  d'Aristotele, con  sobrie  discussioni  dei  problemi  agitati  nelle  scuole  ^. Notevole  in  questa  Summa  il  trattato,  diviso  in  42  capitoli, concernente  il  De  anima,  perché  in  esso  ritroviamo  le  tesi  fon- damentali del  De  intellectu  di  Sigieri.  Ma  di  questo  scritto aristotelico  Paolo  Veneto  ci  ha  lasciato  un'assai  più  ampia esposizione  che  non  saprei  dire  in  quale  anno  redatta,  ma forse  non   di  molto  posteriore   alla   Summa  naturalium  7. 3  Reg.  Re. mi  Barth.  Veneti,  nell'Archivio  della  Curia  generalizia degli  Eremitani  in  Roma  Dd.  3,  f.  132  v.  Cfr.  il  mio  studio  sulla  Lette- ratura e  cultura  veneziana  del  Quattrocento,  nel  voi.  «  La  civiltà  Vene- ziana del  Quattrocento  ».  Firenze,  Sansoni,   1957,  PP-   ^^^  ^  i35"36- 4  Cod.  Urb.  lat.   1381,  f.  2  r. 5  Ghiotta  notizia,  segnalatami  dal  prof.  Giulio  F.  Pagallo,  in  una annotazione  al  Cod.  452  della  Bodleniana  di  Oxford  (cfr.  Catal.  di H.O.  CoxE,  P.  Ili,  Oxford,   1854,  p.  775). 6  La  data  di  composizione  della  Summa  naturalium  è  fissata  al  1408 dal  codice  marciano  che  ne  contiene  solo  tre  parti.  Cfr.  G.  Valentinelli, Bibliotheca  manuscripta  ad  S.  Marci  Veneiiarum,  t.  IV,  Venezia,  1872, p.  24,  Lat.,  Classe  XII,  cod.  23. 7  Come  non  molto  posteriore  è  1'  Expositio  super  odo  libros  Physi- eorum  Aristotelis  necnon  super  comento  Averois  cum  dubiis  eiusdem, la  quale  porta  la  data  del  30  giugno  1409.  Cfr.  P.  Duhem,  Le  niouvement absolu  et  le  mouvement  relatif.  Extrait  de  la  «  Revue  de  philosophie  ». Montligeon  (Orne),  1907,  p.   143.  Le  stesse  variazioni  che  il  Duhem  ri- Anche  in  questa  seconda  opera  l' influsso  esercitato  sull'ere- mitano dal  trattato  dell'averroista  belga  contro  San  Tommaso, è  decisivo,  come  possiamo  convincerci  dalla  lettura  dei  se- guenti brani  che  per  comodità  del  lettore  riferiamo. Nell'esposizione  del  testo  23  del  II  libro  De  anima,  frate Paolo  Nicoletti  si  pone,  «  ad  maiorem  dictorum  evidentiam  », alcuni  «  dubia  »,  il  secondo  dei  quali  verte  sul problema  «  Utrum in  eodem  animali  plures  possint  esse  anime  totales  »,  che  egli risolve  nel  modo  che  segue,  non  senza  aver  prima  confutate altre  soluzioni  ^  : Circa  liane  materiam,  siint  plures  modi  dicendi.  Primus  modus est,  quod  piante  non  habent  nisi  unam  animam  totalem,  scilicet vegetativam;  bruta  duas,  scilicet  vegetativam  et  sensitivain; homines  vero  tres,  videlicet  vegetativam,  sensitivam  et  intel- lectivam;  non  tamen  simul  generantur,  sed  successive  per  tempus, ita    quod    primo    generatur    vegetativa,    deinde    sensitiva,    tertio leva  tra  quest'opera  e  la  Summa  naturalium,  si  posson  notare  anche  fra quest'ultimo  scritto  e  il  commento  Super  libros  Aristotelis  de  anima, che  senza  dubbio  rivela  una  maggiore  complessità  e  maturità  di  pen- siero. Nel  commento  al  t.c.  11  del  III  libro,  a  proposito  del  quesito  se gli  universali  «  sint  in  rerum  natura  »,  l'autore  dichiara  d'averne  trat- tato quanto  basta  «  in  alio  opere  et  in  prologo  physicorum  ».  È  pro- babile che,  dopo  l'esposizione  sommaria  delle  dottrine  fìsiche  e  meta- fìsiche dello  Stagirita,  il  Nicoletti  si  sia  accinto  a  commentare  le  singole opere  aristoteliche  alle  quali  si  riferiva  la  Summa,  cominciando,  come sappiamo,  dagli  otto  libri  della  Fisica  e  proseguendo  poi  col  De  caelo, col  De  generatione  et  coruptione,  coi  libri  Meteorologici,  col  De  anima e  colla  Metafisica.  Una  vera  biografìa  filosofica  di  Paolo  Veneto  non  è concepibile  senza  aver  tolto  in  esame  tutte  queste  opere  che  da  parte del  Momigliano  sono  state  piuttosto  ricordate  che  vedute  e  lette.  Tornato a  Padova  nel  1428,  dopo  le  peripezie  che  lo  avevano  costretto  a  lasciare questa  città  nel  1420  o  forse  qualche  anno  prima  o  dopo,  l'eremitano s'accinse  a  commentare  di  nuovo  il  De  anima,  come  ci  attesta  fra  Matteo da  Ripalta,  piacentino,  allora  studente  nello  studio  padovano.  Questi si  procurò  nel  corso  del  1429  una  copia  dell'esposizione  completa  del- l'opera aristotelica,  poiché  il  maestro  che  con  tanto  grido  era  tornato a  leggerla  non  andò  oltre  il  capitolo  «  de  gustabili  »  (libro  II,  t.  e.  101-104, cap.  IO  del  testo  greco,  422»  8-422Ò  15),  essendo  stato  colto  dalla  morte all'alba  del  15  giugno  dello  stesso  anno.  Valentinelli,  t.  IV,  p.  57. 8  Pauli  Veneti,  In  libros  de  anima  explanatio  cimi  textu  incluso singulis  locis,  maxima  qiiidem  diligentia  a  vitijs  mendis  atque  erroribus quibus  hacteniis  ex  ignavia  impressorum  scatebat  purgata  ac  pristine  in- tegritati  restituta  etc.  E  nel  colophon  : Scriptum  super  librimi  de  anima. . . . ex  proprio  originali  diligenter  emendatum  per  clarissimum.  artium  ac medicine  doctorem.  D.  magistrum  Hieronymum  Surianum,  filium  pre- stantissimi quondam  artium  ac  medicine  doctoris,  Domini  magistri  lacobi. de  Surianis  de  Arimino....  Venezia,  Eredi  di  Ottaviano  Scoto,  i  nov. 1504,   libro   II   comm.   al  t.   e.   23,  fol.   46,   col.   4-47,   col.   2. 78  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI post  completarti  organizationem  membrorum  generatur  intel- lectiva  9  Hic  modus  dicendi  est  superfluiis.... Secundus  modus  dicendi  est,  quod  in  quolibet  vivente  est solum  una  anima  totalis;  et  quod  est  ordo  in  productione  anima- rum,  quia  fetus  primo  vivit  vita  piante,  deinde  vita  animalis; tamen  tales  anime  simul  non  manent  in  eodem,  sicut  nec  due figure,  sed  in  adventu  secunde  corrumpitur  prima,  et  in  adventu tertie  corrumpitur  secunda  1°.  Iste  modus  est  impossibilis,  quia tunc  aliqua  forma  per  se  ageret  ad   corruptionem   sui  ipsius..., Tertius  modus  dicendi  est,  quod  in  nullo  nisi  in  homine  sunt plures  forme  substantiales  seu  anime  totales,  scilicet  sensitiva  et intellectiva,  quarum  prima  educitur  de  potentia  materie  per agens  naturale,  secunda  autem  creatur  a  deo,  non  obstante  quod ita  bene  inhereat  sicut  prima,  adducendo  illud  philosophi,  16  de animalibus:  «  intellectus  venit  deforis»".    Sed  hec  opinio  in- cludit  contradictionem,  quia  si  anima  intellectiva  inheret  materie, ergo  educitur  de  potentia  materie  et  generatur  ad  generationera corporis  animati  et  corrumpitur  ad  corruptionem  eiusdem.  Item hec  opinio  non  est  naturalis,  quia  ponit  intellectum  creari;  et Aristoteles  una  cum  commentatore  ponit  ipsum  perpetuum  et eternum.  Deinde,  si  anima  intellectiva  inheret  materie,  ergo  in- tellectio  et  volitio  sunt  subiective  in  materia;  quod  est  centra philosophum  et  commentatorem  ponentes  potentias  rationales esse  abstractas  a  corpore,  et  consequenter  actus  illarum. Quartus  modus,  quem  solum  puto  rationalem,  est  iste,  quod pianta  habet  solum  unam  animam  totalem,  scilicet  vegetativam, compositam  ex  partibus  diversarum  rationum;  et  consequenter animai  imperfectum  simpliciter,  quod  non  habet  aliquem  sensum exteriorem  nisi  sensum  tactus,  nec  aliquem  motuin  ad  locum, sed  solum  motum  dilatationis  et  constrictionis,  habet  etiam solum  unam  animam,  scilicet  sensitivam,  que  propter  sui  imper- fectionem  supplet  vices  anime  vegetative,  ita  quod  in  ostrea  vel spongia  marina  eadem  anima  est  sensitiva  et  vegetativa.  Animai autem  perfectum  habet  duplicem  animam,  scilicet  partialem vegetativam,    in   carne   vel   osse   vel    in   aliquo   proportionali,    et 9  Questa  teoria  è  la  seconda  delle  opinioni  da  me  elencate  in  Giorn. Crii,  della  Filos.  Ital.,  XII,  1931,  pp.  437-438,  ed  è  ricordata  da  Dante, Purg.,  IV,  1-6,  come  «  quello  error  che  crede  ch'un 'anima  sovr 'altra  in noi   s'accenda  ». 10  Questa  dottrina,  già  accolta  dal  francescano  fra  Giovanni  della RocheUe,  fu  difesa,  com'  è  noto,  da  S.  Tommaso.  Cfr.  lo  stesso  Giorn. Crii.,  pp.  441-442,  sesta  opinione. 11  Questo  «tertius  modus»,  che  è  una  teoria  intermedia  fra  quella tomistica  e  quella  schiettamente  averroistica,  non  è  altro  che  la  nona delle  opinioni  da  me  elencate,  professata  da  Alberto  Magno,  da  Gio- vanni Peckam  e  da  Dante.  Cfr.  Giorn.  Crii.,  pp.  445-456;  ib.,  XIII, 1932,  pp-  45-56  e  81-102;  come  pure  il  mio  voi.  Dante  e  la  cultura  me- dievale, Bari,  Laterza,  1949,  pp.  271  sgg.  Questa  è  anche  la  tesi  di  En- rico Bate;  cfr.  Sigieri,  nel  pens. nnam  sensitivam  totaleni,  ut  equus  vel  asinus.  Homo  autem, preter  partiales  animas,  habet  duas  totales:  cogitativam  sensi- tivam, generabilem  et  corruptibilem,  inherentem  et  informantem, et  intellectivam  perpetuam  et  eternam,  informantem  et  non inherentem  '-. Da  siffatta  teoria  risultano  alcune  conseguenze  a    di corollari  : ....  Tertio  sequitur  quod  homo  non  est  homo  precise  per  ani- mam  cogitativam,  nec  precise  per  animam  intellectivam,  sed per  ambas  simili....  Cogitativa  enim  denominat  hominem  esse animai,  et  intellectiva  denominat  hominem  esse  rationalem; sed  homo  est  diffinitive  et  convertibiliter  animai  rationale;  ergo ambe  anime  concurrimt  ad  constitutionem  hominis.  Quo  dato,  opor- tet  concedere  quod,  sicut  genus  est  prius  differentia  et  potentiale ad  illam,  sicut  universaliter  minus  perfectum  ad  maius  perfectum, ita  cogitativa  est  prior  intellectiva  in  homine  et  potentialis  ad '2  Nella  Summa  philosophie  natura! is  o  naturalium  (Venezia.  Eredi di  Ottaviano  Scoto,  «  Anno  a  salutifera  incarnatione  tertio  et  quingen- tesimo  supra  millesimum.  Idibus  Martijs  »),  V  parte.  De  anima,  cap.  V, fol.  68,  col.  4:  «  Tertia  conclusio:  Necesse  est  in  homine  esse  plures animas  totales.  Probatur:  nam  sol  et  homo  generant  hominem,    physi- corum  (t.  e.  26);  ergo  homo  generatur;  sed  terminus  generationis  est forma  accipiens  novum  esse,  ut  colligitur  ex  sententia  philosophi,    phi- sicorum  (t.  e.  7);  ergo  aliqua  forma  hominis  generatur;  sed  non  intel- lectiva, 3°  de  anima  (t.  e.  5);  ergo  sensitiva  generatur.    Item,  philo- sophus,  primo  celi  (t.  e.  102)  :  «  omme  genitum  aliquando  corrumpetur  »; ergo  homo  aliquando  corrumpetur;  sed  non  intellectiva,    de  anima (t.  e.  19);  ergo  sensitiva.  Et  ita  necesse  est  ponere  in  homine  duas  ani- mas:  unam  intellectivam,  ingenerabilem  et  incorruptibilem,  secundum philosophum,  et  aliam  sensitivam,  generabilem  et  corruptibilem,  quam Commentator  vocat,    de  anima  (t.  e.  5),  cognitivam  (sic,  leggi  cogi- tativam). —  Quarta  conclusio:  Impossibile  est  in  aliquo  vivente  non intellectivo  esse  plures  animas  totales.  Patet,  quoniam  si  in  plantis vel  in  brutis  ponerentur  plures  anime  totales,  unanecessario  super- flueret,  quoniam  illa  que  est  maioris  perfectionis  totum  actuaret,  sicut illa  que  est  minoris  perfectionis,  et  omnes  operationes  eius  exerceret, ex  quo  in  ea  fundantur  omnes  potentie  inferioris  anime.  Dicatur  ergo quod  in  plantis  est  solum  una  anima  totalis,  que  est  tota  in  toto  et pars  in  parte,  et  hec  est  vegetativa;  in  animalibus  autem  imperfectis est  solum  una  anima  totalis,  et  illa  est  sensitiva,  supplens  vicem  anime ,  que  etiam  extenditur  ad  extensionem  subiecti;  et  in  ani- malibus perfectis  sunt  plures  vegetative  [partiales]  et  una  sensitiva totaUs,  multiplicata  ad  omnem  partem  etherogeneam.  Sed  in  homi- nibus,  preter  formas  partiales  vegetativas,  sunt  due  totales,  scilicet sensitiva  multiplicata  ad  partes  etherogeneas,  et  intellectiva  non  mul- tiplicata ad  aliquam  partem  illius  individui,  sed  bene  ad  omnia  indi- vidua speciei  humane,  eo  quod  intellectus  est  unus  in  omnibus  homi- nibus,  iuxta  intentionem  Aristotelis  et  determinationem  Commenta- toris,  3"  de  anima  (t.  et  e.  5)  ».  illam  13.  — Quarto  sequitur  quod  idem  individuum  est  diversarum specierum  essentialium.  Patet,  quia  homo  per  animam  cogita- tivam  sensitivam  est  alicuius  speciei  generis  animalium,  immo supreme  speciei,  quia,  secluso  intellectu,  per  cogitativam  homo habet  discursum  quodammodo  rationalem,  ratione  reminiscentie reperte  in  eo  et  non  in  aho;  licet  enim  memoria  reperiatur  in aliis  animalibus,  non  tamen  reminiscentia  ;  neque  reminiscentia competit  homini  ratione  intellectus,  sed  ratione  cogitative  vir- tutis,  quia  reminiscentia  est  passio  anime  sensitive,  secundum Aristotelem,  in  libro  de  meìnoria  et  reminiscentia  H.  Item,  quia intellectus  humanus  est  pura  potentia  in  genere  intelligentiarum, per  commentatorem,  tertio  huius,  et  per  consequens  est  primus gradus  illius  generis  ^5,  ideo  per  intellectum  constituit  primam speciem  intellectivoruni,  sicut  per  cogitativam  constituit  ultimam speciem  generis  animalium.  Nec  est  inconveniens  duos  gradus specificos  esse  immediatos,  quia  species  sunt  sicut  numeri,  8  ine- taphysice  (t.  e.  io).  Et  si  concluditur  ex  eodem  fundamento, quodlibet  mixtum  esse  diversarum  specierum  essentialiter,  ra- tione forme  mixti  et  forme  elementi,  negetur  consequentia,  quia forma  elementi  non  se  habet  respectu  forme  mixti  nisi  materialiter et  potentialiter  per  modum  dispositionis  prefinientis  in  ma- teria formam  mixti;  ideo  non  dat  mixto  nomen  specificum  nec diffinitionem  essentialem.  Sed  anima  cogitativa  non  se  habet tanquam  dispositio  prefiniens  animam  intellectivam,  cum  eque simul  inducantur  in  corpore,  nec  una  potest  naturaliter  esse  sine alia.  Cogitativa  tamen  dicitur  esse  prior  intellectiva  et  potentialis ad   illam   propter   suam   imperfectionem  ^^. Come  è  facile  vedere,  già  in  questo  luogo  dell'esposizione del  libro  secondo  del  De  anima,  la  tesi  caratteristica  di  Sigieri, 13  Anche  Sigieri,  come  sappiamo,  affermava  che  la  cogitativa  è  or- dinata «  in  intellectivam  »,  talché  «  nec  potest  intellectus  informare  ma- teriam  non  informante  cogitativa...,  nec  potest  cogitativa  informare materiam  non  informante  intellectu  »;   cfr.   Sigieri  nel  pens.,  p.    18. 14  Cap.  2,  453^  14  sgg.  «  Quella  parte  dove  sta  memora  »  chiama l'anima  sensitiva  anche  Guido  Cavalcanti,  nella  canzone  «  Donna  mi prega»,  tutta  pervasa  di  dottrina  averroistica ;  cfr.  il  mio  voi.  Dante e  la  cult,  medievale,'^  pp.  104-105,  137.  Gli  averroisti  negavano  si  la  me- moria che  la  reminiscenza  all'intelletto;  cfr.  il  mio  voi.  Nel  mondo di  Dante,  Roma,  Edizioni  di  «  Storia  e  Letteratura  »,  1944,  pp.  373-374- 15  Altra  tipica  tesi  di  Sigieri  che  Paolo  Veneto  svilupperà,  come  ve- dremo   fra    breve. 16  Allo  stesso  modo  anche  nella  Summa  naturalium,  1.  e.  fol.  69, col.  I  :  «  Ad  secundum  dicitur,  quod  anima  intellectiva  non  adv-^enit enti  in  actu  substantiali,  quia  eque  primo  adveniunt  corpori  sensitiva et  intellectiva.  Item,  dato  quod  sensitiva  precederet  tempore  intel- lectivam, adhuc  advenit  enti  in  potentia,  quia  forma  sensitiva  hominis dicitur  potentialis  ad  ulteriorem  actum;  non  autem  anima  intellectiva. Hec  ergo  est  differentia  inter  formam  substantialem  et  accidentalem, quia  forma  accidentalis  advenit  enti  in  actu  ultimato,  forma  autem substantialis   advenit   enti   in   potentia,    licet   non   in   pura   potentia  ». Ol che  r  intelletto,  pur  essendo  in    una  sostanza  separata unica  per  tutta  la  specie  umana,  s'unisce  ai  singoli  con  un vincolo  sostanziale,    da  potersi  dire  forma,  atto  e  perfezione dell'uomo,  è  accennata  in  modo  esplicito  '7.  Ma  1'  influsso  del brabantino  sull'udinese  è  ancora  più  evidente  nell'esposizione del  terzo  libro,  del  pari  che  nei  capitoU  35-37  della  quinta parte  della  Summa  naturalium. In  quest'ultimo  scritto,  frate  Paolo  tratta  anzitutto  della passività  o  passibilità  dell'  intelletto  umano,  formando  queste quattro  conclusioni: Quarum  prima  est  ista:  Intellectus  humanus  nullam  habet de  se  in  actu  speciem  intelligibilem,  sed  ad  quamlibet  talem  est penitus  in  potentia.... Secunda  conclusio:  Intellectus  non  est  aliqua  una  natura sed  solum  habet  possibilitatem  recipiendi  omnes  formas  ma- teriales.... Pertia  conclusio:  Intellectus  possibilis  humanus  ante  intellectio- nem    nullatenus    est    actu.... Quarta  conclusio  :  Intellectus  humanus  est  immaterialis  et incorporeus  et   immixtus....  '8. Tutte  e  quattro  queste  conclusioni  ritornano,  con  una  leg- gera variazione  nel  loro  ordine,  in  principio  dell'esposizione del  terzo  libro  De  anima  '9;  ma  qui  alla  terza  conclusione, che  corrisponde  alla  seconda  della  Summa,  il  maestro  pado- vano ricollega  il  problema  dell'unità  dell'  intelletto  che  nella Summa  è  discusso  a  parte  nel  capitolo  37. 17  Tanto  nella  Summa  naturalium,  1.  e,  f.  68,  col.  4,  Secunda  conclusio, quanto  nell'esposizione  del  De  anima,  1.  e,  f.  47,  col.  3,  combatte la  tesi  sostenuta  un  tempo  a  Oxford  da  Roberto  Kilwardby  e  da  Tom- maso di  Wilton,  e  accolta  anche  da  Giovanni  di  Jandum,  che  «  in  aliquo vivente  possit  esse  multitudo  formarum  iuxta  pluralitatem  predicato- rum  essentialium  «.  Della  qual  tesi  nell'esposizione  del  De  anima  egli dà  questo  riassunto  :  «  Tenentes  pluralitatem  formarum  in  eodem  iuxta multitudinem  predicatorum  quiditativorum,  dicunt  quod  prima  forma Sortis  est  illa  qua  ipse  est  substantia,  et  secunda  qua  est  corpus,  et tertia  qua  est  corpus  animatum,  et  quarta  qua  est  animai,  et  quinta qua  est  homo,  et  sexta  qua  est  Sortes;  et  ita  de  individuis  aliarum  spe- cierum;  et  imaginantur  isti  quod,  quantum  ad  animam  sensitivam, omnia  animalia  sunt  eiusdem  rationis  substantialis,  a  qua  sumitur  hoc genus  «  animai  »;  et  secundum  formas  ulteriores  specifìcas,  sunt  homines, equi  et  canes  diversarum  rationum  substantialium;  concedentes  omnes tales  formas  realiter  distingui  et  fundari  in  materia  inhesive,  ordine essentiali,  secundum  quod  taha  predicata  invicem  essentiahter  ordi- nantur.   Ista  opinio  est  impossibilis  ». 18  Summa   naturai.,  pars  V,   e.   35,   f.   87,   col.    2. 19  In  libros  de  anima,  III,  ad  t.  e.  1-5,  f.  128,  col.  3-130,  col.  3. 82  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Sul  modo  di  concepire  la  passività  dell'  intelletto  possi- bile e  il  concorso  dell'  intelletto  agente  e  del  fantasma  al- l'atto dell'  intendere,  l'eremitano  riferisce  quattro  opinioni,, l'ultima  delle   quali  è   quella  d'Averroè: Quarta  opinio  est  Averroys  intellectui  possibili  nihil  nisi  passi- bilitates  assignantis,  fantasmati  vero  activitatem  tanquam  par- ticulari  agenti,  et  intellectui  agenti  tanquam  agenti  universali; ita  quod  ad  primas  intellectiones  et  species  intelligibiles  concurrit fantasma  tanquam  agens  particulare,  et  intellectus  agens  tanquam agens  vniiversale;  ad  omnes  autem  conseguentes  se  habet  intel- lectus agens  sicut  causa  particularis,  fantasma  autem  sicut  causa sine  qua  non,  intellectus  autem  possibilis  solum  recipit  et  nun- quam  agit  -°. Da  questa  opinione  il  nostro  dichiara  di  dissentire,  non  per quel  che  concerne  le  prime  intellezioni,  nelle  quali  l' intelletto possibile  è  totalmente  in  potenza,  e  quindi  del  tutto  passivo, sibbene  per  quel  che  concerne  le  intellezioni  successive,  alle quali,  essendo  già  attuato  dalle  prime,  è  in  grado  di  concor- rere attivamente,  «  semper  tamen  virtute  intellectus  agentis  ». Di  qui  la  conclusione  formulata  piti  oltre,  che  cioè: Intellectus  ante  actuationem  speciei  intelligibilis  aliter  est  in potentia  quam  post  actuationem  eius  21. Dopo  aver  affermato  l'essenziale  passività  dell'  intelletto possibile,  fra  Paolo  si  pone  nella  Summa  naUiralmni  il  quesito del  rapporto  da  stabihre  tra  questo  intelletto  e  il  corpo  umano, intorno  al  quale  «  tam  Inter  veteres  quam  modernos  multa discrepantia  fuit  »  ^-.  E  prima  di  tutto  ricorda quod  Plato  posuit  intellectum  uniri  corpori,  non  ut  formam materie,  sed  ut  motorem  mobili,  eo  modo  quo  nauta  unitur  navi et  intelligentia  orbi,  non  per  modum  informationis,  sed  per  con- tactum    virtutis    (alium)    a    contactu    corporeo. 20  7è.,  ad  t.  e.  5,  fol.  131,  col.  3.  Il  problema  fu  a  lungo  discusso  fra  le varie  scuole  nella  scolastica  della  decadenza,  senza  che  ci  si  rendesse ben  conto  della  sua  gravità,  poiché  è  problema  che  investe  tutta  la filosofia  antica  fino  a  Kant:  come  salvare  l'immanenza  dell'atto  del conoscere,  se  esso  ha  bisogno  d'una  causa  esterna  che  la  produca  nel soggetto   conoscente  ? 21  Iv.,  ad  t.  e.  8,  fol.   133,  col.  2. ^2  Summa  naturai.,  V,  e.   36. i Quanto  ad  Averroè,  il  nostro  eremitano  ne  espone  il  pen- siero in  questi  termini: Secundo  notandum  ex  intentione  Commentatoris,  ij  de  anima (comm.  5  et  36),  quod  corporalis  natura  compatitur  secum  spiri- tualem  naturam,  et  non  cedit  ei  organum  fantasticum  seu  imagi- native  virtutis,  cum  sit  quid  corporale,  intellectus  autem  quid spirituale;  organum  predictum  non  cedit  intellectui,  et  per  con- sequens  illa  eadem  intentio  que  informat  virtutem  imaginativam, informat  intellectum  materialem...;  et  hoc  dico  quia  intellectus copulatur  nobis  per  formam  suam.  Copulatur enim  nobis  per intentiones  imaginatas,  que  sunt  eedem  cum  intentionibus  exi- stentibus  in  intellectu  possibili;  et  ita  unitur  homini  per  fanta- smata  intellecta  in  actu.  Intentiones  enim  imaginative,  per  Com- mentatorem,  ut  informant  virtutem  imaginativam,  plurificantur, quia  sunt  ibi  cum  conditionibus  materie;  sed  ut  informant  in- tellectum possibilem  fiunt  una  intentio  in  ipso,  quia  non  recipit cum  conditionibus  materie.  Et  ideo  inquit  Commentator,  quod copulatur  nobis  intellectus  per  continuationem  intentionis  in- tellecte,  quia  eadem  est  intentio  informans  intellectum  et  virtutem imaginativam  23. Siffatta  interpretazione  del  pensiero  del  commentatore  di Cordova  anzi  che  da  Sigieri  è  suggerita  invece  da  Egidio  Ro- mano, al  quale  il  confratello  veneto  s'appella  esplicitamente nel  commento  al  De  anima: Secunda  opinio  fuit  Averoys  dicentis  quod  intellectus  humanus non  unitur  corpori  ut  forma,  sed  per  fantasmata  intellecta  in actu.  Ad  quod  declarandum,  est  notandum  primo  secundum eum  in  hoc  tertio,  iuxta  expositionem  Egidij,  quod  corporalis natura   compatitur   secum   spiritualem   naturam   etc.  -4. All'opinione  d'Averroè,  Paolo  aggiunge  quella  di  Giovanni di  Jandun  che,  a  mio  parere,  egH  non  ha  ben  compreso.  Ecco ad  ogni  modo  com'egli la  riassume: Tertia  opinio  fuit  Ioannis  de  ianduno  dicentis  quod  intellectus, secundum  Commentatorem,  unitur  corpori  humano,  non  ut  forma dans  esse,  sed  ut  motor  mobili  dans  operari,  eo  modo  quo  unitur intelligentia  orbi  et  nauta  navi;  concedens  consequenter  quod datur  duplex  homo:  unus  qui  componitur  ex  corpore  et  anima cogitativa;  et  alius  qui  componitur  ex  intellectu  et  toto  residuo; 23  Ib. 24  In  libros  de  anima,  1.  e.  f.   133,  col.  4.  Cfr.  Egidio  Romano,  Do intell.  pass,  cantra  Averr.,  Venezia,  1500,  II  parte,  fol.  92    col.  1-9. 84  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI quibus  proportionaliter  respondet  duplex  intelligere,  scilicet universale  et  particulare  ;  homo  sumptus  primo  modo,  solum particularia  intelligit;  et  sumptus  secundo  modo  intelligit  solum universalia  ^5. A  queste  tre  opinioni  egli  oppone  la  tesi  d'Aristotele,  se- condo il  quale  l' intelletto  è  vera  forma  sostanziale  dell'uomo, cui    essere  ed  operare  ^6. Ma  com'egli  intenda  il  pensiero  dello  Stagirita  su  questo punto,  c'è  detto  nella  Summa  naturalium '^v. Tertia  conclusio  :  Anima  intellectiva  non  unitur  corpori  humano per  inherentiam.  Patet  tripliciter:  primo  quia  ipsa  est  ingene- rabilis  et  incorruptibilis,  iij  de  anima  (t.  e.  20)  ;  modo  nulla  forma inheret materie  per  transmutationem,  scilicet  materie  que  non generatur  et  corrumpitur,  ut  colligitur  a  philosopho,  primo  de genevatione,  et  a  Commentore,  in  libro  de  substantia  orbis  (cap.  4). Secundo,  quia  intellectus  est  impassibilis  et  intransmutabilis, iij  de  anima;  sed  nulla  forma  inheret  materie  nisi  per  transmu- tationem et  passionem.  Tertio,  quia  anima  intellectiva  est  indi- visibilis  et  impartibilis  per  carentiam  partium  integralium;  nam quelibet  forma  inherens  materie  suscipit  conditiones  intrinsecas materie  secundum  quas  inheret;  cum  ergo  conditio  materie, secundum  quam  forma  inheret,  sit  habere  partes  integrales, licet  non  partem  extra  partem,  quia  hec  est  conditio  quantita- tis,   etc. Quarta  conclusio:  Anima  intellectiva  unitur  homini  substan- tialiter  per  informationem,  ita  quod  est  forma  substantialis  cor- humani,  non  solum  dans  operari,  sicut  intelligentia  orbi, sed  etiam  esse  specificum  et  essentiale.  Probatur:  differentia specifica  constituens  aliquam  speciem  sumitur  a  forma  illius speciei,  sicut  apparet  ex  intentione  philosophi,  io  metaphysice (t.  e.  25),  dicentis  quod  contraria  consequentia  materiam  non faciunt  differentiam  in  specie,  sed  contraria  consequentia  formam; modo  differentia  propria  hominis  est  «  rationale  »;  ergo  sumitur a  forma  humana;  sed  «rationale  »  sumitur  ab  eo  quod  est  intel- lectivum;  ergo  intellectus  vel  anima  intellectiva  est  forma  cor- poris  humani.    Item,  «  rationale  »  ponitur  in  diffinitione  eius non  tanquam  additamentum,  sed  tanquam  differentia  eius,  ut ponit  Porphyrius  et  Aristoteles  ;  ergo  "  rationale  »  est  de  essentia hominis;  sed  nihil  est  per  se  rationale  nisi  per  aniinam  intellecti- ^5  Ib.,  fol.   134,   col.    I,   cfr.   Sigieri,  pp.    100-102. -6  Ib.,  fol.  134,  col.  1-2:  «Quarta  opinio  fuit  Aristotelis  dicentis  in- tellectum  esse  veram  formam  substantialem  hominis....  Ideo  est  di- cendum  cum  Aristotele  et  alijs  perypateticis  veris,  quod  intellectus  est iorma  substantialis  hominis,  dans  sibi  esse  et  operari  ». ^7  Parte   V,    cap.    36. vam;  ergo  etc.  Unde  ex  diffinitione  anime  data  a  phylosopho, ij  de  anima,  convincitur  hanc  conclusionem  esse  de  intentione sua.  Arguitur  enim  sic:  Anima  intellectiva  secundum  ipsum  est anima;  ergo  «est  actus  primus  corporis  »;  patet  consequentia  a dififinito  ad  diffinitionem  ;  ergo  est  forma  substantialis;  patet consequentia  secundum  phylosophum,  ij  de  anima  (t.  e.  6),  eo quod  actus  primus  est  forma  substantialis  corporis;  et  nonnisi corporis  humani;  ergo  etc.    Deinde  anima  intellectiva  est  illud «quo  primo  intelligimus  »;  ergo  est  forma  substantialis  hominis; patet  consequentia,  quia  non  est  alia  ratio  ad  probandum  ani- mam  vegetativam  esse  formam  substantialem  corporis  vege- tantis,  et  animam  sensitivam  esse  formam  corporis  sensitivi; ergo  etc. L'anima  intellettiva  dunque  è,  sì,  forma  dell'uomo,  in quanto  gli    l'essere  e  l'operare  di  uomo,  ma  non  perché  sia inerente  al  suo  corpo  alla  stessa  maniera  delle  altre  forme naturali.  Su  questa  differenza  Paolo  Veneto  ritorna  anche  nel commento  al  De  anima -^: Intelligenda  est  differentia  inter  informare  et  inherere:  quo- niam  informare  est  dare  alteri  esse  actuale  et  hoc  dicit  perfectio- nem  in  forma,  imperfectionem  in  materia,  quia  dare  dicit  perfectio- nem;  sed  inherere  est  ab  alio  sustantificari,  et  hoc  dicit  perfectio- nem  in  materia  et  imperfectionem  in  forma,  quoniam  sustanti- ficare  dicit  perfectionem,  et  sustantificari  imperfectionem  dicit, scilicet  dependentiam  a  subiecto.  Ex  isto  notabili...,  sequitur quod  anima  intellectiva,  licet  informet  corpus humanum,  non tamen  inheret  illi,  quia  non  dependet  ab  eo;  quocumque  enim  tali corpore  dato,  ante  illud  fuit  et  post  illud  erit  anima  intellectiva, cum  illud  generetur  et  corrumpatur,  anima  autem  intellectiva sit  eterna....  Ouatuor  rationibus  arguitur  animam  intellectivam non  inherere  materie;  quarum  prima  est  ista:  anima  intellectiva non  educitur  de  potentia  materie;  ergo  sibi  non  inheret....  Se- cunda  ratio:  anima  intellectiva  est  prior  materia;  ergo  non  inheret illi....  Tertia  ratio:  anima  intellectiva  est  impassibilis  et  intransmu- tabilis;  ergo  non  inheret  materie....  Quarta  ratio:  anima  intellectiva est  indivisibilis  et  inpartibilis  per  carentiam  partium  integralium, secundum  philosophum  et  commentatorem,  in  hoc  tertio  (t.  e.  6)  ; ergo  non  inheret  materie. Anima  sensitiva  o  cogitativa  ed  anima  intellettiva  son dunque,  per  il  maestro  padovano,  due  forme  totali  che  costi- tuiscono l'uomo  nella  sua  natura  di  animale  ragionevole. Ma  pur  essendo  due  forme  distinte,  sono  unite  da  un  intimo ^^  In  libros  de  anima,  III,  ad  t.  e.  6,  f.  132,  col.  2-3. 86  legame  talmente  stretto,  che  l'una  è  fatta  per  l'altra  e  l'una completa  l'altra.  Per  questa  ragione  il  Nifo,  più  che  due anime  le  diceva  29  due  semianime  costituenti,  per  la  lo- ro sostanziale  unione,  una  sola  anima  umana;  che  è  an- che il  pensiero  di  Dante,  il  quale  ad  esprimerlo  si  serve  della immagine  del  «  calor  del  sole  che  si  fa  vino,  giunto  all'omor che  dalla  vite  cola  »  30.  La  tesi  di  fra  Paolo  è  dunque  identica in  sostanza  alla  tesi  professata  da  Sigieri  nel  trattato  in  ri- sposta a  quello  dell'  Aquinate  contro  gli  averroisti  ;  ma  d'ac- cordo col  brabantino  il  maestro  padovano  non  è  nella  pretesa d'attribuire  questa  tesi  al  commentatore  di  Cordova;  anzi egli  riconosce  che  è  vero  il  contrario: Cominentator  tamen  diceret  intellectum  per  se  subsistere, et  ipsum  non  uniri  materie  ut  formam;  sed  non  sui  ipsius  {sic, leggi:  sum  ipsius)  opinionis  3'. Ma  se  il  nostro  eremitano  dissente  da  Sigieri  su  questo  par- ticolare, non  dissente  affatto  da  lui  nel  ritenere  che,  pur  es- sendo forma  dell'uomo,  l' intelletto  possibile  è  unico  per  tutti gli  uomini.  E  nella  Summa  naturalium  32  ritiene  sia  questo  il pensiero   non   soltanto   d'Averroè,    bensì   quello   d'Aristotele: Unde  secundum  philosophum,  primo  et  tertio  de  anima,  na- tura nihil  facit  frustra  et  non  abundat  in  superfluis,  nec  deficit in  necessariis;  cum  igitur  natura  alicui  speciei  non  dederit  nisi unum  individuum,  et  alteri  plura,  hoc  est  ideo,  quia  una  species in  uno  individuo  potest  se  perpetuo  preservare,  et  non  alia;  ut species  angelica  que  perpetuo  preservatur  in  una  intelligentia, et  non  species  humana;  sed  ita  est  quod  species  anime  intellective potest  se  preservare  perpetuo  in  uno  individuo,  quia  anima  in- tellectiva  est  perpetua  et  eterna  sicut  aliqua  intelligentia  celestis, ergo  frustra  et  preter  intentionem  nature  ponuntur  plures  anime intellectuales  solo  numero  differentes.    Item,  intellectus  venit de  foris,  secundum  philosophum,  xvj  libro  de  animalibus:  aut ergo  per  creationem,  iuxta  opinionem  fidei;  aut  per  motum  a corporibus  celestibus,  iuxta  opinionem  Platonis;  aut  per  introitum unius  corporis,  aliud  relinquendo,  iuxta  opinionem  Pictagore; aut  per  novam  actuationem  unius  corporis  humani,  aliud non  relinquendo:  nullus  trium  priorum  modorum  potest  assi- gnari,  quia  intuenti  libros  Aristotelis  notum  est  ipsum  oppositum 29  Vedi    Sigieri...  nel  pens.,    pp.    13-20. 30  Purg.,    XXV,    76-78. 31  In  libros  de  anima,  1.  e.  fol.   132,  col.  3. 32  Parte  V,  cap.  37,  fol.  88,  col.  3. opinari;  ergo  est  dare  quartum  modum;  et  cum  in  eodem  corpore non  possint  esse  plures  anime  intellective  simul,  secundum  omnes opiniones,  sequitur  quod  unicus  est  intellectus  in  omnibus  homi- nibus   secundum   intentionem   Aristotelis. E  più  oltre: Quarta  conclusio:  Intellectus  non  numeratur  numeratione individuorum,  sed  est  unicus  in  omnibus  hominibus.  Probatur: pluralitas  individuorum  in  eadem  specie  non  est  nisi  per  mate- riam,  per  philosophum,  j  celi  (t.  e.  92),  vij  et  xij  metaphysice (VII,  t.  e.  28;  XII,  t.  e.  49),  ubi  probat  quod  non  possunt  esse plures  intelligentie  separate  solo  numero  differentes,  per  hoc medium  :  quecunque  conveniunt  in  eadem  specie  et  differunt numero,  habent  materiam;  sed  anima  intellectivam  non  habet materiam  scilicet  ex  qua,  nec  in  qua  per  inherentiam;  ergo  etc. Unde  arguitur  sic:  anima  intellectiva  est  ingenerabilis  et  incor- ruptibilis,  iij  de  anima  (t.  e.  20),  et  non  contingit  dare  multitu- dinem  infinitam,  j  celi  (t.  e.  68)  et  iij  physicorum  (t.  e.  40),  et species  sunt  eterne,  j  posteriorum  (t.  e.  56)  et  vii]  physicorum (t.  e.  57);  ergo  unica  est  anima  intellectiva  omnium.  Patet  con- sequentia,  quia,  si  anima  intellectiva  mutatur  mutatione  indivi- duorum speciei  humane,  aut  ergo  per  generationem  et  corruptio- nem,  ut  posuit  Alexander,  et  hoc  non,  quia  repugnat  prime  parti antecedentis  ;  aut  per  multiplicationem  finitam  animarum  re- cedentium  et  advenientium,  ut  posuit  Plato  vel  Pictagoras,  et hoc  iterum  non,  quia  omnes  sciunt  oppositum  scripsisse  Aristo- telem;  aut  per  generationem  vel  creationem  et  incorruptibili- tatem,  ut  ponit  fides,  et  hoc  iterum  non,  quia  repugnat  secunde et  tertie  parti  antecedentis;  ergo  oportet  dare  unicum  intellectum in  omnibus  hominibus,  secundum  opinionem  et  intentionem  Ari- stotelis. La  stessa  tesi  Paolo  Veneto  sostiene  anche  nell'esposizione del  De  animaci,  ma  con  una  piccola  variazione:  nella  Summa,  la teoria  dell'unico  intelletto  in   tutti  gli  uomini   è   detta  sen- 33  In  libros  de  anima.  III,  ad  t.c.  5,  fol.  130,  col.  3:  «  Secundo  notan- dum,  secundum  Commentatorem,  eodem  commento,  quod  Illa  natura (intellectus)  non  est  hoc  aliquid,  nec  corpus  nec  virtus  in  corpore,  quo- niam,  si  ita  esset,  tunc  reciperet  formas  secundum  quod  sunt  diverse et  individuales;  et  si  ita  esset,  tunc  forme  existentes  in  illa  essent  in- tellecte  in  potentia,  et  sic  non  distingueret  naturam  formarum  secun- dum quod  sunt  forme,  sicut  est  dispositio  in  formis  individualibus, sive  in  spiritualibus  sive  in  corporalibus.  Intentio  commentatoris  est, quod  intellectus  humanus  non  sit  aliquid  singulare  vel  individuum, ex  quo  non  est  corpus  nec  virtus  in  corpore;  quoniam  materia  est  ratio individuationis,  a  qua  separatur  intellectus  humanus  sicut  et  quelibet intelligentia  celi.  Tria  ergo  inconvenientia  adducit,  concesso  quod intellectus  sit  hoc  aliquid.   Primum  inconveniens  est,  quod  intellectus z'altro  rispondere  al  pensiero  d'Aristotele  «  iuxta  impositionem Commentatoris  »  ;  nel  commento  invece  è  presentata  sempli- cemente come  «  intentio  »  e  «  opinio  Commentatoris  »  :  segno che  sul  vero  pensiero  d'Aristotele  s'era  forse  affacciato  qualche dubbio   alla  mente   del  maestro   padovano. Un'altra  tesi  tipica  di  Sigieri  consiste,  come  sappiamo, nel  ritenere  che  l' intelletto  agente,  tanto  per  Aristotele  quanto per  il  suo  commentatore  arabo,  sia  Dio. Nella  Summa  naturalium  34,  fra  Paolo  ritiene: quod  intellectus  agens  et  possibilis  non  separantur  ab  anima intellectiva,  sed  sunt  differentie  illius  non  substantiales...,  sed accidentales....  Intellectus  agens  est  coniunctus  anime  intellective per  inherentiam  et  fantasmatibvis  per  presentiam  et  indistantiam. Per  altro  nella  risposta  «  Ad  primum  (argumentum)  »  egli accenna  anche  alla  tesi  di  Sigieri,  ma  senza  aderire  ad  essa: Commentator  autem  vult  intellectum  possibilem  esse  essen- tiam  anime  intellective,  et  intellectum  agentem  esse  primam  cavi- sam,  vitaliter  immutantem  ipsum  intellectum  possibilem;  sed hanc  opinionem  non  teneo  ad  presens. Invece,  quando  scriveva  l'esposizione  al  De  anima,  egli  era ormai  convinto  che  la  tesi  di  Sigieri  fosse  la  sola  vera,  non soltanto  dal  punto  di  vista  della  filosofia  aristotelica,  ma  al- tresì da  quello  teologico: Dubitatur,  si  intellectus  agens  et  possibilis  differunt  tam  inter se  quam  ab  assentia  anime,  utrum  sint  substantie  vel  accidentia. In  hac  materia  fuerunt  quatuor  opiniones.  Prima  fuit  Avi- cenne  et  Algacelis,  dicentium  intellectum  agentem  et  possibilem esse  substantias  invicem  separatas  loco  et  subiecto,  ita  quod  se- cundum  eum  {sic)  intellectus  possibilis  est  forma  hominis,  et intellectus  agens  est  decima  intelligentia  appropriata  decime spere,   a  qua  nostra  felicitas  dependet;  sicut  ergo  iste  unus  sol non  reciperet  nisi  formas  individuales  et  secundum  quod  sunt  diverse... Secundum  inconveniens:  quod  species  intelligibiles  essent  intentiones intellecte  in  potentia  et  non  in  actu;  quod  est  falsum,  cum  sint  univer- sales  et  depurate  a  conditionibus  materialibus....  Tertium  inconve- niens:  quod  intellectus  non  poneret  differentiam  inter  formas  univer- sales   et   singulares,   sive   ille   forme   corporales   sive   spirituales ».    E dopo  aver  riferite  quattro  obiezioni  «  contra  commentatorem  »,  comincia la    sua    risposta    con    queste    sintomatiche    parole:    «  Responsurus    prò opinione    Averroys,    dico...... 34  Parte  V,  cap.  38,  fol.  89,  col.   1-4. totum  universum  illuminat,  per  cuius  illuminationem  possunt omnes  oculi  videre,  sic,  dicebant  illi,  est  aliqua  una  substantia separata  irradians  super  fantasmata  omnium  hominum,  per cuius   irradiationem   possunt   omnes   homines   intelligere. Hec  opinio  est  in  parte  defectuosa,  quia  postquam  intellectus factus  est  in  actu  nos  intelligimus  quandocumque  volumus, secundum  quod  posuit  supra  Commentator  et  habetur  ad  expe- rientiam;  sed  talis  substantia  separata  non  videtur  irradiare supra  fantasmata  quandocunque  volumus,  sicut  nec  sol  illuminat oculum  quandocunque  volumus;  cum  ergo  non  intelligamus absque  intellectu  agente,  ergo  intellectus  agens  non  est  talis intelligentia  separata  35. Siffatta  critica  della  tesi  d'Avicenna,  ci  fa  presentire  come la  pensi  il  nostro  su  quest'argomento:  se  invece  di  identifi- care r  intelletto  agente  colla  decima  intelligenza  celeste,  che è  r  infima  delle  intelligenze  separate,  Avicenna  l'avesse  iden- tificato con  Dio,  questo  certamente  irradia  della  sua  luce  i fantasmi  «  quandocumque  volumus  ».  Il  difetto  insomma  di questa  teoria  consiste  nell'avere  identificato  l' intelletto agente  con  un  intelletto  particolare,  anzi  che  con  un  intel- letto veramente  universale. Dopo  di  che,  Paolo  Veneto  espone  e  critica  come  seconda opinione  quella  d'  Egidio,  di  S.  Tommaso  e  di  tutti  quegli antichi  scolastici  che  ritenevano  l' intelletto  possibile  ed  agente facoltà  accidentali  dell'anima.  La  terza  opinione,  da  lui  ri- ferita parimente  rifiutata,  è  quella  di  Giovanni  Eucliph, ossia  Giovanni  WycHf,  il  cui  ricordo  doveva  essere  ancora ben  vivo  a  Oxford,  quando  vi  giunse  il  nostro  eremitano  56. Indi  prosegue: 35  In  libros  de  anima,   III,  ad  t.  e.   19,  fol.   142,  col.  4. 36  La  terza  opinione  è  così  riassunta  (fol.  142,  col.  4-143,  col.  i): «  Tertia  opinio  fuit  Ioannis  Eucliph  dicentis  intellectum  possibilem  et intellectum  agentem  esse  potentias  anime  inteUective,  non  tamen  esse substantias  nec  accidentia;  sicut  enim  dicunt  theologi  quod  pater, filius  et  spiritus  sanctus  sunt  tres  persone  realiter  distincte,  non  tamen tres  substantie  nec  tria  accidentia,  sed  una  substantia  que  est  deus, ita  intellectus  agens  et  intellectus  possibilis  et  voluntas  sunt  tres  po- tentie  realiter  distincte,  non  tamen  tres  substantie,  nec  tria  accidentia, sed  una  substantia  que  est  anima  intellectiva  ;  et  sicut  pater  non  est filius,  nec  spiritus  sanctus,  et  tamen  est  ille  idem  deus  qui  est  filius  et spiritus  sanctus,  ita  intellectus  agens  non  est  intellectus  possibilis nec  voluntas,  et  tamen  est  intellectus  agens  illa  eadem  anima  intel- lectiva numero,  que  est  voluntas  et  intellectus  possibilis.  Opinio  ista non  est  tenenda  phylosophice   nec  theologice  »  etc. Quarta  opinio,  que  tenenda  est,  fuit  Aristotelis  ponentis  in- tellectum  agentem  et  possibilem  esse  virtutes  et  potentias  anime non  subtantiales  nec  accidentales,  sed  intellectum  possibilem esse  accidens  proprium  et  inseparabile  anime  intellective,  quo recipit  omnes  formas  speculativas,  sicut  materia  prima  per  suam accidentalem  potentiam  recipit  omnes  forinas  naturales.  Intel- lectuin  vero  agentem  voluit  esse  substantiam  primam,  coniunctam intellectui  possibili  non  per  modum  forme  informantis  nec  inhe- rentis,  sed  per  modum  forme  et  habitus  presentis  et  indistantis; nec  aliqua  intelligentia,  preter  primam  que  deus  est,  potuit  esse intellectus  agens,  quia,  sicut  potentialitati  prime  materie  respondet actus  purissimus  in  quo  sunt  active  omnes  forme  naturales  que sunt  in  prima  materia  passive,  ita  potentialitati  anime  intellective competere  (correspondere  ?)  agens  primum,  in  quo  sunt  effective omnes  forme  speculative,  que  passive  sunt  in  anima  intellectiva, mediante  intellectu  possibili  37.  Si  enim  aliqua  intelligentia  depen- dens  esset  intellectus  agens,  per  istam  non  posset  intellectus  pos- sibilis  intelligere  primam  causam,  quia  intellectus  agens  abstrahit intellecta  et  agit  ea,  secundum  Commentatorem  ;  modo  nulla intelligentia  inferior  potest  abstrahere  causam  primam  nec  in illam  aliquo  modo  agere,  ratione  independentie  (suedependentie  ?) et  imperfectionis.  Et  hec  opinio  non  solum  est  physica,  sed  etiam a  theologis  tenetur. Nel  commento  al  De  anima,  dunque,  ogni  riserva  è  sciolta, e  fra  Paolo  giudica  la  dottrina  che  identifica  l' intelletto agente  colla  causa  prima,  cioè  con  Dio,  non  soltanto  conforme al  pensiero  d'Aristotele  e  d'Averroè,  ma  senz'altro  vera  in  se stessa  e  tenuta  dai  filosofi,  non  meno  che  da  non  pochi  teologi. La  tesi  di  Sigieri,  intorno  alla  quale  aveva  avuto  dei  dubbi, aveva   finito  per  prendere  il  sopravevnto  nel  suo   animo. Altrettanto  non  possiamo  dire  d'un'altra  tesi  del  braban- tino,  strettamente  connessa  con  quella  che  concerne  l' intel- letto agente,  la  teoria  cioè  della  beatitudine  per  mezzo  del congiungimento  della  mente  umana  coli'  intelletto  divino. Su  questo  punto  Sigieri  aveva  fatta  sua  l' interpretazione che  il  Commentatore  di  Cordova,  nella  celebre  digressione inserita  nel  commento  36  del  III  libro  De  anima,  dava  del 37  Allo  stesso  modo  per  Dante,  Conv.,  IV,  xxi,  5,  l'anima  in  vita tratta  per  virtù  celestiale  dalla  potenza  del  seme,  «  incontanente  pro- dutta,  riceve  da  la  vertù  del  motore  del  cielo  lo  intelletto  possibile; lo  quale  potenzialmente  in    adduce  tutte  le  forme  universali,  secondo che  sono  nel  suo  produttore,  e  tanto  meno  quanto  più  dilungato  da  la prima  Intelligenza  è  ».  Sul  qual  passo,  cfr.  B.  Nardi,  Dante  e  la  cultura medievale,  pp.  267  sgg.,  e  Giorn.  Crit.  filos.  Hai.,  XIII,  1933,  pp.  54-56.   QI pensiero    d'Aristotele.    Anche    l'eremitano    sa    bene    come    la pensasse   Averroè  : Commentator  autem  dicit  iij  de  annna  (t.  e.  5  et  36),  quod, cum  intellectus  possibilis  fuerit  intellectus  adeptus,  idest  actuatus omnium  specierum  materialium,  intelligit  intellectum  agentem per  essentiam  propriam  38. Ma  neppur  questa  volta  egli  è  dell'avviso  dell'arabo;  e postosi  il  quesito  «  Qualiter  intellectus  noster  intelligit  sub- stantias  separatas  »,  lo  risolve  affermando  che  l' intelletto umano  conosce  le  sostanze  immateriali  «  non  per  se  et  directe, sed  indirecte  et  reflexe  per  cognitionem  motus  celi»  39. Così  nella  Summa  naturalium.  Ma  nell'esposizione  del  De anima  è  anche  più  esplicito,  se  fosse  possibile.  Postosi  di  nuovo il  problema  «  Utrum  intellectus  possit  intelligentias  separatas cognoscere  »,  fa  questa  osservazione  che  è  presa  alla  lettera dal  commento  di  S.  Tommaso: Istam  questionem  non  solvit  hic  philosophus,  dicens  se  deter- minaturum  alibi,  scilicet  in  libro  metaphysice...;  hec  questio tamen  non  invenitur  soluta  per  ipsum,  quia  complementum  illius scientie  nondum  ad  nos  pervenit,  vai  quia  nondum  est  totus  liber translatus,  vel  forte  morte  preoccupatus  librum  non  complevit  40. Ciò  non  di  meno  egli  espone  qual  fosse  il  pensiero  d'Averroè e  in  che  differisse  da  quello  degli  altri  interpreti  della  dottrina d'Aristotele.  Ma  giunto  alla  fine  della  discussione,  egli  ci  fa sapere  «  quod  hec  opinio  iam  non  tenetur  a  theologis  vel  phi- losophis  »,  e  ripete  «  quod  intelligentie  separate  cognoscuntur ab  intellectu  possibili  non  per  se  et  directe...,  sed  indirecte et  reflexe  per  cognitionem  motus  celi  »  41. Da  quanto  precede,  mi  pare  risulti  in  modo  da  non  lasciar dubbio,  che  Paolo  Nicoletti,  quando  nel  1408  insegnava  a Padova,  aveva  od  aveva  avuto  tra  mano  per  lo  meno  lo  scritto di  Sigieri  in  risposta  al  trattato  tomistico  De  unitale  intel- lechis.  Questa  e  verosimilmente  altre  opere  del  brabantino circolavano  già  fra  i  maestri  dello  studio  padovano,  o  fu  il 38  Summa  naturai. ,Y,   e.   41,   f.   91,   col.   3. 39  76.,  cap.  42,  f.  92,  col.   i. 40  In  libros  de  anima.  III,  ad  t.  e.  36,  fol.   152,  col.   i,  Cfr.  S.  Tom- maso, De   anima.] nostro  eremitano  a  portarvele,  forse  da  Oxford  o  da  Parigi  ? Non  saprei  che  dire,  perché  tanto  l'una  che  l'altra  suppo- sizione, in  mancanza  di  dati  sicuri,  è  ugualmente  ammissibile. Ulteriori  ricerche  nella  letteratura  manoscritta  concernente  i maestri  che  professarono  a  Padova  e  a  Bologna  nei  secoli  XIV e  XV,  potranno  gettare  qualche  luce  sulle  correnti  d' idee che  fervevano  in  quei  due  centri  d'intensa  vita  intellettuale 4^. Per  il  momento,  a  noi  basti  di  ricordare  quel  maestro  Taddeo da  Parma,  il  quale  insegnava  a  Bologna  intorno  al  1320,  e che  nel  suo  commento  al  De  anima  accoglieva  la  tesi  difesa da  Sigieri  nelle  Quaestiones  de  anima  intellectiva'iì.  Ma  Taddeo, più  che  l'opera  del  brabantino  sembra  aver  letto  le  Quae- stiones di  Giovanni  di  Jandun,  le  quali  ebbero  in  Italia  dal secolo  XIV  al  XVI  la  più  larga  diffusione  e  furono  trascritte e  stampate  in  parecchie  edizioni,  discusse  con  vivacità  e qualche  volta  fraintese.  Fraintesa  in  particolare  sembra  es- sere stata  da  Paolo  Veneto,  e  da  altri  la  dottrina  intorno  al modo  come  l'anima  intellettiva  è  forma  del  corpo,  la  quale, come  già  sappiamo  è  in  sostanza  quella  di  Sigieri,  cui  espHci- tamente  accennava.  Il  bisogno  di  togliere  alla  dottrina  aver- roistica  quello  che  essa  aveva  d'eretico,  dopo  che  il  concilio di  Vienne  aveva  definito  esser  l' intelletto  forma  del  corpo umano,  dovette  invogliare  gli  averroisti  italiani  a  procurarsi quegli  scritti  nei  quali  Sigieri  s'era  difeso  contro  le  obiezioni di  S.  Tommaso,  e  nei  quali,  senza  rinunziare  alla  tesi  dell'unico intelletto  avea  tentato  di  dimostrare  com'esso  s'unisse  al- l'uomo con  tale  intimo  e  sostanziale  legame,  da  potersi  dire forma  dell'  individuo  umano  cui  s'attribuisce  l'atto  dell'  in- tendere. L' insegnamento  di  Paolo  Nicoletti  a  Padova  è  una inequivocabile  testimonianza  che  gli  scritti  di  Sigieri  non erano  ignoti. Un'altra  cosa  questo  insegnamento  ci  attesta:  che  la  dot- trina averroistica  poteva  esser  liberamente  discussa  ed  esposta a  Padova,  fin  dal  primo  decennio  del  secolo  XV,  senza  che  chi se  ne  faceva  sostenitore  incorresse  nella  taccia  d'eretico; tanto  vero  che  frate  Paolo  non  sente  neppure  il  bisogno  di 42  Cfr.  sotto,  il  saggio  XI. 43  Cfr.  Sofia  Vanni  Rovighi,  Le  Quaestiones  de  anima  di  Taddeo da  Parma.  Testo  e  introduzione.  Milano,  Soc.  Ed.  «  Vita  e  pensiero  », 195 I,  P-   35  sgg. ripetere  la  solita  formale  protesta,  che  altri  averroisti  avevano cura  di  non  omettere,  cioè  che  essi  trattavano  dallo  spinoso argomento  come  filosofi  e  non  come  teologi.  E  forse  perché gli  averroisti  padovani  usavano  senza  parsimonia  di  questa libertà,  il  vescovo  Barozzi  d'accordo  coli'  inquisitore  locale proibì  «  quovis  quaesito  colore  »  le  dispute  intorno  all'unità dell'  intelletto.  Ma  il  divieto  riguardava  la  diocesi  di  Padova, e  non,  per  esempio,  Bologna  e  Pavia,  ove  si  continuò  a  dispu- tare con  grande  spregiudicatezza. Non  mi  stancherò  mai  dal  ripetere,  per  coloro  che  han l'animo  sgombro  da  pregiudizi,  che  una  vera  e  propria  dot- trina della  «  doppia  verità  »  nel  medio  evo  e  nel  Rinascimento non  fu  mai  sostenuta  da  alcuno  '.  Molti  invece  furon  quelli che,  contro  il  concordismo  tomistico,  posero  in  rilievo  l'oppo- sizione di  fatto  fra  la  teologia  e  la  filosofia,  '  intendendo  per filosofia  la  dottrina  della  natura  congegnata  in  sistema  da Aristotele,  detto  perciò  il  «  filosofo  «  per  eccellenza,  e  svilup- pata dai  suoi  commentatori  greci  ed  arabi.  Il  primo  a  rendersi conto,  in  modo  chiaro  ed  esphcito,  di  questa  opposizione,  fu Alberto  Magno.  Il  quale,  non  solo  dichiarava  apertamente  che «  theologica  cum  physicis  principiis  non  conveniunt  »  -,  ma giungeva  fino  a  sostenere,  non  doversi  far  caso  dei  miracoli che  Dio  opera  oltre  il  potere  della  natura,  quando  si  tratta  di conoscere  quello  che  è  il  corso degli  eventi  naturali  3.  Perciò, egli  che  s'era  proposto  «  totam  Aristotelis  scientiam  prò.... viribus  explanare  »,  dichiarava  di  rifuggire  dall'  interpreta- zione che  del  pensiero  aristotelico  davano  i  dottori  latini: «  quoniam    in    istarum    quaestionum    determinatione    omnino *  Dal   «Giorn.   Crit.   di   Filos.   Ital.  »,   XXX,    1951,    pp.    103-118. 1  Vedasi  quanto  ho  detto  sopra,  pp.  55-58,  71-75,  e  in  Dante  e  la cultura  medievale,  2*  ed.  Bari,  Laterza,  1949,  pp.  208-209,  nonché  quanto ne  ha  scritto  E.  Gilson,  Etudes  de  philos.  médiév.,  Strasbourg,  1921, PP-    5i'75;  id.,  Dante  et  la  philosophie,  Paris,  1939,  p.  sgg. 2  A.  Magno,  Metaphys.,  XI,   tr.   3,   e.   7. 3  A.  Magno,  De  gener.  et  corrupt.,  I,  tr.  i,  cap.  22,  ad  t.  e.  14.  Cfr. la  mia  nota  La  posizione  di  Alberto  Magno  di  fronte  all'averroismo,  in «  Riv.  di  Storia  d.  Filos.  »,  II,  1947,  p.  197  sgg. q6  l'aristotelismo    padovano    dal    SFXOLO    XIV    AL    XVI abhorremus  doctorum  latinorum  verba  »  4  ;  fra  i  quali  è  sicu- ramente il  suo  confratello  italiano,  frate  Tommaso  d'Aquino  5. La  pretesa  «  teoria  della  doppia  verità  »  non  fu  dunque una  «  teoria  «    una  «  dottrina  »,  ma  la  semplice  constata- zione del  disaccordo  o  contrasto  fra  la  filosofia  aristotelica  e  il pensiero  cristiano.  Ed  era  perfettamente  logico  che  gli  esposi- tori del  pensiero  aristotelico  diffidassero  dei  tentativi  concor- distici  di  Tommaso  e  d'altri  teologi,  e  preferissero  attenersi neir  interpretazione  d'Aristotele  ai  principii  fondamentali  della sua  metafisica,  senza  preoccupazioni  teologiche,  sia  che  le conclusioni  cui  giungevano  s'accordassero  o  no  coi  dogmi della  fede,  avendo  per  altro  cura  di  dichiarare  che  quello  che affermavano  come  filosofi,  cioè  come  interpreti  d'Aristotele, non  riguardava    intaccava  la  verità  di  fede,  cui  essi  prote- stavano di  credere  come  fa  ogni  buon  cristiano  6. Dal  punto  di  vista  logico  e  oggettivo,  questo  atteggiamento degli  averroisti  era  perfettamente  coerente  e  non  impHcava in    niente  di  contradittorio,  e  tanto  meno  costituiva  quel- l'eresia che  Tommaso  d'Aquino  e  alcuni  altri  teologi  vi  scor- sero. Il  che  compresero  bene  non  pochi  altri  teologi  ai  quali  il  tenta- tivo tomistico  di  cristianeggiare  la  filosofia  aristotelica,  per  an- corare ad  essa  il  dogma,  non  parve    di  buon  gusto    di 4  A.  Magno,  De  anima,  III,  tr.  2,  e.  i,  ad  t.  e.  2  ;  La  posizione  d'A.  M., p.  215.  Il  Pomponazzi,  che  rifugge  del  pari  da  questo  «  fratrizzare, idest  miscere  diver.-a  brodia  »  [Phys.  Vili,  t.  e.  76,  Bibl.  Nation.  di  Pa- rigi, cod.  lat.  6533,  f.  568r),  loda  anche  lui  Alberto  Magno,  perché  a  dif- ferenza degli  altri  «fratres  omnes»,  cioè  d'Egidio,  di  Tommaso,  di  Scoto e  di  Gregorio  da  Rimini,  s'è  astenuto  dal  «  frateggiare  »,  mescolando filosofìa  e  teologia.  Sicché  «  isti  fratres  truffadini,  dominichini,  fran- ceschini  vel  diabolini  habent  bene  rationem  comburendi  Albertum, quia  omnes  questiones  sunt  contra  fìdem  nostram  licet  dicat  in  fine, quod  ita  dicit  quia  ut  philosophus  loquitur,  et  philosophica  non  sunt miscenda  cum  theologicis;  et  dicit  quod  in  theologia  aliter  sentit;  et dicit  quod  est  fatuum  miscere  eredita  cum  physicis;  me  autem  vellent comburere»  {Phys.,  Vili,  t.  e.  85.  Arezzo,  Fraternità  de'  Laici,  m.  389, f.  317»'.  Cfr.  cod.  Parig.  cit.,  f.  584^). 5  Cfr.  il  mio  articolo  Alberto  Magno  e  S.  Tomìiiaso,  in  «  Giorn.  Crit. d.  Filos.  Ital.  »,  XXII,  1941,  p.  36  sgg.,  e  La  posiz.  di  A.  M.,  pp.  200, 210,   219. 6  Non  va  confusa  con  questa  tesi  la  dottrina,  svolta  più  tardi  da  Gior- dano Bruno,  e  anch'essa  d'origine  averroistica,  la  quale  attribuisce  alle «  verità  di  fede  »  un  valore  puramente  pratico,  che  il  filosofo  accetta solo  come  tale.  Dell'origine  e  dello  sviluppo  di  questa  teoria  ho  parlato n   «Giorn.  Crit.   d.   Filos.   Ital.»,   buon  augurio.  E  in  particolare  lo  compresero  gì'  inquisitori che  sorvegliavano  con  occhio  sospettoso  le  manifestazioni dell'eretica  pravità.  A  questi  ultimi  importava  mediocremente di  sapere  come  la  pensassero  Aristotele  e  Averroè  sull'eternità del  mondo  o  sull'unione  dell'intelletto  all'uomo:  essi  invece volevano  essere  rassicurati  sui  sentimenti  personali  dei  com- mentatori cristiani  d'Aristotele  intorno  a  questi  argomenti. E  per  esserlo,  bastaron  loro,  a  quanto  pare,  le  pubbliche  di- chiarazioni che,  neir  insegnamento  e  nei  loro  scritti,  gli  ari- stoteli  si  facevano  premura  di  non  dimenticare. Ciò  spiega  come  l'averroismo  e  l'alessandrismo  abbiano potuto  avere  una  vita  abbastanza  florida  sino  alla  fine  del secolo  XVI;  e  com'essi  fossero  apertamente  professati  a  Pa- dova, a  Bologna  ed  altrove  senza  che  per  questo  corresse sangue,  come  fantasticava  Francesco  Orestano  2.  Ch'  io  sappia, neppure  una  goccia  ne  fu  versato,  a  meno  che  non  fosse  dal naso  nell'ardor   delle   dispute. E  nella  libera  discussione,  entro  e  fuori  le  aule  universi- tarie, a  Padova  e  a  Bologna,  e  non  per  editti  restrittiva,  l'ari- stotelismo nelle  sue  varie  tendenze  esaurì  la  propria  vitalità, quando  si  comprese  che  i  problemi  da  esso  posti  erano  inso- lubih,  per  esser  mal  posti.  Ma,  intanto,  quella  che  s'usa  chia- mare «  dottrina  della  doppia  verità  »,  aveva  ottimamente compiuto  la  sua  funzione  storica,  di  assicurare  un'assai  ampia libertà  d' indagine  e  di  critica,  di  cui  il  pensiero  del  Rinasci- mento   s'  è    avvantaggiato  ^. A  questo  punto  nasce  per  altro  un  dubbio  perfettamente legittimo  e  stimolante:  erano  poi  sinceri,  averroisti  e  alessan- dristi,  quando  dichiaravano  di  limitarsi  ad  esporre  quello che,  a  loro  avviso,  era  il  pensiero  d'Aristotele,  ossia  la  «  ve- rità filosofica  »,  senza  aderirvi,  ma  anzi  ripudiandola,  e  di credere  alla  verità  della  fede  ?  oppure  si  beffavano  in  cuor loro  degli  inquisitori,  mettendosi  al  riparo,  per  mezzo  di  quelle dichiarazioni,  contro  le  pene  canoniche  comminate  agli  eretici  ? Un  dubbio  siffatto  solleva  problemi  delicati,  di  difficilissima 7  Riesame  della  «  Beatrice  svelata  »,  in  «  Studi  su  Dante  »,  IV,  Milano, Hoepli,  1939,  p.  24;  cfr.  il  mio  voi.  Nel  mondo  di  Dante,  Roma,  1944, PP-   355-56. 8  B.  Nardi,  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano, pp.  89-90.  Si  veda  anche  la  voce  Averroismo  nel  II  voi.  déW' Enciclope- dia Cattolica.] soluzione.  Intanto  si  deve  constatare  che,  in  generale,  gì'  in- quisitori si  mostraron  piuttosto  propensi  a  credere  alla  sin- cerità di  quelle  dichiarazioni  e  a  lasciare  che,  nel  foro  inte- riore, ognuno  s'aggiustasse  con  Dio  come  meglio  credeva. Non  tutti,  però:  che  noi  sappiamo  della  citazione  di  Sigieri, di  maestro  Bernieri  di  Nivelles  e  di  maestro  Gosvino  de  la Chapelle  da  parte  dell'  inquisitore  di  Francia,  il  23  novem- bre 12769;  del  processo  intentato  a  Biagio  Pelacani,  maestro a  Pavia,  dal  vescovo  di  questa  città,  il  16  ottobre  1396 '°; e  dell'editto  emanato  il  6  maggio  1489  dal  vescovo  di  Padova e  dall'  inquisitore  del  luogo,  col  quale  si  vietava  ai  maestri e  agli  scolari  ogni  pubblica  disputa  intorno  alla  dottrina averroistica  dell'  intelletto.  Quanto  al  primo  caso,  sappiamo tuttavia  che  Sigieri  e  i  compagni  interposero  appello  alla curia  papale  avverso  la  sentenza  dell'  inquisitore  di  Francia, né  risulta  che  questa  fosse  confermata.  Il  processo  contro Biagio  Pelacani  dev'essere  stato  motivato  da  espressioni veramente  ardite  «  contra  fìdem  catholicam  et  sanctam  ec- clesiam  »,  come  quelle  che  s' incontrano  nelle  Quaestiones sul  De  anima  conservateci  nel  Codice  Chigiano  O.  IV.  41,  e discusse  nel  1385  quando  Biagio  insegnava  a  Padova  ".  Il maestro  si  dichiarò  «  male  contentus  »  del  linguaggio  da  lui tenuto,  e  dopo  aver  chiesto  perdono  «  de  commissis  »,  il  ve- scovo di  Pavia  «  restituit  eum  ad  lecturam  et  salarium  so- lita »  12. L'editto  invece  di  Pietro  Barozzi,  vescovo  di  Padova,  e dell'  inquisitore  fra  Martino  da  Lendinara  merita  più  lungo discorso. Insegnava  allora  nello  studio  padovano,  come  lettore  or- dinario di  filosofia  naturale,  Nicolò  Vernia  da  Chieti,  che  per la  sua  piccola  statura  era  chiamato  ed  egli  stesso  si  firmava Nicoleto,  come  Pietro  Pomponazzi,  suo  alunno,  sarà  detto, per  la  stessa  ragione,  il  Pereto  (Nicoletto  e  Perette  son  forme italianizzate  della  schietta  forma  dialettale  padovana  Nicoleto e  Pereto).  Addottorato  in  filosofia  naturale  a  Padova  il  30 maggio  1458,  dopo  avere  studiato  la  logica  a  Venezia  sotto 9  Cfr.  Riv.  di  Storia  d.  Filos.,   1947,  P-   120  sgg. 1°  Anneliese    Maier,    Die    Vorlàufer    Galiìeis    in  14.  Jahrhundert, Roma, QQ Paolo  dalla  Pergola,  occamista,  e  la  filosofia  nello  studio  pa- tavino sotto  Gaetano  da  Thiene,  averroista,  conseguì  da veccliio  anche  la  laurea  in  medicina,  il  29  dicembre  1496. Nell'ottobre  1468,  quando  successe  a  Gaetano  da  Thiene come  ordinario  di  filosofia  naturale,  doveva  trovarsi  sulla quarantina,  se  nel  testamento  fatto  il  3  agosto  1499,  due mesi  prima  della  morte,  accenna  alla  sua  età  decrepita. In  questo  testamento,  pubbUcato  da  P.  Ragnisco  ^3,  accade di  leggere  una  dichiarazione,  nella  quale  il  testatore,  nell'  im- minenza della  morte  che  sentiva  avvicinarsi,  vuol  purgarsi dell'accusa  che  pesava  su  di  lui,  d'aver  fatta  sua  la  dottrina averroistica  dell'unità  dell'intelletto: Ego  Magister  Nicoletus  Vernias  Theatinus  antedictus,  publice legens  in  florentissimo  Gymnasio  Patavino  ordinariam  philoso- phiam  naturalem  sine  aliquo  concurrente,  quam  legi  per  annos triginta  tres  elapsos,  ac  disputavi  ac  tenui  quod  opinio  unitatis intellectus  Averrois  fuerit  opinio  AristoteHs,  et  post  niultos  annos, duni  vidissem  et  graecos  et  arabes  doctissimos,  repperi  non  solum dictam  opinionem  alienam  esse  a  fide  nostra  et  veritate,  sed etiam  ab  intellectu  AristoteHs,  prout  in  quadam  mea  quaestione intulata  Reverendissimo  Dominico  Grimani  ad  plenum  declaro; et  hoc  feci  prò  removendo  nialas  opiniones,  qiias  /orlasse  habnerunt auditores  mei;  nani  Deum  testor  quod  numquam  credidi  tali  opi- nioni, et  cum  sim  in  aetate  decrepita,  et  considerans  quod  oinnes morimur  secundum  naturalem  cursum,  et  videns  incertitudinem temporis,  diei  et  horae,  et  deliberans  disponere  supra  rebus  meis, ut  possim  consequi  vitam  aeternam  in  altera  vita  promissam bonis  iuxta  legem  nostram,  et,  prout  in  supradicta  quaestione declaravi,  etiam  iuxta  opinionem  philosophorum  hic  non  potest esse  vita  beata,   sed  tantum  misera....  m. Fra  coloro  che  s'eran  formata  una  cattiva  opinione  di  maestro Nicoleto,  oltre  ad  alcuni  suoi  scolari,  era  certamente  anche  il vescovo  Pietro  Barozzi'S.  Fine  spirito  d'umanista  e,  come  molti 13  Documenti  inediti  e  rari  intorno  alla  vita  ed  agli  scritti  di  Nicoletto Vernia  e  di  Elia  del  Medigo,  in  «  Atti  e  memorie  dell'Accad.  di  Scienze Lettere  ed  Arti  in  Padova  »,  Anno  292  (1890-1891),  N.  S.,  voi.  VII, disp.    3»,   p.    280. 14  E  cosi,  a  che  serviva  tutta  la  sua  speculazione  filosofica  intorno alla  copulatio  o  continiiatio  dell'  intelletto  possibile  con  l' intelletto agente,  in  cui  avrebbe  dovuto  consistere  la  felicitas  dell'  Etica  Nico- machea  in  questa  vita  ? 15  Intorno  al  quale  è  da  vedere  1'  introduzione  di Franco  Gaeta, Il  Vescovo  di  Padova  P.  Barozzi  e  il  trattato  «  De  factionibus  extinguendis. Fondazione  Cini,  Venezia-Roma.] patrizi  veneziani  suoi  contemporanei,  animato  di  religioso ardore,  il  Barozzi  fu  vescovo  di  Padova  dal  1478  alla  sua  morte nel  1507.  Pastore  di  anime  e  maestro  di  vita  cristiana  in  una città  dotta,  sede  d'un  rinomato  studio  al  quale  affluivano scolari  da  tutte  le  parti  d'  Italia  e  d'oltralpe,  non  potè  mo- strarsi indifferente  alle  rumorose  dispute  la  cui  eco  si  dif- fondeva lontano.  Quel  battagliare  intorno  al  vero  pensiero d'Aristotele,  del  suo  commentatore  arabo  e  degli  interpreti greci,  gli  pareva  che  inaridisse  le  sorgenti  della  vita  e  del pensiero  cristiano.  Inoltre,  l'accanimento  che  molti  dei  di- sputanti mettevano  nel  sostenere  le  interpretazioni  d'Ari- stotele più  lontane  dal  comune  modo  di  pensare  dei  cre- denti, doveva  alimentare  in  lui  il  sospetto,  suscitato  da  voci che  correvano,  che  qualche  maestro  dello  studio  patavino, mentre  si  dava  l'aria  di  essere  un  semplice  espositore  della dottrina  peripatetica,  in  realtà  avesse  finito  per  farla  sua propria  fino  a  negare  i  premi  e  le  pene  nella  vita  futura. L'editto  episcopale  e  inquisitoriale,  pubblicato nellescuole di  Padova  il  6  maggio  1489,  dopo  aver  citato  alcuni  passi scritturali,  proseguiva: Et  rursum  [memores]  eorum  que  ad  Colossenses  magis  ad  rem de  qua  in  presentiam  agimus  accomodate  scribit  [Apostolus], dicens  :  '  Videte  ne  quis  vos  decipiat  per  philosophiam  et  inanem fallaciam  secundum  traditionem  hominum,  secundum  elementa mundi  et  non  secundum  Christum  '.  Et  scientes  sic  Inter  disputan- dum  solere  animos  perturbar!,  ut  interdum  homines  quod  falsum esse  sciebant,  prò  vero  suscipiant  et  defendamt....  Volentesque ut  et  hi  qui  philosophiam  discunt,  sic  discant  ut  christianam philosophiam,  que  longe  omnium  prestantissima  est,  non  dedi- scant,  et  hi  qui  docent,  dum  se  philosoplios  esse  meminerunt,  non obliviscantur  se  etiam  christianos  existere,  ac  venena  disputa- tionum  malarum  iuxta  epulas  philosophice  discipline  non  ponant.... Et  postremo  existimantes  eos  qui  de  unitate  intehectus  disputant ob  eam  potissimum  causam  disputare  quod,  sublatis  ita  tum premiis  virtutum  tum  vero  supphciis  vitiorum,  existimant  se liberius  maxima  queque  flagitia  posse  committere:  mandamus ut  nullus  vestrum,  sub  pena  excomunicationis  late  sententie quam  si  contrafeceritis  incurratis,  audeat  vel  presumat  de  uni- tatis  intehectusquovisquesito colore  publice  disputare  ^^. Non  si  trattava,  com'  è  chiaro,  della  scomunica  lanciata personalmente  contro  il  Vernia,  che  della  dottrina  dell'unità 16  Ragnisco,    Documenti,  dell'  intelletto  era,  in  quel  momento  a  Padova,  il  piìi  risoluto assertore;  ma  di  un  provvedimento  che  riguardava  lui  ed altri,  e  che  sopratutto  denunciava  una  pericolosa  moda  d' in- sincerità e  doppiezza  che  s'andava  affermando  ed  era  nociva non  meno  al  costume  morale  che  alla  pietà  religiosa.  Può darsi  che,  vietando  ogni  discussione  sull'argomento  dell'unità dell'  intelletto,  il  Barozzi  e  frate  Martino  abbiano  spiegato uno  zelo  eccessivo  ;  ma  la  mala  opinione  che  gli  alunni  avevano concepito  di  taluni  maestri  e  le  voci  che  sul  conto  di  essi  cor- revano, giustificano  almeno  in  parte  il  severo  ammonimento. Poiché  a  questo  in  fondo  si  ridusse  l'editto  episcopale;  né si  sa  che  esso  desse  luogo  a  processi,    che  alcun  maestro fosse  ridotto  al  silenzio.  Anzi  è  noto,  al  contrario,  che  Pietro Trapolino,  alunno  di  Nicoleto,  continuò  a  professare  pubbli- camente il  suo  moderato  averroismo  anche  dopo  la  promul- gazione dell'editto.  E  lo  stesso  fecero  altri. Due  soltanto,  eh'  io  sappia,  s'affrettaronoa  cambiare  in- dirizzo ai  loro  pensieri  e  a  recitare  la  loro  palinodia:  Agostino Nifo  da  Sessa  e  Nicoletto  Vernia  da  Chieti,  in  gara  tra  loro. Il  Nifo,  com'egli  stesso  e'  informa  ^7,  aveva  cominciato averroista  della  corrente  sigieriana;  e,  prima  di  abbandonare definitivamente  questa  posizione,  deve  aver  giocato  d'astuzia da  quell'uomo  scaltrissimo  che  era.  Alla  fine  del  De  intelledu e  del  commento  al  De  animae  heatiUidine ,  pretende  d'aver portato  a  termine  queste  due  opere  a  Padova  nel  1492.  Ma io  penso  che  su  questa  affermazione  bisogni  fare  molta  tara: poiché  nella  dedica  del  De  inielleciu  a  Sebastiano  Badoèr, nell'edizione  veneta  del  1503,  che  è  la  più  antica  che  si  co- nosca, il  Nifo  dice  in  sostanza  d'aver  rimaneggiato  l'opera, costituita  originariamente  da  una  Quaestio  de  intellectu,  che gli  avversari  gli  avevano  impedito  di  pubblicare,  avendolo accusato  d'eresia.  Da  questa  accusa  era  riuscito  a  discolparsi, a  quanto  pare,  per  l' intervento  del  Barozzi  stesso,  del  Ba- doèr e  di  teologi  e  filosofi  amici  che  ne  presero  le  difese.  Nella redazione  del  1503,  l'autore  non  esita  a  confessare  d'essersi indotto  a  «  pristinam  mutare  sententiam  »  ;  e  questo  non  sol- tanto per  ciò  che  concerne  la  forma  primitiva  dell'opera, giacché  egli  ammette:  «placuit quaedam  tollere,  mutare  alia. 17    intellectu,  Venezia,   1503,  I,  tr.  2,  capp.  8-9. I02  addere  plurima  » '8,  Rabberciato  alla  meglio  il  De  intellectu  e rifattasi  una  verginità  filosofica,  egli  tentava,  lontano  da  Pa- dova, quella  fortuna  che  non  manca  mai  di  arridere  agli  uomini della  sua  prolifica  specie. Il  Vernia  era  noto  in  tutta  Italia,  attraverso  i  suoi  numerosi discepoli,  come  uno  dei  più  decisi  averroisti.  Per  noi  è  un  po' ditficile  oggi  ricostruire,  nel  suo  insieme,  la  sua  dottrina  in- torno ai  diversi  problemi  agitati  nelle  scuole  del  tempo,  perché non  sappiamo  dove  sono  andati  a  finire  i  suoi  scritti,  se  dati alle  fiamme  da  lui  stesso  prima  di  morire,  oppure  se  lasciati insieme  alla  sua  biblioteca  al  monastero  di  S.  Bartolomeo  in Vicenza,  ovvero  al  figlio  adottivo  Nicoletto  della  Scrofa,  o ad  altri.  Nonché  le  opere  scritte  di  suo  pugno,  non  ci  son pervenute  nemmeno  le  reportationes  degli  scolari  che  pur non  dovettero  mancare.  Ci  restano  soltanto,  eh'  io  sappia, i  seguenti  scritti  a  stampa  elencati  dal  Ragnisco:  I.  la  Quaestio '^  «  Dicaveram  tibi  anno  superiori  questionem  meam  de  intellectu.... Eamque,  ne  labores  iuventutis  mee  perditum  irent,  imprimendam  esse curavissem,  nisi  emuli  affuissent,  qui  me  hereseos  accusassent.  Ac malui  ad  hoc  tempus  pervenire  morando,  quam  huiuscemodi  criminis culpam  subire.  lam  cessant  accusationes:  emulorum  iniquitas,  sic mea  fide  postulante,  in  propatulo  est.  Ergo  suo  tribuant  commodo,  si quam  utilitatem  accepere  qui  me  insidiis  persequuti  sunt,  discantque interea  diligentius  legere  que  volunt  criminari,  ut  cautius  egisse  videan- tur.  Sed  valeant  isti,  satisque  mihi  sit  Petrum  Barotium  episcopum patavinum,  christianorum  nostre  etatis  decus  et  splendorem,  te  cui non  minus  in  fide  quam  in  philosophia  tribuo,  et  quamplurimos  alios tum  theologos  tum  philosophos  iudices  ac  censores  habuisse,  qui  semper innocentie  mee  testes  eritis.  Tractaveram  hanc  nobilissimam  mate- riam  et  de  fontibus  omnium  antiquorum  phylosophorum  exhaustam, recenti  stilo,  quod  omnes  fere  commendare  visi  sunt,  preter  paucos, quorum  precipuus  fuit  Hieronymus  Malclavellus,  tunc  privatus  scholaris, nunc  nostre  academie  diligens  ac  iustus  moderator;  qui  ut  est  rectus ingenio,  acer  iudicio,  splendidus  in  omnibus  atque  liber,  numquam ubi  de  honore  ac  utilitate  amicorum  suorum  agit,  assentari  novit. Hic  cohortatus  est  me,  ut  universum  opus  in  capitula  secarem,  asserens antiqua  stilo  esse  antiquo  tractanda.  Hac  unica  huiusce  viri  ratione persuasus,  licet  alias  adduxerit  quarum  illi  copia  est,  pristinam  mutavi sententiam  :  placuit  quedam  tollere,  mutare  alia,  addere  plurima. Nihil  delevi  quod  sit  contra  fidem  catholicam;  non  enim  potest  destrui quod  factum  non  invenitur  ».  Seb.  Badoèr  morì  il  30  giugno  1498  (cfr.  i Diarii  di  M.  Sanudo,  I,  1004).  La  dedica  dunque  e  il  rabberciamento dell'opera  sono  anteriori  a  questa  data,  e  probabilmente  dello  stesso periodo  nel  quale  il  Nifo  aveva  preparato  anche  l'edizione  dei  Col- lectanea  sul  De  anima,  usciti  anch'essi  nel  1503,  presso  la  stessa  officina veneziana  de  Quarengiis.  Sembra  pertanto  che  l'edizione  del  De  intel- lectu, ricordata  e  perfino  citata  da  taluno  come  uscita  a  Venezia  nel  1495, non  sia  mai  esistita  ! an  ens  mobile  sii  totitis  philophiae  naturalis  suhiectum  '9  del  1480; -  2.  il  prologo  alla  Fisica  col  titolo  De  divisione  philosophiae;  -  3. la  Quaestio  an  medicina  nohilior  ac  praestantior  sii  iure  civili  ^° del  febbraio  1482  ;  -  4.  la  Quaestio  an  caelum  sit  animatum del  novembre  1491,  nell'  infelice  riportazione  di  uno  scolaro che  forse  è  Alessandro  Sermoneta  ^^  ;  -  5.  Quaestio  an  deniur universalia  realia  --,  terminata  il  17  febbraio  1492;  -  6.  la  Quae- 19  Stampata  a  Padova,  nel  1480,  nel  volume  di  commenti  d'Egidio Romano,  di  Marsilio  di  Inghen  e  d'Alberto  di  Sassonia  al  De  generatione et  corruptione,  ed  anche  nell'edizione  scotina  della  stessa  opera  (Venezia, 1521,  fol.  129V-131V).  Nell'edizione  padovana  precede  la  dedica  a  En- rico Languardo,  vescovo  di  Acerenza  e  Matera.  Ragnisco,  Documenti, pp.  276-77;  Id.,  Nicoletta  Vernia.  Studi  storici  sulla  filosofia  padovana della    metà  del  sec.  decimoquinto,  in  «  Atti  del  Reale  Istituto  Veneto  di Scienze  Lettere  ed  Arti  »,  t.   38°,  serie  VII,  t.  II,   1890-1891,  p.   625. ^°  Questa  Quaestio  e  lo  scritto  precedente  si  trovano  in  principio del  volume:  Gualterii  Burley,  Expositio  in  libros  odo  de  physico auditu  Aristotelis  stagerite,  emendata  per  me  nicoletum  verniam  thea- tinum  puhlice  et  ordinarie  legentem....  Venetiis,  1482,  15  aprile  (La Quaestio  è  stata  ristampata  di  recente  da  E.  Garin,  La  disputa  delle Arti  nel  Quattrocento,  voi.  IX  dell' «  Ediz.  Naz.  dei  Classici  del  Pen- siero Italiano»,  Firenze,  Vallecchi,  1947,  PP-  111-123).  Precede  la  de- dica a  Sebastiano  Badoèr,  censore  di  Venezia,  il  quale,  come  il  Vernia, era  stato  discepolo  di  Paolo  dalla  Pergola,  ed  era  un  convinto  scotista, qual  erasi  rivelato  a  Nicoleto,  per  averlo  questi  udito  argomentare con  vigore  in  una  pubblica  disputa  in  occasione  d'un  capitolo  generale di  Frati  Minori  tenuto  a  Venezia.  In  questa  dedica  il  Vernia  accenna anche  ad  una  amplissima  quaestio  de  inchoatione  formarum  che  avrebbe dovuto  trovarsi  nello  stesso  volume,  ma  che  poi  è  stata  omessa.  L'ar- gomento per  altro  è  ripreso  con  certa  ampiezza  nella  Quaestio  an  dentur universalia   realia,    di    cui    sotto. 21   Pubblicata  dal  Ragnisco,  Documenti,  pp.   285-291. ^^  In  principio  del  raro  volume  Urbanits  Averoista  philosophus  sumnius ex  almifico  Servoritin  Divae  Mariae,  comentorum  omnium  Averoys  super librum  Aristotelis  de  physico  audita  expositor  clarissimus.  Per  probum virum  Bernardinum  Tridinensem  de  Monteferrato.  Venetiis,  1492. Questa  importante  opera  dell'averroista  bolognese  dell'Ordine  dei Serviti,  la  quale  nel  prologo  dell'edizione  stampata  porta  la  data del  1334  (ma  v.  sotto,  p.  318),  era  stata  ritrovata,  coperta  di polvere  e  corrosa  dalle  tarme,  nella  biblioteca  bolognese  dell'  Ordine, dal  priore  generale  dei  Serviti,  frate  Antonio  Alabanti,  che,  compresone il  pregio,  tanto  più  che  anch'egli  si  professava  averroista,  ne  scrisse,  il 7  maggio  1492,  al  \'ernia,  come  quello  che  aveva  sempre  difeso  le  parti d'Averroè,  onde  averne  il  parere  per  un'eventuale  stampa;  e  all'uopo gli  mandò  lo  scritto  d'Urbano  perché  l'esaminasse:  «Ad  te  igitur  li- bellus  noster  confugit:  tu  eum  paterno  amplectaris  amore;  et  tandem tua  censura  maturoque  Consilio  examinatum  censeas  si  dignus  est  ut in  claram  lucem  professoribus  perypatheticis  ad  doctrinamque  Averoys aspirantibus  emergere  possit,  ad  nosque  rescribere  digneris.  Quod  si feceris,  ut  speramus  et  oramus,  non  minus  tibi  et  Urbanus  noster, operis  conditor,  quam  Averoys  et  qui  eius  doctrinam  sequuntur,  interstio  de  gravibus  et  levihus,  senza  data^s;  -  7.  Del  1481  è  la Quaestio,  rimasta  sconosciuta  al  Ragnisco,  An  celum  sit  ex materia  et  forma  constitutum  vel  non,  che  termina:  «Et  sic  est finis  huius  questionis  compilate  per  me  Nicolettum  verniam theatinum  Padue  philosophiam  publice  legentem....  Anno domini.  M.cccc.lxxxj.  Ultimo  mensis  Julii  »,  e  che  si  trova  in principio  della  rara  edizione  veneziana,  curata  dallo  stesso Vernia,  del  commento  d'Averroè  alla  Fisica,  del  1483,  ove occupa  ben  dodici  colonne  in-folio. Tutti  questi  scritti  sono  schiettamente  averroistici  ;  e  seb- bene non  riguardino  alcuno  dei  problemi  scabrosi  pei  quali gli  averroisti  eran  tenuti  in  sospetto,  tuttavia  non  è  difficile qua  e    imbattersi  in  espressioni rivelatrici  dello  spirito  del loro  autore.  Si  prenda,  ad  esempio,  la  prima  quaestio  ricordata qui  sopra.  Dapprima,  secondo  lo  schema  familiare  al  Vernia, sono  addotte  le  «  opiniones  ab  Aristotele  et  suo  commenta- tore deviantes  »,  e  in  primo  luogo  quella  di  Tommaso  che  egli, nativo  di  Chieti,  si  compiace  di  chiamare  suo  compatriota, poiché  suddito  anche  lui  dello  stato  napoletano.  Tommaso appunto  aveva  sostenuto,  in  principio  del  suo  commento alla  Fisica,  «  ens  mobile  et  non  corpus  mobile,  contra  Albertum merito  cognomine  magnum,  esse  totius  philosophiae  naturalis subiectum  ».  Poi  ricorda  le  critiche  mosse  da  Egidio  Romano ^1(05  ego  quoque  minimus  accedo,  ingentem  immortalemque  semper gratiam  habebimus  »  (nel  voi.  cit.,  secondo  foglio  non  numerato).  E  il maestro  padovano  gli  rispondeva  il  29  dello  stesso  mese,  dando  del- l'opera e  dell'autore  questo  giudizio  :  «  Vir  ille  (ut  dicam  quod  sentio) cum  omnibus  bis,  qui  Averoym  ad  haec  usque  tempora  secuti  sunt, certare  mihi  visus  est  et  plurimos  etiam  vincere.  Nemini  vero  (ut  mea quidem  fert  opinio)  cedit.  Cum  enim  Averoys  verba  sensusque  perobscu- ros  aperire  illustrareque  aggreditur,  nihil  illius  explanatione  enoda- tius,  nihil  clarius,  nihil  denique  absolutius  dici potest.  Quaestiones  vero quae  in  naturali  phylosophia  et  plurimae  et  gravissimae  occurrunt, nequaquam  dissimulat.  Sed  ut  est  acri  iudicio  praeditus,  ita  acute  subti- literque  solvit,  ut  ad  rei  perfectionem  nihil  addi  posse  videatur  »  {ih). E  mentre  approva  il  disegno  della  stampa,  informa  che  a  Padova  nella biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  esisteva  un  altro  codice  dell'opera d'  Urbano,  attribuito  fino  allora  a  Giovanni  Marcanova  (cfr.  sotto, pp.  317-318),  e  promette  che,  per  far  meglio  conoscere  il  commento  del servita,  terrà  un  corso  sulla  Fisica.  La  quaestio  del  Vernia  sugli  universali occupa  quattro  fogli  non  numerati,  prima  del  commento  di  Urbano, ossia   12  colonne  intere  e  2   mezze  colonne. 23  Nel  voi.  Acutissime  questiones  super  libros  de  physica  auscultatione ab  Alberto  de  Saxonia  edite,  Venezia,  1504,  f.  92va-94vb,  con  dedica al  filosofo  e  medico   Gerardo   Bolderio   da  Verona. alla  tesi  tomistica,  e  il  giudizio  di  Giovanni  di  Jandun  sul- l'Aquinate,  ritenuto  «  melior  expositor  inter  latinos,  unde per  excellentiam  dicitur  expositor,  sicut  Averrois  commen- tator  ».  Incappa  infine  nella  tesi  degli  scotisti  Giovanni  Ca- nonico e  Antonio  Andrès,  i  quali  s'eran permessi  di  criticare Aristotele.  Contro  tanta  audacia  egli  insorge  ripetendo  il giudizio,  comune  a  tutti  gli  averroisti,  sullo  Stagirita: Ad  illa  respondet  Ioannes  Canoniciis,  et  similiter  Antonius Andreas,  concedendo  Aristotelem  male  dixisse  et  insufficienter ipsum  philosophiam  tradidisse;  philosophus  enim  tanquam  sacri- legus  insufficienter  et  erronee  tradidit  nt)bis  philosophiam  natu- ralem,  ut  Antonius  inquit.  Sed  minor  de  istis,  quod  cum  tam pauca  reverentia  centra  philosophorum  principem  loquantur; ncque  unquam  invenio  Albertum  Magnum,  sanctum  Thomam aut  doctorem  subtilem  talia  contra  Aristotelem  dixisse.  Unde beatus  Hieronymus,  de  eo  loquens,  scribens  ad  Eustochium,  De vita  nionachonim ,  ait:  '  Absque  dubitatione  prodigium  fuit  gran- deque  miraculum  in  tota  natura,  cui,  ut  pergit,  pene  videtur infusum  quicquid  naturaliter  capax  est  genus  humanum  '  24. Cui  concordat  Averrois,  3.  De  anima,  dicens:  '  Ipse  fuit  regula in  natura  et  exemplar  quod  natura  invenit  ad  ostendendum  ul- timam  perfectionem   possibilem  in   materiis. Venendo  poi  alla  soluzione  del  problema,  il  filosofo  chietinf) sostiene  «  de  intentione  aristotelis  et  sui  commentatoris  aver- rois cordubensis  fuisse,  quod  corpus  mobile  est  subiectum  in scientia  naturali  ».Ancora  più  tipico  è  il  caso  della  Quaestio  aii  medicina  iio- bilior  ac  praestaiitior  sii  iure  civili.  È  notevole,  anzi  tutto,  che egli  abbia  lasciato  in  pace  i  canonisti,  strettamente  imparen- tati coi  teologi,  gente,  gli  uni  e  gli  altri,  con  la  quale  è  prudente non  aver  briga.  Per  dimostrare,  dunque,  la  tesi  affermativa, che  cioè  la  medicina  è  da  più  del  diritto  civile,  il  nostro  si  rifa -4  Lo  stesso  passo  dell'opera  pseudo  geronimiana  m'  è  accaduto  di trovar  citato  nel  De  pietate  Aristotelis  erga  Deiim  et  ìioinines  di  Fortunio Liceto  (Udine,  1645,  libro  II,  cap.  22),  amico  e  collega  di  Galileo  a  Pa- dova. Costui,  al  pari  di  Alfonso  Tostado,  vescovo  di  Avila,  In  librum paradoxorum  (Venetiis,  1508,  V,  cap.  132,  fol.  68ra),  e  di  Giovanni Genesio  Sepulveda,  da  Cordova  {Opera,  Madrid,  1780,  t.  Ili,  Epist.,  VII, lettera  al  teologo  Fedro  Serrano,  del  10  maggio  1554),  pensava,  se  non proprio  a  una  canonizzazione,  che  fosse  almeno  altamente  verosimile la  salvezza  eterna  di  Aristotele.  Al  quale  però  il  Tostado  ,da  buon umanista,  unisce  le  anime  di  Socrate,  di  Platone  e  di  siffatti  filosofi, che    Cristo    avrebbe    liberato    discendendo    al    limbo. I06        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI al  concetto,  comunemente  ammesso,  che  la  medicina  nella sua  parte  teorica  rientra  nella  «  filosofia  naturale  »  ed  è  scienza speculativa;  il  che  non  può  dirsi  dal  diritto  civile.  Ora  nella speculazione  intorno  alla  natura  Aristotele  aveva  fatto  con- sistere il  fine  ultimo  e  la  perfezione  suprema  dell'uomo,  a  cui si  giunge  soltanto  mediante  l'apprendimento  delle  scienze speculative,  coronato  dal  congiungimento  o  copulatio  con r  intelletto  agente. Ex  quo  sequitur,  hominem  equivoce  dici  de  homine  rationali et  iurista,  cum  iurista  non  sit  nisi  equivoce,  cum  inrista  ultimo fine  hominis  sit  privatus.  Et  hoc  est  quod  Averrois  dicit  in  pro- logo libri  Physicorum,  quod  homo  equivoce  dicitur  de  homine perfecto  per  scientias  speculativas  et  de  homine  ignorante  eas, sicut  dicitur  equivoce  de  homine  vero  et  picto  ^^ Ci  sarebbe  da  chiedersi  se  mastro  Nicoleto  non  fosse  per caso  in  vena  di  scherzare,  per  dar  la  baia  ai  colleghi  della facoltà  di  diritto:  ma  purtroppo  egli  non  fa  che  ripetere  cosa di  cui  tutti  gli  averroisti  erano  convintissimi;  anzi  taluni  di essi,  come  Alessandro  Achillini  e  Tiberio  Bacilieri^^^  pensavano che  al  raggiungimento  della  suprema  perfezione  e  della  feli- cità cui  l'uomo  aspira,  bastassero  i  libri  bene  interpretati di  Aristotele  e  d'Averoè,  che  quelli  ritenevano  aver  conqui- stato il  più  alto  grado  di  felicità  di  cui  l'uomo  è  capace  in  questa vita,  non  ostante  i  sorrisi  ironici  degli  alunni,  e  quelli  del Pomponazzi  -i.  Al  cospetto  della  morte,  come  abbiamo  visto, -5  Nel  citato  voi.  del  Burley  sulla  Fisica,  Venezia,  1482,  f.  3vb.  Il passo  d'Averroè  in  principio  al  prologo  della  Fisica,  al  quale  accenna il  Vernia,  è  questo:  «  Declaratum  est  in  scientia  considerante  in  opera- tionibus  voluntariis,  quod  esse  hominis  secundum  ultimam  perfectionem ipsius  et  substantia  eius  perfecta  est  ipsum  esse  perfectum  per  scien- tiam  speculativam;  et  ista  dispositio  est  sibi  felicitas  et  sempiterna vita.  Et  in  hac  scientia  manifestum  est,  quod  praedicatio  nominis hominis  perfecti  a  scientia  speclativa,  et  non  perfecti,  sive  non  ha- habentis  aptidinem  quod  perfici  possit,  est  aequivova,  sicut  nomen hominis  quod  praedicatur  de  homine  vivo  et  de  homine  mortuo,  sive praedicatio   hominis   de   rationali  et  lapideo  ». 26  Cfr.   il  mio  Sigieri nel  pens.,  p.   151. -7  Accade  spesso  al  mantovano  di  fare  dell'ironia  sulla  «copulatio» degli  averroisti  «  qui  continuo  prandent  cum  deo  et  qui  habent  intel- lectum  adeptum  »  (comm.  al  I  delle  Meteore,  del  nov.  1522.  Parigi, Bibl.  Nat.  cod.  lat.  6535,  f.  i2or).  E  del  Bacilieri  riferisce:  «Ideo  Ti- berius  iactatus  solum  sibi  defìcere  quatuor  digitos,  ad  hoc  ut  felicitatem istam  pertingat  »  (Comm.  al  XII  della  Metaph.,  Arezzo,  Frat.  Laici, ms.   389,   f.   248r.    Cfr.   Parigi,   e.   s.,   cod.   lat.   6537,   f.    139V).  ([uesta  convinzione  abbandonava  il  filosofo  chietino,  persuaso ormai,  col  volger  degli  anni,  che  non  solo  secondo  la  fede, ma  «  etiam  iiixta  opinionem  philosophorum,  hic  non  potest esse  vita  beata,  sed  tantum  misera  ».  Evidentemente  nella sua  giovinezza  anch'egli,  come  molti,  aveva  ignorato  la  man- zoniana preghiera  allo  Spirito  divino:  «Dona  i  pensier  che  il memore  ultimo    non  muta  ». Averroista  era  il  Vernia  anche  nella  soluzione  del  problema se  il  cielo  è  animato,  e  di  quello  «sul  moto  dei  gravi  e  leggeri «^s. Anzi,  su  quest'ultimo  argomento,  mentre  perfino  molti  aver- roisti  avevano  finito  per  scostarsi  dalla  dottrina  d'Aristotele e  avevano  accolta  la  teoria  nominalistica  degli  impetus,  il Vernia  segna  un  ritorno  puro  e  semplice  alla  tesi  dello  Sta- girita,  seguita  da  Averroè,  da  Sigieri  e  da  pochi  altri  29. La  Quaestio  an  denhir  universalia  realia  è  invece  un  tenta- tivo di  mostrare  l'accordo  tra  Averroè  e  Alberto  Magno  sulla dottrina,  convenientemente  interpretata,  della  «  inchoatio formarum  »  ;  poiché  gli  universali  di  cui  qui  si  parla,  non  sono le  intentiones  primae  et  secundae  dei  dialettici,  ma  le  idee  con- siderate come  cause  della  realtà,  gli  universalia  physica,  come li  chiama  il  Vernia,  ossia  le  forme  delle  cose  3°. 28  Nel  voi.  cit.  delle  Acutissime  questiones  di  Alberto  di  Sassonia, pp.  92  t'a-94  vb. ^9  Cfr.  A.  Maier,  Zwei  Grundproblenie  der  scholastichen  Philosophie. Roma,  Ediz.  di  Storia  e  Letter.,   1959,  p.  295. 30  Nel  voi.  di  Urbano  Averroista,  cit.,  col.  6:  «Ex  quo  patet  error illorum  qui  dicunt  inchoativum  secundum  commentatorem  et  Albertum esse  potentiam  subiectivam  [materie],  cum,  ut  visum  est,  sit  potentia formalis  distincta  a  potentia  materie,  que  est  in  substantia  forma substantialis,    imperfecta   tamen,    cum   omnis   potentia    materie    taUs, quam  ponunt,  si  distincta  ab  ea  et  sit  accidens Ex  quo  sequitur  dari universalia  realia  ad  mentem  veriorum  philosophorum  peripatheti- corum,  tum  Grecorum,  tum  Arabum,  tum  latinorum;  cum  tales  essentie sint  universalia  physica  et  in  re,  ut  visum  ».  Il  primo  di  tali  universali  fisici è  per  il  ^'ernia  la  «  forma  corporeitatis  »  di  Avicenna,  coeterna  alla materia.  In  proposito,  abbiamo  questa  informazione  nel  commento del  Pomponazzi  al  De  substantia  orbis  di  Averroè  (Cod.  Reg.  lat.  1279, fol.  yr).  «Credo  quod  haec  responsio  fuerit  Nicholeti;  quia  etiam  ipse tenebat  ad  mentem  commentatoris  formas  corporales  de  praedica- mento  substantiae  materiae  primae  esse  coaeternas.  Et  tunc  glosabat ipse  commentatorem,  hic  dum  dicit  quod  materia  non  habet  formam quae  reponat  eam  in  esse  specifico  et  ultimo,  quia  si  materia  prima baberet  formam  ultimam  specificam,  tunc  non  posset  ipsa  materia aliam  formam  recipere,  quia,  cum  ultimo  non  detur  ultimum,  ipsa forma  esset  in  actu  completo,  nam  infra  formam  ultimam  specificam non  sunt   [  nisi  ]  individua;  et  in  hoc  commentator  dissentit  ab  Avi- Io8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Anche  in  questa  Quaestio,  terminata  il  17  febbraio  1492, non  mancano  accenni  alla  dottrina  averroistica  dell'  intel- letto ;  ma  sono  accenni  più  cauti  31.  L'editto  episcopale  era  stato promulgato  evidentemente  per  qualche  cosa.  Nel  settembre del  1492  a  Colze  nel  vicentino,  mastro  Nicoleto  dovette  pen- sare al  modo  di  dissipare  i  sospetti  d'eresia  che  gravavano  su di  lui,  e,  sebbene  affetto  da  oftalmia,  prese  la  penna  e  cominciò a  buttar  giù  una  specie  di  confutazione  dell'averroismo. Nacquero  così  le  Quaestiones  de  pluralitate  intellectus  cantra falsani  et  ah  omni  ventate  remotam  opinionem  Averroys  et  de animae  felicitate.  L' idea  di  quest'opera  gli  fu  suggerita    non iniussa  cano  !  »)  da  frequenti  esortazioni  del  doge  di  Venezia, Agostino  Barbadigo,  e  dallo  stesso  Pietro  Barozzi,  che,  se da  una  parte  lo  minacciava  di  scomunica,  dall'altra  cercava di  adescarlo  con  buone  promesse.  La  composizione  dello  scritto non  dovette  procedere  molto  rapida.  Poiché  soltanto  nel- l'estate del  1499  l'opera  fu  presentata  ai  revisori  ecclesiastici e  al  vescovo  per  la  stampa  r-. I  revisori,  frate  Antonio  Trombetta,  Vincenzo  Merlino  e Maurizio  Ibernico,  prodigarono  all'autore  le  più  ampie  lodi, e  il  vescovo  Barozzi  se  ne  dichiarò  pienamente  soddisfatto. Tuttavia,  anche  nel  dare  atto  del  nuovo  atteggiamento  assunto, ricorda  le  voci  che  un  tempo  correvano  sul  conto  di  lui,  e  non osa  dichiararle  infondate;  anzi  lo  stesso  paragone  che  egli  fa del  chietino  con  S.  Paolo,  il  quale  di  persecutore  del  nome  cri- stiano era  divenuto  un  ardente  difensore  della  fede,  sem- brerebbe insinuare   il   contrario: cenna  qui  ponebat  talem  formarti  specificam  ultimam;  sed  commen- tator  dicit,  quod  talis  corporeitas  non  est  forma  specifica  completa, sed  est  forma  generica  imperfecta;  et  sic  dicebat  ipse  [Nicholetus] quod  materia  prima  habet  istam  formam  genericam  sibi  coaeternam, et  in   ipsa  etiam  formam   elementorum  ». 31  Così,  per  esempio,  in  principio  della  4*  colonna:  «Et  tu  nota  hoc prò  Averoy,  quod  anima  intellectiva  non  dat  esse  corpori  humano; sed  hoc  quod  dicitur  est  mendatium  purum,  ut  in    '  De  anima  '  de- clarabo  ».  E  più  oltre  (a  metà  della  stessa  colonna)  :  «  Unde  intellectiva anima  apud  ipsum  non  creatur,  sed  est  eterna;  et  in  hoc  Albertus, et  bene  sicut  fidelis  christianus,  ei  adversatur,  volens  ipsam  de  novo fieri  per  creationem,  et  hoc  secundum  Aristotelem  ». 32  La  quale  apparve  soltanto  postuma  nel  volume  già  cit.  delle Acidissime  questiones  super  libros  de  physica  auscuUatione  ab  Alberto DE  Saxonia  edite,  Venezia.  A.  Calcedonio  da  Pesaro,  M.  D.iiii., ff.  83  y-92  ra. i Cum  prius  et  disputando  et  docendo  unum  esse  in  omnibus intellectum  sic  explicaveris,  ut  totam  pene  Italiani  errare  feceris, ut  aiunt  malivoli  tui  et  minuti  philosophi,  ut  in  epistula  tua  ais, etsi  istud  non  senseris,  fuisti  forte  causa  ut  alii  hoc  sentirent. Nunc  opusculum  composuisti,  quo  sentire  te  contrarium  non solum  dicis  verum  etiam  probas.  Quod  cum  diligentia  vidimus et  approbamus....  Quo  circa,  sive  ita  senseris  sive  non,  opusculum istud  componere  precium  fuit,  ut  error  pessimus  illius  maledicti Averroys  extirparetur....  Nihil  hac  mihi  re  gratius,  nihil  iis  qui  te audiverant  utilius,  nihil  tibi,  qui  apud  miiltos  ob  eam  rem  infamiam non   mediocreni  excitaveras,   honorificentius. Per  purgarsi  di  questa  non  mediocre  infamia  e  per  impedire che  si  parlasse  di  un  voltafaccia,  mastro  Nicoleto  insisteva  nel dichiarare  che  la  difesa  un  tempo  da  lui  assunta  dell'averroismo non  muoveva  da  intima  adesione  alla  dottrina  dell'unità  del- l' intelletto,  ma  era  fatta  soltanto  «  disputandi  ac  acuendi ingenii  gratia  »  33. Era  sincero  in  questa  sua  protesta,  rinnovata  con  solennità anche  nel  suo  testamento  ?  Per  il  vescovo  e  per  l' inquisitore questo  non  aveva  importanza:  ad  essi  bastava  il  fatto  che, comunque  l'avesse  pensata  un  tempo,  ora  il  sospettato  aveva fatto  lodevole  ammenda  del  passato  col  suo  ultimo  scritto contro  l'averroismo. Ma  tra  i  suoi  alunni  d'un  tempo  ve  n'era  sicuramente  qual- cuno che,  assistendo  ai  funerali  e  alla  tumulazione  di  lui  nella chiesa  di  S.  Bartolomeo  a  Vicenza,  e  ripensando  al  carattere del  maestro,  doveva  sorridere  di  questa  commedia  e  ripensare in  cuor  suo  alla  novella  di  Ser  Ciappelletto. Nicoleto  Vernia  non  era  precisamente  quello  che  si  dice un  cuor  di  leone.  Nello  stesso  suo  testamento  revoca,  come  giu- ridicamente nulla,  una  donazione  de'  suoi  beni  alla  moglie, fatta  sotto  la  minaccia  di  morte  da  parte  del  cognato  Pietro de   Salvato. Nel  i486,  era  stato  richiamato  all'ordine  dal  Senato,  perché pare  facesse  i  suoi  comodi,  leggendo  senza  concorrente  e  tra- scurando di  studiare  «con  grande  lagnanza  degli  scolari» 34. Il  Nifo,  già  suo  alunno,  ci  narra  di  lui  due  episodi  che  pos- sono servire  a  lumeggiarne  il  carattere.    Il  primo   è   meglio 33  Nella  dedica  al  card.  Domenico  Grimani  [ib.,  f.  83r).  Cfr.  sopra, p.  99. 34  Ragnisco,    Nic.    Vernia,    pp.    622-623.    Cfr.    qui    sotto    il    saggio successivo. no   riferirlo  in  latino; Cum  Nicoletus  Theatinus,  praeceptor  noster,  sua  aetate  peri- pateticus  eximius,  ludibriis  ludificationibusqiie  oblectaretur,  plu- rima jecisse  multi  norunt.  Et  inter  prima,  cum  Veronam  peteremus, ut  baptizaremus  puerum  cuiusdam  communis  discipuli,  et  post crepusculum  ad  urbem  applicaremus,  essetque  caupo  prohibitus recipere  iudaeos,  qui  extra  urbem  hospes  erat,  nobis  hospitium conferentibus  dixit:    Te  recipere  non  possum,  quia  prohibitus sum,    demonstrans  Nicoletum;    te  autem  possum  — ,  annuens me.  Interrogantibus  quare  respondit:    Quia  Iudaeos  hospitari prohibitus  sum.    At  praeceptor  subiecit:    Audi,  amice,  a secretis.    Et  mox  penem  praeputiumque  ostendit.  Quem  cum vidisset,  hospitatus  est  nos. Il  Nifo  aggiunge  che  la  mattina  dopo,  sopraggiunti  alcuni della  città  ad  incontrarli  e  a  riverirli,  l'oste  chiese  umilmente scusa,  mentre  mastro  Nicoleto  non  si  stancava  di  raccontare a  tutti,  uomini  e....  donne,  il  piccante  episodio  35. L'altro  aneddoto  si  può  raccontare  anche  in  volgare,  seb- bene sia  assai  più  sconcio  del  primo,  se  è  vero.  Narra  dunque il  Nifo  che,  rimasta  vacante  a  Padova  una  cattedra  di  diritto canonico,  per  la  morte  del  titolare.  Agostino  Barbadigo,  che era  allora  capitanio  della  città,  era  sollecitato  dagli  studenti a  corpirla  con  un  dottore  di  diritto  canonico  siciliano.  Il  Bar- badigo annunziò  che  aveva  già  pronto  l'uomo  che  faceva  al caso,  e  questi  era  mastro  Nicoleto.    Ma  Nicoleto  è  un  filo- sofo, —  osservarono  quelli  —,  e  di  diritto  canonico  non  se n'intende  — -.  Montato  su  tutte  le  furie,  il  magistrato  li  manda  a farsi  impiccare,  e  chiamato  a    Nicoleto  gli  propose  di  legger diritto  canonico  al  mattino,  per  300  ducati  d'oro,  e  di  conti- nuare a  legger  filosolia  nel  pomeriggio.  Il  maestro  non  si  pe- ritò di  accettare,  effondendosi  in  ringraziamenti.  Se  fin  qui  la faccenda  era  abbastanza  sporca,  il  peggio  vien  dopo.  Gli studenti  malcontenti  andarono  da  Nicoleto  a  pregarlo  di voler  far  capire  lui  stesso  al  Barbarigo  che  il  diritto  canonico non  era  il  fatto  suo.    Che  io  vada  a  fare  una  dichiarazione del  genere  ad  un  uomo  che  mi  giudica  sommo  in  ogni  ramo dello  scibile  ?    Gli  studenti  non  si  scoraggiarono  e  lo  tenta- rono per  un  altro  verso:  si  che  non  molto  dopo,  «  munusculis 35  A.  NiPHi,  Opuscula  moralia  et  politica  cum  G.  Naudaei  de  eodem auctore  iudicio,  Parigi,   1645,  De  re  aulica,  I,  e.  87,  p.  335.  III non  mediocribus  acceptis  ab  illis  studentibus  »,  si  presentò al  Barbadigo  e  con  ogni  rispetto  lo  pregò  di  liberarlo  da  un carico  che,  data  l'età,  pesava  troppo  sulle  sue  spalle  [36.  Chi oserebbe  insinuare  che  l' idea  di  conferire  a  lui  una  seconda cattedra  (e  un  secondo  stipendio)  fosse  ispirata  al  Barbadigo dal  Vernia  stesso  ? Ma  non  meno  interessante,  per  la  religiosità  e  F  indole  mo- rale di  lui,  è  quel  che  apprendiamo  dalle  lezioni  del  Pompo- nazzi,  che,  al  pari  del  Nifo,  del  chietino  fu  alunno  e  collega  e, da  ultimo,  successore  sulla  cattedra  di  Padova.  Il  ricordo  del vecchio  maestro  padovano  e  del  suo  carattere  faceto  e  bizzarro accompagnò  il  mantovano  per  tutta  la  vita.  Così  nella  lezione 27  del  commento  al  De  sensu  et  sensato  37,  tenuta  nel  febbraio 1525,  tre  mesi  prima  della  morte,  accennando  al  modo  superfi- ciale col  quale  Pietro  d'Abano  aveva  trattato  un  quesito  in- torno ai  sapori,  dice:  «  eo  modo  quo  dicebat  Nicolettus,  prae- ceptor  meus,  sicut  mus  super  farinam  et  gatta  super  car- bones  ».  Un'altra  volta,  a  proposito  del  noi  usato  spesso  da Averroè,  ricorda:  «Dicebat  Nicoletus:  advertendus  est  sermo; loquitur  da  papa,  ponendo  numerum  pluralem38)).  Nelle  le- zioni sul  terzo  della  Fisica,  narra  che  il  Vernia  aveva  spacciata come  sua  un'opinione  che  era  invece  di  Gaetano  da  Thiene, come  si  vide  dopo  la  stampa  di  questo  :  «  Magister  Nicoletus attribuebat  sibi  hanc  opinionem.  Impresso  Gaetano,  latro inventus  est» 39.  Un'altra  volta  accennando  alla  a  via  nomina- lium  »,  il  Pomponazzi  aggiunge:  «imo  merdalium,  ut  dicebat Nicholetus)  »  40.In  principio  del  commento  al  VII  della  Fisica,  del  nov.  1517, accenna  a  un  dissidio  tra  gli  scolari  sui  libri  di  quest'opera che  il  maestro  avrebbe  dovuto  leggere: Unde  lepidissinms  vir  nicholetus  qui,  curti  versaretur  discordia inter  scolares  (sicut  modo  versatur  inter vos),  an  scilicet  primi  an ultimi  libri  physicorum  essent  legendi,  dixit:  Non  timeatis,  quia ego  unica  lectione  legam  omnes  4or  primos  41. 36  ib.,  p.  336. 37  Bibl.  Nation.  di  Parigi,  Cod.  lat.  6536,  f.  sgr. 38  Ib.,  Cod.  lat.  6537,  In  XII  Metaphys.,  f.   135V. 39  Arezzo,  Bibl.  della  Fraternità  de'  Laici,  Ms.  389,  Super    Physi- corum, i.  3o6r. 40  Ih.,  Ms.  389,  Super  I  Phys.,  f.  28v. 41  Bibl.  Nat.  Parigi.] Nello  stesso  commento,  in  una  lezione  del  gennaio  1518, intorno  ai  sottili  accorgimenti  di  Averroè  per  salvare  Aristo- tele, narra  del  suggerimento  dato  dal  Vernia  a  uno  scolaro ignorante  che  doveva  affrontare  un  esame: =Credo  ergo  quod  commentator  voluit  dicere  hoc;  sed  sibi  accidit ut  cuidam  scholari  patavii,  qui  volens  disputare,  et  nihil  sciebat, fuit  ad  Niccoletum,  qui  eum  doceret.  Volebat  enim  iste  scolaris ingredi  collegium,  et  non  poterat  nisi  disputaret.  Quare  magi- ster  Nicoletus  dixit:    Dabo  tibi  unam  responsionem  ad  omne argumentum;  distingue  enim  et  dicas:  Tuum  argumentum  tenet propter  quia,   et  mea  conclusio  propter  quid. Et  ita  vult  dicere  Averrois....  Tamen  possemus  dicere  ad omnia  illa  argumenta....  Oportet  enim scaramuzare  quandoque  4-. Sempre  nelle  lezioni  sul  VII  della  Fisica,  incontriamo  un altro  aneddoto,  ove  il  Vernia  è  alle  prese  con  Francesco  di Nardo,  in  una  disputa  di  moda,  «  de  intentione  et  remissione formarum  »,  che  concerneva  la  dottrina  dei  «  calculatores  », particolarmente    invisi    al    Pomponazzi: Et  ubi  Aristoteles  in  hoc  loco  {Phys.,  VII,  t.  e.  32)  fuit  parcus, Entisbery  in  suo  tractatu  et  Calculator  fecerunt  de  hoc  magnos tractatus.  Aristoteles  enim  dimisit  hec,  quia  ille  compositiones et  ille  truffe  spectant  ad  matematicum;  et  calculatores  latenter vincunt  ph^dosophos;  interponunt  enim  geometricalia.  Sed  philo- sophus,  ut  phylosophus  est,  non  se  intromittit  ad  hec.  Et  isti calculatores  sophiste  appellantur;  quare  non  se  debent  intro- mittere  in  phylosophia,  sed  in  geometria.  Unde  erat  magister Franciscus  neritonius,  (erat  enim  vir  doctissimus) ,  et  in  uno  ca- pitulo  fratrum  erat  etiam  Nicholettus,  protesto  ignorantissimus, et  arguebat  domino  francisco  neritonio  in  illa  disputatione,  et in  calculatione  argumentabatur;  et  dominus  franciscus  nesciebat respondere,  quia  mathematica  ignorabat.  In  hoc  enim  argumento erat  quater  fortassis  totum  alphabetum.  Dominus  tamen  fran- ciscus intrepide  respondit  sibi,  quod  Nicholetus  fecerat  ut  conti- gerat  in  suo  capitulo  cuidam  fratri,  cui  prior  comiserat  ut  predi- caret  de  conceptione  virginis.  Cum  venisset  tempus  predicandi, dixit  ille  bonus  vir  qui  debebat  predicare  illa  die  :  O  domini  audi- tores,  ista  materia  de  conceptione  est  tante  difficultatis,  quod non  poteritis  numquam  eam  percipere.  Itaque,  rogo  vos,  ut  loco istius   dimittatis   me   narrare    ystoriam   sancti   Alexandri,    quam 42  Arezzo,  ms.  390,  f.  lygr.  Allo  stesso  episodio  il  Pomponazzi  aveva accennato  anche  nelle  lezioni  In  I  de  anima  (nel  cod.  della  Bibl.  Na- zionale di  Napoli,  Ms.  Vili,  D.  81  fol.  97v),  che  sono  dell'autunno  1503, ed  ivi  fa  il  nome  dello  studente  somaro,  che  pare  sia  un  Baldassarre da  Chiusi. promptissime  capietis.  Sic  etiain,  dixit  dominus  franciscus,  con- tigit  domino  Nicoleto  :  qui  dum  in  hac  materia  quam  posuimus disputandam  nihil  intelligeret,  incepit  nobis  cum  suis  argumentis calculatoriis   narrare   ystoriam   beati   Alexandri  !  43. Ben  più  grave  è  quanto  il  Pomponazzi  narrava  agli  scolari, in  una  lezione  sul  secondo  libro  del  De  caelo,  tenuta  a  Bologna il  28  novembre  1519.  Stava  esponendo  il  testo  17,  e  poiché taluni  dicevano  che  Dio  e  le  intelUgenze  celesti  «  prima  in- tentione  agunt  propter  se  «,  mentre  le  cose  generabili  e  cor- ruttibili «  prima  intentione  faciunt  propter  alia  et  secundario propter  se  »,  ha  il  coraggio  di  dire  apertamente  che  non  è vero: Non  videtur  verum;  imo  videtur  totum  oppositum;  quia quicquid  homines  faciunt,  [faciunt]  primo  propter  se,  secundario vero  propter  alios.  Verbi  gratia,  homines  student:  prima  intentio eorum  est  hicrari  scientiam  et  fieri  perfecti  et  eiusmodi;  secun- dario vero  ut  illustrent  domuin  suam  et  patrem  etc.  Unde  Ari- stoteles  numquam  somniavit,  quod  deberet  fieri  bonum  ut  iretur in  paradisum,  et  evitari  malum  ne  iretur  in  infernum;  sed  bene dicit  quod  debemus  exponere  vitam  prò  patria  et  eiusmodi,  et potius  mori  quam  committere  peccatum,  ut  acquiramus  illarn virtutem,  sciHcet  fortitudinem.  Ergo  quicquid  homo  facit,  prima intentione   facit   propter  se,    ut   in   omnibus   discurrere   potestis. Ideo  videtur  fatuitas  philosophorum  dicere  hoc  de  genera- biUbus,  scilicet  quod  primo  agant  propter  alia,  et  secundario propter  se.  Unde  Nicoletus,  vir  lepidus,  qui  non  credebat,  ut  ita dicam,  dal  tecto  in  su,  cum  sepissime  audiret  beatum  Bernardinum de  Feltro  predicantem  et  in  suis  predicis  dicentem  :  '  O  tu,  attende tibi;  o  tu,  attende  tibi,  mulier  luxuriosa  '  44,  bonus  Nicolettus emebat  bonos  pullastros,  fasianos,  et  si  quis  diceret  illi:  '  Quid vis  tacere,  o  Nicholette  ?  ',  respondebat:  '  Volo  attendere  mihi  '. Item  rapinabat  et  eiusmodi,  et  si  dicebatur  illi:  '  Quid  vis  facere  ?  ', dicebat:   'Attendere  mihi  volo'.  Omnia  ergo  faciebat  propter  se  45. Lo  stesso  ritratto  morale  del  «  buon  Nicoleto  »,  il  Pompo- nazzi tracciava  negh  stessi  termini  agli  scolari  bolognesi  in una  lezione  sul  primo  delle  Meteore  tenuta  il  15  novembre  1522: 43  Arezzo,  1.  e,  f.   i68r. 44  Bernardino  da  Feltre  predicò  la  quaresima  a  Padova  nel  1492 (cfr.  Wadding,  Annui.,  XV,  p.  7,  XV),  e  di  nuovo  vi  fu  nel  1494.  quando «  Patavium....  profectus,  in  Ecclesia  Cathedrali,  assumpto  ilio  trito suo  themate  '  Attende  tibi  ',  egregie  populum  de  rebus  saluti  maxime necessariis  instruxit  «   [Ib.,   66,    XIV). 45  Parigi,  Bibl.  Nat.] Erat  Padue  quidam  frater  sancii  Francisci  de  observantia, qui  dicebatur  frater  Bernardinus  de  Feltro,  qui  predicabat  et in  predicatione  semper  dicebat:  '  Attende  tibi,  attende  tibi  '. Unde  Nicolettus,  qui  legebat  Padue,  emebat  perdices,  capones et  multa  bona.  Inde  ipse  erat  malus  homo,  et  prò  uno  quadrante perdidisset  hominem,  et  nullum  habebat  prò  amico.  Unde,  eundo ad  predicam,  accepit  illud  verbum  '  attende  tibi  '  suo  modo,scilicet:  attende  tibi,  idest  sguazza  et  triumpha.  Ideo  emebat perdices  etc.46. Tale  è  il  ritratto  morale  del  Vernia  quale  fu  conosciuto  dal Peretto:  miscredente,  crapulone,  rapinatore,  che  per  un  quat- trino avrebbe  rovinato  un  uomo,  senza  amici.  Così  giudicava il  Pomponazzi  l'autore  delle  Quaestiones  sulla  pluralità  de- gl'  intelletti  e  sull'  immortalità  dell'anima,  nel  quale  ai  revi- sori ecclesiastici  deputati  dal  Barozzi  e  al  Barozzi  stesso  era parso  di  ravvisare  il  campione  stesso  dalla  fede,  che  aveva debellato  definitivamente  l'averroismo  e  l'alessandrismo  ! Tuttavia  non  va  dimenticato  che  dall'estate  del  1496  al- l'autunno del  1499  il  Peretto  era  stato  assente  da  Padova, in  seguito  a  dimissioni  dalla  cattedra  da  lui  occupata  e  sulla quale  era  stato  sostituito  dal  Nifo  47.  Ora  è  sicuramente  in questi  anni  che  la  crisi  filosofica  e  religiosa  del  Vernia,  ini- ziatasi nel  corso  del  1492,  venne  a  maturazione,  se  vera  crisi ci  fu  in  un  uomo  così  lepido  e  astuto.  E  la  testimonianza del  Pomponazzi  non  può  aver  valore  per  gli  anni  in  cui  il  man- tovano lo  perse  di  vista.Del  resto,  queste  oscillazioni  tra  una  spregiudicatezza  quasi scettica  e  il  bisogno  di  conformarsi  all'ambiente  religioso  e  di accettarne  il  formalismo,  è  tutt'altro  che  alieno  dall'  indole, piena  di  contradizioni,  di  un  uomo  dell'età  di  papa  Borgia» 46  Ib.,   Cod.   lat.   6535,   f.    jòyc. 47  Cfr.  C.  Oliva,  Note  snW  insegnamento  del  Pomponazzi,  in  «Giorn. Crit.  d.  Filos.  Ital.  Ritengo  che  questo  ameno  e  spregiudicato  maestro,  prima che  a  Padova,  si  recasse  adolescente  a  Venezia,  in  casa  del Patrizio  Sebastiano  Badoèr,  nei  cui  «  lari  era  stato  educato  » il  suo  conterraneo  e  parente  Nicolò  Manupello  da  Chieti  ', che,  addottorato  in  artibus  a  Padova  il  22  aprile  1444  -,  vi s'addottorò  anche  in  medicina  il  18  settembre  1450  3.  Altri- menti non  si  spiegherebbe  come,  nella  dedica  dell'esposizione del  Burleo  alla  Fisica  d'Aristotele  (Venezia,  1482),  egli  po- tesse dire  d'essersi  affezionato  al  Badoèr  «  a  teneris  annis  », e  come  mostrasse  di  conoscere  così  a  fondo  la  storia  leggen- daria di  questa  famiglia. Dal  testamento  fatto  a  Padova  il  lunedì  2  novembre  1478, e  pubblicato  da  Paolo  Sambin,  si  conosce  il  nome  del  padre, per  esser  detto  «  clarissimus  artium  et  medicine  doctor  dominus magister  Nicolaus  filius  honorabilis  viri  ser  Antonii  de  civi- tate  Theatina  »  4.  E  lo  stesso  si  legge  nell'atto  di  donazione *  Dal  «  Giorn.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXIV,  1955,  pp.  496-503- La  nota  su  Cristoforo  da  Recanati  è  inedita. I  Expositio  excel. mi  philosophi  Giialterij  de  burley  anglici  in  libros odo  de  physico  anditn  Aristotelis  stagirite  emendata  per  me  nicoletum verniam  theatinimi  publice  et  ordinarie  philosophiam  in  gimnasio  patti- vino    legentem Venetiis.    M.cccc.    Ixxxii.    die    quintadecima    mensis aprilis,  dedicata  a  Sebastiano  Badoèr,  «  censore  del  comune  di  Venezia  »: Del  Manupello  si  legge  appunto  nella  dedica:  «  affinis  ac  conterraneus meus  clarissimus  phisicus  et  mediciis  Nicholaus  manupellus  Thea- tinus  in  tuis  laribus  fuit  educatus  ». ^  G.  Erotto  e  G.  Zonta,  Ada  graduum  academicorum  Gynnasii Patavini,  ab  anno  MCCCCVI  ad  annum  MCCCCL,  Padova,  1922, n.   1825. 3  Ib.,  2437. 4  P.  Sambin,  Intorno  a  N.  V.,  in  Rinascimento,  III,  1952,  p.  265, docum.  I. Il6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI de'  suoi  libri  al  monastero  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  del giovedì  i6  gennaio  1483  (se  il  16  gennaio  di  quell'anno,  e  non piuttosto  il  17,  fosse  caduto  in  giovedì  5).  Dai  quali  due  docu- menti si  rileva  che  il  buon  Nicoletto  si  lasciava  passare  come «  artium  et  medicinae  doctor  »,  quando  dottore  di  medicina non  era  ! Nella  stessa  dedica  al  Badoèr  si  legge  :  «  cum  enim  sub  disci- plina clarissimi  philosophi  pauli  pergulensis  essem,  a  quo etiam  tu  eruditus  fuisti,  pluries  ab  eo  audivi  te  summum philosophum  atque  theologum  evasisse,  nullumque  esse  qui te  in  docrina  francisci  de  marronis  subtilisque  doctoris  lohannis scoti  antecelleret  ».  Orbene:  Paolo  da  Pergola  il  19  marzo 1442  era  reggente  delle  scuole  annesse  in  Venezia  alla  chiesa di  S.  Giovanni  Elemosinarlo  a  Rialto,  nel  quale  anno  egli  era anche  piovano  di  questa  chiesa;  e  reggente  di  queste  scuole restò  fino  alla  sua  morte  nel  1455  ;  fu  sepolto  nella  chiesa  di  cui era  piovano  6,  Tanto  Sebastiano  Badoèr  quanto  il  giovane Nicoleto,  e,  suppongo,  anche  Nicolò  Manupello,  sono  stati sotto  la  disciplina  di  Paolo  a  Venezia. Questa  scuola  merita  d'esser  meglio  conosciuta,  sia  per gì'  insigni  maestri  che,  dopo  il  pergolese,  vi  insegnarono,  sia perché  nella  seconda  metà  del  Quattrocento  e  per  tutto  il Cinquecento  essa  fu  una  specie  di  succursale  dello  Studio  pa- tavino, nella  quale  molti  giovani  veneziani  cominciavano  gli studi  di  logica  e  di  filosofia,  che  poi  andavano  a  completare  a Padova,  ove  s'addottoravano.  Così  appunto  sappiamo  aver fatto  anche  il  giovane  chietino,  il  quale,  da  Venezia,  forse  dopo la  morte  del  pergolese,  si  recò  a  Padova,  ed  ivi,  dopo  essere stato  qualche  tempo  sotto  la  disciplina  di  Gaetano  da  Thiene, conseguì  il  dottorato  in  artihus,  ma  non  in  medicina,  il  30 maggio  1458,  primo  promotore  lo  stesso  maestro  Gaetano  7. Dopo  questa  data,  non  si  hanno  di  lui  altre  notizie  fino  al- l' inizio  dell'anno  scolastico  1465-1466,  quando  fu  assunto  alla lettura    straordinaria    di    filosofia.    Dalla    dedica    del    Vernia 5  Ib.,  p.   266,  docum.   III. 6  A.  Segarizzi,  in  Atti  dell'  Istit.  Veneto  s.  1.  a.,  LXXV,  1915-1916, p.  646  sgg.  e  la  breve  notizia  dello  stesso  in  Nuovo  Arch.  Veneto,  N.  S., LXV,  1917,  p.  232.  Cfr.  anche  il  mio  studio  già  cit.  Letter.  e  cultura veneziana  del  Quattrocento,  pp.    111-118. 7  P.  Silvestro  da  Valsanzibio  O.  F.  M.  Cap.,  Vita  e  dottrina  di  Gae- tano di   Thiene,   Padova,    1949,   pp.    13-14- I stesso  ad  Enrico  Languardo,  arcivescovo  di  Acerenza  e  Ma- tera,  del  volume  di  commenti  di  Egidio  Romano,  di  Marsilio di  Inghen  e  d'Alberto  di  Sassonia  al  De  generatione  et  corruptione, stampato  a  Padova  nel  1480,  veniamo  a  sapere  che  dodici anni  prima,  quindi  nel  1468,  era  stato  chiamato  «  ad  legendum philosophiam  in  locum  quondam  Gaetani  Thienei  philosophi celeberrimi  »  ;  carriera  abbastanza  rapida  che  mal  si  spieghe- rebbe senza  l'appoggio  di  potenti  patroni  ch'egli  aveva  a Venezia. L' intervento  di  questi  patroni  a  suo  favore  si  fece  palese, del  resto,  nel  maggio  del  1469,  con  l'edificante  episodio  che traggo  dagli  atti  del  «Sacro  Collegio  dei  Medici  e  Filosofi»  di Padova  ^,  a  solazzo  dei  «  laudatores  temporis  acti  »,  i  quali vanno  dicendo  che  certe  soperchierie  avvengono  soltanto  ai nostri  giorni. Ecco  dunque  l'episodio.  Ma,  prima  di  narrarlo,  bisogna  sa- pere che  al  Sacro  Collegio  dei  Medici  e  Filosofi,  che  aveva  un numero  limitato  di  membri,  erano  aggregati  solo  medici  e  filosofi padovani  e  veneziani,  in  numero  limitato,  dopo  aver  conseguita la  laurea  in  artihus  e  in  medicina,  e  a  seconda  della  disponibilità dei  posti.  Da  sapersi  è  altresì  che  soltanto  ai  membri  del  Collegio spettava  di  farsi  «  promotori  »  dell'ammissione  di  coloro  che ne  fossero  degni  al  «  tentativum  »  e  al  «  privatum  examen  » per  il  conseguimento  del  titolo  di  dottore  «  in  artibus  »  e  in medicina  e  al  primo  «  promotore  »  toccava  il  privilegio  di conferire  le  insegne  del  grado  al  neo-dottore,  previo  il  giura- mento di  rito.  Coloro  che  non  fossero  cittadini  padovani  o veneziani,  ma  fossero  maestri  nello  Studio  di  Padova  da molti  anni,    che  non  avessero  più  bisogno  di  essere  «  ballo- tati  »  periodicamente,  potevano  essere  aggregati  al  Collegio, in  seguito  al  parere  favorevole  dei  membri  di  questo  e  con  le cautele  previste  dagli  statuti. Ora  sentite  questa.  Un  bel  giorno,  e  precisamente  il  mercoledì 31  maggio  1469,  il  priore  del  Sacro  Collegio  dei  Medici  e  Filo- sofi di  Padova,  che  era  il  dottore  «  in  artibus  »  Maestro  Cri- stoforo da  Recanati  (de  rechaneto)  9,  udito  il  parere  dei  con- siglieri, convoca  il  Collegio  in  assemblea  straordinaria  e  tiene *  Arch.  ant.  dell'  Univ.  di  Padova,  S.  Coli,  de'  Med.  e  Filosof.,  voi.  312. b.  49r. 9  Su  lui,  v.  Facciolati,  Fasti  Gymnasii  Patavini,  parte  II,  p.   104. Il8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI ai  convenuti  questo  discorso: Famosissimi  doctores,  causa  convocationis  excellentiarum  ve- strarum  est  ista,  quia  die  heri  quidam  officialis  Magnifici  domini pottestatis  padue  mihi  mandavit,  ex  parte  prefati  magnifici domini  pottestatis,  quatenus  hodie  convocare  facerem  collegium ad  instanciam  d.  M.  Nicoleti,  et,  in  executione  literarum  serenis- simi ducalis  domini]  dicto  d.  M.  Nicoleto,  assignare  debere  locum in  collegio  cum  conditionibus  prout  in  dictis  literis  continentur, et  quod  unusquisque  super  hoc  dicat  apparere  suum  ^°. L' intervento  della  Signoria  veneziana  a  favore  del  filosofo chietino  metteva  in  serio  imbarazzo  il  Collegio,  geloso  dei  suoi diritti  e  privilegi.  Forestiero,  laureato  nelle  arti  da  appena  ii anni,  lettore  di  filosofia  a  Padova  da  appena  quattro,  il  Vernia veniva  imposto  dall'autorità  politica  centrale,  senza  che  il Collegio  fosse  stato  nemmeno  interpellato  prima,  e  senza  una ragione  di  particolari  benemerenze  che  gli  dessero  la  precedenza su  altri.  Che  modo  di  procedere  era  questo ?  Vero  è  che  anche Maestro  Cristoforo  da  Re  e  anati  era  entrato  a  far  parte  del Collegio,  di  cui  egli  era  priore,  nel  maggio  1464,  mentr'era «  legens  ordinarie  philosophiam  naturalem  »,  per  l' intervento e  l'imposizione  dallo  stesso  governo  veneziano  e  senza  il  gra- dimento del  Collegio  stesso  ". IO  Arch.   Ant.  dell'Univ.   di  Padova,   voi.   312,   f.  4gr. "  Maestro  Cristoforo  Rappi  (secondo  C.  Benedettucci,  Biblioteca recanatese,  Recanati,  1884,  p.  124)  da  Recanati  era  nato  il  4  ottobre (giugno,  sec.  il  Benedettucci)  1423,  ma  s'era  addottorato  in  artibus a  Padova,  il  3  febbraio  1454  (Arch.  della  Curia  Vescovile  di  Pa- dova, Diversovitìu,  voi.  28,  f.  23  v).  Non  mi  risulta  la  data  esatta del  dottorato  in  medicina,  che  sicuramente  ebbe  luogo  pochi  anni dopo.  Ma  il  25  giugno  1462  ebbe  dal  Senato  veneziano  un  aumento di  stipendio  come  professore  di  filosofìa  naturale  da  molti  anni  nello studio  patavino,  allo  scopo  di  impedire  che  egli  accettasse  un  invito fattogli  dal  vicedomino  di  Ferrara;  «  que  res  universis  scolaribus  studii ipsius  molestissima  est,  non  sine  incomoditate  et  iactura  nostri  do- mini], quia  si  recederet,  omnes  qui  illum  audiunt,  eum  sequerentur  » (Arch.  di  St.  di  Venezia,  Senato-terra,  Reg.  5,  f.  12  r).  Di  queste  buone disposizioni  del  Senato  a  suo  riguardo  il  Recanati  non  tardò  ad  ap- profittare; poiché  sotto  la  data  del  18  maggio  1464  si  legge  {Ib.,  f.  79  r)  : «  In  studio  nostro  paduano,  ut  notum  est,  reperitur  Clarissimus  doctor magister  Christophorus  Recanatensis,  legens  ordinarie  philosophiam naturalem.  Qui,  ut  litere  Rectorum  nostrorum  et  rectoris  Universitatis Artistarum  padue  testantur,  neminem  in  Italia  habet  parem.  Et  qui vehementer  optai  prò  honore  suo  cooptari  in  collegio  Artistarum  et  me- dicorum  padue,  in  locum  scilicet  primi  qui  deficiet,  et  multi  prestan- tiorum  doctorum  ipsius  collegii  hoc  velie  et  cupere  videantur.   Vadit   IIQ Ma  sentiamo  come  l'estensore  del  verbale  continua  a  rias- sumere il  discorso  dell'avveduto  priore: Sed  sibi  videtur,  quod  (  durum.  est  centra  stimulum  calci- trare »  [Actiis,  IX,  5;  XXVI,  14].  Et  quod  ipse  non  vult  in  hac  re nisi  quod  vult  totum  coUegium,  ad  quod  omnino  oportet  super  hoc providere:  aut  quod  ipse  d.  M.  Nicolletus  acceptetur  in  dicto  colle- gio iuxta  tenorem  literarum,  aut  quod  colligantur  duo  experti  qui sint  doctores  dicti  collegii,  et  quod  ipsi  accedant  ad  Magnifìcos dominos  pretores  [sic,  1.  rectores]  padue  et  etiam  ad  Serenissi- mum  dominium,  ad  deffendendum  iura  collegi]  contra  dictum  M. pars,  ut  dictus  magister  christophorus,  quo,  hoc  gradu  honoris  auctus, animatior  et  promptior  reddatur  ad  perseverandum  in  sua  lectura, Auctoritate  hiiius  consilii  cooptetur  in  dicto  Collegio,  in  locum  scilicet primi  qui  quoquo  modo  deficiet.  De  parte,  88;  de  non,  12;  non  sinceri  2  ». Ritengo  che  di  parere  contrario  dovesse  essere  Ser  Vitale  Landò,  dot- tore e  milite,  non  che  «  Sapiens  terre  firme  »,  il  quale  ammoni  «  quod serventur  promissiones  facte  collegio  doctorum  medicorum  et  artistarum padue  »,   evidentemente  col  rispettarne  i  privilegi   e  gli  statuti. Anche  allora  il  Collegio  aveva  pestato  i  piedi  e  masticato  amaro, ma  poi  aveva  finito  per  rassegnarsi.  Simili  ingerenze  del  governo  ve- neziano nelle  faccende  del  Collegio  non  erano  una  novità:  che  anche quando  di  Lauro  Quirini,  veneziano  e  «  doctor  artium  »  da  cinque  anni, pose  la  sua  candidatura  per  essere  accolto  nel  Collegio  padovano,  ove i  veneziani  avean  diritto  a  un  certo  numero  di  posti,  la  decisione  si trascinò  per  oltre  un  mese,  finché  la  domanda  fu  respinta  con  9  «  ba- lote  »  contro  8  (Arch.  Ant.  dell'  Univ.  di  Padova,  Sacro  Coli,  degli Artisti,    voi.   309,    ff.    122  v-r27  V,    15   apr.    i    maggio   -1845). Dopo  la  morte  di  maestro  Gaetano  da  Thiene  (18  luglio  1465),  Crist. da  Recanati  fu  chiamato  dal  Senato  veneto  con  voto  unanime  del 9  sett.  1465  (Senato-terra,  Reg.  5,  f.  134  v)  a  succedergli  nella  prima lettura  ordinaria  di  filosofia.  Morì  il  30  marzo  (gennaio,  sec.  il  Bene- dettucci)  1480  a  56  anni,  e  fu  sepolto  nella  chiesa  delle  monache  di S.  Francesco  dell'  Osservanza,  «  in  vico  pontis  Altinatis  »,  in  un'arca di  pietra  «  cum  doctoris  effigie  dormientis  »,  e  un  epistaffio  che  lo  rac- comandava ai  posteri  come  «  medico  celeberrino  et  philosophorum inclyto,  quem  universae  Italiae  Gymnasia  peripateticae  scholae  prin- cipem  luxerunt  »  (lac.  Salomonius,  Insc.  ript.  Urbis  patav.  Padova, 1701,  p.  211,  n.  20).  Io,  purtroppo,  non  conosco  se  non  le  Quaestiones recollectae  super  Calciilationes  sub  magistro  Chistophoro  de  Recaneto, huius  artis  principe,  die  sabbati  mensis  novembris  1469,  in  festo  sanctae Catharinae  ».  Ma  il  Coxe,  Catal.  Mss.  Bibl.  Bodl.,  Ili,  Oxonii,  1854, segnala  l'esistenza  di  un'esposizione  Magistri  Christofoli  de  Reganato super de  celo  et  niundo  ad  instanciam  Magistri....  Yeronimi  de  Cam- marino,  e  forse  anche  sul  De  physico  auditu  (n.  279,  col.  644-45),  non- ché di  certe  pillulae  magistri  Christophori  Rechanatensis  (n.  488,  5,  col. 810).  È  un  po'  poco  per  giudicare  delle  lodi  che  gli  tributarono  i  con- temporanei. Ad  ogni  modo,  è  inesatto  quello  che  scrive  il  Facciolati, Fasti  Gymnasii  Patav.,  II,  p.  104,  che  egli  «  primus  averroi  auctori- tatem  in  Gymmasio  Patavino  conciUasse  dicitur,  eius  commentarla  in philosophando  unice  secutus  ».  Prima  di  lui  c'erano  stati  Paolo  Veneto e  Gaetano  da  Thiene,  di  cui  il  recanatese  era  stato  discepolo. I20        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Nicoletum,  et  petere  quod  diete  littere  revocentur,  tanquam impetrate  et  concesse  contra  formam  statutorum  dicti  collegi],, ipso  collegio  et  iuribus  suis  inauditis. Et  super  hoc  factis  multis  sermonibus  et  arengationibus, prefatus  dominus  prior  posuit  ad  partitum,  quod  quibus  placet quod  acceptetur  in  collegio  d.  M.  Nicolectus  iuxta  tenorem  lite- rarum  Serenissimi  domini],  ponat  suffragia  sua  in  pisside  rubea; quibus  vero  placuerit  quod  defensentur  iura  collegi]  contra  dictum Magistrum  Nicoletum  [per]  expertos  dicti  collegi],  ponat  balotam suam  in  pisside  viridi.  Et  facto  scrutinio  cum  bussolis  et  balotis, invente  fuerunt  balote  quinque  in  pisside  rubea,  in  favorem  dicti M.  Nicoleti,  et  balote  xv]  in  pisside  viride,  quod  defensentur iura   collegi]    contra   dictum   Magistrum   Nicoletum  ^~. Cinque  contro  sedici  costituisce  un  bello  scacco  per  ser Nicoletto.  Tuttavia  è  notevole  che  cinque  membri  del  Collegio si  mostrassero  disposti,  fin  dal  primo  momento,  a  incassare  il colpo,  non  ostante  l'affronto  al  corpo.  Lo  facevano  per  sim- patia verso  il  filosofo  chietino,  o  perché  eran  persuasi  anch'essi che  «  durum  est  contra  stimulum  calcitrare  »  ?  Si  trattava ora  di  eleggere  coloro  che  dovevano  assumersi  la  difesa  dei diritti  del  Collegio  al  cospetto  dei  rettori  della  città  e  del  go- verno della  Serenissima. Deinde  posuit  [prior]  ad  partitum,  de  consensu  dominorum consiliariorum,  quod  quibus  placet  quod  elligantur  d.  M.  Nicolaus de  Sancta  Sophia,  d.  M.  Ioannes  Michael  [de  Bredepalea],  d.  M. lacobus  [f.  q.  mag.  Gratiadei]  de  Veneti]s  et  d.  M.  Ioannes  Petrus de  carari]s,  qui  accedant  ad  Magnificos  pretores  [/.  rectores] padue  et  ad  Serenissimum  dominium  Venetiarum,  ad  deffen- dendum  iura  et  statuta  dicti  collegi]  contra  d.  M.  Nicoletum  et literas  per  ipsum  impetratas,  ponat  balotam  suam  in  pisside rubra;  quibus  vero  non  placet,  ponat  balotam  suam  in  pisside viride.  Et  facto  scrutinio  invente  sunt  balote  xx]  in  pisside  rubra, et  balote  due  in  pisside  viridi  negante.  Et  sic  fuerunt  ellecti. In  questo  verbale  v'  è  un  piccolo  dettaglio  che  potrebbe  fa- cilmente sfuggire.  Il  messo  del  podestà  aveva  detto,  a  nome di  questo,  che  fosse  riunito  il  Collegio  e  che  ogni  membro  di- cesse la  sua  intorno  alla  faccenda  :  «  et  quod  unusquisque super  hoc  dicat  apparere  suum  ».  E  l'estensore  del  verbale  ci assicura  che  furono  fatti  dai  convenuti  molti  «  discorsi  e  ar- ringhe »  in  proposito  e  a  sproposito.  Gli  animi  della  maggio- 12  Arch.  ant.  delI'Univ.  di  Padova,  voi.  312,  f.  49  v. I ranza  s' infiammarono  nel  denunciare  l'affronto  fatto  al  Sacro Collegio  e  ai  suoi  statuti,  e  infiammati....  si  suggestionavano a  vicenda  sino  a  prendere  le  decisioni  che  presero  quel  merco- ledì 31  maggio. Ma  tornato  a  casa,  ognuno  di  quelli  che  avevano  gridato piti  forte  contro  la  soperchieria  che  si  perpetrava  da  parte della  Serenissima  Signoria,  si  sarà  messo  a  riflettere  che  anche le  mura  della  chiesa  di  S.  Urbano,  ov'eran  raccolti,  avevano orecchie,  e  probabilmente  più  d'uno  si  sarà  morsa,  un  po' tardi,  la  lingua. Fatto  sta  che  il  venerdì  2  giugno  il  Sacro  Collegio  fu  di  nuovo convocato  dallo  stesso  priore,  non  più  nella  chiesa  di  S.  Urbano, ma  «  in  palatio  Episcopali,  hora  xxij  ».  Il  priore  si  fece  eco delle  considerazioni  che  due  giorni  di  riflessione  avevano  ma- turato nell'animo  dei  suoi  magnanimi  colleghi,  e  parlò  un  lin- guaggio più  circospetto. Illico  et  immediate  prefatus  prior  dixit:  famosissimi  domini doctores,  vos  vidistis  Mandatum  mihi  factum  nomine  collegij [/.  Potestatis],  ut  accipere  debeamus  omnino  in  collegio,  in  exe- cutione  literarum ducalium,  d.  M.  Nicoletum,  prout  in  literis ducalibus  continetur.  Mihi  videtur,  ne  videamur  esse  inobedientes et  rebelles  Hteris  Serenissimi  domini]  Venetiarum,  quod  bonum esset  ipsum  d.  M.  Nicoletum  acceptare  in  dicto  collegio  ad  ul- timum  locum,  cum  protestacione  quod  non  intendimus  ipsum acceptare  in  preiudicium  iurium  et  statutorum  nostrorum,  et quod  reservamus  nobis  ius  prosequendi  iura  nostra  centra  dictum d.  M.  Nicoletum  et  petendi  revocationem  dictarum  literarum tanqviam  indebite,  collegio  nostro  inaudito,  concessarum  et  com- missarum  dicto  d.  M.  Nicoleto.  Et  ita  satisfaciemus  Voluntati Serenissimi  dominij  impune  et  absque  alio  inconvenienti  et  schan- dalo  dicti  collegij. E  COSÌ  fu  deciso.  Un  paio  di  settimane  dopo,  e  precisamente dal  martedì  20  giugno  ^3,  «Nicoletus»  comincia  a  figurare  in coda  alle  liste  dei  membri  del  Collegio;  poi,  man  mano  che altri  membri  entrano  a  farne  parte,  il  suo  nome  dall'ultimo posto  passa  al  penultimo,  e,  su  su,  in  una  ventina  d'anni  di- venta uno  dei  primi,  e  comincia  ugualmente  a  figurare  in quelle  dei  promotori  nei  verbali  di  dottorato.  Della  protesta e  della  riserva  cui  accennava  il  priore  del  Collegio,  l'egregio 13  Ib.,  f.  52  V. dottore  in  artihus  Maestro  Cristoforo  da  Recanati,  non  si parlò  più,  ritenendosi  che  il  fatto  ricadesse  sotto  l' impero  di quello  che  i  giuristi  pisani  chiamavano  1'  «  ius  mengicum  seu gengicum  de  praescriptione  »,  e  che  molti  filosofi  molto  filo- soficamente ritengono  un  «  precipitato  storico  della  giustizia eterna  »  ! Nove  anni  dopo,  esattamente  il  lunedì  2  novembre  1478, il  povero  Nicoletto,  sano  per  grazia  di  nostro  Signor  Gesù Cristo  «  mente  et  sensu  »,  era  tuttavia  «  corpore  languescens  »; e  pare  si  trattasse  di  malattia  piuttosto  seria,  se  in  quel  giorno provvide  a  far  testamento,  disponendo  dei  suoi  averi  a  fa- vore del  monastero  di  S.  Giovanni  in  \'erdara  a  Padova  '4. Da  questo  documento  confrontato  col  testamento  del  1499, pubblicato  dal  Ragnisco  ^S  appare  che  nel  1478  egli  a  Padova abitava  «  in  contrata  burgi  Capellorum  »  e  non  ancora  «  in contrata  S.  Lucie»,  come  nel  1483,  se  questa  data  è  esatta  ^^, né  ancora  «in  contrata  putei  Bonelli»,  come  nel  1499  '7;  risulta parimente  che  non  era  ancora  cittadino  di  Vicenza,  che  non disponeva  dei  possessi  di  Colze,  e  non  si  sa  se  ancora  avesse avuto  a  che  fare  con  la  famiglia  vicentina  Dalla  Scrofa.  Questi rapporti  sono  strettamente  connessi  con  l'acquisto  poco  chiaro della  cittadinanza  vicentina  e  della  villa  di  Colze,  quando  i suoi  guadagni  erano  aumentati  assai.  Su  tutti  questi  punti potrebbero  far  luce  ricerche  negli  archivi  notarili  di  Padova e  di  Vicenza. Ad  ogni  modo,  parrebbe  che  le  sue  fortune  cominciassero  a prosperare,  scapolato  alla  morte,  dopo  il  1481;  ed  anche  al- lora con  l'appoggio  di  autorevoli  patroni.  Dal  primo  dei  tre documenti  pubblicati  da  R.  Persiani  ^^,  si  rileva  che  l'amba- 14  Cfr.  P.  Sambin,  /.  e.  Sui  rapporti  del  Vernia  coi  canonici  Regolari Lateransi  del  monastero  di  S.  Giovanni  in  Verdara  a  Padova  gette- ranno luce  le  ricerche  dello  stesso  Sambin  sulla  biblioteca  di  questo monastero.  Uno  studio  sulla  tomba  del  Vernia  e  sui  rapporti  di  lui  con gli  stessi  Canonici  Lateranensi  del  monastero  di  S.  Bartolomeo  a  Vi- cenza sta  per  dare  in  luce  negli  Atti  dell'Accademia  vicentina,  il  prof. Antonio   della   Pozza,   direttore   della   Bertoliana. 15  In  «Atti  e  Memorie»  dell'Accad.  di  Se.  Lett.  ed  Arti  di  Padova, Anno  292,  1890-1891,  N.  S.,  voi.  VII,  disp.  3^,  p.  280.  V.  sopra,  p.  000. 16  Poiché  il  16  genn.  1483,  non  cadeva  in  giovedì,  come  nel  docum.  Ili pubblicato  dal  Sambin,  ma  in  mercoledì.  Quindi  o  è  sbagliato  l'anno, oppure  il  giorno. 17  Ragnisco,  /.  e,  p.  284. 18  In  La  Riv.  Abruzzese  di  Se,  Leti,  ed  Arti,  Vili,  1893,  pp.  211-212. sciatore  napoletano,  Dott.  Aniello  Arcamona,  s'adoprava  in quest'anno  presso  il  Senato  veneziano,  perché  il  famoso  dot- tore Maestro  Nicoletto  da  Chieti,  che  da  più  anni  leggeva  a Padova  la  filosofia  ordinaria  «  cum  maxima  elegantia  et  suf- ficientia  ac  contentamento  omnium  »,  fosse  confermato  in detta  lettura  «  ita  ut  non  subiaceat  de  cetero  ulli  ballottationi  ». Era  già  aggregato  al  collegio  !  La  domanda  fu  accolta  con  122 voti   favorevoli,   e   uno   solo   contrario. Molto  più  importante  è  il  secondo  documento  pubblicato dallo  stesso  Persiani,  del  13  dicembre  1487.  Da  esso  si  rileva che  ser  Nicoletto,  ottenuta  la  stabilità  a  vita,  aveva  messo  su boria,  e  «sub  pretextu  quod  non  habeat  ccncurrentem  sibi parem,  obtinuit  pridem  a  dominio  nostro  litteras,  per  quas ei  concessum  fuit  ut  legere  possit  bora  extraordinaria,  quo fit  quod  venit  eo  modo  carere  concurrente  ». Quanto  al  credersi  superiore  ad  ogni  altro  professore  che fosse  a  Padova,  e  magari  sotto  la  cappa  del  cielo,  il  Vernia fu  buon  maestro  ad  Agostino  da  Sessa,  che  si  riteneva  «  il primo  homo  dil  mondo  »,  com'ebbe  a  dichiarare  al  console veneziano  a  Napoli,  Lunardo  Anselmi  '9.  In  questo    il  maestro che  lo  scolaro  eran  ben  lontani  dalla  modestia  del  Peretto  man- tovano che  preferiva  di  confessare  con  Socrate  :  «  Hoc  unum scio,  quod  nihil  scio  »  -°. Ed  anche  questa  volta  ser  Nicoletto  era  riuscito  ad  otte- nere r  insolito  privilegio  con  lettera  della  Signoria  veneziana. Ma  egU  non  aveva  fatto  i  conti  con  gli  studenti,  che,  per  quanto chiassosi,  erano  anche  allora  i  migliori  giudici  della  capacità dei  loro  professori.  E  gli  studenti  appunto  protestarono  per r  immeritato  privilegio  e  per  la  flagrante  violazione  degli statuti  accademici  da  parte  di  coloro  che  avrebbero  dovuto esserne  i  vigili  tutori. L' istituto  della  concorrenza  a  Padova  esigeva  che  per ogni  materia  professata  i  lettori  ordinari  fossero  due,  e  che leggessero  e  commentassero  gli  stessi  testi  negli  stessi  giorni e  alla  stessa  ora.  Gli  studenti  potevano  ascoltare  la  lezione dell'uno  o  dell'altro  concorrente,  scambiandosi  poi  gli  appunti e  le  impressioni,   e  avviare  discussioni,  sollevando  obiezioni 19  M.  Sanuto,  Diarii,  VII,  678. 20  Giorn.   Crii.  d.  Filos.] alla  fine  della  lezione,  e  continuando  le  discussioni,  avviate entro  l'aula,  al  circolo  dei  filosofi,  che  più  tardi  ebbe  la  sede sotto  il  portico  del  podestà,  a  pochi  passi  dal  Bò.  L' intento perseguito  con  l' istituto  della  concorrenza  era  quello  di  obbli- gare i  professori  a  tenersi  al  corrente  ed  a  studiare  :  «  Et  hoc ut  fiant  dihgentissimi  coactique  sint  studere,  et  ex  conse- quenti    satisfacere    habeant    scolaribus    audientibus  ». Ora  Mastro  Nicoletto,  ottenuto  il  privilegio  di  leggere  senza concorrente,  «  hora  extraordinaria  »,  scelta  a  suo  piacimento, dice  il  documento  pubblicato  dal  Persiani,  «  minime  curat studere,  fitque  negligens  cum  magna  murmuratione  scolarium, qui,  hanc  ob  causam,  relieto  studio,  venerunt  ad  presentiam nostri  domimi  et  indolentes  {sic,  1.  dolentes)  supplicantur  ut forma  et  continentia  ipsorum  statutorum  superinde  loquen- tium  sibi  observetur  ».  Non  saprei  se  fra  quei  cari  studenti v'era  anche  il  Pomponazzi,  il  quale  si  laureò  in  artihus  appena qualche  mese  prima  che  il  Senato  obbligasse  il  maestro  chie- tino a  rispettare  gli  statuti  sul  fatto  della  concorrenza  e  a rinunziare  al  privilegio  abusivamente  concessogli  (13  dicem- bre  1487). Ultimo  aneddoto  della  vita  padovana  del  Vernia  è  il  suo dottorato  in  medicina  avvenuto  un  po'  alla  chetichella  il 29  dicembre  1495.  L'  8  settembre  dello  stesso  anno,  dopo trent'anni  d' insegnamento  della  filosofia  naturale,  in  ricono- scimento dei  suoi  meriti,  la  Signoria  veneziana,  con  l'appro- vazione di  tutto  il  Consiglio,  gli  aveva  finalmente  concesso il  raro  privilegio  che  un  tempo  era  stato  concesso,  per  le  loro benemerenze,  a  Gaetano  da  Thiene  e  a  Maestro  Cristoforo  da Recanati,  di  leggere  senza  concorrente.  Parrebbe  che  ormai non  dovesse  avere  altra  aspirazione  che  quella  di  portare  a compimento  le  Quaestiones  de  pluralitate  intellectus  contra falsam  et  ah  onini  ventate  remotam  opinionem  Averroys,  per riguadagnarsi  la  stima  del  vescovo  di  Padova  e  per  ottem- perare all'  invito  del  doge  Agostino  Barbarigo,  dimostrando falsi  e  calunniosi  i  sospetti,  che  si  susurravano  «  in  angulis  », di  una  sua  adesione  all'averroismo.  Doveva  essere  sulla  set- tantina. Eppure  alla  distanza  di  trentasette  anni  dal  dottorato in  artihus  non  esitava  a  sottoporsi  agli  esami  per  conseguire il  titolo  di  dottore  in  medicina.  Promotori  furono  i  suoi  col- leghi Giovanni  Aquilano,  Lorenzo  da  Noale  e  Girolamo  da Verona;  testimoni  i  patrizi  veneziani  Lorenzo  Donato  e  Vincenzo  Quirini,  e  i  maestri  dello  Studio  Pietro  Pomponazzi  e Antonio    Francanziano  -^ Che  cosa  l'avrà  spinto  a  procacciarsi  il  titolo  di  medico  a quell'età  ?  e  a  che  cosa  poteva  giovargli  ?  La  risposta  forse potremo  trovarla  in  questa  notizia  che  si  legge  nei  Diarii di  Marin  Sanudo  --,  «  a  di  2  zener  »   [1499]. Vene  li  miedigi  di  collegio  di  questa  terra  [Venezia],  expo- nendo, conzò  sia  che  a  tempo  di  le  vachation  maestro  Zuan  de l'Aquila,  maestro  Nicoleto,  maestro  Hironimo  da  Verona et  maestro  Gabriel  Zerbi,  medici,  legevano  a  Padoa,  venissero  a miedegar  in  questa  terra;  per  tanto  chiedevano,  nel  tempo  ste- vano  dicti  medici  qui,  facessero  le  angarie  come  Ihoro,    da pagar  il  medico  in  armada  etc.  E  li  fu  concesso,  et  cussi  per  la Signoria,  consulente  collegio,    fo    terminato    in  scriptura. Ecco  a  che  cosa  doveva  servire  la  laurea  in  medicina:  ad andare  «  a  miedegar  »  a  Venezia  durante  le  vacanze,  facendo concorrenza  ai  medici  del  luogo,  sia  col  fatto  di  essere  maestri di  medicina  dello  Studio  patavino,  sia  perché  questi  padovani non  facevano  «  le  angarie  »  che  dovevano  fare  i  medici  vene- ziani «    da  pagar  il  medico  in  armada  ».  Lo  stipendio  di  180 fiorini  non  pareva  abbastanza  al  filosofo  chietino,  che,  al  dire del  Pomponazzi,  «prò  uno  quadrante  perdidisset  hominem» -3, e  doveva  invidiare  i  guadagni  che  i  colleghi  medici  traevano, nel  periodo  delle  vacanze,  a  Venezia,  dall'esercizio  della  loro arte. Due  di  essi,  Giovanni  Aquilano  e  il  veronese  Girolamo della  Torre,  erano  stati  suoi  promotori,  ed  entrambi  godevano di  onorata  nominanza  a  Padova  e  altrove  per  la  loro  perizia nel  «  miedegar  »,    che  la  loro  opera  era  molto  ricercata.  Ma di  gran  lunga  più  celebre  era  Gabriele  Zerbi,  anch'esso  vero- nese, anatomista  e  avversario  di  Iacopo  Berengario  da  Carpi, ■che  gli  muove  gravissime  accuse,  forse  infondate  o  almeno esagerate.  Appena  sei  anni  più  tardi,  nel  1505,  morì  di  morte •efferata,  nel  viaggio  di  ritorno  dalla  Turchia,  ove  la  sua  fama di  medico  era  giunta,  recatavi  dai  veneziani. 21   Padova,   Arch.   d.   Curia  Vesc,   Acta  graduum,   voi.  44,  f.  290  r. V.  sotto,  p.   162. "  I,  314- 23  V.  sopra,  pp.  114. 120        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Coiraiuto  compiacente  di  questi  e  altri  colleghi,  il  29  di- cembre 1495,  il  filosofo  chietino  ebbe  dunque  le  insegne  di dottore  in  medicina,  conferitegli  da  Giovanni  Aquilano,  e quattro  anni  dopo  lo  troviamo  a  Venezia  «  a  miedegar  »,  in sieme  a  Giovanni  Aquilano,  a  Gerolamo  da  Verona  e  Ga- briele Zerbi,  ai  quali  la  piacevole  compagnia  del  faceto  filo- sofo non  doveva  riuscire  ingrata. Ma  bel  gioco  dura  poco.  Ed  il  primo  ad  abbandonare  il quartetto  fu  proprio  maestro  Nicoletto,  il  quale  fece  appena in  tempo  a  preparare  per  la  stampa  il  libro  che  lo  faceva  tor- nare nelle  buone  grazie  del  Barozzi.  Il  3  agosto  1499,  a  Vicenza, dettava  le  sue  ultime  volontà,  e  due  mesi  dopo  trovava  pace nella  tomba  presso  i  Canonici  Regolari  Lateranensi  della stessa   città  -4. 22  Sotto  al  bel  monumento  sepolcrale  che  ora  trovasi  nella  cap- pella dell'  Ospedale  Civile  di  Vicenza,  e  già  da  me  riprodotto  in  «  Giorn. Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXVI,  1955,  pp.  496-97,  si  legge  questa  iscri- zione, in  cui  è  fatta  speciale  menzione  della  sua  ultima  opera:  «  Ni- co[letus],  Phi[losophus]  Cla[rissimus],  De  animi  plu[ralitate]  ac  fel[i- citate]  edito  libro,  Pat[avina]  in  Acca[demia]  anni[s]  XL  flor[uit]. Obiit  III  Nonas  Octobris  M.  CCCC.  LXXXXVIIII. Comunemente,  quando  si  parla  oggi  d'averroismo,  vien  fatto di  pensare  alla  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto  possibile  per tutta  la  specie  umana;  la  quale  dottrina  vien  designata,  con un  vocabolo  moderno  che  si  direbbe  coniato  apposta  per  ac- crescere la  confusione,  «pampsichismo».  Ma  rari  sono  coloro  che dell'averroismo  mettono  in  evidenza  quella  tipica  dottrina mistica  che  fu  uno  degli  argomenti  maggiormente  discussi, fra  gli  averroisti  e  i  loro  avversari,  dalla  fine  del  secolo  XIII a  tutto  il  XVI.  E,  ciò  che  è  più  strano,  ne  tacciono  sia  il  Man- donnet  che  il  Van  Steenberghen  nelle  loro  massicce  diffuse monografìe  dedicate  a  Sigieri  di  Brabante. Eppure  la  mistica  averroistica  era  stata  fatta  oggetto  di ampia  discussione  da  parte  di  S.  Alberto  Magno,  di  S.  Tommaso e  di  Sigieri.  Sebbene  non  fosse  stato  ancora  tradotto  in  latino il  trattatello  De  animae  beatitudine,  essi  conoscevano  bene  il commento  e  l'ampia  disgressione  d'Averroè  sul  testo  XXXVI del  terzo  libro  del  De  anima,  assai  più  importante  di  quel piccolo  trattato,  e  per  chiarezza  e  per  compiutezza. In  questo  testo  del  De  anima,  s'accenna  al  problema,  se  è possibile  che  l' intelletto  unito  al  corpo  arrivi  a  conoscere  le sostanze  separate.  Ivi  Aristotele  promette  che  questo  argo- mento sarà  discusso  più  tardi  '  ;  a  noi  per  altro  non  è  giunto alcuno  scritto  dello  Stagirita,  nel  quale  il  problema  ora  ac- cennato sia  risolto.  S.  Tommaso,  dopo  aver  dubitato  che Aristotele,  sorpreso  dalla  morte,  fosse  mai  pervenuto  a  trat- *  Dal  volume   Umanesimo  e  Machiavellismo  dell'  «  Archivio  di  Filo- sofia »,   Padova,   Editoria  Liviana,    1949. I  Arist.,   De   Anima,    III,   t.   e.    36,    e.    7,    43ib    18-19. 128        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI tare  delle  sostanze  separate  -,  finì  per  credere  che  il  problema fosse  risolto  dallo  Stagirita  in  un'opera  non  ancora  tradotta in  latino  che  gli  era  stata  mostrata  3.  Anche  Alberto  Magno, che  a  questo  problema  dedica  il  suo  trattato  De  intellectu  et intelligibili,  ritiene  che  quest'opera,  rimasta  sconosciuta  a lui,  era  ben  nota  a  molti  dei  discepoli  d'Aristotele,  i  quali  si sarebbero  ispirati  ad  essa  in  quei  numerosi  scritti  che  Alberto ben  conosceva  e  nei  quali  credette  di  trovare  il  fior  fiore  del- l' insegnamento  aristotelico  4. Neil'  intento  di  chiarire  il  pensiero  di  Aristotele  su  questo punto,  commentatori  greci  come  Alessandro  d'Afrodisia  e Temistio,  o  arabi  come  Alf arabi,  Avicenna  ed  Abu  Baker Avenpace,  avevano  cercato  negli  scritti  dello  Stagirita  quale, a  loro  avviso,  dovesse  essere  la  soluzione  di  quel  problema, conforme  ai  principi  della  filosofia  peripatetica.  Averroè, venuto  dopo  costoro,  aveva  intrapreso,  nel  detto  commento al  testo  XXXVI  del  terzo  del  De  anima,  una  vivace  critica delle  loro  teorie,  in  parte  rigettandole  e  in  parte  sforzandosi di  correggerle. Alessandro  d'Afrodisia  aveva  ritenuto  che  l'uomo  potesse arrivare  alla  conoscenza  del  mondo  immateriale  mediante  la «  copulatio  »  dell'  intelletto  potenziale  con  l' intelletto  agente. L' intelletto  potenziale  è,  per  l'Afrodisio,  una  semplice  pre- parazione o  disposizione  dell'organismo  vivente  di  vita  sen- sibile. L' intelletto  agente  invece  è  la  causa  prima  di  tutte  le cose,  la  quale,  irraggiando  la  luce  dell'  intelligibilità  sulla  ma- teria, la  plasma  e  trae  dalla  potenzialità  di  essa  tutti  gli  esseri del  mondo  corporeo.  Questi  imprimono  le  loro  qualità  dapprima sui  sensi  esterni  ;  e  per  mezzo  di  queste  prime  impressioni  susci- tano l'attività  dei  sensi  interni  e  particolarmente  dell'  imma- ginativa. L'attività  conoscitiva  degli  animali  inferiori  al- l'uomo s'arresta  qui.  Ma  l'organismo  umano,  sviluppatosi sotto  l'azione  dell'  intelletto  agente,  è  dotato  d'un  principio vitale  più  perfetto  che  tende  più  su. V  è  in  esso  una  capacità  o  disposizione  che,  per  quanto  le- gata all'organismo  vivente,  lo  porta  ad  aprirsi  una  veduta  sul 2  S.  Tommaso,  De  anima,  III,  lez.   12  in  fine. 3  S.  Tommaso.  De  imitate  intellectus  cantra  averr.,  ed.  L.  W.  Keeler, Roma,   Pontificia  Univ.   Gregoriana,    1936,   Cap.   I,  42,  p.   27. 4  Alb.  Magno,  De  intellectu  ed  intelligibili,  I  tr.   i,  e.   i. mondo  intelligibile.  Questa  capacità  o  disposizione  è  ciò  che Aristotele  avrebbe  chiamato  l' intelletto  in  potenza.  Soltanto la  luce  inteUigibile  dell'  intelletto  agente,  la  quale  avvolge €  vivifica  tutta  la  natura,  può  trarre  all'atto  questa  pura potenziaHtà.  Ma  la  luce  divina  dell'  intelletto  agente  attua r  intelletto  potenziale  per  gradi  :  prima  per  mezzo  degl'  intel- ligibili astratti  dai  fantasmi  dell'  immaginativa  ;  poi  per  mezzo delle  scienze  speculative  ;  finalmente,  quando  l' intelletto umano  è  intelletto  in  atto  o  in  abito,  l' intelletto  agente,  cioè la  luce  divina,  lo  riempie  di  sé,  lo  informa  e  lo  rende  capace di  contemplare  in  se  stesso  il  mondo  divino  dei  puri  spiriti. Siccome  in  questo  stato  l' intelletto  contempla  Dio  per  mezzo di  Dio  stesso,  esso  è  detto  «  intelletto  acquisito  ». La  teoria  d'Alessandro, con  la  sua  graduale  ascesa  della mente  umana  a  Dio,  che  nell'ultimo  grado  della  sua  elevazione finisce  per  essere  deificata,  sembra  aver  sedotto  Averroè. Il  quale,  per  altro,  ne  scorge  acutamente  le  difficoltà.  Se  il punto  di  partenza  di  questa  ascesa  verso  il  divino  è  l' intel- letto in  potenza,  e  se  questo  è  semplice  attitudine  dell'anima sensitiva  essenzialmente  legata  all'organismo  del  quale  su- bisce le  vicende,  bisognerebbe  ammettere  che  una  virtù  or- ganica, generabile  e  corruttibile,  vincolata  cioè  dalle  condi- zioni dello  spazio  e  del  tempo,  fosse  capace  d'elevarsi  alla conoscenza  di  ciò  che  è  universale,  libero  cioè  dallo  spazio  e dal  tempo,  ossia  dalle  condizioni  della  sensibilità  o,  come si  diceva  nel  medio  evo,  della  materia.  Si  può  bene  intendere, fino  ad  un  certo  punto,  che  la  causa  prima  operi,  come  causa agente,  sul  mondo  materiale  e  sull'intelletto  potenziale; ma  non  si  riesce  a  capire  in  che  modo  l' intelletto  agente  possa farsi  forma  d'una  virtù  organica  e  renderla  simile  a  sé.  L'  «  in- telletto acquisito»  è  concetto  che  non  è  punto  chiaro.  In  quanto «  acquisito  »  parrebbe  qualcosa  di  diverso  dal  soggetto  che  lo acquista;  ma  non  si  vede  come  un  soggetto  corruttibile  possa acquistare  e  far  suo  l'eterno. Per  queste  ragioni  parve  ad  Averroè  che  l' intelletto  poten- ziale non  dovesse  essere  «  ncque  corpus  ncque  virtus  in  corpo- re  »;  in  altri  termini,  la  natura  di  siffatto  intelletto  vuol  essere sciolta  da  ogni  intrinseco  legame  colla  materia.  Sostanza  se- parata esso  stesso,  l' intelletto  possibile  diviene  capace  di quella  ascesa  al  mondo  delle  sostanze  separate,  mediante  la «  copulatio  »  coir  intelletto  agente. 9 130        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Anche  Abu  Nasar  Alfarabi  s'era  fermato  a  meditare  sul problema  posto  da  Aristotele  e  sulla  soluzione  che  ne  aveva dato  Alessandro.  E  nella  sua  opera  intorno  all'  Etica  Nico- machea,  avendo  accettata  la  dottrina  del  commentatore  greco suir  intelletto  possibile,  s'era  limitato  a  considerare  l' intel- letto agente  come  causa  attiva  del  passaggio  di  quello  dalla potenza  all'atto,  e  non  come  forma  che  s'unisce  ad  esso.  In- vece, nel  trattato  De  intellectu  et  intelligibili ,  Alfarabi  ammise che  r  intelletto  possibile,  già  pienamente  attuato  dagl'  intel- ligibili tratti  del  mondo  sensibile,  diventa  soggetto  d'una  più intima  unione  coli'  intelletto  agente,  dal  quale  riceve  una  più copiosa  illuminazione  che  gli  dischiude  la  vista  del  mondo sovrasensibile.  In  questa  unione  coli'  intelletto  agente,  cui serve  di  preparazione  l'acquisto  delle  scienze  speculative,  e che  anche  Abu  Nasar  chiama  «  intelletto  acquisito  «  {intel- lectus  adeptus),  consiste  la  suprema  perfezione  della  mente umana  e  la  beatitudine  finale  dell'uomo  5.  Ma  Averroè  e'  in- forma, nel  De  animae  beatitudine  ^,  che  il  povero  Abu  Nasar, giunto  al  fine  de'  suoi  giorni  con  la  ferma  convinzione  di  po- tere arrivare  a  questo  alto  grado  di  perfezione,  cui  s'era  appa- recchiato procacciandosi  tutto  il  sapere  a  lui  accessibile, come  s'accorse  che  non  c'era  arrivato,  ebbe  a  dichiarare  im- possibile e  vana  l'aspirazione  a  congiungersi  con  le  sostanze separate,  ritenendo  ormai  favole  da  vecchierelle  le  descri- zioni puramente  immaginarie  che  taluni  facevano  dell'uomo pervenuto  a  tale   sovrumana  altezza. Quest'umile  riconoscimento  della  limitatezza  del  sapere umano  fatto  da  Alfarabi,  ormai  sul  passo  estremo,  non  aveva per  altro  scoraggiato  Abu  Baker  Avenpace.  Il  quale,  dice Averroè  7,  s'adoperò  a  lungo  a  risolvere  l'arduo  problema, senza  perderlo  di  vista  un  batter  d'occhio.  Oltre  che  nel  suo commento  al  De  anima,  Avenpace  tratta  di  questo  argomento in  «  molti  altri  suoi  libri  »,  di  due  dei  quali  conosciamo  i  titoli: 5  Alpharabii,  De  intellectu,  nell'edizione  di  Avicenna,  Opera....  per canonicos  emendata.  Venezia,  eredi  di  Ottaviano  Scoto,  1508,  fol.  68, col.  4.  Il  trattatello  è  stato  ristampato  nella  traduzione  latina  da  E. GiLSON,  in  Archives  d'  hist.  doctr.  et  litt.  au  moyen  8ge,  1929.  Cfr.  B. Nardi,  introduzione  a  S.  Tommaso  d'Aquino,  Trattato  sull'unità  del- l'intelletto contro  gli   averroisti,   Firenze,   Sansoni,    1938,    p.    32. 6  Capp.  3-4;  cfr.  A.  Nifo,  In  Averrois  de  animae  beatitudine,  Venezia, eredi    O.   Scoto,   1520,  I,  testo  59,  e  II,  t.   11. 7  Avere.,  De  Anima,  III,  comm.  36,  digress.,  parte  II  e  III. r  Epistula  de  perfectione  8,  e  il  Tractatus  de  copulatione.  Anche la  teoria  di  questo  pensatore  si  ricollega  strettamente  a  quella di  Alessandro  e  d'Alfarabi,  per  quanto  concerne  la  natura dell'  intelletto  potenziale  e  nel  ritenere  che  alla  conoscenza delle  sostanze  separate  si  possa  giungere  per  mezzo  del  sapere speculativo,  ossia  della  progressiva  attuazione  dell'  intelletto, in  potenza.  L'atto  col  quale  l' intelletto  umano  dal  sapere scientifico  s'eleva  alla  conoscenza  dei  puri  intelligibili  separati, potrebbe  dirsi  un  atto  di  superastrazione,  col  quale  dai  con- cetti astratti,  ricavati  dalla  realtà  sensibile,  si  astrae  quella pura  essenza  intelligibile  che  è  semplice  e  identica  per  tutte le  menti:  «Et  cum  philosophus  ascenderit  alia  ascensione, considerando  in  intellecto  inquantum  intellectum,  tunc  in- telliget  substantiam  abstractam  »  9.  Sembra,  per  altro,  che Abu  Baker  si  mostrasse  alquanto  perplesso  in  merito  a  questa suprema  ascesa,  che  dovrebbe  coronare  gli  sforzi  di  chiunque è  giunto  in  possesso  di  tutto  lo  scibile  filosofico;  e  che  egli, nell'Epistola  de  perfectione,  la  ritenesse  possibile  non  tanto per  lo  sforzo  della  natura  umana,  quanto  piuttosto  per  un aiuto  divino:  «  intellectio  istius  intellectus  est  de  possibilitate divina,    non    de   possibilitate   naturae  »  '". Ad  ogni  modo,  la  maggiore  difficoltà,  che  travaglia  anche la  teoria  di  Alf arabi  e  d'Avenpace,  consiste  nel  punto  di  par- tenza, cioè  nell'aver  considerato  l' intelletto  potenziale  gene- rabile e  corruttibile,  come  l'aveva  ritenuto  Alessandro  d'Afro- disia. Non  così  possiamo  dire  di  Temistio.  Per  questo  parafraste bizantino  d'Aristotele,  com'  è  stato  inteso  da  Averroè,  l' in- telletto potenziale  è  immateriale,  uno  ed  eterno,  al  pari  del- l' intelletto  agente  che  n'  è  la  forma.  Il  problema  che  concerne Temistio,  è  un  altro.  Se  l' intelletto  potenziale  è  uno  e  inge- nerabile, ed  uno  e  ingenerabile  è  l'intelletto  agente;  e  se  il primo  è  tratto  dalla  potenza  all'atto  e  diventa  intelletto  spe- culativo per  r  informazione  del  secondo,  non  si  riesce  a  vedere come  il  concorrere  di  due  cause  eterne  possa  dar  luogo  ad  un effetto  generabile  e  corruttibile,  qual'  è  il  mio  individuale atto  d' intendere,  susseguente,  in   particolari  contingenze  di 8  MuNK,  Mélanges  de  philosophie  juive  et  arabe,  Parigi,  1859,  p.  393  sgg. 9  AvERR.,  /.  e,  parte  III. '0    AVERR.,    ib. 132       tempo  e  d'ambiente,  al  non  intendere,  e  diverso  dall'atto col  quale  altri  intende  quel  che  non  intendo  io.  Nel  pieno  con- giungimento dell'  intelletto  potenziale  con  l' intelletto  agente consiste  anche  per  Temistio  il  più  alto  grado  di  perfezione raggiungibile  dall'uomo;  ma  il  bizantino  non  spiega  perché questo  congiungimento  avvenga  soltanto  alla  fine  e  non  al principio  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo;  egli  cioè  non spiega  perché  l' intelletto  agente,  fin  dal  primo  momento  della sua  unione  all'  intelletto  possibile,  non  attua  tutta  intera la  potenzialità  di  quest'ultimo,  se  è  vero  che  gì'  intelligibili, come  pensa  Temistio  con  Platone,  anzi  che  tratti  dalle  imma- gini sensibili,  sono  irraggianti  dall'  intelletto  agente  su  quello potenziale. A  risolvere  le  difiìcoltà  contro  le  quali  urtava  da  un  lato la  teoria  d'Alessandro  e  dall'altro  quella  di  Temistio,  il  com- mentatore di  Cordova  pose  questi  fondamenti.  Anzi  tutto, l'intelletto  che  è  soggetto  del  pensare,  in  quanto  questa  fun- zione conoscitiva  si  differenzia  dal  sentire,  non  può  essere   e  quindi  al  «  privatum  examen  »  per  ottenere il  dottorato  in  medicina.  Ecco  il  verbale  di  quest'ultimo  atto,, rimasto  ignoto  al  Ragnisco  il  quale,  confondendo  col  Vernia Nicolò  Manupello,  egli  pure  da  Chieti  e  parente  del  Vernia, riteneva  che  questi  si  fosse  laureato  in  filosofìa  il  22  aprile  1444 e  in  medicina  forse  nel  1458: A  nativitate  Domini  nostri  Jesu  Christi  1496  {sic).  Indictione  14, die  martis  29  decembris,  in  loco  solito  examinum. Privatum  examen  et  Doctoratus  in  facilitate  Medicinae  Cla- rissimi  Artium  doctoris  Domini  Nicoleti  Verniatis,  theatini, ordinariam  philosophiae  legentis  absque  concurrente,  examinati per  Sacrum  collegium  Artium  et  Medicinae  doctorum,  corani  ve- nerabili Domino  presbytero  Antonio  de  Malgarinis,  cathedralis ecclesiae  paduanae  Mansionario,  in  hac  parte  Vicario,  in  assi- stentia  spectabihs  domini  Leonardi  Butironi,  Rectoris,  appro- bati  unanimiter  et  concorditer  ac  nemine  penitus  discrepante, sub  promotoribus  Domino  Joanne  Aquilano  qui  de  dit  insignia prò  se  ac  Dominis  Laurentio  de  Noali  et  Hieronymo  de  Verona. [Testes].     D.  Laurentius  Donato,  Camerarius. D.   Vicentius  Quirino,  artium  scholaris. D.  M.  Petrus  de  Mantua  / D.  M.  Antonius  T^achantianus     \ In  questo  atto  da  me  veduto  (Arch.  d.  Curia  Vesc,  voi.  44, cot.,  f.  2gor)  e  gentilmente  trascrittomi  dal  Rev.mo  Mons. A.  Barzon,  il  dottorato  in  medicina  di  Maestro  Nicoletto  è fissato  al  martedì  29  die.  1496.  Ma  che  si  tratti  d'un  semplice lapsus  dell'estensore  è  provato  dal  fatto  che  l'atto  immedia- tamente precedente  (f.  289V)  è  del  23  dicembre  1495,  e  il f.  29ir  porta  la  data  del  2  gennaio  1496.  Inoltre,  il  29  dicem- bre 1496,  cadeva  in  giovedì,  e  non  martedì  come  il  29  dicem- bre 1495.  Infine,  il  29  dicembre  1496  il  Pomponazzi  non  pc- teva  fare  da  testimone,  perché  nell'ottobre  aveva  lasciato Padova,  e  vi  fece  ritorno  solo  dopo  la  morte  del  Vernia  nel  1490, Ma  forse  non  si  tratta  di  errore,  bensì  dell'aver  computato il  principio  del  1496  «  a  nativitate  Domini  »,  cioè  dal  25  di- cembre. Notevole  nell'atto  riferito  è  poi  la  presenza,  fra  i  testimoni, di  Lorenzo  Donato  e  di  Vincenzo  Quirini.  Il  primo  era  un  pa- trizio veneziano,  e  a  lui,  questore  a  Padova,  il  Nifo,  alunno del  Vernia,  dedicherà,  nel  1497,  il  prologo  d'Averroè  alla Fisica,  stampato  in  fine  del  commento  dello  stesso  Nifo  alla Destructio  destructionum  dello  stesso  Averroè.  Del  secondo,  al quale  il  Nifo  a  Padova  e  da  Salerno  ostentava  il  suo  partico- lare e  interessato  attaccamento,  faremo  cenno  piìi  giti. Ma  potrebbe  anche  darsi  che  il  motivo  che  spinse  il  filosofo chietino  ad  addottorarsi  in  medicina  fosse  un  altro.  Leggiamo infatti  nel  Sanudo  (II,  314)  che  i  medici  veneziani  il  2  gennaio 1499  si  lagnarono  in  Collegio  perché  Giovanni  Aquilano, ((  maistro  Nicoleto  »,  Girolamo  da  Verona  e  Gabriele  Zerbo, medici  che  leggevano  a  Padova,  durante  le  vacanze  andavano «  a  miedigar  in  questa  terra  »,  cioè,  a  Venezia,  e  non  applica- vano ai  clienti  le  «  angarie  »  di  legge  che  dovevano  far  pagare i  medici  di  Venezia,  a  prò  del  medico  dell'armata  (v.  sopra, pp.  125-126).  Pare  che  a  quei  tempi  l'esercizio  della  medicina desse  guadagni  più  vistosi  della  filosofia;  e  a  «  maistro  Nico- leto »  dovevano  far  gola. Ma  col  1496  comincia  per  la  filosofia  padovana  un  periodo di  crisi  che  coincide  con  la  partenza  del  Peretto.  Questi,  messo a  dura  prova  dalla  concorrenza  del  Nifo,  dovette  sentirsi spronato  ad  accogliere  un  invito  che  gli  era  fatto,  di  andare  a stabilirsi  alla  corte  di  Alberto  Pio,  a  Carpi.  E  nella  prima  metà d'ottobre  1496  egli  rinunziò  alla  cattedra  e  chiese  licenza  d'an- darsene, adducendo  a  motivo  i  suoi  personali  interessi.  Questo risulta  dal  decreto  del  Senato  veneziano,  in  data  16  di  quel mese  (Venezia,  Arch.  di  Stato,  Senato  terra,  Reg.  12,  f.  ijjr)  : Renuntiavit  niiper  eximius  doctor  D.  Petrus  de  mantua  lecturae ordinariae  philosophiae  gymnasij  nostri  patavini,  cuius  retinebat primum  locum;  et  hoc  impulsus  privatis  suis  negotijs. Sicché  i  sapienti  del  Consiglio  e  della  Terra  ferma,  nella necessità  di  provvedere  per  l'anno  scolastico  1496-1497  alla cattedra  rimasta  vacante,  nominarono  a  succedergli  Ago- stino Nifo,  ((  qui  erat  concurrens  ipsius.  D.  Petri  de  mantua secundo  loco  »,  promovendolo  al  primo,  col  salario  di  90  fiorini, e  dandogli  come  concorrente,  «  ad  secundum  locum  »,  il  fa- moso e  a  tutti  gratissimo  dottore  Antonio  Fracanzano,  vicen- tino, «  de  cuius  sufficientia  et  doctrina  litterae  Rectorum  no- strorum  Paduae  dant  amplum  testimonium  »,  coll'annuo salario  di  80  fiorini. Ma  il  Nifo  non  valeva  il  Pomponazzi,  e  d'altra  parte  risulta che  nel  corso  dell'anno  scolastico  1497-1498,  non  sappiamo per  quali  ragioni,  se  per  motivi  di  stipendio  o  per  attriti  co] 164        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Fracanzano,  ad  un  certo  momento  tagliò  la  corda.    che  il Senato  veneziano,  in  seguito  a  rapporto  del  rettore  degli  Ar- tisti di  Padova,  considerando  che  maestro  Nicoletto  «  ob  suam ingravescentem  etatem  continue  non  potest  legere,  quamvis ob  eius  sufficientiam  est  valde  gratus  omnibus  scolaribus, et  quoniam  illam  lectionem  alias  legebat  D.  Augustinus  de sessa  cum  florenis  90  in  anno,  vir  apprime  sufficiens  et  gratus illis  scolaribus,  qui  libenter  veniret  ad  legendum  »,  decide  che il  Nifo  sia  condotto  di  nuovo  con  fiorini  120,  ed  abbia  a  con- corrente lo  stesso  Fracanzano  (Ib.,  Reg.  13,  f.  ^yr,  ig  giugno 1498). Questi  s'era  addottorato  in  artibus  nel  maggio  1489;  nel- l'autunno del  1492  era  stato  assunto  alla  lettura  della  logica, e  questa  cattedra  occupava  ancora  il  21  luglio  1494  (Padova, Arch.  della  Curia,  Acta  grad.,  voi.  44.  f.  246V);  nel  1495  aveva conseguito  la  laurea  in  medicina,  e  quindi  assunto  alla  cat- tedra straordinaria  di  filosofia  che  occupava  il  29  dicembre 1495  (Arch.  d.  Curia,  1.  e,  f.  290r).  L'anno  successivo,  fu  pro- mosso, come  abbiamo  visto,  alla  cattedra  ordinaria  «  secundo loco  ». Ben  poco  ci  è  noto  anche  del  suo  indirizzo  filosofico.  Di scritti  di  lui  a  stampa  non  conosco  che  le  otto  «  Quesiiones  in consecutiones  Stradi  ac  de  sensu  composito  et  diviso,  pubbli- cate nel  volume  del  faentino  Benedetto  Vittori,  In  Tysberum de  sensu  composito  ac  diviso  cum  eiusdem  collectaneis  in  sup- positiones  Pauli  Veneti.  Nec  non  Tractatus  Alexandri  Sermo- nete,  Bernardini  Petri  de  Landìtciis,  Pauli  Pergulensis  et  Baptiste da  Fabriano  in  eundeni  Tysberum.  Item  qiiestiones  Frachan- ciani  Vicentini  in  consecittiones  etc.  (Venetiis,  impensa  heredum q.  Oct.  Scoti.  5  dicembre  1517,  ff.  56ra-65v),  e  dedicate  ad Alessandro  Sermoneta.  Esse  appartengono  senza  dubbio  al periodo  nel  quale  il  Fracanzano  fu  lettore  di  logica.  Di  opere manoscritte  ne  conosco  invece  due.  Una  è  nel  cod.  Ashburn 1048,  nella  Laurenziana  di  Firenze,  ff.  ir-38v  con  questo titolo:  Excellentissimi  Doctoris  Domini  Antonii  fracantiani Vicentini  de  casu  et  fortuna  fatoque  quaestiones  incipiunt  (9 capitoli,  oltre  il  proemio).  L'altra  è  nel  codice  Vat.  lat.  10728, e  porta  questa  intestazione:  Tractatus  proportionalitatum Domini  antonii  fracantiani  Vicentini  di  ff.  io.  È  divisa  in  tre trattati  ed  è  scritta  di  mano  d'un  allievo,  che  probabilmente è   Girolamo   Accorumboni   o   Accoramboni   da   Gubbio.    Ecco quanto  scrive  questo  alunno  :  «  Finis  Tractatus  proportionum Fracantiani,  praeceptoris  mei,  qui  legit  patavii  ordinariam philosophiae  ;  obiit  mo  cccccvi,  die  28  aprilis.  Ego  vero  eram tum  bacchalarius  ordinarius  in  studio  patavino.  Pontifex  erat prope  bononiam  cum  exercitu,  ut  dominum  iohannem  expel- leret  ».  Niente  son  riuscito  a  sapere  del  commento  inedito In  VII  Physicorum  di  cui  parlano  i  Memorabili  di  Giovanni da  Schio  (ms.  nella  Bibl.  Bertoliana  di  Vicenza,  lettera  F) e  che  era  posseduto  dal  canonico  Fulvio  Querengo.  Interessante è  quanto  riferisce  Marin  Sanuto  (II,  485),  come  il  24  giugno 1499  furon  ricevuti  a  Venezia  in  Collegio  «  maestro  de  Star- niti »  (?  !)  teatino  et  maestro  Gabriel  Zerbo,  doctori,  lezeno  a Padoa  in  philosophia  et  medicina,  insieme  col  retòr  di  scolari artista,  con  commission  dil  collegio  di  doctori;  et  forno  alditi in  contraditorio  con  maestro  Antonio  Fraganzan,  dotor vicentin,  leze  in  philosophia,  qual  non  voria  haver  conco- rente  inferior  a  lui,    vorìa  essi  doctori  esso  in  nel  collegio di  doctori.  Or  fo  gran  parole,  et  scrito  ai  retòri  di  Padoa, dagi  Information  >>. Non  conosco  l'esito  di  questa  bega;  ma  è  certo  che  l' inse- gnamento della  filosofia  a  Padova  versava  in  gravi  condi- zioni. Il  Nifo  se  n'era  andato,  e  non  farà  più  ritorno  a  Padova, ove  non  gli  mancavano  gli  appoggi  di  potenti  amici,  ma  dove aveva  dovuto  cozzare  altresì  contro  l'avversione  di  maestri e  scolari.  Il  4  ottobre  poi  era  morto  maestro  Nicoletto,  che  il  3 agosto  a  Vicenza  aveva  fatto  l'ultimo  suo  testamento,  e  con  lui spariva  dalla  scena  padovana  la  figura  forse  più  nota  fra  gli  stu- denti di  filosofia  e  più  popolare  per  le  sue  bizzarrie  (v.  sopra,  sag- gi IV  e  V) .  Nessun  maestro  di  qualche  rilievo  occupava  più  le  cat- tedre di  filosofia.  Di  ciò  ebbe  a  preoccuparsi  il  Senato  veneziano nella  seduta  del  31  ottobre  (Senato  terra,  Reg.  13,  f.  97r). A  succedere  al  Vernia  fu  perciò  richiamato  «  Magister  Peretus de  Mantua,  vir  singulari  doctrina  preditus  et  studentibus gratus  »,  per  la  durata  di  due  anni,  con  180  fiorini  di  salario  »; per  concorrente  gli  fu  assegnato  il  Fracanzano,  «  vir  doctis- simus,  qui  iam  per  annos  septem  legit  »  (dunque  dall'autunno del  1492,  quando  fu  nominato  lettore  di  logica)  ;  e  poiché  il vicentino  ricusava  l'ufficio  di  concorrente  col  salario  di  80 fiorini,  fu  deciso  di  portarlo  a  130,  onde  «  possit  legere  contentus et  facere  bonam  concurrentiam  ».  Alla  cattedra  straordinaria di  filosofia  fu  accettato  il  bolognese  Tiberio  Bacilieri,  disce- l65        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI polo,  amico  e  collega  di  Alessandro  Achillini,  del  quale  portò a  Padova  le  dottrine.  Egli  aveva  dovuto  lasciare  la  città  natale, in  seguito  alla  sospensione  per  un  quinquennio  inflittagli  da  quel Collegio  dei  medici  e  filosofi  (cfr.  sotto,  pp.  226-27).  E  forse  il Bacilieri  dovette  fare  da  concorrente  al  Peretto,  quando  il  Fra- canzano  entrò  per  tre  anni  al  seguito  del  nuovo  cardinale  Marco Corner,  che,  elevato  alla  sacra  porpora  a  diciott'  anni,  aveva  an- cora bisogno  d'andare  «a  Padoa  a  studia»  (M.  Sanuto,  II,  929). Ma  ritornato  sulla  sua  cattedra  il  Fracanzano  nel  1502,  e  ri- preso il  suo  posto  di  concorrente  del  Pomponazzi,  il  Baci- lieri l'anno  successivo  lasciò  Padova  per  Pavia  (cfr.  il  mio voi.  Sig.  di  Brah.  nel  pens.  del  Rinasc.  ital.,  pp.  132-152). Nella  stessa  delibera  del  31  ottobre  1499  si  trova  ancora: Demum  legit  in  dicto  Gymnasio  iam  annos  sexdecim  [dunque dall'anno  scolastico  1483-1484,  quando  il  Trapolin  salì  sulla  cat- tedra di  filosofia  quale  straordinario]  Magister  Petrus  trapolino, qui  iam  est  senex  et  onustus  ingenti  numero  filiorum,  et  habet  flo- renos  250  de  salario  in  anno,  quod  exiguum  est  respectu  laborum quos  sustinet  in  legende.  Ideo  captum  sit  quod  dicto  magistro Petro  addantur  floreni  quinquaginta,  ita  quod  habeat  de  salario trecentos  in  anno  et  ratione  anni,  attento  presertim  quod  eius concurrens  [che  era  Gabriele  Zerbo]  habet  fiorenos  sexcentos  de salario  in  anno. Con  questa  delibera  del  Consiglio  veneziano  che  vigilava sulle  sorti  dello  Studio  patavino  la  crisi  della  filosofia  pado- vana era  avviata  a  una  felice  soluzione. Intanto  venivan  su  ottimi  elementi  nuovi,  alunni  dei  vecchi maestri,  che,  appena  addottorati  e  taluno  anche  prima,  sa- livano giovanissimi  sulla  cattedra.  Così  il  17  agosto  1499, s'addottorò  /;/  artihus  Lorenzo  dal  Molino,  da  Rovigo,  già alunno  del  Pomponazzi  e  del  Trapolin  che  al  giovane  dottore conferì  le  insegne,  e  nel  verbale  di  dottorato  troviamo  anno- tato che  egli  era  già  stato  deputato  «  ad  lecturam  dialecticae  » (Arch.  d.  Curia  Vesc,  voi.  46,  f.  71).  Il  21  maggio  1500,  s'era addottorato  in  artihus  il  veronese  Gianfrancesco  Burana {Ib.,  voi.  47,  f,  106),  e  un  anno  dopo  lo  troviamo  ordinario di  logica  {Ib.,  f.  i62r).  Il  veronese  Bernardino  Plumazio,  già alunno  del  Nifo,  fu  chiamato  «  ad  extraordinariam  philoso- phiae  lecturam  »  {Ib.,  f.  248r).  Anche  Francesco  Trapohn, al  quale  conferì  le  insegne  di  dottore  in  artibus  il  padre,  il 6  ottobre  1501,  troviamo  che  «  electus  est  ad  lecturam  publicam logice  »  [Ih.,  f.  i68r).  L'anno  scolastico  1503-1504  fu  promosso straordinario  di  filosofia  naturale.  E  dopo  la  laurea  in  medi- cina, conseguita  il  4  marzo  1506,  anche  questa  volta  «  promo- tore.... D.  Petro  Trapolino  genitore  suo  qui  dedit  insignia  » (e  fra  i  testimoni  era  Gaspare  Contarini),  passò  alla  seconda scuola  di  medicina,  collega  del  padre  e,  come  questo,  colle- giato.  Il  14  novembre  1500  s'addottorò  in  artibns  Giacomo Filippo  delle  Pelli  Negre  da  Troia  in  Puglia,  promotore  Pietro Trapolin,  ed  anche  egli  era  già  stato  eletto  «  ad  moralem  philo- sophiam  publice  legendam  »  {Ih.,  voi.  47,  f.  135).  Il    febbraio 1501  s'addottorò  in  medicina  Girolamo  Bagolino,  di  cui  ab- biamo udito  l'elogio  fatto  da  Girolamo  Avanzo  [Ih.,  f.  146 v) e  del  quale  è  ben  nota  la  carriera  scolastica.  Il  6  agosto  s'ad- dottorò in  artihus  M.  A.  Zimara,  promotore  ancora  P.  Trapolin, e  l'anno  seguente  cominciò  a  insegnare  prima  logica,  poi  fi- losofia [Ih.,  f.  i62r).  Il  5  nov.  1502  conseguì  il  dottorato  in artihus  Girolamo  Fracastoro,  anch'egli  già  «  ad  lecturam  logice deputatus  »  {Ih.,  f.  225r). Proprio  in  questi  anni,  affluiscono  a  studiar  filosofia  a  Pa- dova giovani  delle  più  ragguardevoli  famiglie  patrizie  vene- ziane. Primi  fra  tutti  Vincenzo  Quirini,  Marco  Gradenigo, Girolamo  Taiapietra,  Santo  Moro,  Cristoforo  Marcello,  Ga- spare Contarini,  Nicolò  Tiepolo,  Antonio  Surian,  M.  A.  Con- tarini, Lorenzo  Venier.  Il  Quirini,  ancora  «  artium  scholaris  », figura  in  vari  atti  di  dottorato  come  testimone  fin  dal  1495; ma  recatosi  a  Roma,  vi  sostenne  le  «  conclusion  »  nella  chiesa dei  Santi  Apostoli,  il  29  maggio  1502,  presenti  Pietro  Bembo e  l'oratore  veneziano  Marin  Zorzi,  e  fu  addottorato  in  artihus da  papa  Alessandro  VI.  Il  suo  esempio  seguirono  anche  il Taiapietra  e  il  Tiepolo,  addottorati  essi  pure  a  Roma,  dopo avervi  disputato  le  loro  brave  «  conclusion  »,  il  primo  nella primavera  del  1506,  il  secondo  nell'estate  1507,  da  Giulio  II (M.  Sanudo,  III,  278;  VII,  116;  P.  Bembo,  Opp.,  t.  Ili,  Ve- nezia 1729,  p.  3i4r).  Invece  Cristoforo  Marcello,  che  il  17  ot- tobre 1500  aveva  sostenute  ai  Frari,  a  Venezia,  «  alcune  con- clusion »  (M.  Sanudo,  III,  978),  s'addottorò  in  artihus  a  Pa- dova, promotore  P.  Trapolin,  il  20  ottobre  1501,  e  gli  fecero da  testimoni  M.  A.  Foscarini,  vescovo  di  Città  Nova  e  ancora studente  di  diritto  canonico,  Girolamo  Barbarigo,  primicerio di  S.  Marco,  e  Pietro  Pomponazzi  (Arch.  di  Curia  Vesc,  voi.  47, f.  lògr).  Del  dottorato  in  artihus  di  Andrea  Mocenigo,  discepolo l68        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI del  Pomponazzi,  trovo  questo  verbale  {Ib.,  f.  256): Anno  Nativitatis  dominicae  1503,  indictione  sexta,  die  Sabati XII  Augusti.  Privatum  examen  in  Artibus,  in  loco  solito  exami- num,  per  Venerandum  Collegium  Artium  et  medicinae  doctorum, et  comprobatio  unanimiter  et  concorditer  ac  nemine  penitus discrepante,  in  assistentia  Spectabilis.  D.  Pauli  Zerbo  Rectoris, coram  Reverendo  d.  Ludovico  de  rugerijs  vicario.  Et  deinde  in medio  cathedralis  ecclesiae,  assistentibus  M.  cis  et  CI.  imis dominis Thoma  Mocenigo  praetore,  patruo,  et  Paulo  Trivisano  equiti, praefecto  urbis,  avunculo,  et  aliorum  praestantissimorum  docto- rum scholarium  civium  et  praelatorum  corona,  per  R.mum  D.  Epi- scopum,  eius  domino  Vicario  recitante,  pronuntiatus  fuit  Doctor in  Artibus  M.  cus  et  doctissimus  vir.  D.  Andreas  Mocenigo,  natus M.  ci  et  CI.  mi  D.  Leonardi,  fili]  olim  Serenissimi  principis  Vene- tiarum  D.  Joannis  Mocenici,  post  longas  lucubrationes  et  scho- lasticos  labores  et  publicas  disputationes  ac  varia  virtutis  et doctrinae  suae  experimenta.  Cui  tradita  fuerunt  insignia  per Excell.mum  artium  et  medicinae  doctorem,  D.  Magistrum  Pe- trum  trapolinum  prò  se  ac  Dominis  Magistris  Ioanne  de  Aquila, Symone  Estensi,  Hieronymo  de  foelicibus  ac  Bernardino  Spirono. Testes:  D.  Laurentius  Venerio,  D.  Antonius  Suriano,  D.  Gaspar Contareno,   artium  scholares. È  notevole  che  anche  qui  s'accenni  a  pubbliche  dispute, tenute  verosimilmente  a  Padova  e  a  Venezia,  delle  so- lite «  conclusion  ».  L'  11  settembre  dello  stesso  anno,  s'ad- dottorò in  artibus  Marco  Gradenigo,  ed  ebbe  a  testimoni  il Magnifico  G.  Batt.  Memo,  suo  zio  e  podestà  di  Padova  {Ib., f.  258r).  Il  4  luglio  1504,  s'addottorò  in  artibus  Sebastiano Foscarini,  promotore  Bartoloneo  da  Montagnana  {Ib.,  f.  287r)  ; un  anno  dopo,  il  14  giugno  1505,  fu  eletto  lettore  di  filosofia nelle  scuole  di  Rialto  a  Venezia,  al  posto  di  Antonio  Giustinian nominato  ambasciatore,  e  questa  cattedra  egli  tenne  fino  alla sua  morte  nel  1552  (M.  Sanudo,  VI,  185).  L'  8  agosto  dello stesso  1504  s'addottorò  parimente  in  artibus  Lorenzo  Venier, «  el  Gobeto  »,  del  quondam  Marino  procurator  di  S.  Marco, e  gli  furon  testimoni  Giorgio  Corner,  padre  del  Cardinale  e podestà  di  Padova,  Paolo  Trevisan,  capitanio,  Antonio  Surian e  Girolamo  Polani  (Arch.  Cur.  vesc.  cit.,  f.  29or).  Prima  del dottorato  a  Padova,  egli  aveva  tenuto  le  sue  «  conclusion  », il  12  giugno,  ai  Frari  in  Venezia,  disputando  per  più  giorni con  Lorenzo  Bragadin,  lettore  di  filosofia,  con  Giovanni  Ba- doèr,  dottore  e  cavaliere,  con  Marin  Zorzi,  anch'egli  dottore, e  con  alcuni  frati  (M.  Sanudo,  VI,  31).  Il  21  maggio  1505  fu la  volta  di  Santo  Moro  di  Marino,  che  ebbe  a  testimoni  Alvise Molin,  podestà  di  Padova,  Angelo  Trevisan,  capitanio,  i  due celebri  scotisti  francescani  Antonio  Trombeta  e  Maurizio Ibernico,  lettori  nelle  scuole  del  Santo,  e  Pietro  Pomponazzi (Arch.  Cur.  Vesc,  cit.,  f.  417^).  L'  11  maggio  anch'egli  aveva tenuto  «le  conclusion  ai  Frari,  qual'è  impresse»  (M.  Sanudo, VI,  163).  E  finalmente  Antonio  Surian,  nipote  del  patriarca dello  stesso  nome,  dopo  una  disputa  pubblica  di  due  giorni  a Padova  e  di  un  giorno  ai  Frari  a  Venezia  [Giorn.  Crii.  d.  Filos. Hai.,  XXXI,  1950,  p.  312),  il  9  luglio  1506  ebbe  le  insegne  di dottore  in  artibus  da  Bernardino  Speroni,  «  prò  se  ac  Dominis Magistris  Ioane  de  Aquila,  Benedicto  de  Odis,  Petro  Trapolino, Victore  Maripetro,  Antonio  de  Faenza,  Francisco  ab  Equis, Petro  de  Mantua,  Antonio  Carrano  et  Carolo  de  lanua  com- promotoribus  suis  »  (Arch.  Cur.  Vesc,  cit.,  f.  371  v).  Dal  qual verbale  appare  che  Pietro  Pomponazzi,  forestiero,  era  stato, dopo  quindici  anni  di  soggiorno  padovano,  aggregato  al  Col- legio dei  medici  e  filosofi  di  Padova, Dallo  stesso  Archivio  della  Curia  Vescovile,  (voi.  cit.,  f.  38ór) si  rileva  che  xA.ntonio  «  D.  Petri  Trapolini  »,  il  19  dicembre 1506,  ricevve  la  prima  tonsura  dalle  mani  del  vescovo  Pietro Barozzi,  il  quale  venne  a  morte  di    a  poco,  il  io  gennaio  1507. Questo  figlio  del  Trapolino  fu  avviato  allo  studio  del  diritto, e,  dopo  alcuni  anni  di  vita  dissipata,  rimessosi  sulla  buona strada,  professò  Decretali  e  Diritto  Civile  a  Padova  fra  il 1526  e  il  1528.  Ma  morì giovane  il  6  settembre  1529,  se  sono esatte  le  notizie  raccolte  dal  Facciolati  {Fasti  Gymnasii  Pata- vini, parte  III,  pp.   106,   109,   128,   130,   131). Divenuto  un  fiorente  centro  di  intesa  vita  intellettuale,  lo studio  di  Padova  attirava,  oltre  la  nobiltà  veneziana  e  stu- denti di  molte  parti  d' Italia,  molti  studenti  d'oltralpe,  spe- cialmente dalla  Germania  e  dalla  Polonia.  Fra  coloro  che  vi sostarono  per  più  anni,  è  da  ricordare  Nicolò  Copernico,  che, già  studente  di  diritto  e  quasi  certamente  anche  delle  Arti a  Bologna  fra  il  1496  e  il  1500,  a  Padova  fu  studente  di  me- dicina dall'autunno  del  1501  forse  sino  alla  primavera  del 1505,  e  a  Padova  certo  non  può  aver  trascurato  lo  studio della  matematica  e  dell'astronomia. A  Padova  avevano  insegnato  queste  scienze  il  Peurbach  e  il Regiomontano,  ossia  Giovanni  Muller  di  Kònigsberg,  e  dipoi Francesco  Capuano  di  Manfredonia,  i  quali  avevano  discusso le  osservazioni  di  Tolomeo  e  quelle  di  Albategni  in  rapporto ad  una  revisione,  che  si  rendeva  ogni  giorno  più  necessaria, delle  Tavole  Alfonsine.  Si  parla  anche  della  fama  di  profondo matematico  goduta  da  Pietro  Trapolin,  considerato  niente- meno che  «  il  primomatematico  del  suo  tempo  »,    che  per questa  sua  fama  accorrevano  a  Padova,  «  avidi  d'ascoltarlo, scolari  d'ogni  nazione  »  (G.  Vedova,  Biogr.  d.  Scrittori  Padovani, II,  p.  361).  Alunno  del  Trapolin  e  del  Pomponazzi  era  stato il  mantovano  Benedetto  del  Tiriaca  che  s'addottorò  in  artihus il  20  dicembre  1494,  promotore  il  Trapolin  che  gli  conferì le  insegne,  e  testimone  il  Peretto  suo  concittadino.  Dal  1498 al  1506  egli  tenne  la  cattedra  di  matematica  e  astronomia con  tanto  plauso  che,  avendo  dato  le  dimissioni,  bandito  il concorso  per  dargli  un  successore,  quando  gli  studenti  seppero i  nomi  degli  aspiranti  a  quella  lettura  presero  ad  agitarsi  e chiesero  che  il  Tiriaca  fosse  richiamato  sulla  cattedra,  come fu  fatto  con  deliberazione  del  Senato  veneziano  in  data  7 settembre  1508.  È  arduo  pensare  che  fra  il  1501  e  il  1505  il giovane  Copernico,  che  era  tra  i  ventotto  e  i  trent'uno  anni d'età,  non  l'abbia  avvicinato  e  si  sia  disinteressato  dell'  in- segnamento del  giovane  maestro  di  forse  due  o  tre  anni  più anziano. Un  confronto  dei  ritratti  dell'astronomo  polacco,  e  spe- cialmente dell'autoritratto,  col  giovane  matematico  seduto  e intento  a  tracciare  un  disegno  nel  quadro  del  Giorgione  «  i  tre filosofi  »,  m'  ha  indotto  a  credere  che  questo giovane  sia  pro- prio Copernico,  studente  a  Padova.  Volgendo  le  spalle  a  To- lomeo e  all'arabo  Albategni,  egli  è  rappresentato  dal  pittore di  Castelfranco  Veneto,  al  centro  ideale  e  prospettico  del quadro,  nell'atto  di  scrutare  la  natura  che  ha  dinanzi  e  di volgere  le  spalle  ad  un  sapere  che  stava  per  tramontare. Il  20  aprile  1506  Pietro  Trapolin  era  a  Venezia,  presente  alle solenni  esequie  fatte  a  Marco  Antonio  Sabellico  nella  chiesa di  S.  Stefano.  Gian  Battista  Egnazio  fece  l'orazione  funebre dell'amico  umanista  deceduto   (M.   Sanuto,  Vili,  329). Il  Pomponazzi,  circondato  dalla  stima  e  dall'affetto  dei  suoi alunni  e  dei  colleghi,  il  15  ottobre  1504,  aveva  rinnovato  l' in- gaggio «  per  tres  annos  de  firmo  et  unum  de  respectu  »  ;  e  in quell'occasione  il  Senato  gli  aveva  portato  lo  stipendio  dai 180  ai  250  fiorini,  motivando  l'aumento  con  la  singolare  dot- trina del  filosofo   e   coi  bisogni   della  numerosa  famiglia  da À mantenere  (Venezia,  Arch.  di  Stato,  Sen.  terra,  Reg.  15,  f.  37r). Quanto  alla  numerosa  famiglia,  sappiamo  che  sotto  Natale del  1500  egli  s'  era  sposato  con  Cornelia  di  Francesco  Dondi dell'  Orologio,  dalla  quale  aveva  avuto  una  o  forse  già  due figliolette.  Per  parlare  di numerosa  famiglia,  bisogna  pensare che  egli  avesse  a  carico  altri  parenti.  Tanto  più  che  lo  stesso motivo  del  bisogno  in  cui  versava  per  la  famiglia  numerosa sarà  addotto  dal  Peretto  per  chiedere  un  nuovo  aumento  di lì  a  tre  anni,  in  occasione  del  rinnovo  dell'  ingaggio.  Lo  sti- pendio questa  volta  gli  fu  portato  a  370  fiorini,  e  il  manto- vano s'impegnò  «per  annos  septem  proximos  »  (Ib.,  f.  185V). Le  cose  dello  Studio  patavino  procedevano  dunque  a  gontie vele,  e  quando,  nel  novembre  1506,  ad  Alessandro  Achillini costretto  a  fuggire  da  Bologna,  per  la  caduta  dei  Bentivoglio dei  quali  era  fautore,  fu  offerta  la  cattedra  di  filosofia  natu- rale, «  secundo  loco  »,  che  era  stata  del  Fracanzano,  morto, come  abbiamo  visto  il  28  aprile  ;  si  che  il  bolognese  si  trovò  ad essere  per  un  biennio  concorrente  del  Pomponazzi.  E  in  di- sputa tra  loro  al  circolo  dei  filosofi,  al  portico  pretorio,  fra  il palazzo  della  ragione  e  il  Bò,  li  ritrasse  ambedue  al  vivo  Paolo Giovio,  il  quale  nel  1506  era  alunno  del  Peretto,  e  a  Padova rimase  fino  alla  primavera  del  1507,  quando  fece  ritorno  a Pavia. Ma  la  serenità  che  Bologna  invidiava  a  Padova  non  durò a  lungo  e  un  violento  uragano  si  abbatté  su  questa,  nel  1509, quando,  per  il  furore  «  totius  fere  Europae  virium  in  Rem Venetam  conspirantium  »,  come  con  bella  frase  si  legge  sulla tomba  del  doge  Loredan  nella  chiesa  di  San  Zane  e  Polo, Venezia  corse  pericolo  mortale  e  le  milizie  imperiali  occupa- rono Padova  il  6  giugno.  Sembra  che  proprio  lo  stesso  giorno dell'entrata  dei  tedeschi  in  Padova,  morisse,  non  saprei  in quali  circostanze,  Pietro  Trapolin,  in  età  di  58  anni  e  venti giorni.  E  fu  certo  ventura  per  lui  che,  giacendo  nella  pace  del chiostro  di  S.  Francesco,  ov'era  la  tomba  della  famiglia  Tra- pohna  (nella  stessa  chiesa  riposa  il  Roccabonella),  non  ebbe a  vedere  lo  scempio  della  città,  il  saccheggio  della  sua  casa  e la  sciagura  dei  suoi  congiunti  ed  amici.  All'avvicinarsi  del nemico,  il  5  giugno,  i  rettori  della  città  e  il  consiglio  cittadino, formato  di  16  deputati,  discussero  a  lungo  se  arrendersi  o resistere.  «  Et  parlò  Alberto  Trapolin,  che  si  voleno  tenir  per la  Signoria,  e  non  si  dar  al  re  di  romani,  si  non  vedono  mazor exercito  eh'  1  nostro  a  preso  Padoa,  ben  non  voleno  danno, ni  el  nostro  campo  entri  in  Padoa  »,  dice  M.  Sanuto.  (Vili, 352). Ma  le  difese  veneziane  eran  deboli,  e  Padova  cadde.  Vi  fu un  principio  di  saccheggio,  ma  una  grida  rassicurò  i  cittadini; fu  formato  un  governo  provvisorio  di  otto  notabili  padovani, e  l'ordine  fu  ristabilito  (M.  Sanudo,  Vili,  366-7).  Di  questo governo  fece  parte  anche  Alberto  Trapolin,  Bertuzzi  Baga- roto,  lettore  di  diritto  canonico  e  Lodovico  Conte.  Qualche settimana  dopo  il  numero  di  otto  deputati  fu  portato  a  sedici. Insieme  ai  predetti  fece  parte  di  questo  nuovo  governo  prov- visorio anche  un  altro  dottore  padovano,  Giacomo  da  Lion (M.  Sanudo,  Ih.,  439). L'ordine  relativo  che  regnava  in  Padova  consentì  che  i professori  dello  Studio  continuassero  a  svolgere  i  loro  corsi e  a  fare  esami.  Così  mi  risulta  che  il  Pomponazzi  il  2  luglio  1509 era  promotore  nel  dottorato  di  Alvise  da  Brescia  (Arch.  ant. dell'  Univ.,  Sacro  Collegio  dei  medici  e  filosofi,  n.  220,  f. 30 v).  Ed  altri  esami  si  tennero  anche  nei  giorni  successivi. Ma  i  veneziani  mal  si  rassegnavano  alla  perdita  di  Padova, anche  perché  sapevano  che  non  pochi  padovani  non  se  la  pren- devano poi  tanto  calda  per  Venezia,  e  ricordavano  che  nel tentativodi  Marsilio  da  Carrara,  del  1435,  non  pochi  l'avevano favorito,  e  la  Signoria  per  dare  un  esempio  memorabile,  aveva fatto  impiccare  nel  1437  una  sessantina  di  persone,  fra  le quali  l'avo  di  Alberto  e  di  Pietro  Trapolin.  Perciò  si  affret- tarono a  ricuperare  la  città,  affidando  l' impresa  ad  Andrea Gritti.  Entrate  in  Padova,  il  17  luglio,  le  milizie  veneziane  si dettero  a  saccheggiare,  nei  giorni  seguenti,  le  case  dei  fratelli Trapolin  e  di  altri  padovani,  compromessi  o  sospetti,  mentre Alberto,  col  fratello  Roberto  e  con  Ludovico  Conte,  s'asser- ragliò nel  palazzo  del  Capitanio,  ove  fatto  prigione  fu  mandato a  Venezia,  coi  suoi  compagni,  per  render  conto  del  suo  con- tegno verso  la  Signoria.  È  appunto  col  ritorno  dei  veneziani che  cominciarono  i  maggiori  guai  per  Padova.  Nell'elenco delle  case  saccheggiate  che  menziona  M.  Sanudo  (Vili,  523, 453),  figurano  quelle  dei  fratelli  Alberto,  Roberto  e  Nicolò Trapolin,  e  quella  di  Francesco  loro  nipote,  e  figlio  del  u  quon-  m dam  maistro  Pietro,  medico  ».  La  stessa  casa  di  maestro  Pietro, ove  viveva  la  vedova  Maria,  coi  figli  Giulio,  Alessandro  ed Alba,  non  fu  risparmiata,  e  pare  che  in  questo  saccheggio andassero  distrutti  per  intero  le  opere  manoscritte  e  i  corsi di  lezioni  da  lui  tenute.  M.  Sanudo  poi  e'  informa  (IX,  52) che  il  14  agosto  anche  «  Julio  Trapolin,  fo  fiol  di  missier  Piero  », fu  fatto  prigioniero  e  dal  capitanio  di  Padova  spedito  a  Ve- nezia con  altri  14  compagni  per  esser  giudicato. Ma  anche  ripresa  dai  Veneziani,  Padova  rimaneva  sotto  la minaccia  degli  imperiali  che  ne  occupavano  i  dintorni  imme- diati e  alla  fine  di  settembre  tentarono  di  fare  di  nuovo  irru- zione in  città.  Soltanto  ai  primi  di  ottobre  i  tedeschi  levarnoo il  campo. Intanto  l'università  aveva  ricevuto  un  fiero  colpo:  maestri e  studenti  nel  mese  di  luglio  ed  agosto  cominciarono  a  prendere il  largo,  e  taluni  non  vi  ritornarono  piìi,  altri  soltanto  più tardi.  Fra  quelli  che  non  ritornarono,  è  il  Peretto  Mantovano, nonostante  l' ingaggio  per  sette  anni  preso  da  lui  un  anno prima.  A  dir  il  vero,  il  3  aprile  gli  era  morta  la  moglie  ed  era rimasto  con  due  bimbette  ancora  in  tenera  età.  Nel  luglio o  nell'agosto,  forse  dopo  essersi  in  fretta  riammogliato  con Ludovica  del  nobile  Pietro  da  Montagnana,  cittadino  pado- vano che  ritengo  abitasse  nella  contrada  di  S.  Lucia,  lasciò Padova  con  la  famiglia,  forse  per  riparare  a  Mantova,  portando con    il  ricordo  dello  Studio  patavino,  delle  battaglie chev'avevacombattuto,  degli  alunni  che  a  lungo  gli  attestarono la  loro  devozione,  primi  fra  tutti  Lazzaro  Bonamico  da  Bas- sano,  Gaspare  e  Marcantonio  Contarini,  e  dei  colleghi,  e  in particolare  di  quello  che  era  stato  suo  maestro  e  poi  caro amico,  Pietro  Trapolin.  Invece  Marcantonio  Zimara  da  S. Pietro  in  Galatina  già  alunno  e  poi  fiero  avversario  del  Pom- ponazzi,  dopo  aver  girovagato  in  patria,  a  Salerno  e  a  Napoli, vi  fece  ritorno  per  tre  anni  solo  nel  1525. Non  è  esatto  per  altro  che  lo  Studio  venisse  chiuso  per  otto anni,  fino  al  1517,  poiché  dagli  Ada  graduimi  dell'Archivio della  Curia  Vescovile  risulta  che,  per  esempio,  1'  8  maggio  15 io fece  il  dottorato  in  artibiis  Matteo  Binno  de'  Tomasi  figlio di  Maesto  Jacopo  chirurgo  veneziano,  ed  ebbe  le  insegne  da Nicolò  Genua  (voi.  49,  f.  4V)  ;  il  2  dicembre  1511  s'addottorò ugualmente  in  artibus  Girolamo  Oldoino,  e  fra  i  testimoni era  Marcantonio  Genua  figlio  del  dottore  Nicolò  (f .  84V)  ; il  13  ottobre  1512  ebbe  le  insegne  di  dottore  pure  in  artibus il  Magnifico  e  generoso  Francesco  del  fu  Chiarissimo  Ga- briele Morosini,  promotore  lo  stesso  Nicolò  Genua,  e  testi- moni  i   Magnifici   Giambattista   Spinelli  partenopeo,  dottore.] cavaliere,  conte  di  Cariato  e  oratore  massimo  di  Sua  Maestà Cattolica,  Pietro  Duodo,  podestà  di  Padova,  Alvise  Emo, Capitanio,  nonché  i  Reverendi  Leonardo  Contarini,  dottore in  artibus,  in  teologia  e  in  decreti,  e  Girolamo  Giustinian, canonico  patavino  (f.  I2ir).  Ed  altri  dottorati  ebbero  luogo,, come  può  vedersi  negli  stessi  Ada  della  Curia  Vescovile  e in  quelli  più  volte  ricordati  dell'Archivio  antico  dell'  Uni- versità, per  quanto  lacunosi.  Certo  è,  per  altro,  che  la  at- tività dello  Studio,  sia  per  il  minor  numero  degli  alunni, sia  per  scarsità  di  buoni  maestri,  fu  assai  ridotta  fino  alla ripresa  del  1518.  Nel  quale  anno,  al  io  giugno  (voi.  52,  senza numero  dei  fogh),  troviamo  il  dottorato  in  artibus  di  Spero- nello  figlio  dello  Spettabile  ed  esimio  dottore  Bernardino Speroni,  nobile  padovano,  presenti  come  testimoni  i  Ma- gnifici Paolo  Donato,  podestà,  e  Marcantonio  Loredan,  de- gnissimo capitanio,  non  che  i  tre  nobili  veneziani  Almorò Donato,    Pietro   Venier,    Giacomo   Loredan. Dopo  la  deportazione  a  Venezia  dei  fratelli  Alberto  e  Ro- berto Trapolin,  del  loro  nipote  Giulio,  lìglio  di  Pietro,  e  degli altri  che  s'erano  compromessi  nei  fatti  di  Padova,  «  più  di  100 per  sospetto,  oltra  li  ritenuti»  (M.  Sanudo,  IX,  73),  fu  fatto il  processo  a  carico  di  Alberto  Trapolin  «  fratello  di  misier Piero  dotor  excellentissimo,  el  qual  Alberto  era  di  XVI  al governo  di  Padoa,  homo  di  gran  inzegno,  et  anche  suo  avo  fo apicato  a  Padoa  a  tempo  di  la  novità  di  misier  Marsilio  di Carrara  dil  1437  »,  di  Lodovico  Conte,  «  fato  cavalier  per r  imperator  presente  novitev  »,  di  Bertuzi  Bagaroto,  «  dotor, qual  lezeva  publice  in  iure  canonico  a  Padova  et  havia  300 ducati  a  l'anno  di  la  Signoria,  era  richo  e  famoso  »,  e  di  Gia- como da  Lion  «  dotor,  el  qual  fé'  la  oration  a  l' imperator (cioè  poco  dopo  il  6  giugno;  l'orazione  è  riportata  da  M.  Sa- nudo, Vili,  468-469)  quando  se  deteno  padoani,  ne  la  qual dice  gran  mal  de'  venitiani  ».  Il  Consiglio  dei  X  con  la  Zonta fu  implacabile  con  questi  quattro  padovani,  che  vennero  im- piccati il  sabato,    dicembre  1509.  M.  Sanudo,  IX,  358-359, che  ci    alcuni  particolari  della  loro  impiccagione,  e'  informa anche  che  i  loro  beni  furono  confiscati,  e  aggiunge:  «  Restane a  spazar  li  altri  padoani  »! Della  fine  d'Alberto  Trapolin  e  dei  suoi  compagni  parla anche  il  vicentino  Luigi  da  Porto,  che  assistè  al  supplizio {Lettere  storiche....  dall'anno  i^og  al  1528....  per  cura  di  Bressan.  Firenze,  Le  Monnier,  1857,  lettera  ad  Antonio  Sa- vorgnan,  del  18  dicembre  1509,  pp.  147-153).  Del  Trapolin dice  «  che  era  profondissimo  filosofo  e  teneva  alquanto  del- l'epicureo »,    che  «  pareva  che  non  accettasse  con  tanta  ri- verenza, né  con  tanto  desìo  le  cose  sante  dette  da'  religiosi con  quanto  gli  altri  facevano;  ma  taciturno,  ovvero  dicendo alcuna  fiera  parola  contro  i  Viniziani,  aspettava  l'ora  del fine  suo».  E  dinanzi  alle  forche,  «voltato  messer  Bertucci  al Trapelino  disse:  '  Ecco  il  legno  della  nostra  croce  '.  '  Ecco —  rispose  egli    il  luogo  dove  la  nostra  innocente  vita  da una  ingiusta  morte   sarà  terminata  '  ». Pare  invece  che  Roberto  e  Nicolò,  altri  fratelli  di  Pietro, e  il  figlio  di  questo,  Giulio,  se  la  cavassero  a  buon  mercato. Poiché  di  Nicolò  ci  vien  narrato  (Papadopoli,  Hist. gymnasii  patav.  t.  II,  210,  n.  85)  che  andò  in  Germania  al seguito  dell'  Imperatore  Massimiliano,  da  cui  ebbe  onori,  e quindi  si  mise  al  servizio  di  Carlo  V,  prese  parte  all'espu- gnazione di  Tunisi,  della  quale  scrisse  la  storia;  infine  si  ricon- ciliò, già  vecchio,  con  Venezia,  e  potè  ritornare  a  Padova, ove  morì  a  94  anni  nel  1559.  Di  Roberto  Trapolin  consta (Padova,  Arch.  di  Stato,  Estimo  1518,  voi.  288  (289),  Polizze della  Città,  Polizza  49,  presentata  il  29  sett.  1518)  che  nel 15 18  si  trovava  ad  «  bavere  5  fioli,  4  menori,  de  li  quali.... tre  fiole  da  maridare  ».  e  che  egli  era  «  confinato  in  Venetia, dove  sto    egli  diceva    cum  spesa,    posso  veder  li  fatti miei  et  convegno  pagar  uno  fator  et  ogni  cosa  me  va  in  ruina  ». Il  31  luglio  1543  egli  era  già  morto  poiché,  Trapolin  de'  Tra- polin suo  figlio  presenta  a  nome  degli  eredi,  a  questa  data, la  prescritta  dichiarazione  all'ufficio  dell'estimo.  Di  Giulio  con- sta che  nell'ottobre  1515,  insiem.e  al  fratello  Alessandro,  ebbe procura  dalla  madre.  Maria  del  fu  Francesco  de'  RoselH,  nella causa  che  questa  aveva  intentato  per  l'eredità  paterna.  Gli stessi  Giuho  e  Alessandro  compaiono  ancora  insieme  alla madre  nel  contratto  di  nozze,  del  7  giugno  1518,  della  loro sorella  Alba  col  nobile  padovano  Gaspare  del  fu  Daniele Buzacarini,  abitante  nella  contrada  di  S.  Agnese  (Padova, Arch.  di  Stato,  Sez.  notar.,  Not.  Alessandro  Bragadin,  voi  1391, f.  48ir).  Ma  Giulio  morì  a  44  anni  nel  1529,  cioè  l'anno  stesso in  cui  sarebbe  morto  l'altro  fratello,  Antonio,  secondo  il  Fac- ciolati,  e  fu  sepolto  a  S.  Francesco,  insieme  al  padre,  prima che  la  tomba  di  famiglia  dei  Trapolin  divenisse  proprietà  dei 176        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI nobili  De  Lazzara,  figli  di  Marina  Trapolina,  che  non  è  detto in  quali  relazioni  di  parentela  fosse  col  filosofo  e  i  suoi  eredi (lac.  Salomonio,  Urbis  patav.  Inscriptiones,  Padova,  1701, p.  343,  n.  102).  Alessandro  invece  era  ancora  vivo  nel  1548, quando,  insieme  a  M.  Antonio  e  Pietro,  nipoti  del  filosofo, provvide  a  far  trasportare  nella  chiesa  dei  Carmini  le  ossa del  padre  e  della  madre  e  di  altri  suoi  maggiori,  in  una  tomba che  avesse  da  accogliere  lui  e  tutti  i  suoi,  come  si  legge  nel- r  iscrizione  riportata  dagli  storici  di  Padova  (PapadopoU, Hist.  gymnasii  patav.,  I,  p.  293,  n.  30);  anzi,  dalla  già  citata Polizza  49  dell'  Estimo  del  1518  risulta  ancor  vivo  il  3  mag- gio 1569. E  Francesco  Trapolin,  che sull'esempio  paterno  insegnò  a Padova  prima  la  logica,  indi  la  filosofia  naturale,  e  di  poi  la medicina  ?  I  documenti  padovani  tacciono  di  lui,  dopo  il  sac- cheggio della  sua  casa  nel  luglio  1509.  Può  darsi  ci  sia  qualcosa di  vero  nella  notizia  raccolta  anche  dal  Portenari,  Della  jelic. di  Padova,  p.  251,  che  egli  andasse  a  legger  medicina  a  Firenze. G.  Cesare  Scaligero,  De  subtilitate,  CLII,  dist.  i,  pretende  di sapere  che  «  Francesco  Trapolin,  precettore  di  Pietro  Pom- ponazzi,  che  anche  un'altra  volta  lo  Scaligero  chiama  suo precettore,  morì  per  aver  mangiato  un  intingolo  ove  la  do- mestica aveva  messo  della  cicuta  invece  di  prezzemolo.  Se non  che  precettore  del  Pomponazzi  non  fu  Francesco  Trapolin, ma  Pietro,  il  padre.  Lo  Scahgero,  o  meglio  Giulio  di  Benedetto Bordone,  addottorato  in  artihus  a  Padova  il  22  giugno  1519, mostra,  anche  per  questa  confusione,  di  riferire  dopo  molti anni  una  voce  raccolta  per  sentito  dire.  Certo  è  invece,  per l'attestazione  dell'Estimo  citato  (Polizza  51),  che  la  «  nobele Madonna  Maria  Trapolina  »  era,  nel  settembre  1518,  «  tu- trize  et  gubernatrice  de  i  fioli  del  q.  messer  Francesco  Tra- polin, q.  m.  piero....  )>.  A  questa  data  dunque  Francesco  era morto.  E  forse  suo  figlio,  se  non  di  Alessandro  o  di  Giulio, potrebbe  essere  quel  Pietro  Trapolin  che  figura  come  nipote nell'epigrafe  sepolcrale  dei  Carmeni  e  fa  denuncia  dei  suoi beni  all'ufficio  dell'  Estimo  il  30  marzo  1569  (Polizza  52,  f.  7). Costui  è  sicuramente  l'autore  delle  21  lettere  originaH  scritte fra  il  7  aprile  1556  e  il  2  marzo  1574,  a  Gian  Francesco  Mus- sato nel  Ms.  619,  2,  della  Biblioteca  del  Seminario  di  Padova. A  questo  figliuolo  Pietro  Trapolin  aveva  trasmesso,  col  con- ferimento delle  insegne  dottorali  in  filosofia,  e  in  medicina  il meglio  della  sua  arte,  ed  egli  avrebbe  dovuto  custodirne  l'ere- dità spirituale.  Invece  l'oblio  colse  il  figlio  anche  prima  del padre.  Poiché  se  di  quello  resta  appena  il  nome  nelle  carte sbiadite  della  Curia  Vescovile  e  dell'Archivio  antico  dell'  Uni- versità di  Padova,  di  questo  ci  son  pervenuti  almeno  i  pochi frammenti  menzionati  in  principio,  insieme  alla  gloria  d'es- sere stato  ricordato  dal  suo  grande  discepolo  ed  amico  Pietro Pomponazzi  come  suo  precettore  (Prologo  al  De  incantatio- nihiis)  :  «  Dicisque  ulterius  te  quandam  responsionem  alias a  Petro  Therapolino  patavo,  nostro  communi  praeceptore, audivisse,  quam  ipse  Alberto  ascribebat....  ». Queste  parole  sono  rivolte  a  Ludovico Panizza,  cui  il  Pe- retto  indirizzava  la  sua  opera;  sebbene  dalle  stampe  non  ap- paia, è  attestato  però  dal  codice  Ambrosiano  di  essa.  Ludo- vico Panizza,  mantovano,  era  studente  a  Padova  negli  ultimi anni  del  Quattrocento  e  nei  primi  del  Cinquecento;  e  nel voi.  47,  più  volte  citato,  di  quella  Curia  Vescovile  (f.  278V),  c'è anche  il  verbale  del  dottorato  «  in  artibus  et  Medicinis  D.  M.ri Ludovici  panicia  Mantuani,  filij  D.  Dominici  de  panici] s  », ov'  è  detto  che  dell'uno  e  dell'altro  grado  accademico  «  habuit insignia  a  D.  M.ro  Petro  trapolino  ».  Fra  i  testimoni  figura al  primo  posto  Pietro  Pomponazzi,  «  artium  doctor,  ordina- riam  philosophiam  legens  ».  Il  Paniza  è  autore  di  tre  opere  a stampa:  di  una  Qnestio  de  phlebotomiis  fiendis  (Venetiis,  per Bernardinum  Benalium,  M.  D.  XXXII),  dedicata  al  duca Federico  Gonzaga,  e  di  un  Commentarium  de  venae  sectione  per sex  egregios  et  praeclaros  iudices  diindicatum,  cui  si  trova  ag- giunto dello  stesso  autore  il  Lihellus  de  minoratione  ex  visce- ribtts....  ad  Herndem  Gonzagam  Principem  iustissimum  et Cardinalem  amplissinitmi  (Venetiis,  MDXLV).  Quest'ultimo volume  ha  in  principio  un  bel  ritratto  dell'autore  e  una  ta- vola raffigurante  i  sei  medici  e  filosofi  in  atto  di  giudicare  e approvare  la  sua  opera.  Nella  Qnestio  de  phlebotomiis ,  scritta contro  un  chiarissimo  medico  del  quale  non  è  indicato  il  nome, accade  al  Panizza  di  ricordare  l'antico  maestro  che  gli  aveva conferite  le  insegne  dottorali.  Accennando  ad  Avicenna  che fu  il  migliore  seguace  d'Aristotele,  dal  quale  discorda  solo «in  paucissimis  admodum  rebus»,  egli  continua  (f.  e.  4r; Sectio  II,  cap.  7): Ideo    Trapolinus,    preceptor    meiis,    sue    etatis    philosophorum ac    medicorum    gloria,    autoritate    Girardi    bolderii    Veronensis, 12 lyS        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI hanc  dicebat  profitentibus  arteni:  '  Insequimini  Avicennam, primo;  insequimini  Avicennam,  secundo;  insequimini  Avicen- nam, tertio  !  '. E  un  po'  più  giù  (f.  g.  2v  cap.  24),  a  proposito  d'un'argo- mentazione  «  subtilissima  et  tota....  metaphisicalis  »,  osserva: Ex  quo  non  mirum  si  medici  ista  non  intellexere,  artifices sensitivi  grossique  cum  sint;  stat  enim  in  abstractis  a  materia.... Sed  ex  sententia  perspicui  speculatoris  Petri  trapolini,  artifices huius  artis  res  tales  e  suis  expellere  mentibus  tenentur,  cum  me- dicina sit  de  immersis  in  materia  et  quandoque  feculenta  et  turpi. Ma  se  il  Paniza  ricorda  il  Trapolin  come  insigne  medico, M.  Antonio  Genua,  figlio  di  Nicolò  che  del  Trapolin  era  stato collega  per  molti  anni,  continuò  a  ricordarlo  (sicuramente l'aveva  conosciuto  da  ragazzo)  anche  come  filosofo  di  tendenze moderatamente  averroistiche,  insieme  al  Pomponazzi,  nel commento  al  De  anima,  stampato  postumo  (a  Venezia  nel  1576), ma  composto  almeno  un  ventennio  prima. Altre  notizie  su  questo  maestro,  amico  e  collega  del  Peretto Mantovano  non  sono  riuscito  a  rintracciare,  ed  ho  riunite quelle  che  ho  trovato  per  chi,  come  dicevo  e  come  mi  auguro, vorrà  intraprendere  più  ampie  ricerche  sullo  Studio  patavino nel  Rinascimento.  Intanto  son  lieto  di  potere  annunziare  che altre  notizie  e  documenti  sulla  famiglia  Trapolin,  coinvolta nelle  vicende  di  Padova  al  momento  della  guerra  per  la  lega di  Cambrai,  il  lettore  potrà  trovare  nella  A  Criticai  Edition of  the  «  Lettere  Storiche  »  0/  Litigi  da  Porto,  a  cura  di  Cecil H.  Clough,  in  corso  di  stampa  presso  1'  University  Press  di Oxford. vili I  QU  OLI  BETA  DE  INTELLIGENTIIS DI  ALESSANDRO  ACHILLINI  * I.  -  Se  a  Padova  il  decreto  episcopale  del  6  maggio  1489, vietava  di  disputare  «  quovis  quaesito  colore  »,  sotto  qualsiasi pretesto,  della  dottrina  averroistica  dell'  intelletto,  meno che  per  combatterla,  e  maestro  Nicoletto  da  Chieti  e  il  suo discepolo  Agostino  Nifo  da  Sessa  si  affrettavano  a  recitare  la loro  palinodia,  e  la  penna  a  impugnare  l'averroismo  brandiva anche  lo  scotista  francescano  Antonio  Trombetta  i,  a  Bologna, sotto  la  liberale  signoria  dei  Bentivoglio,  Alessandro  Achillini potè  liberamente  discutere,  al  capitolo  generale  dei  francescani tenuto  in  questa  città,  sotto  il  generalato  di  Francesco  San- *  Dal  voi.  Sigieri  di  Brab.  nel  pens.  del  Rinasc.  Ital.,  cit.,  pp.  45-90. I  II  francescano  frate  Antonio  Trombetta,  ordinario  di  Metafìsica  invia Scoti  a  Padova,  aveva  scritto,  prima  del  Vernia,  un  Tvactatiis  de  humana- ruiìi  animarmn  plurificatioiie  coìitra  Averroistas,  che  sarà  poi  pubblicato  a Venezia,  per  Bonetum  Locatellum,  nel  1498,  col  quale  scendeva  in  lizza  in difesa  della  proibizione  del  vescovo  P.  Barozzi.  Il  Wadding,  Scriptoves Ordinis  Minornni,  Roma,  1906,  p.  30,  e'  informa  che  taluni,  anzi  che col  nome  volgare  di  Trombeta  o  Trombetta,  preferivano  «  cultu  quodam latino  »  di  chiamarlo  con  quello  di  Tubefa;  e  Antonio  Tubefa  è  chiamato anche  nell'epitaffio  sepolcrale  nella  chiesa  di  S.  Antonio  a  Padova, che  il  Wadding  riporta.  Sul  finire  delle  Questione s  de  pliiritate  etc, cominciate  nel  settembre  1492  e  pubblicate  nel  1499  (v.  sopra, p.  108),  il  Vernia  scriveva  (f.  92)  :  «  Si  quis  vero,  per  resolutionem ad  immediata  et  per  divisionem  ad  minima,  argumentationes  contra Averroym,  in  hoc  quinto  [commento]  philosophice  discipline  depra- vatorem,  videre  desiderat,  videat,  opus  contra  ipsum  reverendi  sacre pagine  magistri  Antoni]  Trombetta,  philosophi  integerrimi  et  theologi excellentissimi,  provincie  sancti  Antoni]  Patavini  ministri  meritissimi. Nam  frustra  visum  est  mihi  tangere  que  ab  eo  mihi  amicissimo  sunt optime  declarata  ».  E  il  Trombetta,  che  è  il  primo  dei  tre  revisori  del- l'opera del  \  ernia,  rende  testimonianza,  a  sua  volta,  al  sapere  del  col- lega e  alla  fede  di  lui,  si  da  procacciargli  l'approvazione  del  sospettoso Barozzi. l8o        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI sone,  il  primo  giugno  1494,  presenti  forse  il  Nifo  e  Giovanni Pico  della  Mirandola,  i  suoi  Quoliheta  de  intelligentiis  ^,  in difesa  della  sua  interpretazione  sigieriana  della  dottrina  aver- roistica,  portata  alcuni  anni  più  tardi  a  Padova  dal  suo  «  fìdus Achates  »,  Tiberio  Bacilieri,  e  da  lui  stesso,  e  a  Padova  pro- fessata da  Geronimo  Taiapietra  e  da  Lorenzo  Venier  3,  quando ormai  il  Nifo,  che  n'era  stato  propugnatore  fin  dai  primi  anni del  suo  insegnamento  padovano  -,  l'aveva  apertamente  ri- pudiata. In  quest'opera  l'Achillini  è  sigieriano  da  principio  alla fine,  sebbene  egli,  secondo  un  costume  molto  diffuso,  non faccia  mai  il  nome  dell'averroista  brabantino    d'alcun altro,  tranne  si  tratti  di  Aristotele  o  d'Averroè  o  d'altra  auto- rità pari  a  queste.  E,  cosa  notevole,  le  opere  di  Sigieri  cui  egli attinge,  sono  quelle  stesse  dalle  quali  il  Nifo  prende  le  citazioni che  ho  riferito  nel  volume  su  Sigieri  di  Brahante  nel  pensiero del  Rinascimento  Italiano:  il  che  si  presterebbe  a  varie  con- getture. Come  sappiamo,  le  tesi  difese  da  Sigieri  nel  suo  trattato  De intellectu,  scritto  in  risposta  al  De  imitate  intellectiis  di  S.  Tom- maso,  erano   queste: i)  r  intelletto  possibile  è,  in    stesso,  l' infima  delle  so- stanze separate,  ed  è  unico  per  tutta  la  specie  umana  4; 2)  l'anima  intellettiva  dell'uomo  risulta  dall'unione  del- l' intelletto  possibile,  separato  ed  eterno,  colla  «cogitativa»  che 2  Alexandri  Achillini  bononiensis  de  intelligentiis  quolibeta  in quibus  quid  commenta[for]  et  Aristoteles  senserint  et  in  quo  a  veritate deviaverint  continetur.  Anno  domini  Mcccclxxxxiiij  Kalendis  iuniis  in capitulo  generali  minorum  edita  et  impressa  Bononie  impensis  Bene- dicti  Hectoris  [Faelli]  Bononiensis,  illustrissimo  Ioanne  secundo  Ben- tivolo  reipublice  Bononiensis  habenas  felicitar  moderante.  La  seconda edizione,  fatta  presso  lo  stesso  editore  Faelli,  porta  la  data  del  5  marzo 1506,  ed  è  dedicata  al  conte  Annibale  Rangoni,  che  giovinetto  aveva udito  l'Achillini  disputare  intorno  agli  argomenti  trattati  nel  libro  ed aveva  preso  attiva  parte  alle  dispute.  Intorno  al  Rangoni,  cfr.  G.  Ti- RABOSCHi,   Biblioteca  Modenese,   t.   IV,    1783,   pp.   252-256. 3  Per  il  Taiapietra,  vedi  più  oltre  il  saggio  X.  Per  Lorenzo  Venier, allievo  del  Bacilieri,  è  da  vedere  il  volume  di  Nicolò  Bonet,  Metaphys., naturai.  Philos.,  Praedicam.,  necnon  Theol.  natur.  Recogn.  ...  per  magnif. dom.  Laurentium  Venerium....  Venetiis,  Eredi  di  Ottav.  Scoto,  1505, con  lettera  del  Bacilieri  al  Venier,  e  dedica  di  questo  al  doge  Leonardo Loredan.  Le  note  marginali  del  Venier  risentono  dell'  insegnamento del  suo   maestro  bolognese. 4  Nifo,  De  intellectu,  I,  tr.  3,  e.  18;  tr.  4,  e.  io;  II,  II,  tr.  2,  e.  11; De   anime   beatit.,    I,    comm.    53;    cfr.    Sigieri  ìiel  pens. è  la  più  alta  delle  facoltà  di  cui  sia  dotata  l'anima  sensitiva dei  singoli  5  ; 3)  in  questa  unione  coi  singoli  l' intelletto,  uno  in  sé, acquista  un'esistenza  individuale  e  molteplice,  pari  al  numero dei  singoli  ^  ; 4)  mercé  questa  unione,  l'anima  intellettiva  può  dirsi forma  sostanziale  «inerente»  all'uomo,  e  non  soltanto  forma «assistente»;    che  da  essa  l'uomo  trae  il  suo  essere  specifico  di animale  ragionevole  7  ; 5)  r  intelletto  possibile  è  pura  potenza  priva  di  ogni  atto sostanziale;  soltanto  grazie  all'azione  dell'intelletto  agente la  sua  potenza  è  gradualmente  attuata  8; 6)  r  intelletto  agente  è  Dio  ;  ma  esso  può  dirsi  parte  della anima  umana  in  quanto  concorre  all'atto  dell'  intendere umano  e  alla  fine  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo  s'unisce all'intelletto  possibile  come  forma  9; 7)  r  intelletto  umano  può  arrivare  a  conoscere  le  sostanze separate  e  Dio  per  unione  intenzionale  colla  loro  essenza  '". Nel   «  libello  »   De  felicitate,   poi,   l'averroista  del  Brabante aggiungeva   quest'altre    tesi: 8)  nell'atto  intellettuale  col  quale  l' intelletto  possibile intende  nella  sua  essenza  V  intelletto  agente,  cioè  Dio,  con- siste formalmente  la  suprema  felicità  dell'uomo  in  questa  vita"  ; 9)  al  pari  dell'  intelletto  umano,  anche  le  altre  intelli- genze separate  conseguono  la  loro  beatitudine  nell'atto  col quale  intendono  l'essenza  divina  i-  ; 5  NiFO,  De  iutell.,  I,  tr.  3,  e.  18;  De  anima,  comm.  ad  III,  t.  e.  5;. cfr.  Sigieri,  pp.    15-ig. 6  NiFO,  De  intell.,  I,  3,  e.  18  e  26;  De  a>iima,  comm.  ad  III,  t.  e.  5: cfr.    Sigieri,   pp.    15-20. 7  NiFO,  De  ititeli.,  l,  tr.  2,  e.  8;  tr.  3,  e.  18  e  26;  De  anima,  comm. ad  III,  t.  e.  5;  cfr.  Sigieri,  pp.  15-20. 8  NiFO,  De  intell.,  I,  tr.  3,  e.  18;  tr.  4,  e.  io;  De  anima,  collect. ad  III,  t.  e.  14;  cfr.  Sigieri,  De  anima  intell.,  IX  (Mandonnet,  Sig. de  Brabant  et  l'averr.  latin,  llème  partie,  Louvain,  1908,  p.  171),  e  la quarta  delle  sei  Qitaestiones  naturales  edite  dallo  Stegmùller,  in  Rech. de  tìiéol.  anc.  et  méd.,  III,  1931,  pp.  179-180.  Cfr.  Sigieri,  pp.  17,  21,  28. Vedasi   anche    Giorn.    Crit.,    XX,    1939,    pp.    467-471. 9  NiFO,  De  intell.,  I,  tr.  4,  e.  io;  II,  tr.  2,  e.  17;  cfr.  Sigieri,  pp.  24-26. 10  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.  11;  De  anime  beatit.,  I,  comm.  53; V.   Sigieri,  p.   21. "  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.  2;  De  anime  beat.,  II,  comm.  21; V.    Sigieri,   pp.    24-27. 12  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.  2  e  17;  De  anime  beatit.,  II,  comm.  21; De  anima,  collect.  ad  III,  t.  e.   14;  v.   Sigieri.] o)    per  r  intelletto  umano,    per  le  altre  intelligenze separate,  «intellectio  qua  Deus  intelligitur  est  ipse  Deus» '3. Ora  tutte  queste  tesi  son  difese  dall' Achillini  nei  suoi  Qtioli- heta  de  intelligentiis;  anzi  la  massima  parte  di  quest'opera  del maestro  bolognese  è  dedicata  alla  trattazione  di  questi  dieci punti  svolti  negli  scritti  di  Sigieri,  dei  quali  il  Nifo  ci  ha  ri- velato l'esistenza;  il  che  m'  ha  recato,  quando  ho  potuto  ren- dermene conto,  non  poca  sorpresa. La  trattazione  dell'Achillini  verte  intorno  a  questo  problema fondamentale  :  «  Utrum  latitudo  intellectuum  sit  uniformiter difformis  ».  Per  intendere l'esatto  signiiìcato  di  questo  pro- blema, giova  ricordare  alcune  cose.  È  noto  che  Anassagora,  a spiegare  l'origine  del  movimento  fisico  che  separa  i  semi  delle cose  dal  \ny\La.  nel  quale  eran  tutti  confusi,  e  per  dar  ragione dell'ordine  che  s'osserva  nella  natura,  sentì  il  bisogno  di  porre una  mente  ordinatrice,  «non  mista  perché  dominasse ))i4. Ma  parve  a  Platone  e  ad  Aristotele  che,  pur  avendo  affer- mato un  così  operoso  principio,  Anassagora  non  ne  traesse tutto  il  vantaggio  che  poteva  e  non  gli  attribuisse  quella causalità  che  gli  sarebbe  spettata  nell'ordinamento  delle  cose. Perciò,  il  primo  ad  ogni  specie  di  cose  nel  mondo  sensibile fece  corrispondere  una  propria  idea  nel  mondo  del  pensiero; ed  il  secondo  pose  tante  menti  separate  quanti,  a  suo  modo di  vedere,  sono  i  movimenti  celesti.  Anzi  che  un  solo  intelletto, abbiamo  così  per  Aristotele  una  gerarchia  d' intelhgenze,  com- prese fra  due  termini  estremi:  l'intelletto  umano  in  basso,  e la  mente  del  primo  Motore  immobile,  puro  pensiero,  al  vertice. Come  le  idee  dei  generi  e  delle  specie  hanno  una  maggiore  o minore  estensione,  così  questi  intelletti  hanno  una  maggiore o  minore  capacità  d' intendere,  in  rapporto  alla  funzione  che ad  essi  è  riservata  come  motori;  poiché  non  va  mai  dimenti- cato che  solo  per  mezzo  del  movimento  Aristotele,  al  pari  di Anassagora,  era  giunto  ad  affermare  l'esistenza  d'una  prima Mente  motrice  dell'universo  e  di  altre  menti  intermedie  fra quella  e  il  mondo  della  generazione,  aventi  l'ufficio  di  adattare r  impulso  che  viene  dal  primo  Motore,  a  particolari  fini  su- bordinati al  fine  supremo.  Perciò  la  prima  Mente  è  intelli- genza al  massimo  grado,    mentre  gli  altri  intelletti,  giù  giù ^3  Luoghi  cit.  nella  nota  preced. 14  ARisT.,  De  anima,   di  cielo  in  cielo,  fino  all'  intelletto  umano,  possiedono  una capacità  d' intendere  sempre  più  limitata.  Rappresentandosi r  intelligenza  a  guisa  d'una  qualità,  per  esempio,  d'un  colore, di  cui  s'  hanno  molti  gradi  d' intensità,  da  quello  piìi  cupo  a quello  più  chiaro,  gli  scolastici  dal  secolo  XIV  al  XVI  solevano chiamare  latitudo  l'estensione  compresa  fra  la  cosa  che  pos- siede quella  data  qualità  nel  minimo  grado,  e  la  cosa  che  la possiede  nel  grado  più  alto  e  più  intenso:  perciò  la  latitudo dell'intelligenza  non  è  altro,  come  dice  l'Achilliniis,  se  non  la gerarchia  stessa  degl'  intelletti,  avente  il  grado  più  basso  o  più dimesso  nell'  intelletto  umano,  e  il  grado  più  alto  o  più  intenso neir  intelletto  divino.  Chiedersi  se  la  latitudo  degl'  intelletti sia  «  uniformiter  difformis  »,  significa  per  lui  domandarsi  se le  varie  intelligenze  differiscon  fra  loro  per  gradi  uguali  op- pure  no  16. Ma    per    risolvere    siffatto    problema,    è    necessario    vedere qual'  è  la  natura  propria  dei  singoli  intelletti  compresi  nella 15  «  Latitudo  intellectuum  est  ipsi  intellectus  ordinati  secundum quod  ex  se  sunt  ordinabiles  ».  De  intelligentiis,  quol.  I,  in  Alex.  Achil- LiNi,  Bononiensis,  philophi  celeberrimi.  Opera  omnia  in  iDium  collecta.... cum  annotationibus  excell.  doctoris  Pamphili  Montij,  Bononiensis, scholae  Patavinae  publici  professoris.  Venetijs,  apud  Hieronymum Scotum,  MDXLV,  fol.  i,  col.  i.  A  questa  edizione  mi  riferisco  anche nelle  citazioni  successive,  per  ragioni  di  comodità. 16  In  un  trattatello  De  latitudinibus  formarum,  più  volta  stampato dal  i486  in  poi  sotto  il  nome  di  Nicolò  d'Oresme,  si  leggono  in  principio queste  definizioni  che  giova  tener  presenti  :  «  Latitudo  uniformis  est illa  que  est  eiusdem  gradus  per  totum  ».  «  Latitudo  difformis  est  que non  est  eiusdem  gradus  per  totum  ».  Questa  si  divide  come  segue: «  Latitudo  secundum  se  totam  difformis  est  cuius  nulla  pars  est  uni- formis »;  «  latitudo  non  secundum  se  totam  difformis  est  illa  cuius  aliqua pars  est  uniformis».  La  «latitudo  uniformiter  difformis»  è  una  sotto- specie della  «  latitudo  secundum  se  totam  difformis  »,  ed  è  precisamente quella  «  cuius  est  equalis  excessus  graduum  Inter  se  equaliter  distan- tium  »  {Tractatus  de  latidinibus  formarum  secundum  Reverendum  dodo- rem  magistrum  Nicholaum  Horen,  Venezia,  1505,  [fol.  27]).  Sul- l'autore di  questo  piccolo  trattato,  l'eremitano  Iacopo  di  San  Martino, detto  anche  Iacopo  da  Napoli,  il  quale  riassunse  e  schematizzò,  non  del tutto  fedelmente,  un  più  ampio  trattato  di  Nicolò  d'Oresme,  come  sul sommento  di  Biagio  Pelicani  da  Parma  che  insegnò  anche  a  Padova  e a  Bologna,  e  in  generale  sul  tentativo  di  costituire  verso  la  metà  del sec.  XIV  un  metodo  matematico  per  il  calcolo  dell'  intensità  delle  qua- lità non  solo  corporee  ma  anche  spirituah,  completa  luce  ha  fatto  la Dott.  Anneliese  Maier,  nella  sua  opera  An  der  Grenze  von  Scholastik iind  Naturwissenschaft.  Roma,  Ediz.  di  Storia  e  Letter.,  1952.  pp.  257-384, che  è  uno  dei  più  seri  e  documentati  contributi  allo  studio  della  filosofia della  natura  nel  secolo  XIV,  condotto  con  rara  conoscenza  delle  fonti manoscritte,  e  perfetta  intelligenza  dei  problemi  trattati. 184        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI latitudo  di  quella  perfezione  o  qualità  che  dicesi  intelligenza:  e segnatamente  se  il  primo  e  più  alto  intelletto  sia  intelligenza infinita.  Nel  qual  caso,  è  evidente  che  la  latitudo  dell'  intelli- genza sarebbe    infinita. Occorre  pertanto  chiedersi  in  primo  luogo  se  il  primo  Mo- tore, cioè  Dio,  muova  l'universo  con  vigore  o  virtù  intensiva- mente infinita,  e  sia  perciò  di  vigore  intensivamente  infinito. Per  intendere  il  significato  del  qual  problema,  è  necessario ricordare  che  l'argomento  principale,  col  quale  Aristotele  era salito  a  Dio,  è  quello  del  moto,  come  abbiamo  già  osservato: Dio  è  essenzialmente  il  primo  Motore  immobile  dell'  universo, è  l'universo  è  il  mosso.  Ora  l'universo,  per  Aristotele  come pei  Pitagorici,  è  una  sfera  di  raggio  finito,  avente  per  centro assoluto  la  terra  e  per  limite  esterno  il  cielo  delle  stelle  fisse. Finito  nella  mole,  il  mondo  si  muove  con  moto  finito  in  ve- locità, e  infinito  soltanto  in  durata,  poiché  l'universo  è  eterno. Dall'  intensità  del  moto  dell'universo  non  si  può  dunque  ar- guire ad  un'  infinità  intensiva  della  virtù  o  vigore  con  cui  Dio- muove  il  mondo.  Ed  infatti  Averroè  dice  espressamente  in più  luoghi  17,  che  v'  è  proporzione  tra  l' intensità  di  vigore  nel movente  e  la  velocità  del  mosso;    che un'azione  d'intensità infinita  e  d' infinito  vigore  non  può  esser  ricevuta  in  un  corpo di  grandezza  finita.  Se  il  primo  Motore  movesse  il  cielo  con virtù  intensivamente  infinita,  questo  dovrebbe  muoversi  con velocità  infinita  in  un  solo  istante.  S.  Tommaso  credette  di potersi  sottrarre  alla  conclusione  cui  era  giunto  Averroè,  con- cedendo che  tutto  ciò  è  vero  dei  motori  naturali  che  mettono nel  muovere  tutta  la  forza  di  cui  sono  capaci;  ma  non  è  vero dei  motori  che  agiscono  con  intelletto  e  libera  volontà,  qual è  Dio.  Il  primo  Motore  dell'universo,  per  l'Aquinate,  appunto perché  dotato  d' intelligenza  e  di  libero  volere,  comunica  al mondo  quel  tanto  di  movimento  che  meglio  si  conviene,  in rapporto  al  fine  che  si  propone  di  raggiungere  e  alla  capacità limitata  del  mosso;  ma  questo  non  implica  che  vi  sia  una proporzione  necessaria  tra  la  quantità  di  movimento  ricevuta dal  mondo  e  la  virtù  del  primo  Motore,  l' infinità  della  quale può   dimostrarsi  per  altra  via  i^. 17  AvERR.,  Phys.,  Vili,  comm.  79;  De  caelo,  II,  comm.  38-39,  63,  71  ; Metaph.,   XII,   41;   De  substantia  orbis,  cap.   3. 18  S.  Tommaso,  Phys.,  La  proposizione  29^  delle  219  condannate  a  Parigi  nel  1277, suona  così: Quod  Deus  est  infinitae  virtutis  in  duratione,  non  in  actione, quia  talis  infinitas  non  est  nisi  in  corpore  finito,  si  esset. E  di  nuovo  la  proposizione  62^: Quod  Deus  est  infinitae  virtutis,  non  quia  facit  aliquid  de nihilo,    sed   quia   continuat   motum   infinitum  '9. La  condanna  di  queste  due  proposizioni  è  sicura  prova  che, anche  su  questo  punto,  gli  averroisti  parigini  accettavano r  interpretazione  che  Averroè  aveva  dato  del  pensiero  d'Ari- stotele. Era  di  questo  avviso  anche  Sigieri  ?  «  De  ista  quae- stione  »,    e'  informa  Giovanni  di  Jandun  -o    «  credunt magni  viri  in  philosophia,  Philosophum  et  maxime  Commen- tatorem  veritati  catholicae  adversari  ».  Che  egli  alluda  a  S. Tommaso  non  è  possibile,  poiché  l'Aquinate  scagionava  Ari- stotele da  quest'accusa  d'opporsi  alla  verità  della  fede  su quest'argomento.  Doveva  dunque  trattarsi  d'averroisti.  Ora «  vir  magnus  in  philosophia  »  è  titolo  che  troviamo  dato  a Sigieri.  Parrebbe  dunque  che  Sigieri  accettasse  l' interpreta- zione averroistica  della  dottrina  aristotelica  in  proposito. Il  che  è  confermato  anche  dall'ultima  citazione  che  del  bra- bantino  abbiamo  trovato  nel  De  primi  Moforis  infinitate  del Nifo.  A  quanto  ci  fa  sapere  il  suessano,  Sigieri  e  Giovanni  di Baconthorpe  «  petunt....  primum  Motorem  esse  universi  mobilis celestis  formam  perficientem  et  non  constitutam  »  e  che  esso  è «  prima  illius  perfectio  »,    da  potere  affermare  che,  almeno per  accidens,  si  muove  insieme  al  cielo  -i. Siccome  la  quistione  concerneva  direttamente  l'onnipotenza di  Dio  e  la  sua  trascendenza,  s'era  accesa  in  proposito  un'ap- passionata e  interminabile  controversia  che  si  protrasse  fin oltre  il  secolo  XVI,  poiché  troppo  premeva  ai  teologi  aver dalla  loro  parte  Aristotele.  Soltanto  quando  si  comprese  che la  filosofìa  aristotelica  non  era  tutta  la  filosofia,  l'ardore  della controversia  cominciò   a  venir  meno  --. 19  Denifle  e  Chatelain,   Chart.  univ.  Paris.,   I,   544  sg. -0  Quaestiones  super  Averrois  sermonem  de  substantia  orbis,  q.  12. -I  V.  Sigieri,  p.  41. 22  Giovanni  di  Jandun,  oltre  che  nelle  Quaestiones  sul  De  substantia  or- bis,  discute  il  problema  «  utrum  primum  Principium  sit  infiniti  vigoris  » lS6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI L'Achillini,  da  quel  buon  averroista  ch'egli  è,  ci    del problema  questa  soluzione:  «  Primum,  mens  Philosophi  fuit deum  esse  finiti  vigoris.  Secundum,  ad  oppositum  est  veritas  ». Provata  la  prima  parte  della  tesi,  riferisce  le  obiezioni  «  centra Philosophum  »,  alle  quali  fa  seguire  la  risposta  d'Aristotele. Ma  nel  far  questo,  che  è  un  procedimento  generale  seguito  in tutti  e  cinque  i  Quolibeta,  l'Achillini  si  mette  al  riparo  da  ogni accusa  d'eresia  con  questa  tipica  dichiarazione,  fatta  una volta  per  sempre  :  «  Ad  haec  praemitto  quod  ubi  Philosophum introducam  respondentem,  non  teneo  responsionem  illam»^!. Dopo  ben  cinque  fitte  colonne  di  serrate  schermaglie  dialet- tiche e  di  citazioni  di  testi,    da  darci  l' impressione  che  egli la  pensi  proprio  come  Aristotele  e  il  suo  «  ottimo  commen- tore »,  eccolo  a  dichiararci: Sed  quia  haec  opiiiio  in  phiribus  errat,  ut  patet  consideranti ea  in  quibus  introducitur Philosophus  respondens,  ideo,  ea  di- missa,  pone  secundum  dictum  principale  :  Deus  est  infiniti  vigoris in  essendo  et  operando  in  tempore  et  actione.  Ex  quo  sequitur infinitam  esse  intellectuum  latitudinem  24. E  le  prove  di  questa  tesi  ?  Nessuna,  tranne  quel  patet,  che non  è   affatto  una  prova.   Seguono  invece   quattro  obiezioni anche  nelle  Quaestiones  sulla  Metafisica  (XII,  q.  15)  e  in  quelle  sulla Fisica  (Vili,  q.  22)  :  e  tutte  e  tre  le  volte  con  molta  ampiezza.  Lo  stesso problema  è  ventilato  da  Duns  Scoto,  Qiiodl.,  q.  7,  da  Giov.  di  Bacon- thorpe.  In  I  Seni.,  dist.  44-45,  da  Gregorio  da  Rimini,  In  I  Seni.,  dist.  42, q.  3,  a.  I,  e  più  tardi,  ma  anche  con  maggior  copia,  dal  Nifo,  dall' Achil- lini,  da  Tommaso  de  Vio,  detto  il  Cardinal  Gaetano,  che  nella  sua  Subti- lissima  quaestio  de  Dei  gloriosi  infinitate  intensiva,  terminata  a  Pavia, il  IO  settembre  1499,  credo  abbia  raggiunto  il  primato  della  prolissità (è  stampata  in  appendice  al  commento  tomistico  della  Fisica,  Ve- nezia, 1573,  pp.  316-335),  si  da  superare  lo  stesso  Elia  del  Medigo,  detto altresì  Helias  Cretensis,  il  quale  tratta  di  quest'argomento  nella  sua interminabile  De  primo  Motore  acutissima  quaestio  (in  appendice  alle Quaestiones  di  G.  di  Jandun  sulla  Fisica,  Venezia,  1552,  f.  133,  col.  1-4) e  nelle  Annotationes  in  dictis  Averrois  super  libros  Physicorum-  {ib., fol.  153,  col.  4,-f.  155,  col.  4).  Vedasi  anche  M.  A.  Zimara,  Theoremata, 61,  e  Fr.  Piccolomini,  De  caelor.  motoribus,  33-35.  Giordano  Bruno, nel  primo  dialogo  De  l'infinito,  universo  e  mondi  (in  Dialoghi  italiani, Sansoni,  Firenze,  1958,,  pp.  387-88), accenna  all'  «  importantissimo  ar- gomento, per  il  quale    dice  Elpino    è  stato  ridutto  Aristotele  a negar  la  divina  potenza  infinita  intensivamente  ».  La  soluzione  che  del problema  affaccia  Filoteo,  il  quale  dall'  infinità  di  Dio  ha  dedotto r  infinità  dell'universo,  consiste  nel  cambiarne  i  termini,  si  da  mo- strarlo definitivamente  superato. 23  AcHiLLiNi,   De  intell.,  ql.   contro  quest'asserto,  alle  quali  il  filosofo  bolognese  fa  del  suo meglio  per  rispondere  in  una  mezza  colonna,  osservando, alla  fine,  che  «  rationes  philosophorum  super  dictis  ab  eis fundantur;  ideo  non  difficile  est  eas  solvere»  =5.  Ma  intanto non  le  risolve. A  questa  che  è  la  quaestio  principale  del  primo  Quolibetum. tengon  dietro  tre  duhia,  coi  quali  si  tende  a  precisar  meglio il  concetto  aristotelico-averroistico  di  Dio  e  a  porre  in  evidenza taluni  postulati  della  soluzione  data  al  problema  principale. Il  primo  di  questi  dubbi  consiste  nel  chiedersi  «  utrum  tantum deum  deus  intelhgat  »,  cioè  se  Dio  conosca  soltanto    stesso oppure  anche  le  cose  inferiori  ad  esso  e  segnatamente  quelle del  mondo  sublunare.  Anche  su  questo  punto  l'Achillini  è averroista: Respondeo  per  duo  dieta.  Primuni:  opinio  Aristotelis  est,  quod sic.   Secundum:  illa  opinio  non  est  vera -6. La  prima  affermazione  è  provata  con  ben  sei  gruppi  di  argo- menti, che  in  tutto  assommano  a  venticinque.  La  conclusione dei  quali  è  la  seguente: Ex  his  de  mente  Philosophi  habentur  quinque;Primum, deus  intelligit  se  et  non  aliud.  Et  si  dixeris:  verum  est  recipiendo, sed  aliter  non -7;  dicam  quod  non  potest  aliquid  intelligere  aliud a  se,  nisi  recipiendo;  ideo  non  potens  recipere,  non  potest  intel- ligere aliud.  Productio  autem  vilium  non  infert  passionem  in agente;  ideo  quamvis  deus  non  intelligat  vilia,  producere  tamen potest.  Secundum,  aliae  intelligentiae  in  actu  intelligunt  se  et perfectius    se    et    nihil    vilius    eis.    Tertium,  intellectus   possibilis ^5  Ib.,  f.  2,  col.  3. 26  Fol.  2,  col.  3. 27  Così  appunto  dicevano  i  teologi:  Dio  non  intende  le  altre  cose  di- verse da  sé,  nel  senso  che  la  mente  divina  sia  attuata  da  un  qualche altro  intelligibile  diverso  dalla  sua  stessa  essenza,  e  dinanzi  al  quale esso  sia  in  potenza;  Dio  conosce  le  altre  cose  conoscendo  se  stesso,  e quindi  senza  niente  ricevere.  La  condanna  che  il  vescovo  di  Parigi, Stefano  Tempier,  fece  nel  1270  di  tredici  proposizioni  averroistiche,  e che  è  il  primo  sicuro  documento  dell'  esistenza  d'una  corrente  averroi- stica  a  Parigi,  colpisce  queste  due  proposizioni:  «Quod  Deus  non  co- gnoscit  singularia  «  e  «  Quod  Deus  non  cognoscit  alia  a  se  >>.  Cfr.  De- NiFLE  e  Chatelain,  I,  pp.  486-487.  Tuttavia,  leggendo  attentamente il  commento  d'Averroè,  Metaph.,  XII,  comm.  51,  e  la  Desfriictio  de- structionum,  disp.  VI,  dub.  3-4,  nasce  il  sospetto  che  il  suo  pensiero  non sia  stato  ben  compreso.  Si  veda  in  proposito,  Giov.  di  Baconthorpe, In  I  Sent.,  dist.   35  e  39;   M.  A.   Zimara,    Theoremata.] intelligit  se  viliora  et  nobiliora.  Quartuin,  nullus  intellectus, nisi  forte  possibilis,  intelligit  aliquid  extra  se.  Quintum,  deus est  simpliciter  primo  notum;  sed  primum  principium  complexum, de  quo  quarto  Metaphysicae,  commento  octavo,  est  notissimum nobis  28. Ai  venticinque  argomenti  coi  quali  è  provata  la  tesi  averroi- stica,  se  ne contrappongono  sedici  ;  ma,  mentre  i  primi  restano insoluti,  ai  secondi  è  data  una  soluzione  dal  punto  di  vista averroistico.   Dopo  di  che  l'Achillini  s'affretta  a  concludere: Sed  propter  multa  falsa,  quae  sequuntur  ad  hanc  positionem, eam  cum  auctoritatibus  eius  dimittamus.  Tenemus  igitur  quod Deus  cognoscit  omnia;  ex  quo  sequitur  quod  non  omnis  intellectus intelligens  aliud  a  se  patitur  ab  eo.  Sequitur  secundo,  quod  non omnis  intellectio,  qua  materialia  intelliguntur,  est  collecta  ab intellectu  agente  ex  singularibus.  Ex  his  duobus  fundamentis solvuntur  rationes  philosophorum,  quia  super  oppositis  corol- lariorum   fundantur  29. Il  secondo  diibium  concerne  la  causalità  efficiente  del  primo Motore.  Aristotele    aveva  detto  che  la  prima  Intelligenza muove  le  intelligenze  preposte  al  movimento  dei  singoli  cieli, come  bene  supremo  da  esse  conosciuto  e  desiderato,  ossia come  fine  ultimo  cui  tutte  le  cose  tendono.  Il  problema  che pone  il  maestro  bolognese,  «  utrum  prima  Forma,  quae  est ultimus  Finis,  sit  primus  Motor  »,  verte  non  sull'  attrattiva che  Dio  esercita  sugli  esseri  in  quanto  «  amor  che  muove  il sole  e  le  altre  stelle  »,  bensì  sul  movimento  rotatorio  della prima  sfera  mobile.  Secondo  un'  interpretazione  del  pensiero d'Aristotele  e  del  suo  commentatore  di  Cordova,  Dio  muove i  cieli  soltanto  per  mezzo  d'un  motore  appropriato,  cioè  d'un'  in- telligenza, la  quale  è  mossa  dal  desiderio  di  assomigliare  al primo  Motore  31.  Secondo  un'altra  interpretazione,  invece, Dio  muove  il  primo  cielo  mobile  immediatamente  v-  ;  e  poiché il  primo  mobile  rapisce  col  suo  impeto  tutti  gli  altri  cieli,  ne 28  ACHILLINI,     fol.     3,     col.     2. 29  Fol.  4,  CI. 30  Metaph.,  XII,  e.  7,   10720  2-4   (t.  e.  37). 31  Giov.  DI  Jandun,  Quaestiones  sup.  Metaph.,  XII,  q.  17,  Quaest. sup.   Phys.,   Vili,    q.    21. 32  Cfr.  M.  A.  ZiMARA,  Quaestio  de  triplici  cansalitate  intelligentiae (in  appendice  alle  Quaestiones  di  G.  di  Jandun  sulla  Metafisica,  Venezia, 1525,  fol.   170,  col.   2-4);    Theoremata viene  che  il  primo  Motore  esercita  su  tutto  l'universo  una  vera e  propria  azione  di  causa  efficiente  e  non  soltanto  di  causa  finale. Sigieri,  a  quanto  sappiamo  dall'ultima  citazione  del  Nifo,  ri- teneva che  il  primo  Motore  fosse  addirittura  forma  e  perfe- zione del  cielo,  a  tal  segno  che  si  muove  per  accidens  insieme ad  esso  ;  nel  che  egli  non  faceva  se  non  ripetere  una  dottrina d'Averroè,  il  quale  in  più  luoghi  insiste  sul  concetto  che  il primo  Principio  è  tale  in  quanto  è  fine,  forma  e  motore  del- l'universo 33. L'Achillini  risolve  il  dubbio,  dimostrando  con  quattordici argomenti  che  Dio  imprime  al  mondo  un  movimento  effettivo come  primo  Motore  di  esso;    questa  volta  ha  bisogno  di distinguere  tra  l'opinione  di  Aristotele  e  la  verità,  poiché «  Philosophus  in  hoc  quaesito  non  recedit  a  veritate  »,  quanto all'asserto  della  causalità  efficiente  ;  ma  osserva  che  si  discosta dal  vero  in  un  particolare:  «  sed  bene  in  circumstantia:  quia dictum  est  de  mente  eius,  quod  Deus  est  motor  immediate  et appropriate  movens  caelum,  et  quod  nulla  alia  intelligentia ab  ipso  movet  primum  caelum;  sed  hoc  non  est  verum  etc.))34. Ed  infatti  la  tesi,  che  il  moto  del  primo  cielo  derivi  immedia- tamente da  Dio,  si  basa  sul  concetto  che  Dio  è  forma  del primo  cielo.  Ora  questo  concetto  è  schiettamente  averroistico, ed  è  uno  dei  presupposti  della  teoria  che  dalla  finita  grandezza del  moto  celeste  deduce,  come  abbiamo  visto,  il  vigore  finito del   primo    Motore. Questo  necessario  reciproco  rapporto  tra  Dio  e  il  mondo  si scorge  anche  meglio  nella  discussione  del  terzo  dubbio  :  «  Utrum Deus  libere  moveat  caelum  ».  Neil'  interpretazione  averroi- stica  del  pensiero  d'Aristotele,  se  Dio  è  necessario  a  spiegare l'esistenza  del  moto,  e,  diciamo  pure,  l'esistenza  del  mondo stesso,  è  altrettanto  vero  che,  posta  l'esistenza  del  primo  Mo- tore e  della  prima  Causa  efficiente,  questa  e  quello  agiscon come  natura  anzi  che  come  libera  volontà  creatrice.  «  Sigieri non  sembra  aver  concepito  la  possibilità  d'una  vera  libertà creatrice,  che  a  lui  pare  esclusa  tanto  dall'  immutabilità divina  quanto  dalla  necessità  delle  specie »3\  Posto  Dio  come 33  AvERR.,  Metaph.,   X,  comm.    7;   XII,  comm.   5-6,   36,   38,  41,  44; De  subst.  orbis  capp.   1-2. 34  AcHiLLiNi,   fol.   4,   col.   4. 35  F.  Van  Steenberghen,  Les  oetivres  et  la  doctrine  de  Siger  de  Bra- bant,  Bruxelles,  1938,  p.   128;  Sig.  de  Brab.  d'après  ses  oeuvres  inédites, igo.] prima  Causa  motrice  del  mondo,  questo  ne  risulta  necessaria- mente, come  la  conseguenza  dalle  premesse  d'un  sillogismo. Aristotele  aveva  ben  fermato  la  sua  attenzione  sugli  eventi che  si  dicon  contingenti  e  fortuiti;  ma  anzi  che  dedurre  la contingenza  di  tutti  gli  esseri  creati  dall'essenziale  libertà  del pensiero  divino,  aveva  imposto  allo  stesso  pensiero  divino  e all'atto  creatore  la  necessità  del  suo  astratto  formalismo logico,  e  la  contingenza  e  il  caso  aveva  limitato  al  mondo  su- blunare, spiegando  l'una  e  l'altro  per  mezzo  del  concetto  delle '(  cause  impedibili  »  e  dell'  «  indisposizione  della  materia  »  che spesso  è  sorda  a  rispondere  all'  intenzione  dell'arte.  Pur  tra- scendente o  «  separato  »,  il  primo  Motore  resta  così  prima  forma e  prima  perfezione  dell'universo,  al  quale  è  intimamente  unito non  come  forma  «  constituta  per  subiectum  »,  bensì  come forma    «  constituens    subiectum  »  36. Per  dimostrare  la  tesi,  che  secondo  Aristotele  Dio  muove  il cielo  per  sua  natura  e  non  liberamente,    da  poter  non  muo- verlo o  mutarne  la  velocità  e  la  direzione,  l'averroista  bolo- gnase  argomenta  così:  tutto  ciò  che  si  muove  per  un  principio essenziale  che  è  in  esso,  si  muove  per  sua  natura;  ma  questo è  il  caso  del  cielo;  dunque  esso  è  mosso  naturalmente 37.  Se  il primo  Motore  potesse  non  muovere  oppure  muovere  in  modo diverso  da  quel  che  fa,  il  mondo  potrebbe  esser  diverso  da quello  che  è,  e  anche  non  essere.  Ma  tutte  queste  conseguenze sono  impossibili  per  Aristotele,  che  dall'  immutabilità  del primo  Motore  deduce  la  necessità  e  l'eternità  dell'universo, come  d'un  effetto  connaturale  e  inseparabile  dalla  sua  causa. Puro   atto  senza  alcuna  potenza,   Dio   causa   dall'eternità  il II  voi.,  Louvain,  1942,  p.  607.  Tale  è  il  pensiero  di  Siglari  in  tutti  gli scritti  intestati  a  lui  dai  codici.  Per  attribuirgli  con  qualche  fondamento la  tesi  opposta,  bisogna  supporre  che  siano  sue  le  Quaestiones  sulla Fisica  edite  dal  Delhaye  (cfr.  Giorn.  Crii.,  XXIV,  1943, pp.  85-90). Ma  per  farlo  manca  ogni  serio  indizio  esterno,  e  le  prove  interne  sono troppo    deboli. 36  Si  veda  il  passo  del  Nifo  riportato  in  Sigieri....  p.  41.  Su  questa distinzione  ricavata  da  diversi  luoghi  di  Averroè,  cfr.  dello  stesso  Nifo il  commento  al  De  anima,  III,  ad  t.  e.  5,  già  riferito  in  Sigieri,  p.  15. Vedasi  anche  l'Appendice   nello   stesso   volume,    pp.    175-176. 37  AcHiLLiNi,  Quol.  I.  dub.  3,  fol.  5,  e.  i  «  Omne  quod  movetur  per principium  quod  est  in  eo,  movetur  per  naturam,  octavo  Physicorum, t.  e.  27.  Intelligo  in  subiecto  maioris:  per  se  primo,  et  non  secundum accidens;  et  tunc  patet  propositum  ex  diffinitione  naturae,  secundo  Phy- sicorum, t.  e.  3.  Sed  caelum  movetur  per  principium  etc,  ut  vult  Com- mentator  Aristotelem  declarasse  in  principio  septimi  Physicorum,  etc.  ». I    '( mondo  con  ordine  e  moto  necessario.  Dal  che  «  sequitur  nullam esse  in  rebus  libertatis  contingentiam,  ad  quas  non  concurrit homo  »  ;  poiché  la  ragione  della  contingenza  dell'umano  ar- bitrio consiste  nel  modo  di  conoscere,  essenzialmente  discor- sivo, che  è  proprio  dell'uomo;  di  guisa  che  la  mente  umana, procedendo  per  composizione  e  divisione  di  concetti,  «  potest aftìrmativam  vel  negativam  [partem]  concludere,  et  conse- quenter  ad  utramque  partem  possibilis  est  assensus  ».  Or questo  non  accade    nelle  altre  intelligenze  superiori  all'umana, né,  tanto  meno,  nella  prima  Intelligenza  38. Necessario  a  render  ragione  della  realtà  dell'universo,  dei movimenti  celesti  e  di  ogni  accadere,  il  primo  Motore  d'Ari- stotele non  ha  altra  realtà,  per  l'averroista,  all'  infuori  di questa,    altra  ragione  di  essere  che  questa:  senza  il  mondo da  esso  causato  e  mosso,  il  primo  Motore  non  sarebbe  nulla. Perciò  Dio  e  mondo  formano  un  binomio  indissolubile,  come amore  e  cuor  gentile  nella  canzone  guinizelliana,  come  il  sole e   il   suo   risplendere: ch'adesso  che  fo  il  sole sì  tosto  lo  splendore  fo  lucente, né  fo  avanti  il  sole. Contro  questa  dottrina  del  Filosofo,  qual'era  intesa  ed  espo- sta dal  Commentatore  di  Cordova,  l'Achillini  riferisce  ben diciotto  argomenti,  avendo  però  cura  di  farci  sapere  che  cosa gli  averroisti  rispondevano.  Dopo  di  che  conclude,  secondo  il suo   costume  : His  praetermissis,  ad  veritatem  revertamur,  et  dicamus  Deiim ad  extra  mere  libere  et  contingenter  agere.  Concedanius  insuper quod  in  Deo  esse  et  agere  sunt  idem,  et  tamen  non,  si  necesse  est Deum  esse,  necesse  est  Deum  agere  ad  extra.  Dicamus  tertio quod,  licet  necessitas  sit  melior  conditio  essendi,  non  tamen  est melior  conditio  operandi  ad  extra.  Ncque  immutabilitas  divina toUit  novitatem  in  effectu,  quia  ab  aeterno  determinavit  Deus agere  nunc.  Ideo  contra  philosophos  dicamus,  quod  ab  antiqua vohmtate  potest  aliquid  novi  poni  in  esse,  sine  mutatione  operan- tis,  aut  remotione  impedimenti  etc.  Addo  insuper,  licet  necesse sit  Deum  esse  productivum  ad  extra,  non  tamen  necesse  est  ipsum producere  ad  extra.  Concedo  etiam  nullam  rem  quae  est  Deus esse   contingentem  ;    dimitto   naturam   assumptam,    et   tamen    de 38  ib.,  fol.  5,  col.  1-2. ig2 Dee  formabiles  sunt  propositiones  per  accidens  et  contingentes, propter  connotationem  extrinseci.  Neque  propter  hoc  quod  Deus multa  producibilia  potest  producere,  quorum  nullum  producet, concedendum  est  potentiam  divinam  frustrari,  quia  reduci  potest et  in  aliquo  illius  generis  reducta  est  in  actum  39. Con  queste  proteste  di  attaccamento  all'  insegnamento teologico,  ha  termine  il  primo  qiiolibetum  che  tratta  dell'  in- telletto del  primo  Motore,  la  cui  latitudo  è  dunque  finita  com'  è finita  la  grandezza  del  mondo  e  del  movimento.  L'opposizione fra  la  tesi  averroistica  e  quella  teologica  non  è  che  un  aspetto particolare  fra  la  concezione  aristotelica  del  mondo  e  l' intui- zione cristiana.  Per  Aristotele,  come  l'espone  Averroè,  Dio  è principio  teleologico  e  causa  prima  efficiente  della  natura; la  natura  alla  sua  volta  è  effetto  necessario  ed  eterno  dell'at- tualità divina.  Dio  è  principio  in  quanto    origine  a  un  prin- cipiato; esso  è  l'atto  che  precede  logicamente  ogni  potenza. L'ordine  cosmico  riflette  la  necessità  e  l' immutabilità  della  sua prima  causa.  Dio  insomma  è  complemento  necessario  della natura  ed  è  esso  stesso  natura:  è  la  stessa  natura  intellettua- lizzata, cioè  considerata  platonicamente  sub  specie  aeternitatis. Neil'  intuizione  cristiana  del  mondo,  invece.  Dio  è  spirito, cioè  libera  volontà  creatrice,  infinita  potenza,  infinita  sapienza, infinito  amore.  Il  mondo  e'  è,  ma  potrebbe  non  esserci,  o  esser diverso;  e  c'è,  per  un  atto  di  liberalità  divina.  La  necessità delle  leggi  di  natura  non  è  assoluta,  ma  relativa  al  decreto della  volontà  divina  che  liberamente  le  ha  stabilite  e  può mutarne  il  corso.  Così  la  contingenza  è  alla  radice  stessa  del- l'ordine cosmico;  il  miracolo  è  affermazione  e  prova  della  con- tingenza della  natura  e  delle  leggi  fisiche.  Con  siffatta  dottrina il  cristianesimo  liberava  l'uomo  dalla  tirannia  del  fato  cui dovea  piegarsi  la  volontà  dello  stesso  Giove.  Al  posto  degli inesorabili  decreti  dell' Ananche  si  sostituiva  la  libera  e  onni- potente volontà  di  Dio,  che  ha  dato  all'uomo  il  potere  di  coo- perare ai  suoi  eterni  disegni.  Libero  e  artefice  del  proprio  de- stino, l'uomo  si  sente  così  simile  a  Dio. Dopo  quello  che  Agostino  e  lo  Pseudo  Dionigi  e  Pier  Da- miani e  il  Cardinal  Cusano  avevano  speculato  intorno  alla natura  divina,  mentre  nel  rinnovato  platonismo  cristiano del  Rinascimento  covavano  i  germi  che  sarebbero  esplosi  nei 39  Iv.,  fol.   5,   col.   4-f.6,  col.    i. I    dialoghi  De  la  causa  e  De  V  infinito,  la  dottrina  averroistica  su Dio,  anzi  che  un  progresso,  dove  sembrare  la  ricaduta  in  una delle  più  anguste  forme  di  naturalismo  già  da  molto  tempo sorpassate.  Ad  un  superamento  definitivo  occorreva,  per  altro, eliminare  quella  ristretta  visione  cosmologica  alla  quale  il concetto  di  Dio  era  legato,  e  che  è  merito  delle  nuove  scoperte astronomiche   aver   per   sempre   dissipato. 2.  -  Il  secondo  qiiolihetum  tratta  delle  intelligenze  separate, intermedie  fra  1'  Intelligenza  divina  e  l' intelletto  possibile, proprio  della  specie  umana.  Queste  intelhgenze  son  sostanze separate  preposte  ciascuna  al  moto  d'uno  dei  cieli  inferiori alla  prima  sfera,  che  è  mossa  immediatamente  dal  primo Motore. L'Achillini  comincia  coll'affermare  che,  secondo  la  dottrina d'Aristotele,  siffatte  intelligenze  non  sono  state  prodotte,  e per  conseguenza  sono  eterne;  ma  che,  secondo  la  verità  della fede,  è  tutto  il  contrario.  La  prima  parte  della  tesi  è  dimostrata con  quattordici  argomenti;  con  altrettanti  la  seconda;  colla differenza,  che  gli  argomenti  in  favore  della  prima  parte non  hanno  risposta,  mentre  degli  argomenti  in  contrario abbiamo  la  soluzione. Per  quel  che  concerne  la  dottrina  d'Aristotele,  il  lettore poco  esercitato  potrebbe  rilevare  una  divergenza  tra  l'averroista bolognese  e  Sigieri  su  questo  punto:  che,  mentre  quello  dice le  intelligenze  celesti  non  prodotte,  questo  al  contrario  le  dice tutte  causate  immediatamente  o  mediatamente  da  Dio  che dà  l'essere  a  tutte  le  cose 40.  In  realtà,  la  divergenza  è  soltanto nel  modo  d'esprimersi  e  non  nel  pensiero. Perché  le  intelligenze  celesti  non  si  posson  dire  prodotte  ? Perché  non  sono  state  tratte  dalla  potenza  all'atto,  quasi  che ci  fosse  una  loro  potenza  ad  essere,  la  quale  precedesse,  anche soltanto  logicamente,  il  loro  atto  di  essere.  Esse  sono  natural- 40  Sigieri  di  Brab.,  Impossibilia,  I  (ed.  Mandonnet,  Sig.  de  Brab. et  l'averr.  latin  au  XlIIème  siede,  Ilème  Partie,  Louvain,  1908,  pp.  76-77)  ; De  necess.  et  conting.  caus.  (Mandonnet,  pp.  111-112);  Aletaph.,  II,  8 (ediz.  a  cura  di  Cornelio  A.  Graiff,  Sig.  de  Brab.  Questions  sur  la  Me- taphysiqiie.  Texte  inédit.  Louvain,  Édit.  de  1'  Institut  Super,  de  Phi- losophie,  1948,  pp.  46-51),  III,  7-8  {ib.,  pp.  93-103).  Cfr.  Van  Steen- BERGHEN,    S.    d.   B.   d'après  ses  oeuvres  inédites.] mente  e  necessariamente,  per  il  fatto  stesso  che  esiste  la  prima Causa  che  le  fa  essere,  a  quel  modo  che  l'esserci  il  sole  fa  sì che  ci  sia  lo  splendore.  Esse  son  certamente  causate  dalla prima  Intelligenza,  ma  non  prodotte  alla  maniera  delle  cose che  possono  essere  e  non  essere.  L'atto  non  s'aggiunge  in  esse alla  potenza,    l'essere  sopravviene  all'essenza:  sono  puri atti  per  loro  natura,  ed  atti  eterni,  come  eterno  e  necessario è  l'Atto  primo  che  le  causa  41. Strettamente  connesso  con  questo  problema  è  il  primo  dei tre  duhia:  «.  Utrum  ponenda  sit  creatio  ».  Anche  a  questo  quesi- to il  giovane  maestro  bolognese  risponde,  essere  opinione  d'Ari- stotele che  non  si    creazione;  ma  soggiunge  che  la  tesi  dello stagirita  non  è  vera.  Secondo  la  dottrina  aristotelica,  la  causa agente  ha  sempre  bisogno  d'una  materia  su  cui  esercitare  la sua  azione,  e  dalla  cui  potenza  trae  quello  che  essa  produce. Ora  la  creazione  implica  una  produzione  dal  nulla,  senza  pas- saggio dalla  potenza  all'atto  4^.  Allo  stesso  modo  Sigieri,  par- lando dell'anima  intellettiva  (e  il  discorso  vale  per  tutte  le intelligenze  e  altresì  per  i  corpi  celesti),  afferma  che,  sebbene essa  possa  dirsi  fatta,  nel  senso  che  è  causata  e  dipende,  al pari  delle  intelligenze  celesti,  dal  primo  principio  d'ogni  essere, tuttavia  non  può  dirsi  che  è  stata  fatta  dal  niente,  ma  anzi che  essa  «  de  se  est  semper  ens,  ab  alio  tamen  »,  poiché  «  in eius  ratione  seu  defìnitione  est  semper  esse,  cum  careat  ma- teria ».  Se  non  che,  pur  essendo  «  de  se,  seu  de  sui  ratione, semper  ens  »,  non  ha  questo  suo  essere  «  ex  se  effective,  sed ab  alio  ».  Per  questa  ragione,  essa  è  certamente  causata  ed essenzialmente  dipendente  da  Dio,  «  sed  non  est  verum  eam esse    factam    ex    nihilo  »  43. 41  AcHiLLiNi,  Quol.  II,  f.  2,  col.  I  :  «  Orane  agens  extrahit  id  quod est  in  potentia  ad  actum:  sed  in  intelligentiis  non  est  potentia  extrahi- bilis  ad  actum  (intelligo  de  potentia  distante  ab  actu,  et  de  actu  infor- mativo eorum  aut  potentiali,  ex  quo  et  alio  fiat  una  intelligentia)  : ergo  in  eis  non  est  agens.  Ratio  tota  est  Commentatoris,  12  Metaph., comm.  44.  Ex  hoc  sequitur  quod  intelligentiae  non  componuntur  ex esse  et  essentia,  tamquam  ex  doubus  principiis  intrinsece  componen- tibus  intelligentiam  ». 42  AcHiLLiNi,    Quol   II,    dub.    I,   fol.    7,   col.   4. 43  Sigieri,  De  anima  iniellect.,  V  (ed.  Mandonnet,  pp.  160-161). AcHiLLiNi,  ib.,  fol.  8,  col.  2:  «  Potentiale  non  potest  esse  sine  actu.  Est autem  deus  actus  vitalis  intelligentiarum  et  finis,  et  caeli  est  forma  et finis,  corruptibilibus  autem  dat  esse  et  conservat  movendo.  Primo enim  Metheororum  :  Est  autem  ex  necessitate  continuus  iste  superioribus I    Ancor  più  evidente  è  l' influenza  della  dottrina  di  Sigieri  sulla soluzione  del  secondo  dubbio  che  l' Achillini  si  pone  :  «  Utrum intelligentiae  inferiores  intelHgant  superiorem  ».  L'averroista italiano  formula  in  proposito  tre  tesi,  il  significato  delle  quali ci  è  chiarito  da  un  luogo  dei  CoUectanea  del  Nilo  sul  De  anima 'i'^, riferito da  me  altra  volta.  Colla  prima  tesi  egli  si  op- pone alla  teoria  di  coloro  che,  al  dire  del  Nifo,  il  quale  sicura- mente riassume  da  Sigieri  citato  un  po'  più  oltre,  sostenevano che  «  Deus  multiplicat  lumen  quod  est  quoddam  accidens spirituale  existens  in  mentibus  intelligentiarum,  per  quod elevantur  intellectus  illi  ad  intelligere  primum  »  ;  la  qual teoria  il  Nifo  nel  commento  al  De  anime  beatitudine  attri- buisce a  S.  Tommaso  e  la  combatte  appoggiandosi  a  Sigieri  45. La  prima  tesi  dell'Achillini,   dunque,  suona  come  segue:Primum:  intelligentia  inferior  non  intelligit  superiorem  per aUquod  accidens,  ut  species,  actus,  vel  habitus  etc.  Probatur primo,  quia  in  intelligentiis  non  est  aliquod  accidens.  Patet  quo- libeto  3.    Secando,  omne  compositum  est  novum;  sed  in  in- teUigentiis  non  est  novitas;  ergo  neque  compositio.  Maior  est Commentatoris,  12  Metapliysicae,  comm.  39,  sive  sit  compositura substantiale,  sive  accidentale,  sive  in  intelHgentiis,  sive  non;  ea enim  probat  ibi  Commentator,  quod  intellectio  non  est  accidens in  deo;  coehim  autem,  quia  subiectum  est  accidenti,  novitatem habet,  sciUcet  motum,  8  Pliysicoriim,  comm.  15.    Tertio,  si  sic, cum  secunda  intelHgentia  intelHgat  se  per  essentiam,  3  De  anima, comm.  13,  perfectior  esset  intellectio  secundae  de  se,  quam  in- tellectio secundae  de  prima,  et  sic  secunda  intelligentia  esset felix  cognoscendo  se,  et  non  primam;  vel  intelligentia  duas  intel- lectiones  habens  felicitaretur  intellectione  imperfectiori.    Quarto, lationibus,  ut  omnis  eius  virtus  gubernetur  inde.  Ideo,  primo  remoto, omnia  destruuntur;  ideo  duodecimo  Metaphysicae,  textu  et  commento 38;  Ex  tali  igitur  principio  caelum  et  natura  dependet.  Et  primo  Caeli, commento  100:  A  primo  quidem  ente  datum  est  esse  et  vivere;  bis quidem  clarius,  bis  vero  obscurius.  Et  in  libro  De  substantia  orbis,, versus  finem:  Ex  quo  verificatur,  quod  dator  continuationis  motus  est dator  esse  omnibus  aliis  entibus  ».  Così  anche  nelle  Qiiestiones  sulla Metaphysica,  ed.  CTraiff,  luoghi  citati.  Invece  l'autore  delle  Quaestiones super  libros  Physicorum ,  edite  dal  Delhaye  come  opera  di  Sigieri. sostiene  senza  alcuna  esitazione  la  tesi  «  quod  necessarium  est  aliquid fieri  ex  nihilo  »  (I,  q.  24,  pp.  53-54),  sebbene  ritenga  che  alcuni  esseri non  sian  prodotti  da  Dio  immediatamente.  È  un  altro  punto  sul  quale il  dissenso  dagli  scritti  di  sicura  appartenenza  a  Sigieri  è  troppo  evidente. Per  attribuire  queste  Quaestiones  al  maestro  brabantino  occorrerebbe una  qualche  testimonianza  sicura  che  non  s'  ha,  fino  ad  oggi, 44  III.  ad  t.  e.  14;  cfr.   Sigieri....   nel  pens.,  pp.   27-28, 45  V.  Sigieri,  pp.  26-27. 196        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI si  sic,  tunc  scientia  earuin  non  esset  scitum;  consequens  est  centra determinata  quolibeto  primo,  et  tertio  De  anima,  comm.  14: «  Intellectus  in  formis  abstractis  est  idem  cum  intellecto  »  ;  et incidentaliter  8  Physicorum,  comm.  40  :  «  In  abstractis  intellectus et  intellectum  [idem]  sunt.    Quinto,  quia  tunc  intellectio,  qua secunda  intelligentia  intelligeret  primam,  et  intellectio  qua  se- cunda  intelligentia  intelligeret  se,  essent  alterius  generis,  quia una  esset  substantia  et  alia  accidens  46. Risulta  da  questa  prima  affermazione,  che  l'atto  col  quale  le intelligenze  inferiori  conoscono  la  prima  Intelligenza,  cioè Dio,  è  un  atto  sostanziale  al  pari  di  quello  col  quale  conoscon se  stesse.  Anche  in  questo  l'Achillini  è  d'accordo  con  Sigieri, per  il  quale  l' intendere  è  perfezione  essenziale  dell'  intelletto possibile,    che  «  ponere....  substantiam  esse  in  actu  in  genere intellectualis  naturae  et  non  intelligentem  in  actu,  est  ponere contraria  et  impossibilia  vel  incompossibilia  »  47. La  seconda  tesi  dell' Achillini  consiste  nel  negare  che  le intelligenze  inferiori  conoscano  la  prima  Intelligenza  come loro  causa,  in  quanto  avvertono  che  la  loro  natura  ha  essere da  quella 48.  Così  appunto  pensavano  taluni  filosofi,  come  rife- risce  il   Nifo: Dixerunt  quod  intelligentia  interior  intelligit  superiorem  per essentiam  inferioris;  essentia  enim  inferioris  est  causata  ab  in- tellectu  superiori,  et  omne  causatum  ducit  in  cognitionem  cause; ergo  intellectus  interior  per  essentiam  sui  intelligit  superiorem. Oportet  enim  imaginari  essentiam  inferiorem  esse  obiectum  ade- quatum  sui  intellectus;  et  sic  tanquam  obiectum  adequatum intelligitur  solum  a  semet.  Et  quoniam  illa  essentia  est  effectus 46  Achillini,   Quol.   II,   dub.   2,   fol.   8,  col.  3. 47  Sigieri,  Quaestiones  naturales  (ed.  F.  Stegmùller,  Nenaitfgcf. Quaestionen  des  Sig.  v.  Br.,  in  Rech.  de  Théol.  ancienne  et  médiév.,  Ili, 1931  pp.  179-180);  De  anima  intell.,  IX  (ed.  Mandonnet,  p.  171). Cfr.  Giorn.  Crii.  d.  FU.  Ital.,  XX,  1939,  pp.  467-471.  Un'attività  acci- dentale dell'  intelletto  è  invece  l' intendere  per  l'anonimo  autore  delle Questiones  in  libros  Arist.  de  anima,  II,  q.  8  (ed.  Van  Steenberghen, Sig.  d.  Br.  d'après  ses  oeurres  inédites,  I  voi.,  pp.  67-69),  III,  q.  8 (pp.  135-137);  ma  quanto  più  il  chiaro  editore  s'affanna  a  dimostrare che  l'autore  di  esse  è  Sigieri,  tanto  più  evidente  appare  che  non  lo  è. Si  noti  poi  che  nella  terza  delle  Quaestiones  naturales  edite  dallo  Steg- mùller, il  maestro  brabantino  insegna  che  l' intelletto  possibile  ha  il suo  atto  primo  ed  essenziale  per  l'unione  all'  intelletto  agente,  e  che questo  e  quello  son  due  sostanze  separate;  la  qual  dottrina  ha  non  poca importanza  per  quello  che  siamo  per  dire. 48  Achillini,  fol.  8,  col.  3. 1 I    superioris,  etiam  continet  saltem  instrumentaliter  essentiam  su- perioris;  et  sic  intellectus  ille  per  essentiam  illius  secundario intelligit   superiorem. Il  Nifo  stesso  riferisce  quattro  dei  «  molti  argomenti  »  che Sigieri  opponeva  a  siffatta  teoria  49.  Gli  stessi  argomenti  quasi alla  lettera  oppone  alla  stessa  teoria  anche  l'Achillini: Secundum  dictum  :  intelligentia  inferior  non  intelligit  superio- rem per  essentiam  inferioris.    Probatur  primo,  quia  tunc  scientia non  esset  scitum.  Patet  consequentia,  quia  tunc  secunda  esset scientia  ipsi  secundae  de  prima  etc.    Secundo,  nulla  res  distincta a  perfectiori  est  sufficienter  repraesentativa  perfectioris;  sed secunda  non  est  ita  perfecta  sicut  prima;  ergo  etc.    Tertio,  si sic,  tunc  non  dependeret  intelligentia  inferior  in  suo  intelligere  a prima;  et  sic  secunda  esset  actus  purus,  quia  non  esset  poten- tialis  respectu  alicuius  perfectivi  eius  formaliter.    Quarto,  quia tunc  intelligentia  inferior  beatiiìcaretur  in  seipsa  tanquam  in obiecto  repraesentativo  omnium  intelligibilium  ab  ea,  aut  felici- taretur  in  obiecto  secundarie  cognito.    Quinto,  quia  tunc  aliqua cognitio  dei  dependeret;  quia  omnis  intelligentia  inferior  dependet; et  omnis intelligentia  inferior  esset  cognitio  dei  per  te.    Sexto, quia  tunc  nulla  esset  compositio  in  intelligentiis,  nisi  forte  ex perfectione  et  defectu  eius;  de  qua  non  loquor  nunc.    Septimo, quia  non  salvaretur  efììcientia  dei  super  motu  proveniente  ab inferioribus   intelligentiis  5°. Anche  per  quel  che  concerne  la  terza  tesi,  l'Achillini  ripete alla  lettera  quello  che,  secondo  il  Nifo,  si  leggeva  «  in  quodam tractatu  intelligentiarum  et  beatitudinis  »  di  Sigieri: Tertium  dictum:  intelligentia  inferior  intelligit  superiorem per  essentiam  superioris.    Probatur  primo  a  sufficienti  divi- sione. —  Secundo,  quia  in  abstractis  intellectus  et  intellectum sunt  idem.    Tertio,  quia  intelligentiae  abstractae  perficiuntur per  se  invicem;  ergo  una  est  alterius  forma,  et  non  nisi  quia  una est  alterius  scientia  vel  amor.  Antecedens  patet,  12  Metaph., commento  44  :  «  Perfectio  uniuscuiusque  moventium  unumquemque orbium  perficitur  per  primum  motorem  omnium  »;  sed  non  ef- fective,  ncque  materialiter,  sed  finali  perfectione  coincidente cum  forma.    Quarto,  necesse  est  in  omni  intelligentia  intelli- gente aliud  esse  aliquid  simile  formae  et  aliquid  simile  materica; et  si  non,  non  esset  multitudo  in  formis  abstractis,  tertio  De  anima, commento  5  ;  quia,  posita  multitudine,  una  est  potentialis  alteri. Est  autem  secunda  simile  materiae,  ideo  recipiens,  et  prima  si- 49  Nifo,  De  anima,  Venezia,    1522,   III,   coUect.  ad  t.  e.    14,  f.  171, col.    3. 50  AcHiLLiNi,   /.   c;   Nifo,   /.   e;   cfr.    Sigieri,   pp.    27-28. 19^         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI mile  formae,  ideo  recepta.    Quinto,  in  intelligentiis  est  compo- sitio,  et  non  est  alia  quani  ex  intelligente  et  intellecto,  deside- rante et  desiderato;  ergo  etc.  Maior  patet,  12  Metaph.,  com- mento 51:  Quod  est  minoris  compositionis  est  nobilius  in  ilio genere,  donec  deveniatur  ad  simplex.  Patet  minor,  12  Metaph.,  com- mento 44:  «Tantum  illic  est  causa  et  causatum»,  secundum  quod intellectum  est  causa  intelligentis.  Sed  intellectum  non  est  causa efEectiva  intelligentis,  ncque  materialis,  ncque  finalis  tantum, sed  formalis  et  finalis  simul,  vel  formalis  tantum.  Ideo  subdit Commentator,  «  non  inconvenire  unum  esse  causam  plurium, secundum  quod  a  pluribus  intelligitur  »,  perfectius  tamen  a  per- fectioribus,  et  imperfectius  ab  imperfectioribus.  Et  hoc  patet Commentatore,  3  De  anima,  commento  5  :  «  Essentia  primae formae  est  quidditas  eius;  aliae  autem  formae  diversantur  in quidditate  et  essentia,  quoquo  modo  ».  Loquitur  Commentator de  essentia,  ut  fecerat  2  De  anima,  comm.  147:  Pomum  «  est indivisibile  subiecto,  et  divisibile  secundum  essentiam  diversam in  eo,  secundum  quod  habet  colorem,  odorem  et  saporem  »,  licet in  multis  sit  differentia  etc.  Ex  hoc  patet  intelligentiarum  compo- sitio,  quae  cum  aliis  est,  et  earum  simplicitas,  quia  non  compo- sitio  ex  aliis;  ideo,  3  De  anima,  comin.  9:  «  Res  abstractae  sunt simplices,  et  non  compositae.  Ex  his  habetur  quod,  cum  supe- riores  intelligentiae  sint  in  inferioribus,  adhuc  potest  intelligentia interior  intelligere  superiorem,  non  intelligendo  tamen  aliquid extra  se.  Patet  etiam  quod,  cum  intelligentia  superior  sit  intel- lectio  inferiori,  quod  potest  superior  principiare  motum  productum ab  inferiori,  eo  modo  quo  intellectio  est  principium  operationis ab    intelligentia   productae  »  i'. Giunto  alla  fine  della  discussione,  l'Achillini  si  domanda se  una  tale  teoria  non  contradica  alla  verità  teologica;  e  ri- sponde di  no,  anzi  dichiara  di  trovarla  in  tutto  conforme  a quello  che  la  fede  insegna  in  proposito  5%  E  veramente  anche S.  Tommaso  è  del  parere  che,  nell'atto  della  visione  beatifica, l'essenza  divina  non  è  soltanto  oggetto  conosciuto,  «  id  quod intelligitur  »,  ma  altresì  forma  intelligibile  per  mezzo  della quale  la  stessa  essenza  divina  è  conosciuta,  «  forma....  qua intelligitur» 53.  Questa  forma  attua  bensì  l'intelletto  umano reso  capace  per  grazia,  ma  l'attua  solo  idealmente,  «  in  in- telligendo »,  non  sostanzialmente,  poiché  l' intelletto  umano ha  già  un  suo  atto  sostanziale  anteriore  all'unione  beatifica coll'essenza   divina  54.    Non   così  per  l'Achillini  e  per  Sigieri* 51  AcHiLLiNi,  /.  e,  col.  3-4;  NiFO,  /.  c,  3-4;  cfr.  Sigieri,  p.  28. 52  ACHILLINI,    fol.    9,    col.    3. 53  S.  Tommaso,  S.  theol.,  Suppl. Questi  non  fanno  alcuna  distinzione  fra  l'ordine  naturale  e  lo stato  soprannaturale  concesso  per  grazia,  fra  la  conoscenza che  compete  alle  intelligenze  separate  per  loro  natura  e  la visione  beatifica  di  cui  parlano  i  teologi.  Inoltre,  l' intendere delle  intelligenze  create,  tanto  nell'ordine  naturale  quanto nell'ordine  soprannaturale,  è,  per  l'Aquinate,  una  operazione accidentale  che  s'aggiunge  alla  loro  natura  sostanziale  già costituita  in  atto  55,  e  il  loro  stesso  intelletto  è  una  potenza altra  dalla  loro  essenza 56.  Per  l'Achillini  e  per  Sigieri,  invece, l'essenza  stessa  di  qualsiasi  intelletto,    di  quello  umano  come di  quelli  celesti,  come  vedremo  anche  meglio  in  seguito,  con- siste in  un  atto  sostanziale  d' intendere,  dovuto  alla  loro vmione  coli'  intelletto  agente  che,  per  essi,  è  Dio.  Fra  l' intel- letto umano  e  le  intelligenze  celesti  v'  è  solo  questa  differenza, che  r  intelletto  agente  s'unisce  al  primo  per  gradi,  e  comple- tamente solo  al  termine  del  suo  sviluppo;  alle  seconde  invece è  eternamente  unito  come  forma  che  attua  tutta  insieme  la loro  capacità.  GÌ'  intelletti  inferiori  a  Dio  hanno  essere  sol- tanto in  quanto  intendono  la  prima  Intelligenza,  che  sola è  da    e  per  sé.  Dio  così  è  il  sole  del  mondo  intelhgibile  ;  le altre  intelligenze  ne  sono  lo  splendore.  In  questo  eterno  rag- giare dalla  prima  Luce  intelligibile  e  in  questo  eterno  riflet- terla per  diversi  gradi,  consiste  l'essere  delle  menti  inferiori alla  prima   Mente. Per  questo  nell'  intelletto  non  v'  è  memoria,  che  è  ritorno del  passato.  Siffatto  ritorno  del  passato  non  è  concepibile là  dove  è  solo  un  eterno  presente  senza  mutamento.  I  teologi medievali,  compreso  S.  Tommaso,  potevano  attribuire  agli angeli  la  memoria,  in  quanto  attribuivano  ad  essi  un  conoscere puramente  naturale  e  accidentale  distinto  dal  conoscere  «  in Verbo  »  ;  non  gli  averroisti,  pei  quali  le  intelligenze  conoscono solo  in  quanto  sono  informate  dall'essenza  divina.  Ed  è  sicu- ramente sotto  r  influenza  di  questa  dottrina  averroistica  che Dante  rimprovera  ai  teologi  di  avere  attribuito  la  memoria agli  angeli^?;  che  è  un'altra  delle  tante  tracce  dell'influsso dell'avveroismo    sul   pensiero    del   nostro    poeta. 55  S.  Tommaso,  5.  rheol.,  I,  q.  54,  art.  1-2. 56  Ib.,  a.  3. 57  Par.,  XXIX,   76-81.   Si  veda  in  proposito,  N., Nel  mondo di  Dante,  Roma. Il  Quolihetum  concernente  le  intelligenze  celesti  si  chiude con  un  terzo  duhiuni,  nel  quale  l'averroista  bolognese  si  chiede se  le  intelligenze  intermedie  distino  dalla  prima  Intelligenza con  certo  ordine,  ossia  seguendo  una  qualche  proporzione: «Utrum  ordine  quodam  recedant  intelligentiae  mediae  a  prima». Il  problema  è  risolto  da  lui  coll'affermazione  che  così  è  per Aristotele,  non  però  secondo  verità  58. Anche  questo  è  un  problema  tipicamente  averroistico,  e trae  origine  da  quel  passo  del  commento  d'Averroè  al  dodi- cesimo della  Metafisica,  che  dice: Quoniam  vero  ordinatio  istorum  moventiiuTi  a  primo  motore oportet  ut  sii  secundum  ordinem  stellarum  et  orbium  in  loco, manifestum  est  etiam;  prioritas  enim  in  loco  eorum  et  in  magni- tudine  facit  eos  priores  in   nobilitate  59. Qual  fosse  il  pensiero  di  Sigieri  su  questo  argomento,  non sappiamo.  Ma  conosciamo  quello  d'un  averroista  a  lui  abba- stanza vicino  e  che,  come  il  brabantino,  insegnava  a  Parigi nella  scuola  delle  Arti;  voglio  dire  Giovanni  di  Jandun.  Questi discute  il  problema  «  Utrum  motores  corporum  celestium  sint ordinati  secundum  ordinem  corporum  celestium  in  magni- tudine et  in  loco  »  nelle  Qiiaestiones  sulla  Metafisica,  e  lo  ri- solve  in   senso   affermativo  ^°. La  soluzione  che  del  problema  ci    il  bolognese,  è  sostan- zialmente identica  a.  quella  dell'averroista  di  Jandun:  posto che  v'  è  tra  le  intelligenze  celesti  un  ordine  gerarchico  fondato sul  differente  grado  di  perfezione,  egli  stabilisce  una  corri- spondenza fra  questo  e  l'ordine  dei  cieli,  in  quanto  essi  si differenziano  per  grandezza  e  velocità: Primus  est  ordo  secundum  gradum  perfectionis  essentialis earum  (intelligentiarum)  sic  quod,  quanto  una  intelligentia  est perfectior  alia,  tanto  est  primo  propinquior,  non  tainen  secundum proportionem  geometricam;  patet  quolibeto  5.  Hic  autem  ordo, qui  rationes  formales  intelligentiarum  consequitur,  causa  est aliorum  ordinum  qui  sequuntur.    Secundus  est  ordo  caelorum secundum  magnitudinem  eorum,  secundum  quam  caelum  maius continet  caelum  minus.  Perfectiore  igitur  intelligentia  caelum maius    regitur   et    gubernatur.    Oportet    enim   informabile    corre- 58  AcHiLLiNi,  Quol.  II,  dub.  3,  fol.  9,  col.  2. 59  AvERR.,   Metaph.,   XII,   comm.   44. 60  IoANNis  DE  Ianduno,   Quaestìofies  in  Metaph.,   XII,   q.   19. I   spendere  formae  sic,  quod  altieri  caelo  altior  intelligentia  api)ro- priatur....    Tertius  est  ordo  velocitatis  in  motu.  Caelum  enim maius  velociori  motu  movetur,  distinguendo  inter  movere  et  cir- cuire. Huius  sententiae  fundamentum  ponit  Commentator,  se- cando Caeli,  commento  58  :  super  (semper  ?)  eorum  intelligen- tiarum  intellectus  est  fortior  et  desiderium  est  fortius;  ideo  ab eis   motus   est   velocior  61. Se  il  cielo  è  il  soggetto  informabile  e  l' intelligenza  è  la  sua forma,  e  se  le  intelligenze  non  hanno  altra  funzione  che  quella di  motori  dei  diversi  cieli,  ne  segue  che  dal  numero  dei  cieli e  dei  moti  celesti  si  debba  dedurre,  come  aveva  insegnato Aristotele  (>-,  il  numero  delle  intelligenze.  Ora  cieli  in  senso vero  e  proprio  possono  dirsi  soltanto  quelli  in  cui  brillano una  o  più  stelle.  Perciò  otto  e  soltanto  otto  sono  le  intelli- genze motrici.  La  più  alta  di  esse  è  Dio,  che  muove  immedia- tamente il  cielo  delle  stelle  fisse,  «  quod  secum  rapit  alia corpora  caelestian^B.  Le  altre  sette  muovono  ciascuna  uno  dei cieli  planetari,  nell'ordine  stabilito  dagli  astronomi.  L'Achil- lini,  come  respinge  con  Averroè  la  teoria  degli  eccentrici  e degli  epicicH,  così  sembra  rifiutare  il  nono  cielo,  comunemente ammesso  sull'autorità  di  Tolomeo:  «  Or  bis  stellatus  est  finis corporum  quae  sunt  intra,  quoniam  extra  ipsum  nihil  est»; esso  è  il  primo  e  più  perfetto  di  tutti  gli  altri  cieli  ;  «  ideo  caelum stellatum  deo  informatur  »  64. Se  non  che  i  moti  planetari  non  sono,  per  Aristotele,  m^oti semplici;  sibbene  la  risultante  di  più  movimenti  che  richiedono più  sfere.  Così  Aristotele,  a  render  ragione  del  moto  di  ogni pianeta,  aveva  dovuto,  sull'esempio  di  Eudosso,  scindere ogni  cielo  planetario  in  un  gruppo  di  più  sfere,  ciascuna  delle quali  aveva  un  diverso  movimento.  Dalla  composizione  dei loro  moti  risultava  il  moto  apparente  del  pianeta.  Una  sola intelligenza,  secondo  l'avviso  dell' Achillini,  presiede  al  moto 61  Achillini,  Quol.  II,  dub.  3,  fol.  9,  col.  2.  Il  passo  d'Averroè  nel luogo  citato  suona  cosi  :  «  Quod  igitur  magis  propinquum  fuerit  primo orbi,  habebit  maius  desiderium,  quoniam  propinquitas  in  loco  illic est  similis  propinquitati  essentiarum  ad  invicem,  quae  est  propinquitas in  scientia  et  in  inteUectu  rationali;  quanto  enim.  magis  intellectus  primi moti  erit  fortior,  tanto  magis  desiderium  erit  perfectius;  et  quanto magis  desiderium  erit  perfectius,  tanto  motus  eius  erit  velocior  ». 62  Metaph.,  XII,  t.  e.  43-48,  e.  8,  1073»  37-1074»  16. 63  Achillini,   fol.    io,   col.    i. 64  Achillini.] di  Ogni  pianeta  ;  ma  ognuna  delle  sfere  che  formano  quel  gruppo planetario  è  mossa  da  una  sua  particolare  anima  che  è  causa efficiente  di  moto,  mentre  l' intelligenza  che  presiede  al  gruppo è  soltanto  causa  finale  a  cui  le  anime  celesti  obbediscono  65. Si  hanno  così  otto  intelligenze:  la  prima  è  Dio,  motore  del cielo  stellato  e  quindi  di  tutto  l'universo:  ad  essa  obbediscono le  sette  intelligenze  planetarie,  più  o  meno  nobili  secondo che  sono  più  o  meno  vicine  al  primo  Motore.  Ciascuna  delle sette  intelligenze  planetarie  presiede  a  un  gruppo  d'anime celesti,  quanti  sono  i  moti  dei  quali  il  moto  di  ogni  pianeta è  la  risultante. Tutto  questo,  pensa  il  filosofo  bolognese,  si  ricava  da  Ari- stotele e  dal  suo  commentatore  di  Cordova:  ma  secondo  la verità  della  fede,  fra  la  prima  Intelligenza,  che  è  infinita,  e  le intelligenze  inferiori,  non  può  stabilirsi  alcuna  proporzione, poiché  queste,  per  quanto  più  o  meno  perfette,  sono  tutte ugualmente  distanti  dall'  infinità  della  Prima.  Ciò  non  di meno,  anche  secondo  la  fede,  esiste  fra  le  intelligenze  angeliche un  ordine  basato  sulla  loro  diversa  perfezione.  Con  questa osservazione,  mentre  sta  per  mettere  il  piede  sulla  soglia  della teologia,  «  in  ianuis  theologiae  »,  l'Achillini  pone  fine  al  se- condo   quolibeto. Ma  mentre  il  filosofo  averroista  sentiva  il  dovere  di  arre- starsi sul  limitare  della  teologia,  il  teologo  al  contrario  non sentiva  ritegno  di  portare  l'abito  del  ragionamento  filosofico sul  terreno  della  verità  rivelata  e  di  contaminare,  come  spesso avveniva,  i  dogmi  della  fede  colle  lucubrazioni  della  filosofia. Tale  è  il  caso,  fra  i  molti  che  si  verificarono  dal  secolo  XIII in  poi,  della  speculazione  teologica  intorno  agli  angeli. L'angelologia  ebraico-cristiana  era  solidamente  costituita  nei suoi  capisaldi  teorici,  come  ne'  suoi  elementi  rappresentativi e  fantastici,  assai  prima  del  suo  incontro  colla  filosofia  aristo- telica. Ma  poi  che,  per  opera  dei  filosofi  maomettani  ed  ebrei l'aristotelismo  prese  contatto  colla  rivelazione,  e  a  poco  a poco  alla  primitiva  e  rozza  cosmologia  biblica  si  soprappose quella  dotta  dei  greci  ^^^  anche  l'angelologia  subì  un'uguale contaminazione.  «  Omnes  gentes  quae  concedunt  Deum  esse, 65    ACHILLINI,    fol.     IO,    col.    I. ^^  Cfr.  il  molto  interessante  e  istruttivo  studio  di  G.  Ricciotti,  La cosmologia  della  Bibbia  e  la  sua  trasmissione  fino  a  Dante,  Brescia,  «  Mor- celliana conveniunt  in  hoc,  quod  caelum  est  locus  Dei  et  aliorum  spi- rituum  qui  vulgariter  dicuntur  Angeli»,  osservava  Averroè^?; e  come  lui  pensavano  Avicenna,  Isacco  Israeli  e  Moisè  Maimo- nide.  Il  problema  da  risolvere,  per  i  teologi  cristiani,  era  quello di  trovare  nella  gerarchia  angelica,  fissata  dallo  pseudo  Dio- nigi Areopagita  o  da  S.  Gregorio  Magno,  il  posto  preciso  ove collocare  le  intelligenze  motrici  d'Aristotele  e  dei  suoi  commen- tatori. Così,  mentre  Tommaso  assegna  la  funzione  di  intel- ligenze motrici  ad  alcuni  angeli  dell'ordine  delle  Virtù,  il  do- menicano Maestro  Teodorico  di  Vriberg  fa  delle  intelligenze  di cui parlano  i  filosofi,  un  ordine  a  parte  che  precede  l'ordine costituito  dalle  anime  dei  cieli  e  quello  degli  angeli  ^^.  Per Dante,  le  intelligenze  motrici  dei  cieli  sono  quelle  stesse  «  le quali  la  volgare  gente  chiamano  Angeli»  69;  ma  non  tutti  gli Angeli,  sibbene  quelli  che,  in  ciascuna  gerarchia  ed  ordine, sono  stati  deputati  alla  vita  attiva,  cioè  al  governo  del  mondo, anzi  che  alla  pura  vita  contemplativa  7°.  E  secondo  la  nobiltà dei  diversi  cieli  essi  appartengono  a  gerarchie  e  ordini  diversi?'  ; sì  che  il  poeta,  al  pari  degli  averroisti,  può  stabilire  un  rapporto tra  la  perfezione  dei  cieli  e  quella  degli  ordini  angelici  disposti in  nove  cerchi  concentrici  intorno  a  Dio: Li  cerchi  corporai  sono  ampi  ed  arti secondo  il  più  e  '1  men  della  virtute che  si  distende  per  tutte  lor  parti. Maggior  bontà,  vuol  far  maggior  salute; maggior  salute  maggior  corpo  cape, s'elli  ha  le  parti  igualmente  compiute. Dunque  costui  che  tutto  quanto  rape l'altro  universo  seco,  corrisponde al  cerchio  che  più  ama  e  che  più  sape. Per  che,  se  tu  alla  virtù  circonde la  tua  misura,  non  alla  parvenza, delle  sustanze  che  t'appaion  tonde, tu  vederai  mirabil  conseguenza di  maggio  a  più  e  di  minore  a  meno in  ciascun  cielo,  a  sua  intelligenza  7^. 67  De  caelo,  I,  comm.  22.  Cfr.  C.  Baeum  ker,  Witelo,  in  Beitr.  z.  Gesch. d.   Philosophie  d.  Mittelalters,  III,  2,   1908,  pp.  537  sgg. 68  E.  Krebs,  Meister  Dietrich,  in  Beitr.  z.  Gesch.  d.  Philos.d.  Miti., V,  5-6,   1906,  pp.  88*-9i*. 69  Dante,    Convivio,    II,   iv,    2. 70  Ib.,   II,    IV,    10-13. 71  Ib.,   II,  v,   13-15. 73  Par.] Così  non  ragionava  certamente  Tommaso;  così  ragionavano invece  Averroè  e  gli  averroisti,  pei  quali  le  intelligenze  motrici son  forma  delle  rispettive  sfere,  come  forma  del  cielo  stellato è  Dio  stesso. 3.  -  Il  terzo  quolibeto  tratta  dell'  intelletto  possibile,  che occupa  r  inlìmo  posto  tra  gì'  intelletti  e  costituisce  la  «  tertia et  ultima  pars  latitudinis  intellectuum  ».  A  proposito  di  esso l'Achillini  stabilisce  questa  tesi:  «  Intellectus  possibilis  est intensissimum  materialium  et  remississimum  abstractorum  », ossia  è  la  più  intensa  delle  forme  unite  alla  materia  e  la  meno attiva  delle  forme  separate  73.  Poiché,  come  vedremo,  l' intel- letto umano,  per  lui,  è  una  sostanza  separata,  unica  per  tutta la  specie  umana,  e,  nello  stesso  tempo,  forma  sostanziale degl'  individui  ai  quali  è  unito  per  sua  natura. Intorno  a  questa  tesi,  son  discussi  quattro  dubia,  il  primo dei  quali  concerne  la  teoria  d'Alessandro  d'Afrodisia,  esposta e  combattuta  da  Averroè  74,  secondo  la  quale  l'intelletto  pos- sibile sarebbe  una  virtù  organica  tratta  dalla  potenza  della materia.  L'averroista  bolognese  confuta  questa  dottrina  con undici  argomenti  tolti  dagli  scritti  del  commentatore  arabo. Ma  se  r  intelletto  possibile  non  è  una  «  virtus  materialis  », al  modo  delle  forme  che  hanno  essere  solo  per  la  materia a  cui  sono  unite  e  dalla  quale  sono  individuate,  se  esso  ha  una sua  propria  realtà  indipendente  dalla  materia,  ne  consegue che  in  se  stesso  sia  unico  per  tutti  gli  uomini.  Questa  è  ap- punto la  tesi  che  l'Achillini  sostiene  d'accordo  con  Averroè, discutendo  il  secondo  dubbio  :  «  Utrum  [unum]  intellectum. possibilem  habeat  omnis  homo  »  75. Fra  gli  argomenti  a  sostegno  della  tesi  averroistica  vi  sono questi,   desunti   dalla   natura   della   conoscenza   intellettuale: Si  sic  [cioè,  si  intellectus  possibilis  esset  multiplicatus  ad  nu- merum  hominum),  contingeret  ut  res  intellecta  apud  te  et  apud me  sit  unum  in  specie  et  duo  in  individuo;  ratio  patet  supra.  — Secundo,   si  sic,   procederetur  in  infinitum  in  coiiceptibus;   quia 73  AcHiLLiNi,  f.  IO,  col.  1-2. 74  De  anima,  III,  comm.  5,  digress.  pars.  III.  Cfr.  S.  Tommaso,  Trat- tato sull'unità  dell'intelletto  contro  gli  averroisti,  Firenze,  Sansoni,  1938, pp.    19-20,   40-42. 75  AcHiLLiNi,  fol.   IO,   col.   4-f.    II,   col.    I. I    conceptus  essent  numero  diversi,  et  ab  omni  per  se  intelligibili numeraliter  multiplicato  abstrahibilis  est  conceptus;  ideo  ab  illis conceptibus  essent  alii  conceptus  abstrahibiles  ;  patet  supra.  — Tertio,  unus  est  conceptus  essentialis  omnium  individuorum eiusdem  speciei;  ergo  unus  est  intellectus  possibilis  omnium  ho- minum. Questi  tre  argomenti  non  sono  in  sostanza  che  uno  solo, cioè  quello  di  cui  già  facevano  uso  gli  averroisti,  coi  quali polemizza  Tommaso  nel  De  unitate  intellectus,  e  a  capo  dei quali  era  Sigieri: Adhuc  autem  ad  munimentum  sui  erroris  aliam  rationem inducunt.  Quaerunt  enim  utriim  intellectum  in  me  et  in  te  sit unum  penitus,  aut  duo  in  numero  et  unum  in  specie.  Si  unum intellectum,  tunc  erit  unus  intellectus.  Si  duo  in  numero  et  unum in  specie,  sequitur  quod  «  intellecta  habebunt  rem  intellectam  «  : quaecumque  enim  sunt  duo  in  numero  et  unum  in  specie,  sunt unum  intellectum,  quia  est  una  quidditas  per  quam  intelligitur; et  sic  procedetur  in  infinitum,  quod  est  impossibile.  Ergo  impos- sibile est  quod  sint  duo  intellecta  in  numero  in  me  et  in  te;  est ergo  unum  tantum,  et  unus  intellectus  numero  tantum  in  omnibus  1^. 76  S.  Tommaso,  Traci,  de  un.  intell.  cantra  averr.,ed.  Keeler,  Roma, 1936,  §  106,  pp.  68-69;  cfr.  il  mio  commento  alla  traduzione  di  questo opuscolo  tomistico,  Firenze,  Sansoni,  1938,  p.  175,  nota  2.  L'argomento che  deriva  da  Averroè  {De  anima,  III,  comm.  5,  digress.  pars  V,  sol.  ^ae quaestionis),  è  ampliato  da  Egidio  Romano  nel  suo  trattato  De  plur. inteìlectus  possibilis,  Venezia,  1500,  parte  I,  fol.  girò,  ed  è  la  sesta  delle ragioni  colle  quali  Averroè  «  positionem  suam  roborat  et  vult  osten- dere  quod  intellectus,  qui  dicitur  possibilis,  est  unus  numero  »,  in  questo modo:  «Si  potest  estendi  quod  una  et  eadem  species  intelligibilis  in- format  omnes  intellectus,  tunc  sequitur  quod  sit  unus  intellectus  in omnibus  numero.  Unde  licet  non  sequeretur  quod  eadem  res  videretur ab  oculo  omnium  hominum,  si  unus  esset  oculus  omnium,  bene  tamen valeret  quod,  si  una  species  informaret  oculum  cuiuslibet  hominis, quod  unus  esset  oculus  cuiuslibet  hominis.  Ergo  a  simili:  si  igitur  una species  informat  intellectum  omnis  hominis,  omnes  homines  habent unum  intellectum.  Quod  autem  una  species  informet  intellectum  omnis hominis,  patet;  nam  possibile  est  quod  plures  homines  intelligant  la- pidem.  Tunc  ergo  quero:  aut  est  per  imam  ^peciem  lapidis,  aut  per aliam  et  aliam.  Si  per  unam,  habeo  intentum;  si  per  aham  et  aliam, tunc  ille  due  species  oportet  quod  differant  numero,  et  communicent in  forma,  cum  ducant  in  cognitionem  unius  naturae.  Sed  quotiescunque aliqua  dicunt  differentiam  in  numero  seu  in  specie,  tunc  nullum  eorum habet  intellectum  in  actu,  et  habet  tantum  intellectum  comm.unem; ideo  nulla  illarum  specierum  est  in  intellectu  in  actu,  sed  habebunt intellectum  communem.  Et  tunc  quero  de  ilio  intellectu  comuni,  cum possit  intelligi,  utrum  intelligatur  per  eandem  speciem  vel  per  aliam; sed  non  est  abire  in  infinitum;  standum  est  igitur  in  primis,  quod  una species    potest    informare    intellectum    plurium    hominum    et    pari    ra- 206        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Nel  corso  della  discussione  delle  obiezioni  contro  la  tesi dell'unità,  l'Achillini  inserisce  addirittura  un  brano  di  Sigieri, che  noi  conosciamo  attraverso  una  citazione  del  Nifo  e  che questi  dice  preso  dal  trattato  De  intellectn,  «  misso  Thome  in responsione  ad  illum  Thome» 77.  Giova  riportarlo,  per  un  con- fronto con  quanto  scrive  il  suessano: Ad,  haec  supponamus  quod  iste  terminus  «  homo  »  significat compositum  ex  corpore  et  intellectu,  et  quod  «  homo  »  est  per  se unum,  directe  reponibile  in  praedicatione  substantiae,  sub  «  ani- nali  »,  intrinsece  denoininatum  intellectione  etc.  Secundo,  non potest  intellectus  informare  materiam  non  informante  cogitativa quia  non  stat  materia  sino  forma  constituta  in  esse  per  eam;  et non  potest  intellectus  informare  sine  sua  proxima  dispositione et  ultima,  quae  est  cogitativa.  Et  sic  patet  cogitativam  ordinari  in intellectivam,  quamvis  cogitativa  non  sit  forma  generica.  Ex  quo patet  quare  operatio  cogitativae  et  intellectus  possibilis  se  co- mitantur,  ut  tangit  Commentator,  2  De  anima,  comm.  15.  Ncque potest  cogitativa  informare,  non  informante  intellectu,  quia, dato  informabili  ultimate  disposito  et  informativo,  ponitur  in- formatio.  Est  autem  materia  informata  cogitativa  informabile propinquum  et  ultimate  dispositum  ad  recipiendum  intellectum; et  sic  potest  una  forma  substantialis  esse  dispositio  ad  aliain, dummodo  illa  forma  praeparans  non  sit  materiae  ratio  recipiendi. Hucusque  nihil  mali  dictum  est78.  Tertio,  praemittendum  apud Averroim  quod  intelligentiae  sunt  haec  et  individuae  individua- tione  non  repugnante  esse  universali,  quia  esse  earum  in  anima et  extra  animam  est  idem,  3  De  anima,  comm.  9,  et  7  Metaphy- sicae,  commento  41:  «In  abstractis  non  differt  quidditas  ab  eo cuius  est  ».  Est  autem  intellectus  possibilis  de  genere  intelligen- tiarum,  ideo  non  repugnat  intellectum  dare  esse  hoc,  quamvis etiam  sit  universalis.  Ideo  concedo  Sortem  habere  suum  esse hoc  ab  intellectu.   Sed  a  materia,   divisa    informabili    cogitativa. tione  omnium;  igitur  omnes  homines  habent  unum  intellectum  numero  »^ Appare  evidente  da  questo  testo  d'  Egidio  e  da  quello  di  Tommaso, come  si  sia  ingannato  il  Fiorentino,  di  solito  attento  e  accurato,  quando ha  creduto  di  ravvisare  nel  terzo  argomento  dell'Achillini,  qui  sopra riportato,  «  due  mutazioni  sostanziali  »  dell'averroismo  {Pietro  Pom- ponazzi.  Studi  storici  su  la  scuola  bolognese  e  padovana  nel  sec.  XVI. Firenze,  1868,  pp.  254-255).  Il  «  conceptus  essentialis  omnium  indivi- duorum  eiusdem  speciei  »  è  l' intellectum,  cioè  il  votjtÓv  aristotelico, l'universale  che  è  certamente  unico  per  tutti  gì'  individui  d'una  stessa specie.  Dall'unità  dell'  intellectum  Averroè  e,  con  lui,  l'Achillini  dedu- cono  l'unità    dell'  intellectus   possibilis. 77  Nifo,   De   intellectu,    1,   tv.   3,   e.    18;    cfr.    Sigieri,   p.  18. 78  Questa  frase  che  nel  riassunto  del  Nifo  manca,  è  evidentemente un'osservazione  dell'Achihini,  e  mostra  che  questi  ha  un  testo  dinanzi a  sé. I     20/ informante  mediante  dimensionibus,  oritur  possibilitas  multi- plicationis  individuorum  sub  eadem  specie;  quae  omnia,  secundum Commentatorem,  propter  esse  universale  intellectus,  informari possunt  ilio  et  ab  ilio  sumere  suum  esse  hoc  et  unum,  et  verius unum  quam  bruta  a  sensu,  quia  mediantibus  dimensionibus unitur  sensus  materiae,  sed  non  intellectus  79. Parrebbe  dal  confronto  di  questo  brano  con  quanto  ci  è fatto  sapere  dal  Nifo,  che  l'Achillini  abbia  fatto  sua  una  pa- gina dello  scritto  di  Sigieri  in  risposta  al  De  unitale  intellectus dell' Aquinate.  Come  vedremo  più  oltre,  non  è  questo  l'unico caso   da  rilevare. Dopo  aver  sostenuta  con  sedici  argomentazioni  la  tesi dell'unità  dell'  intelletto  possibile,  attribuita  ad  Aristotele, ed  aver  risolto  le  quattro  obiezioni  contro  di  essa,  il  bolognese conclude  affermando  che  la  tesi  d'Aristotele  e  d'Averroè  è falsa,  e,  contro  il  metodo  finora  seguito,  fa  vedere  che  cosa si  può  rispondere  ai  sedici  argomenti  a  prò  di  essa. Indi  passa  a  discutere  un  terzo  dubbio,  e  cioè  «  Utrum  intel- lactus  possibilis  sit  pure  potentialis  ».  Il  problema  era  stato posto  almeno  due  volte  da  Sigieri  di  Brabante,  e  tutte  e  due le  volte  risolto  allo  stesso  modo:  l'intelletto  possibile,  prima dell'atto  dell'  intendere,  non  ha  alcun  atto,    può  dirsi  so- stanza se  non  in  potenza.  Affermare,  come  facevano  Tommaso ed  altri,  che  esso  sia  una  sostanza  in  atto  «  in  genere  intellectua- lis  naturae  »,  prima  dell'atto  d' intendere,  «  est  ponere  con- traria et  impossibilia  vel  incompossibilia»8o;  per  questa  ra- gione appunto  Aristotele  aveva  detto  e  quod  intellectus  ante intelligere  nullam  naturam  habet  nisi  istam  quod  possibilis»^'. L' intelletto  possibile  diviene  atto  e  sostanza  «  in  genere intellectualis  naturae  »,  soltanto  per  l'azione  su  di  esso  del- l' intelletto  agente,  che  è  una  sostanza  separata,  la  quale, come  ormai  sappiamo,  per  Sigieri  è  Dio. Identica  è  la  soluzione  che  di  questo  problema    l'Achil- lini: r  intelletto  possibile  è  sostanza  puramente  potenziale «  in  genere  intelligibilium»^'-,  e  quello  che  lo  trae  dalla  potenza 79  AcHiLLiNi,  fol.   II,  col.   2-3. ^0  Sigieri,  Qiiaestiones  naturales,  ed.  Stegmùller,  III,  pp.  179-180. ^i  Sigieri,    De    anima    intellectiva,    ed.    Mandonnet,  IX,    p.    171. Cfr.  Giorn.  Crii.  d.  Filos.  Hai.,  XX,   1939,  pp.  467-471. 8i  AcHiLLiNi,   Quol.   Ili,   dub.   3,  fol.    12,  col.   i-fol.   13,  col.  4. 2o8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI l'atto  è  r  intelletto  agente  che,  anche  per    1'  averroista   ita- liano, come  vedremo  esaminando  il  quarto  quolibeto,  è  Dio: Componitur  enim  intellectus  possibilis  agenti;  tali  tamen  com- positione  quod  remanent  dnae  substantiae  separatae  in  actu. Ideo,  3  De  anima,  comm.  20,  istae  substantiae  sunt  duae  uno modo,  et  unum  alio  modo.  Sunt  enim  duae  per  diversitatem  actio- nis;  et  sunt  unum,  quia  intellectus  materialis  perficitur  per  agen- tem.  Et  secundo  De  anima,  comm.  74,  et  3  De  anima,  comm.  36, omnis  actio  attributa  alieni  propter  aliqua  duo  existentia  in  eo, necesse  est  ut  unum  sit  materia  et  aliud  forma;  sed  nos  intelli- gimus  per  intellectum  agentem  et  possibilem,  3  De  anima, comm.  18;  et  sic  aliquo  modo  intellectus  agens  est  forma  nobis, ut  patet  3  De  anima,  comm..   36. Se  r  intelletto  possibile  non  è  un  atto  prima  d' intendere, ma  semplice  potenza,  ne  segue  che  l' intellezione  che  attua questa  potenza,  sia  essa  l'atto  sostanziale  dell'  intelletto, poiché  la  pura  potenza  non  è  mai  soggetto  immediato  d'ac- cidenti. Perciò  l'atto  d' intendere,  del  pari  che  l'abito  della scienza,  è  perfezione  essenziale  dell'  intelletto  possibile  e atto  che  costituisce  la  sua  sostanza  quando  pensa  e  ragiona  ^3. Anche  in  questo  egli  è  perfettamente  d'accordo  con  Sigieri  ^4 Unico  per  tutta  la  specie  umana,  l' intelletto  possibile  è eternamente  congiunto  coli'  intelletto  agente  che  ne  attua  la potenza,  e  possiede,  grazie  a  questo  congiungimento,  un  atto di  pensiero  eterno  in  cui  consiste  la  sua  stessa  natura.  Di abiti  e  di  atti  accidentali  si  può  parlare  non  in  rapporto all'  intelletto  in  sé,  ma  solo  in  rapporto  ai  fantasmi  sensibili ai  quali  l' intelletto  possibile  s'unisce  nei  singoli  individui della  specie  umana.  Questo,  s' intende,  dal  punto  di  vista averroistico,  in  quanto  s'ammette  un  unico  intelletto  per tutti  gli  uomini.  Ma  ciò  non  è  più  vero,  se  si  rifiuta  come  falsa la  tesi   dell'unicità   dell'  intelletto   possibile. L'ultimo  dubbio  del  terzo  quolibeto  verte  sul  problema: «  Utrum  intellectus  possibilis  sit  forma  dans  esse  hominem  ». Giacomo  Zabarella,  un  secolo  più  tardi,  faceva  le  sue  mera- viglie perché  l'Achillini,  dopo  aver  sostenuto  l'unità  dell'  in- telletto, non  avesse  visto  la  contradizione  che  e'  è  ad  affer- mare che  lo  stesso  intelletto,  unico  per  tutta  la  specie,  è  forma ACHILLINI,     fol.      13,      col.      I. Cfr.  Sigieri,  nei  luoghi  cit. I    informante,  e  non  soltanto  assistente,    da  costituire  l'uomo nel  suo  essere  di  uomo  ^5.  Ma  il  filosofo  padovano  non  sapeva che  anche  in  questo  il  bolognese  segue  da  presso  il  maestro brabantino.  Del  quale  è  appunto  la  tesi,  a  quanto  e'  informa il  Nifo  86,  che  r  intelletto,  pur  essendo  unico  in    stesso,  è «  forma  costituens  hominem  et  hunc  hominem  :  hominem  in esse  specifico,  et  hunc  hominem  in  esse  hoc  ».  Anzi  il  Nifo  ci fa  sapere  che  Sigieri,  nell'opera  della  quale  il  suessano  riferisce alcuni  tratti  che  son  riportati  alla  lettera  anche  dall'Achillini, come  abbiamo  visto  a  proposito  del  secondo  dubbio  di  questo terzo  quolibeto,  riteneva,  al  pari  del  bolognese,  dottrina  con- forme alla  mente  d'Averroè  quella  che  afferma  esser  l' intel- letto possibile  forma  sostanziale  dell'uomo.  Come  Sigieri, anche  l'averroista  italiano  poneva  nell'uomo  due  forme: la  cogitativa  tratta  dalla  potenza  della  materia,  e  l' intelletto. Ma  la  prima  è  ordinata  al  secondo,  e  questo  è  complemento e  perfezione  di  quella  87  ;    che  la  materia  già  informata  dalla cogitativa  è  1'  «  informabile  ultimate  dispositum  ad  recipien- dum  intellectum))88,  che  ne  è  la  forma  ultima.  Il  Nifo  ad  espri- mere questo  intimo  e  sostanziale  rapporto  fra  la  cogitativa e  r  intelletto  possibile,  s'era  servito  del  termine  di  «  semianime o  semiforme  ».  Il  termine  nell'Achillini  non  s' incontra,  e non  credo  s' incontrasse  nemmeno  nello  scritto  di  Sigieri  al quale  il  suessano  si  riferiva:  ma  il  concetto  e'  è,    nell'uno  che nell'altro  89. Forma  sostanziale  che    all'uomo  il  suo  specifico  essere  di 85  Iacobi  Zabarellae,  Liber  de  mente  hiimana  (nel  voi.  De  rebus naturalibus,  Venezia,  1590,  pp.  641-684,  e  nei  Commentarii  in  tres  Arist. libros  de  anima,  Venezia,  1605,  dopo  il  commento  al  t.  11,  del  libro  II), cap.   3   e    II. 86  De  inteUectu,  I,  tr.  2,  e.  8,  tr.  3,  e.  18;  De  anima.  III,  comm.  ad  t. e.  5;  cfr.  Sigieri....  nel  pens.,  pp.  14-20.  Anche  il  Card.  Gaetano,  nel  suo commento  al  De  anima,  stampato  a  Firenze,  lui  vivente,  nel  15 io,  dopo aver  detto  che  Averroè  separò  l'anima  intellettiva  dal  corpo,  osserva in  margine  che  questo  è  «  contra  alexandrum  achiUinum,  quolibeto  30, et  subgerium  in tractatu  ad  S.  Thomam,  qui  volunt  quod  intellectus uniatur  secundum  esse,  apud  averroem,  et  sit  unicus  »  (III,  cap.  2,  fol. 59,  col.  3). 87  ACHILLINI,     fol.      15,     col.      I. 88  AcHiLLiNi,  fol.   II,  col.  3. 89  In  Sigieri  anzi  il  concetto  s' incontra  fin  nelle  Quaestiones  super iertio  de  anima  del  Merton  College,  cod.  292;  cfr.  «Giornale  Crit.  d. Filos.  Ital.  »,  XXXI,  1950,  pp.  317-25.  Lo  stesso  concetto  appare  anche nelle  Quaestiones  de  anima  intellettiva,  ed.  Mandonnet.] uomo,  r  intelletto  non  è  per  altro  «  forma  constituta  in  esse per  materiam  »,    da  dipendere  da  questa,  come  accade  per le  forme  che  son  tratte  dalla  potenza  della  materia,  poiché ha  un  proprio  essere  di  forma  separata  al  pari  delle  intelli- genze celesti,  che  pur  son  forme  dei  rispettivi  cieli 9°.  Ed  anche in  questo  concetto  l'accordo  dell'Achilhni  coll'averroista  belga è  perfetto. Forma  e  perfezione  del  primo  cielo  Dio,  forma  e  perfezione dei  cieli  inferiori  al  primo  le  intelligenze  motrici,  forma  e perfezione  dell'uomo  l' intelletto  possibile,  che  è  l' infima  delle intelligenze.  Resta  ora  da  vedere  come  Dio  sia  forma  anche degl'  intelletti  e  ragione   di  ogni  intelligibilità. 4.  -  Il  quarto  quolibeto  è  dedicato  all'  intelletto  agente. Se  r  intelletto  possibile  è  pura  potenza,  l' intelletto  agente è  puro  atto  senz'ombra  di  potenza;  perciò  esso  possiede,  fra tutti  gì'  intelletti,  il  massimo  grado  d' intensità  nell'  intendere. Esso  dunque  è  Dio.  La  identità  dell'  intelletto  agente  con  Dio, che  il  Nifo  attesta  essere  stata  sostenuta  da  Sigieri,  è  dimo- strata  dall' Achillini   con   questi   argomenti: Primo,  omnis  felicitas  est  deus;  sed  intellectus  agens  est  feli- citas;  ergo  etc.  Maior  et  minor  in  secundo  dubio  et  tertio  decla- rantur.    Secundo,  omnis  intellectus  qui  est.  omnia  facere  est deus;  sed  intellectus  agens  est  intellectus  qui  est  omnia  facere, 3  De  anima,  textu  comm.  18,  etc.  Patet  maior,  quia  esse  omnia facere  est  ad  omnia  receptibilia  in  intellectu  possibili,  ad  hoc ut  in  eo  recipiantur,  effective  concurrere,  vel  est  ad  omnia  facti- bilia  effective  concurrere,  vel  omnia  facere,  idest  purus  actus;  et quomodocumque  intelligatur,  soli  deo  competit.    Tertio,  illud cuius  substantia  est  sua  operatio  omnimode,  est  deus;  sed  intel- lectus agentis  substantia  est  illius  operatio  omnimode,  3  De  anima, comm.  19:  «Et  est  in  sua  substantia  actio  »,  idest,  non  est  in  eo potentia  ad  aliquid.    Quarto,  omne  quod  est  primum  educens formam  de  materia,  est  deus;  patet  ex  quolibeto  primo.  Sed  in- telligentia  agens  est  primum  educens  etc,  2  De  aniìna,  comm.  59. —  Quinto,  omne  quod  animae  nostrae  infundit  intellectum,  est intellectus  agens;  sed  deus  animae  nostrae  infundit  intellectum. Patet    maior,    quia    intellectum    speculativum    facit    intellectus 90  Achillini,  fol.  15,  col.  2;  cfr.  Quol.  Ili,  dub.  3,  contra,  ad  i, fol.  12,  col  3.  Nifo,  De  intell.,  1,  tr.  2,  e.  8;  De  anima,  III,  comm. ad  t.  5;  V.  Sigieri,  pp.   14-20. I   agens  esse  in  intellectu  possibili,  faciendo  de  potentia  intellectis actu  intellecta.  Minor  est  Aristotelis  exemplum,  3  Rhetoy'icorum: «  Intellectui  deus  lumen  accendit  in  anima  ». Ex  hoc  patet  quare  Commentator,  3  De  anima,  comm.  20, dixit  se  differre  a  Themistio,  in  modo  ponendi  intellectum  agentera, et  convenire  cum  Alexandre;  quia  Themistius  voluit  intellectum agentem  non  esse  Deum,  quia  animae  nostrae  est  pars;  sed  Alexan- der voluit  intellectum  agentem  esse  deum:  patet  ex  3  De  anima, comm.  36,  ubi  Commentator,  recitando  opinionem  Alexandri dixit:  «  Intellectu s  agens  est  prima  causa  agens  intellectum  ma- terialem))9i. Il  primo  di  questi  argomenti  è  preso  da  Sigieri?-,  come  ve- dremo anche  meglio  fra  poco.  Il  secondo  e  il  terzo  son  ricavati dal  testo  aristotelico  del  De  animai,  ov'  è  detto  che  è  proprio dell'  intelletto  agente  rendere  intelligibili  tutte  le  cose,  e  che lo  stesso  intelletto  agente  è  atto  per  sua  natura,  senza  alcuna mescolanza,    che  «  non  intende  ora    ed  ora  no  »,  ma  intende sempre,  senza  intermissione;  le  quali  cose  son  proprie  sol- tanto di  Dio.  Importante  poi  è  l'osservazione  concernente  la dichiarazione  di  Averroè,  il  quale  approva  Alessandro  d'Afro- disia, per  avere  identificato  l' intelletto  agente  colla  causa prima  che  trae  dalla  potenza  all'atto  l' intelletto  possibile o  hylico. Dopo  di  che  l'Achillini  riporta  ben  nove  obiezioni  che  so- levano farsi  alla  tesi  da  lui  sostenuta;  l'ultima  delle  quali  è questa:  «  Nono,  sequitur  deum  esse  partem  animae  nostre, quod  non  videtur  etc»,  giacché  Aristotele 94  aveva  detto  che tanto  r  intelletto  agente  quanto  quello  possibile  bisogna  che siano  due  èv  t-^  ^u/y^...  Sia9opaL  Alla  quale  obiezione  il  bo- lognese risponde  semplicemente  così:  «Ad  nonum,  declaratum est  supra  quomodo  deus  est  pars  animae  nostrae,  et  quomodo non  )).  Ed  infatti  in  un  passo  del  quolibeto  III,  dub.  3,  che abbiamo  già  riferito  altra  volta  95,  egli  aveva  detto  che,  pur essendo  l' intelletto  possibile  ed  agente  due  sostanze  diverse, s'uniscono  nell'atto  dell'  intendere  di  guisa  che  in  qualche modo  «  intellectus  agens  est  forma  nobis  ». 91  AcHiLLiNi,  Quol.  IV,  dub.  I,  f.  16,  col.  I.  V.  sopra,  il  saggio  VI. 92  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.   2,  e.   17;  cfr.  Sigieri,  p.   25. 93  II,  e.  5,  43oa  15,   18,   22. 94  De  anima. ] Ma  in  che  modo  Dio  s'unisca  all'  intelletto  umano  come forma,  è  detto  più  ampiamente  nella  discussione  del  secondo dubiuni  del  IV  quolibeto,  ove  si  pone  lo  stesso  problema  che s'era  posto  Sigieri  nel  Libey  de  felicitate  9^,  «  Utrum  felicitas  sit deus  »,  e  lo  risolve  allo  stesso  modo  del  brabantino.  Dio  è il  fine  supremo  di  ogni  intelligenza,  nel  cui  conseguimento consiste  la  beatitudine,  perché  Dio  è  ciò  che  è  «  simpliciter perfectum  quod  secundum  se  est  eligibile  semper  »,  è  «  opti- mum, pulcherrimum,  delectabilissimum  »,  è  quello  che  «  nullo indiget  »  ed  è  «  principium  honorum  et  causa  ipsorum  ».  Sol- tanto Dio,  dunque,  «  est  felicitas  sibi  aut  aliis  intelligentiis  aut homini,  quia  solum  ipse  est  perfectissimum  intelligibile  et appetibile  propter  se  »,  e  solo  in  lui  «  eminenter  reperitur  ratio obiecti  intellectus  et  voluntatis  »  97, Si  dirà  che  la  felicità  è  un  atto  che  è  in  noi,  mentre  Dio non  è  in  noi.  L'Achillini  risponde  che,  come  nel  primo  quoli- beto aveva  concesso  «  deum  esse  intellectionem intelligentia- rum,  nunc  conceditur  deum  esse  intellectionem  intellectus possibilis   et    hominis  »  9^. Ma  s'obietta  ancora: Tertio,  nullum  obiectum  operationis  quae  est  felicitas  est  illa operatio  quae  est  circa  illud  obiectum;  patet  ex  differentia  Inter obiectum  operationis  et  operationem.  Sed  deus  est  obiectum operationis  quae  est  felicitas;  patet  io  Ethicorum,  cap.  io:  «  Per- fecta  felicitas  est  operatio  speculativa  optimorum  ».  Ergo  etc. A  questa  obiezione  l'Achillini  risponde  negando  la  mag- giore : Ad  tertium  negatur  maior,  quia  sufficit  inter  operationem  et obiectum  distinctio  rationis.  Dico  igitur  quod  felicitas  (non  in- telligo  polica[m]  quae  est  usus  virtutis,  septimo  Politicorum, sed  contemplativa  [m],  quae  secundum  Philosophum,  decimo Ethicorum,  cap.  8,  est  secundum  nobilissimum  habitum  qui  est sapientia,  et  secundum  eundem,  septimo  Politicorum,  est  melior quam  politica)  non  est  actus  qualitativus  inhaerens  intellectui aut  voluntati:  quia  si  sic,  tunc  non  tenderent  intellectus  et  vo- luntas  in  félicitatem  tamquam  in  ultimum  finem.  Secundo,  quia ille  actus  non  est  perfectissimum.  Tertio,  quia  oporteret  ponere ¥>  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.   2,  e.   2  e   17;  cfr.  Sigieri,  pp.   24-26. 97  AcHiLLiNi,    fol.    16,    col.    3-4. 98  ACHILLINI,    fol.     16,    col.    4. I    «  duas  felicitates:  imam  formalem  et  intrinsecam,  et  aliam  obiecti- vam  et  extrinsecam  ;  et  sic  Aristotelem  et  Commentatorem  indi- stincte  processisse  in  aequivoco,  cum  dixeriint  felicitatem  esse ultimum  fineni  et  operationem  animae.  Quarto,  quia  ex  quolibeto tertio  non  datur  accidens  inhaerens  intellectui.  Concludo  igitur quod  tantum  una  est  felicitas,  et  quod  ea  omnia  vere  felicitabilia felicitantur;  et  ista  est  deus.  Hanc  sententiam  ponit  Commen- tator,  IO  Etliicoritm,  capite  8:  in  Deo  esse  felix  est  in  speculatione sui,  in  nobis  esse  felix  est  in  eo  in  quo  est  sibi,  prout  nobis  est possibile  9"). Allo  stesso  modo  Sigieri  sosteneva  che,  come  «  Deus  Deo per  essentiam  beatificatur  »,  così  l' intelligenza  a  lui  più  vi- cina «  essentia  Dei  ut  forma  felicitatur  »,  «  et  consequenter omnes  residui  intellectus;  adeo  quod  intellectus  hominis essentia  Dei  felicitatur,  quemadmodum  Deus  essentia  Dei»ioo. Sebbene  distinti  nella  loro  natura,  l' intelletto  causato  non potrebbe  intendere  Dio,  se  Dio  non  lo  informasse  di  sé,  giacché, tanto  per  l'Achillini  quanto  per  Sigieri,  «  intellectio  qua  Deus intelligitur  est  ipse  Deus»;  l'operazione  colla  quale  Dio  è inteso  da  parte  dell'intelletto  causato  e  l'oggetto  inteso formano,  nell'atto  dell'  intendere,  una  cosa  sola.  In  quest'atto, Dio,  informando  di    gì'  intelletti  inferiori,  fa  ad  essi  dono di  se  stesso.  «  Ex  quo  patet    osserva  il  bolognese    quod felicitas  est  optimum  deorum  donum,  quia  non  est  donum excellentius  quam  donare  seipsum,  et  praesertim  si  donatum sit  perfectissimum  entium.  Hinc  apparet  quam  commode potuit  Aristoteles,  13  De  animalibus,  substantiam  hominis divinam    appellare  »  '"i. Principio  di  siffatta  beatitudine  è,  pertanto,  il  congiungi- mento della  mente  um.ana  con  Dio  nell'atto  dell'  intendere. Perciò  la  felicità  consiste  formalmente  in  un  atto  d' intelli- genza, poiché  solo  nell'atto  dell'  intendere  avviene  il  congiun- gimento dello  spirito  causato  coli'  intelletto  primo  :  la  beatitu- dine è  il  più  alto  grado  della  vita  speculativa,  come  con  Ari- stotele aveva  detto  Averroè  'o-. A  questo  punto  giova  chiarire  qual  era  il  pensiero  di  Si- gieri intorno  ad  una  questione  dibattura  specialmente  fra  i 99  ACHILLINI,    fol.     IO,    col.    4-fol.     17,    col.     I. 100  NiFo,  /.  c;  V.  Sigieri,  p.  25. loi  AcHiLLiNi,    fol.    16,    col.    4.    Cfr.    Arist.,    De    part.    animai.,    IV, e.   IO,  686»  27-28. "•-  Eth.  Xiconi.,  X,  comm.  al  e.  8,  11  jS  20  sgg.;  De  anima,  III,comm.] teologi.  Questi  solevano  chiedersi  se  l'esser  beato  si  fonda, come  dice  Dante  ^°3,  nell'atto  che  vede  oppure  in  quel  ch'ama; in  altri  termini,  se  la  heatitudo  risieda  formalmente  in  un  atto di  conoscenza  del  quale  è  soggetto  l' intelletto,  ovvero  in  un atto  d'amore  che  risiede  nella  volontà.  Ed  è  noto  che,  mentre i  teologi  del  vecchio  indirizzo  agostiniano  e  i  francescani  po- nevano la  beatitudine  in  un  atto  di  volontà  al  quale  precede la  conoscenza,  Tommaso  e  la  sua  scuola  la  facevano  consi- stere essenzialmente  in  un  atto  d' intelligenza,  d'accordo  in questo  cogli  averroisti,  al  quale  atto  d' intelligenza  tien  dietro l'atto  d'amore  da  parte  della  volontà.  Se  non  che  l'una  e  l'altra teoria  presuppongono  una  troppo  netta  distinzione  fra  l' in- telhgenza  e  il  volere.  Sigieri  supera  il  problema,  negando  la distinzione  reale  fra  queste  due  «  facoltà  ».  Ciò  risulta  da  un importante  luogo  del  Nifo,  che  prima  m'era  sfuggito. Dopo  aver  riassunto  «  que  ex  libello  Subgerii....  excipiun- tur"4)),  intorno  al  problema  dell'identità  della  beatitudine con  Dio,  il  Nifo  prosegue: Ut  igitur  positio  huius  philosophi  intelligatur,  oportet  accipere quod  sicut  unum  precise  est  intellectum  et  volitum  sub  diversis rationibus,  intellectum  quidem  ut  perficiens  intellectum  ipsum absolute,  volitum  ut  perficiens  illum  sub  indifferentia  fuga  aut consensus;  ita  una  numero  est  intellectio  et  volitio,  sed  differunt quoniam  intellectio  est  intellectum  absolute,  volitio  est  intellectum ut  acceptum  vel  fugitum;  sic  unamet  res  est  voluntas  et  intel- lectus  105  :  intellectus  quidem,  ut  perficitur  ac  formatur  ab  intel- ligibili sub  ratione  forme  absolute;  voluntas  autem  ut  perficitur ratione  fuge  vel  prosequele,  ut  superius  diximus.  Ergo  intellectus et  voluntas  sunt  unamet  res  simpliciter  absolute,  licet  sint  di- verse rationes;  et  inde  videmus  Aristotelem  et  Averroem  nuUam facere  differentiam  inter  ea,  nec  tractatus  diversos,  nec  capitula diversa,  ut  in  libro  De  anima  visum  est. Ex  quo  sequitur,  quod  unamet  felicitas  est  intellectio  et  vo- litio, ac  unainet  essentia  est  intellectum  et  volitum;  est  enim in  abstractis  intellectio  rei  idem  quod  ipsa  res,  ac  volitio  rei  idem etiam  cum  re  volita.  Ergo  si  Deus  erit  felicitas.  Deus  erit  intel- lectio et  volitio  insimul;  et  etiam  simul  est  volitio  quod  felicitas, et  intellectio  quod  volitio  et  felicitas  etc. Amplius  sequitur  quod  ociosa  est  questio  querens  utrum  fe- 103  Pa»'.,  XXVIII,   109-111. '04  Nifo,  De  intelL,  II,  tr.  2,  e.   17;  cfr.  Sigieri,  p.   26. i°5  Così  anche  I'Achillini,  Quol.  Ili,  dub.  3,  fol.  13,  col.  4:  «Ad primum,  voluntas  et  intellectus  sunt  idem  re,  licet  secundum  esse  vel rationem   differant  ». I licitas  principalius  sit  intellectio  quam  volitio,  an  econtra;  cum volitio  et  intellectio  non  differant  nisi  nomine  vel  ratione;  nisi questio  fiat  sub  ratione  respectiva  hoc  modo,  scilicet  utrum  fe- licitas  sit  Deus  sub  ratione  qua  intellectio,  an  Deus  sub  ratione qua  volitio  vel  amor  ^°(>. A  questa  felicità,  dichiara  l'Achillini,  noi  tendiamo  per  na- tura, né  può  darsi  che  il  desiderio  naturale  resti  inappagato in  tutta  la  specie.  Perciò,  considerato  in  rapporto  alla  specie umana  che  è  eterna,  anche  l' intelletto  umano,  come  insegna Averroè,  è  eternamente  felice,  perché  eternamente  congiunto con  Dio  e  colle  intelligenze  separate  '07.  Ma  non  felici  son  tutti gli  uomini,  singolarmente  presi,  poiché  non  tutti  arrivano, in  questa  vita,  a  questo  segno.  Giacché  per  l'Achillini,  come per  Sigieri,  si  tratta  appunto  della  felicità  alla  quale  è  concesso all'uomo  d'arrivare  in  questa  vita,  mediante  l'acquisto  della scienza:  «  Felicitatem  autem  in  alia  vita,  quam  non  potuerunt philosophi  naturali  ratione  inquirere,  theologis  relinquimus considerandam  »  ^°^. Ma  può  l'uomo  arrivare  in  questa  vita  a  conoscere  le  so- stanze separate  ?  Tale  il  problema  che  il  nostro  bolognese  si pone  subito  dopo,  col  terzo  dubbio.  Nella  soluzione  di  esso egli  fa  uso  dell'argomento  di  Sigieri,  riferito  dal  Nifo  e  da Francesco  de'  Silvestri: Secundo,  si  impossibile  esset  intellectum  possibilem  intelligere substantias  abstractas,  ociose  egisset  natura,  quia  fecisset,  quod est  in  se  naturaliter  intellectum,  non  intellectum  ab  aliquo.  Ratio est  Averrois,  secundo  Metaphysucae,  comm.  primo.  Suppono in  hac  ratione,  quod  omnis  intellectio  conveniens  intellectui  pos- sibili convenit  homini,  sic  quod  non  est  possibile  quod  intellectui competat,  quin  homini  conveniant:  hoc  voluit  Aristoteles,  primo De  anima,  textu  commenti  64,  et  hoc  proposito  negato,  clauditur via  Commentatori  ad  ostendendum  caelum  intelligere.  Ideo,  si  possi- bile est  substantias  separatas  intelligi  ab  intellectu  possibili,  possi- bile est  substantias  separatas  intelligi  ab  homine.  Hoc  stante, arguo  sic  : Ouandocumque  est  aliqua  forma  non  apta  recipi  in maxime  receptivo  alicuius  generis,  illa  non  est  receptibilis  in minus  reciptivo  illius  generis;  sed  intellectus  possibilis  in  genere intelligentiarum  est  maxime  receptivus;  patetexquolibeto  tertioio9; 106  Nifo,  ib.,  e.   18. 107  AcHiLLiNi,  fol.   17,  col.  I.  Cfr.  AvERR.,  De  awf/Ma,  III,  comm.  36. 1°^    ACHILLINI,    ib. i°9  V.  sopra,  pp.   207-208. 2l6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI ergo,  si  primam  formam  non  est  possibile  intellectum  possibilem recipere,  non  est  possibile  alium  intellectum  recipere  primam. formam;  et  sic  iam  frustrarentur  intelligentiae  mediae  ab  hoc  fine, qui  est  deum  gloriosum  intelligere.  Tunc  ultra:  quandocumque intellectus  abstractus  non  potest  intelligere  interiora,  ut  quolibeto primo  dictum  est  esse  de  mente  Averroismo;  sed  nulla  intelli- gentia  media  potest  primam  intelligere,  ut  ex  ratione  superiori sequitur;  ergo  nulla  intelligentia  potest  intelligentiam  mediam intelligere;  sed  ncque  deus  potest  intelligentias  medias  intelligere, secundum  Averroim,  ut  patet  quolibeto  primo;  neque  intellectus possibilis  potest  eas  intelligere  per  te;  ergo  intellectum  naturaliter in  se  non  est  intellectum  ab  aliquo.  Patet  consequentia  de  intel- ligentiis  mediis:  quia  non  a  Deo,  qui  est  supra;  non  a  seipsis, ut  sequitur;  neque  ab  intellectu  possibili,  qui  est  infra,  per  te intelliguntur;  et  non  est  alius  intellectus  ab  istis.  Et  sic  patet alia  ociositas  in  natura  et  maxima;  et  sic  patet  quod,  quamvis non  sit  homo  finis  intelligentiarum,  tamen,  si  non  sunt  intelli- gibiles  ab  homine,  frustrantur  a  suo  fine;  et  sic  ociose  sunt  in- telligibiles  etc.  Ilaec  omnia  ex  modis  intelligendi  dei,  intelli- gentiarum et  intellectus  possibilis  supra  declaratis  sunt  evidentia'". Passando  ad  esporre  i  fondamenti  filosoiìci  sui  quali  si  basa la  tesi  che  attribuisce  all'  intelletto  umano  il  potere  di  ele- varsi a  conoscere  le  sostanze  separate,  l'averroista  bolognese distingue,  come  aveva  già  fatto  Giovanni  di  Jandun  "2,  la conoscenza  speculativa  acquisita  per  mezzo  dello  studio  delle discipline  filosofiche,  dalla  conoscenza  intuitiva,  «  qua  cogno- scimus  substantias  separatas  per  earum  essentias  proprias  »  ; e  in  quest'ultima  fa  consistere  la  felicità  suprema  dell'uomo. Sì  che  la  beatitudine  non  è  raggiunta  coll'acquisto  delle  scienze speculative,  ma  dopo  il  loro  apprendimento.  L'acquisto  per altro  delle  scienze  è  una  condizione  indispensabile  e  sufficiente a  rendere  la  mente  umana  preparata  e  disposta  al  congiungi- mento coir  intelletto  agente,  che  sappiamo  ormai  esser  Dio. Ma,  oltre  a  ciò,  è  necessario  che  alla  perfetta  conoscenza  spe- culativa tenga  dietro  la  pratica  delle  virtù  morali: Cum  igitur  fuerit  homo  secundum  virtutes  morales  sufficienter habituatus,  sic  quod  cessaverit  discordia  inter  sensitivum  appe- titum  et  intellectivum;   sic   quod   rationi  regimen   tributum   erit 11°  AcHiLLiNi,  Quol.  I,  dub.  I.  Questo  luogo,  nella  stampa  veneziana, è  evidentemente  difettoso. "I  AcHiLLiNi,  Quol.  IV,  dub.  3,  fol.  17,  col.  1-2;  NiFO,  De  intell., II,  tr.  2,  e.  II  ;  In  Averroys  de  anime  beatitudine ,  I,  comm.  53;  cfr.  Sigieri, pp.   22-23. "2  De  anima.   III,  q.  36;  Metaph.,  II,  q.  4. I    «  sine  intrinseco  repugnanti;  sic  quod  veruni  erit  dominium  ra- tionis  super  viribns  sensitivis,  tunc continuabitur  intellectus possibilis,  secundum  quod  est  felix,  homini  et  denominabit  homi- nem felicem.  Ex  quo  patet  quod  quia  in  habituatione  hominis secundum  virtutes  et  scientias  magnum  tempus  vitae  hominis labitur  "3. Unito  al  corpo  umano  da  un  legame  intrinseco,  l' intelletto possibile  trae  dall'esperienza  sensibile  le  forme  immerse  nella materia  e  rese  immateriali  per  un  processo  d'astrazione. Quando,  attuato  da  queste  forme  divenute  intelligibili  e  dal- l'abito delle  scienze  filosofiche,  l' intelletto  umano  si  trova congiunto  coli'  intelletto  agente  nell'atto  della  beatitudine, alla  stessa  beatitudine  parteciperanno  in  tal  modo  le  cose  del mondo  materiale,  fatte  intelligibili;    che  l'uomo  verrà  ad essere  anello  di  congiunzione  fra  il  mondo  superiore  e  il  mondo inferiore,  «  nexus  superiorum  cum  inferioribus,  ultra  hoc quod  forma  hominis  sit  intelligentia »  "4.  Anzi,  siccome  Dio nell'atto  della  beatitudine  è  forma  dell'  intelletto  beato,  e questo  è  forma  del  corpo  umano,  ne  segue  che  anche  la  stessa materia  partecipa  alla  beatitudine;  di  guisa  che  attraverso l'uomo  la  beatitudine  si  diffonde  su  tutto  il  mondo  inferiore  "5. Ma  poiché  l' intelletto  agente  è  la  suprema  Intelligenza, cioè  Dio,  mentre  l' intelletto  possibile  è  l' infima,  questo  non può  unirsi  immediatamente  alla  prima  Intelligenza,  sibbene mediante  le  intelligenze  intermedie.    che  nell'atto  stesso e,  potremmo  dire,  coll'atto  stesso  col  quale  s'unisce  all'uomo r  intelletto  agente  come  forma,  s'uniscono  all'  intelletto  pos- sibile anche  le  altre  intelligenze  ad  esso  superiori  già  informate dalla   prima    Intelhgenza: Cum  intellectus  agens  sit  suprema  intelligentia,  et  intellectus possibilis  sit  intima,  non  potest  naturaliter  uniri  intellectus  agens intellectui  possibili  immediate,  quia  aliae  intelligentiae  naturaliter mediant.  Ideo  oportet  quod  aeque  cito,  sicut  incipit  intellectus agens  esse  forma  et  intellectio  istius  hominis,  incipiat  quaelibet alia  intelligentia  media  informare  hunc  hominem.  Ex  hoc  pate- bunt  apud  Aristotelem  et  Commentatorem  novem  gradus  feli- citatis,  sicut  novem  sunt  apud  eos  intellectus  felicitabiles,  quorum 113  AcHiLLiNi,  fol.   18,  col.   I. "4  76. "5  Ib.,  fol.   18,  col.  2.  Per  questa  teoria  della  beatitudine,  v.  sopra il  saggio  VI,  dedicato  alla  mistica  averroistica.] prinius  et  maximus  dee  convenit,  nonus  vero  et  intìmus  intellectui possibili,  medij  vero  medijs  intelligenti]  s  aptantur  ordinate  etc, quia  intellectus  cognoscens  deuni  per  plura  media  remissius cognoscit  et  imperfectius.  Ideo  prima,  quae  est  sua  cognitio  per essentiam,  se  perfectissime  cognoscit.  Secunda  autem  intelli- gentia  recipiendo  cognoscit  primam,  licet  immediate  eam  recipiat. Tertia  vero  mediante  secunda;  et  sic  gradatim  descendendo  "6. In  questo  senso  dice  Sigieri,  come  ci  attesta  il  Nifo,  che r  intelletto  possibile  dell'uomo,  «  ut  habet  esse  intentionale, est   materia   omnium   intellectuum   separatorum  »  "7. Nell'ultimo  dubbio  di  questo  quarto  quolibeto,  l'Achillini riassume  e  schematizza  quanto  ha  detto  in  questo  stesso  quo- libeto e  nel  terzo,  circa  il  congiungimento  {copulatio,  continuatio) dell'uomo  coli'  intelletto.  I  congiungimenti,  a  dir  vero,  son tre,  e  non  uno  solo:  il  primo  è  quello  dell'intelletto  possibile col  corpo  umano  di  cui  è  forma  ;  il  secondo  è  quello  dell'  in- telletto agente  coli'  intelletto  possibile  ;  il  terzo  è  il  congiungi- mento dell'  intelletto  agente  coll'uomo. Il  primo  congiungimento  è  duplice.  Anzi  tutto,  l' intelletto possibile  s'unisce  all'uomo  secundum  esse,  cioè  come  forma sostanziale  che    all'uomo  il  suo  essere  specifico  di  uomo,  e ciò  fin  dal  momento  in  cui  l'uomo  comincia  ad  essere  uomo. Indi  s'unisce  a  lui  secundum  operationem,  quando  l'uomo comincia  a  far  uso  dell' intelligenza  "8,  Questo  duplice  con- giungimento era  già  esplicitamente  distinto  da  Sigieri,  secondo la  testimonianza  del  Nifo  "9. Anche  il  congiungimento  dell'  intelletto  agente  coli'  intel- letto possibile  è  duplice  :  dapprima  l' intelletto  agente  s'unisce all'  intelletto  possibile  come  causa  agente  dell'  intendere, concorrendo  all'astrazione  del  concetto  dall'  immagine  o fantasma  sensibile,  e  promovendo  lo  sviluppo  intellettuale  per mezzo  delle  scienze;  indi,  al  termine  dello  sviluppo  intellet- tuale, s'unisce  all'  intelletto  possibile,  acconciamente  disposto e  preparato,  come  forma  che  ne  attua  tutta  la  potenzialità e  gli    la  beatitudine  '=o.  Siffatta  distinzione  è  d'Averroè  '^i. "6  Ib.,  fol.    i8,   col.   2. "7  Nifo,  De  intelL,  I,  tr.   3,  e.   18;  cfr.   Sigieri,  p.   19. "8  AcHiLLiNi,  Ib.,  fol.   19,  col.  3. 119  De  intelL,  1,  tr.  3,  e.  26;  De  anima,  III,  comm.  ad  t.  5;  cfr.  Si- gieri, pp.   15  e  20. 121  AcHiLLiNi,  ib.,  col.  3-4. 120  AvERR.,  De  anima.  III,  comm.  36. I    " Ed  essa  vale  anche  per  il  congiungimento  dell'  intelletto agente  con  l'uomo.  Giacché  dapprima  l' intelletto  agente, trovando  l' intelletto  possibile  già  unito  secundum  esse  al corpo  di  quest'uomo  particolare  (per  esempio,  di  Socrate), illumina  della  sua  luce  i  fantasmi  della  cogitativa  di  lui,  di- versi dai  fantasmi  di  altri  uomini,  e  ne  trae  quelle  specie  in- telligibili che  sono  intese  in  questo  particolare  momento  da Socrate.  Piìi  tardi,  quando  l' intelletto  di  Socrate,  conve- nientemente attuato  dagl'  intelligibili  tratti  dalla  sua  parti- colare cogitativa,  si  sarà  arricchito  di  una  sempre  più  varia e  complessa  esperienza,  l' intelletto  agente  gli  dischiuderà, se  n'  è  degno,  il  mondo  splendente  della  pura  luce  che  emana da  sé,  come  da  sole  d'ogni  intelligibilità '-^  Come  in  Sigieri, così  anche  nell'Achillini  s'avverte  lo  sforzo  per  superare  la difficoltà  maggiore  dell'averroismo,  già  avvertita  dallo  stesso filosofo  di  Cordova,  consistente  nel  bisogno  di  conciliare l'universalità  del  conoscere  e  il  valore  della  personalità  umana individuale.  La  grande  obiezione  che  S.  Tommaso  fa,  dal punto  di  vista  strettamente  filosofico,  alla  dottrina  d'Averroè, è  appunto  questa:  posta  l'unità  dell'  intelletto,  come  può esser  vera  la  proposizione  :  «  hic  homo  intelligit  »  ?  "3 Alla  fine  del  diibimn  «  utrum  felicitas  -^it  deus  >>,  l'Achillini si  domanda  se  l'uomo  che  in  questa  vita  abbia  avuto  il  pri- vilegio d'arrivare  a  congiungersi  coli'  intelletto  agente  come a  sua  forma,  può  perdere  volente  o  nolente  questa  sua  beati- tudine. La  sua  risposta  è  incerta  e  imbarazzata,  anche  perché concerne  uno  dei  più  scottanti  problemi  che,  non  molti  anni dopo,  sollevò  gran  clamore  di  dispute,  voglio  dire  il  problema dell'  immortalità  personale.  Già  S.  Tommaso  avea  notato che,  tolta  tra  gli  uomini  ogni  diversità  d' intelletto,  ne  segue che,  dopo  la  morte,  niente  rimanga  della  coscienza  indivi- duale'=4.  L'averroista  bolognese,  pur  ritenendo  con  Sigieri  che r  intelletto  possibile  è  forma  del  corpo  umano,  e  che  nel  suo atto  d' intendere  è  essenzialmente  legato  ai  fantasmi  della cogitativa,  pensa  che  all'eternità  dell'  intendere  e  della  bea- titudine non  sia  necessario  un  legame  col  singolo,  bastando  il 122    ACHILLINI,     fol.     ig,    col.    4. 1^3  Cfr.  la  mia  introduzione  a  S.  Tommaso,  Trattato  sull'ìtniià  dell'in- telletto,  pp.   43-50. 1-4  Tratt.   sull'unità   dell'  intell.] legame  colla  specie,  la  quale  nella  successione  dei  molteplici individui   dura  eterna: Testatur  enim  Aristoteles,  quinto  Ethicorum,  capite  13:  u  Multa enim  et  natura  existentium  scientes  et  operamur  et  patimur, quorum  nulluni  neque  voluntariuni  neque  involuntarium  est, puta  senescere  vai  mori  ».  Conditio  enim  suae  naturae,  quam  scit esse  mortalem,  non  patitur  nolle,  et  quia  mors  non  est  finis  neque bonum,  2  Physicotum,  textu  et  commento  23,  ideo  non  vult  felix mortem.  Neque  desiderio  naturali  permanentiam  sempiternam appetit  in  individuo,  sed  in  specie,  secundo  De  anima,  comm.  34, et  primo  Physicoruni,  comm.  81.  Et  propter  hoc  in  proem.io  octavi Physicorum  dixit  Commentator,  fortunitatem  ultimam  esse  se- cundum  fatuos  vitam  aeternam.  IMulta  autem  mala  felicitas hominis  compatitur,  quae  felicitati  dei  aut  intelligentiarum  re- pugnant.  Est  enim,  inter  veros  felicitatis  gradus,  humanus  intì- mus.  Ideo,  primo  Ethicorum,  capite  14:  «  Sapientem  omnes  exti- mamus  fortunas  decenter  terre  ».  Felicitatem  autem  in  alia  vita, quam  non  potuerunt  philosophi  naturali  ratione  inquirere,  theo- logis    relinquimus    considerandam  125. Il  Pomponazzi,  sebbene  abbia  dell'  intelletto  possibile  un concetto  così  diverso  da  quello  dell'Achillini,  sul  tema  dell'  im- mortalità personale  è  perfettamente  d'accordo  con  lui:  tranne che  per  il  mantovano  solo  l' intelletto  agente  è  veramente  im- mortale per  essere  una  sostanza  separata,  come  volevano anche  Temistio  e  gli  averroisti  ^'^. 5.  -  Visti  quali  sono  i  diversi  gradi  d' intelligenza,  compresi fra  la  mente  Prima  che  è  puro  atto  e  l' intelletto  possibile che  in    è  pura  potenza,  l'Achillini  affronta  il  problema  che s'era  posto  da  principio,  e  cioè  «  utrum  latitudo  intellectuum sit  uniformiter  difformis  ».  Un  siffatto  problema  era  nato, come  dicevamo,  dal  tentativo  di  applicare  a  misurare  i  gradi d' intensità  dell'  intelligenza  il  metodo  delle  calcidaiiones matematiche,  che  s'usa  per  misurare  l' intensità  delle  quahtà materiali,  come  la  velocità,  il  colore,  la  temperatura  e  via dicendo.  Qualcosa  di  simile  è  stato  tentato  nella  psicologia moderna    per    misurare    l' intensità    della    sensazione  ;    e    già 1*5  AcHiLLiNi,  Quol.  IV,  dub.   2,  fol.   17,    col.   I. 126  p     Pomponazzi,    De   immortai .    animae,   cap.    io. I    e  Nicolò  d'  Oresme  aveva  esteso  il  metodo  al  calcolo  del  dolore e    del   piacere  ^-7. Appiglio  a  porsi  siffatto  problema  nei  riguardi  dell'  intelli- genza dev'essere  stato  quel  che  si  legge  nel  Liber  de  causis, che  è  un  estratto  della  Elenientatio  theologica  di  Proclo: In  primis  Intelligeiitiis  est  virtiis  magna,  quoniam  sunt  vehe- mentioris  unitatis,  quam Intelligentiae  secundae  universales inferiores;  et  in  Intelligentiis  secundis  inferiores  sunt  virtules debiles,  quoniam  sunt  minoris  unitatis  et  pluris  multiplicitatis. Quod  est  quia  Intelligentiae  quae  sunt  propinquae  Uni  puro, sunt  maioris  quantitatis  et  maioris  virtutis;  et  Intelligentiae  quae sunt  longinquiores  ab  ipso,  sunt  minoris  quantitatis  et  debilioris virtutis.  Et  quia  Intelligentiae  propinquae  Uni  puro  sunt  maioris quantitatis,  accidit  inde  ut  formae  quae  procedunt  ex  Intelli- gentiis primis  procedant  processione  universali  unita;  et  nos quidem  abbreviamus  et  dicimus,  quod  formae  quae  veniunt  ex Intelligentiis  primis  in  secundas,  sunt  debilioris  processionis  et vehementioris  separationis  i-^. Allo  stesso  modo  Alberto  Magno: Omnes....  formae  ab  ipsa  totius  universitatis  natura  largiuntur; quo  autem  magis  ab  ea  elongantur,  eo  magis  nobilitatibus  suis et  bonitatibus  privantur;  et  quo  minus  recedunt  eo  magis  no- biles  sunt  et  plures  habent   bonitatum   potestates  et  virtutes  1^9. Siffatto  modo  d'esprimersi  sembra  fatto  a  posta  per  invo- gliare ad  applicare  il  metodo  del  calcolo  matematico  all'  in- telligenza. E  l'Achillini,  dopo  essersi  chiesto  se  la  latitudo degli  intelletti  sia  «  uniformiter  difformis  »,  si  pone  altresì  il quesito  «  utrum  quarumcunque intelligentiarum  perfectio  at- tendatur  penes  appropinquationem  summo  ».  Esula  dall'  in- tento che  ci  siamo  proposti  in  questa  ricerca,  il  seguirlo  nella critica  che  egli  fa  della  pretesa  di  stabihre  un  rapporto  quanti- tativo fra  i  vari  gradi  d' intelligenza,  e  perciò  ci  hmitiamo  a segnalare  la  soluzione  negativa  che  egli    dei  due  problemi, a  chi  avesse  ancora  in  proposito  delle  fìsime  del  genere  13°. 127  A.  Maier,  An  der  Grenze,  pp.  324-325;  cfr.  altresì  a  pp.  258-259. 128  Liber  de  causis,  prop.  X;  cfr.  Proclo,  Institutio  theologica, CLXXVII  (l'opuscolo  era  stato  tradotto  in  latino  da  Guglielmo  di Moerbeke  nel  1268,   col  titolo  di  Elenientatio  theologica). "9  Alberto  Magno,  De  intellectu  et  intelligibili,  I,  tr.   i,  e.  5. 130    ACHILLINI,     Ouol. ]Dalle  pagine  che  precedono  sembra  intanto  potersi  con- cludere che  solo  la  prima  Intelligenza  è  fonte  di  sapere  e  di luce  intellettuale.  S.  Tommaso  agli  averriosti  che  dall'univer- salità del  conoscere  avevano  preteso  di  dedurre  l'unità  del- l' intelletto  per  tutti  gli  uomini,  obiettava  che,  se  mai,  se  ne dovrebbe  concludere,  secondo  il  loro  modo  di  vedere,  «  che debba  esservi  un solo  intelletto  non  soltanto  per  tutti  gli uomini,  ma  in  tutto  l'universo;    che  il  nostro  intelletto  non è  soltanto  una  qualsiasi  sostanza  separata,  ma  è  Dio  stesso  «'ji. L'Aquinate  aveva  ragione.    Sigieri  e  l'Achillini  gli  danno torto  :  che  per  essi  Dio  è  l' intelletto  agente  che  effettua  sì nella  mente  umana    nelle  intelligenze  celesti  l'atto  dell'  in- tendere e  s'unisce  all'una  e  alle  altre  come  forma,  a  tal  segno da  fare  in  qualche  modo  una  sola  sostanza  con  ciascuna  di quelle.  Soggetto  assoluto  di  pensiero  e  sorgente  d'ogni  intelli- gibilità. Dio  causa  col  suo  intendere  altri  intelletti,  nei  quali l'atto  dell'  intender  divino  si  particolarizza  per  gradi,  fino all'  intelletto  della  specie  umana  che,  informando  i  vari  corpi dotati  di  sensibilità,  mentre  comunica  ad  essi  la  sua  superiore individualità  spirituale,  ne  assume  l' individualità  contin- gente e  caduca,  per  farla  partecipe  dell'atto  divino  del  cono- scere. Si  rileva  altresì  dalle  pagine  precedenti,  che  l' interpreta- zione sigeriana  del  pensiero  aristotelico  doveva  apparire  al- l'Achillini  un'  interpretazione  organica,  sistematica  in  tutti i  suoi  particolari,  e  sostanzialmente  diversa  da  quella  tomi- stica ispirata  dal  bisogno  di  abbreviare  la  distanza  fra  la  «  filo- sofia »  e  la  fede,  quasi  che  la  fede  non  avesse  in  se  stessa  una filosofìa  che  la  giustificava  appieno.  Liberi  da  questa  preoccu- pazione apologetica,  gli  averroisti  potevano  discutere  in  piena indipendenza  di  spirito  e  con  grande  spregiudicatezza  intorno a  quello  che  era  il  genuino  pensiero  d'Aristotele,  s'accordasse o  non  s'accordasse  colla  fede. Giustamente  dice  il  Laurent,  parlando  del  domenicano Bartolomeo  Spina  avversario  del  Pomponazzi  :  «  Per  lui  che non  ha  subito  l' influsso  del  rinnovamento  che  1'  Umanesimo ha  introdotto  nella  teologia,  affermare  che  Aristotele  nega r  immortalità    dell'anima,    equivale    ad    affermare    che    tale 131  S.  Tommaso,  Traci,  de  unit.  intelL,  ed.  Keeler,  §  107;  cfr.  la  mia traduzione  e  relative  note,  Firenze,   Sansoni] dimostrazione  è  filosoficamente  impossibile.  Basta  leggere alcune  pagine  del  suo  lavoro  per  rendersi  conto  dei  principi che  han  diretto  le  sue  critiche.  Il  vecchio  binomio:  Aristo- tele =  Verità,  è  il  sottinteso,  starei  per  dire,  d'ogni  riga  del suo  volume....  Non  bisogna  perciò  stupirsi  delle  invettive  che lo  Spina  rovescia  sui  suoi  avversari:  i  termini  più  virulenti ricorrono  sotto  la  sua  penna» n-.  E  la  stessa  osservazione  il Laurent  ripete  a  proposito  del  tomista  del  cinquecento,  Fran- cesco Silvestri   da    Ferrara  '33, Trasportiamo  questa  osservazione  all'  inizio  della  polemica averroistico-tomitica,  e  sarà  finalmente  chiarito  il  significato della  così  detta  «  teoria  della  duplice  verità  »,  della  quale qualche  storico  della  filosofia  s'  è  scandalizzato  anche  più di  quel  che  non  abbian  fatto  nel  passato  gì'  inquisitori  del- l'eretica  pravità,  talora,  se  non  sempre,  meno  irragionevoli di  certi  storici  della  filosofia  '34.  Che  l'aver  rivendicato  il  diritto alla  libertà  della  ricerca  storica  nell'  interpretazione  del  pen- siero aristotehco,  prima  che  all'  influsso  dell'umanesimo,  si deve  all'averroismo.  E  anche  in  questo  l'Achillini  è  buon discepolo  di  Sigieri,  nel  tenere  cioè  costantemente  distinto il  pensiero  del  Filosofo  dalla  verità  della  fede. La  quale,  forse,  ha  subito  maggior  danno  che  non  van- taggio dall'  impegno  che  taluni  hanno  messo  a  mostrarne  la troppo  intima  aderenza  ad  un  particolare  sistema  filosofico. 132  M.-H.  Laurent,  Le  Commentaire  de  Cajétan  sur  le  «  De  anima  », in  principio  a  Thomas  De  Vio  Cardinalis  Caietanus,  Scripta  Philo- sophica:  Comment.  in  De  anima  Aristotelis,  ed.  l.  Coquelle,  voi.  I, Roma,   Angeliciim,    1938,   p.    XLIII. 133  Ih.,  p.   XLIX. 134  Intorno  al  significato  storico  della  dottrina  della  «  doppia  verità  », si  veda  quel  che  ne  ha  scritto  il  Gilson,  Études  de  philosophie  medievale, Strasbourg,  1921,  pp.  51-75;  Dante  et  la  philosophie,  Paris,  IQ39,  pp.  258 sgg.  ;  cfr.  (:ui  sopra,  pp.  55-58,  ji-j^,  95- )8,  e  il  mio  volume  Dante  e la  cultura  medievale,  Bari,  Laterza,  1949,  pp.  207-211,  nonché  1'  in- troduzione a  S.  Tommaso,   Trattato  sull'unità  dell'  intelletto. Quando N. ha  ad  occuparsi  dell'avverroista  bolognese  ACHILLINI (si veda),  lo  fa  unicamente  per i  suoi  Quoliheta  de  intelligentiis  e  per  le  tracce  evidenti  in  essi di  dottrine  sigieriane  i.  Ma  per  il  momento  non  mi  detti  cura di  far  ricerche  sul  curricolo  della  sua  vita,  bastandomi  la  data del  1494,  quando  i  Quoliheta  furono  disputati  nel  capitolo generale  dei  frati  minori  tenuto  quell'anno  a  Bologna  e  per l'occasione  stampati.  Successivamente  ho  raccolto  alcuni  dati biografici  che  credo  utile  far  conoscere  a  chi  voglia  occuparsi a  fondo  di  questo  non  comune  maestro  bolognese,  tenuto ai  suoi  tempi  in  altissima  considerazione,  e  degno  anc'oggi d'esser  ricordato  sotto  diversi  aspetti. I.  -  Secondo  le  notizie  raccolte  da  Serafino  Mazzetti,  di solito  accurato  e  preciso,  nel  suo  Repertorio  di  tutti  i  professori antichi  e  moderni  della  famosa  università....  di  Bologna  2, A.  Achillini,  figlio  di  Claudio  che  dicesi  fosse  oriundo  di  Bar- berino in  Val  d'  Elsa  3,  e  coprì  più  volte  cariche  pubbliche, sarebbe  nato  a  Bologna  il  20  ottobre  1463.  Questa  data  presa dal  Tractatus  astrologicus  di  Luca  Gaurico,  non  sempre  bene informato,  dovrebbe  però  essere  anticipata  di  due   anni  se- *  Dal   «  Giorn.   Crit.    d.    Filos.   Ital.  »,    XXXIII,    1954,   PP-    67-108. 1  B.   Nardi,    Sig.   di   Brab.   nel  pensiero   del  Rinascimento  italiano, Roma,  1945,  pp.  45-90  (vedi  saggio  precedente). 2  Bologna,   1848,  n.   15,  p.    11.     • 3  B.    Carrati,    Genealogie   di   famiglie   nob.    bolognesi,    Bologna,    Ar- chiginnasio, Ms.  B.  699,  tav.  2. 15 226        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI condo  la  cifra  degli  anni  ch'egli  aveva  quando  venne  a  morte il  2  agosto  1512,  quale  si  trova  nell'elogio  che  di  lui  si  legge nel  Libro  segreto  del  Collegio  delle  Arti  e  di  Medicina  e  che riferiremo  più  giù.  Ma  la  cifra  di  XXXXXI  anni  è  corretta  su rasura  e  con  altro  inchiostro.  Inoltre  il  fratello  Giovanni  Fi- loteo  Achillini,  nel  suo  Viridario  4,  compiuto  nel  1504,  ci  assi- cura che  Alessandro,  in  quell'anno,  in  cui  egli  stava  scrivendo il  X  canto  del  poema,  aveva  varcato  d'un  lustro  «  il  mezzo  ca- min  ))  della  vita.  Parrebbe  dunque  che  il  Gaurico  avesse  ragione. 11  Mazzetti  inoltre  e'  informa  che  fu  laureato  in  filosofìa  e medicina  il  7  settembre  1484,  e  che  lo  stesso  anno  cominciò  a insegnar  logica  a  Bologna,  nel  quale  insegnamento  durò  fino al  1487.  L'anno  innanzi,  a  23  anni  d'età,  era  stato  ritratto da  Francesco  Francia  ^.  Dall'autunno  1487  all'estate  del  1494, insegnò  filosofìa;  dall'autunno  1494  all'estate  del  1497  passò  a medicina;  ma  dal  novembre  1497  all'ottobre  1506  resse  en- trambe le  cattedre,  cosa  non  comune,  spiegabile  solo  col  fa- vore di  cui  godeva  presso  i  colleghi  e  presso  i  Bentivoglio  dei quali  fu  sempre  caldo  fautore.  D'un  insegnamento  tenuto  dal- l'Achillini  a  Padova,  prima  di  questo  momento,  non  mi  pare dunque  si  possa  parlare.  Il  Gaurico  accenna  anche  ad  un soggiorno  abbastanza  lungo  dell' Achillini  a  Parigi,  del  quale purtroppo  non  abbiamo  altra  testimonianza,  e  d'altra  parte  non si  riesce  a  trovare  un  periodo  della  sua  vita  nel  quale  collocarlo. A  Bologna  ebbe  sicuramente  ad  alunno  il  bolognese  Tiberio Bacilieri  o  de  Bazaleriis,  il  quale  fu  approvato  «  in  artibus  )> il  lunedì  3  luglio  1492  ^  e  «  in  artibus  et  medicina  »  il  4  febbraio 1496,  «  nemine  discrepante  ».  Fra  i  promotori  al  dottorato era  l'Achillini  che  «  dedit  insignia  »  al  neo  dottore  7.  Il  9  di- cembre 1499,  il  Bacilieri  fu  aggregato  in  sopranumero  ai  col- 4  II  Viridario  di  Gioanne  Philotheo  secondo  figliolo  di  Claudio Achillino  Bolognese.  Impresso  in  Bologna  per  Hieronymo  di  Plato  Bo- lognese, nel  M.D.XIII.  Sotto  la  f.  m.  di  N.  S.  Leone  Decimo,  24  di- cembre. Dedica  al  Papa.  Fol.  184  v  sg.  I  vv.  che  riguardano  Alessandro son  riportati  più  giii,  p.    251. 5  II  disegno  del  Francia  è  posseduto  dagli  Uffizi  di  Firenze.  Fotogr. Alinari,  più  volte  riprodotta.  Se  l'Ach.  era  nato  nel  1463,  il  disegno  è del   i486;  se  no,  di  qualche  anno  prima. 6  Libro  Segreto  del  Collegio  [delle  Arti  e  della  Medicina']:  dall'anno- 1481  al  1500  (Bologna,  Archivio  di  Stato,  busta  217);  f.  91  r.  Dal  libro dei  Partiti.  XI,  f.  902,  24  die.  1493  (Arch.  di  Stato),  risulta  che  il  Baci- lieri riscuoteva  già   100  lire  bolognesi  annue   «prò  stipendio  lecture  ».. 7  Ib..  f.  41  r. legi  bolognesi  delle  arti  e  della  medicina  ^.  Ma  non  era  passato un  anno  dalla  sua  aggregazione,  che  fu  sospeso  per  un  quin- quennio dall'uno  e  dall'altro  collegio,  con  decisione  del  9 luglio  1500  confermata  cinque  giorni  dopo,  «  propter  nonnulla demerita  et  facinora....  facta  et  commissa  ».  Fra  questi  «  fa- cinora  »  pare  fossero  anche  «  parole  ignominiose  e  turpi  »  nei riguardi  dei  suoi  colleghi.  La  punizione  fu  inflitta  con  otto fave  bianche  contro  una  nera.  Fra  i  votanti  era  anche l'Achillini  9. Questa  la  ragione  perché  il  Bacilieri  proprio  in  quest'anno dovette  lasciar  Bologna,  e  recarsi  a  Padova 'o,  e  quindi  a  Pavia ove  rappresentò  l'averroismo  della  corrente  sigieriana  che aveva  assimilato  alla  scuola  dell' Achillini".  Il    ottobre  1505, scaduto  il  quinquennio  della  sospensione,  egli  fu  riammesso  a far  parte  dell'uno  e  dell'altro  collegio,  per  unanime  consenso, senza  che  ci  fosse  bisogno  di  porre  ai  voti  la  proposta  '-. I  Quolibeta  de  intelligentiis,  preparati  per  la  disputa  del 1494,  rappresentano  dunque  il  pensiero  filosofico  dell'Achil- lini  nel  primo  periodo  del  suo  insegnamento  della  filosofia naturale  prima  che  passasse  all'  insegnamento  della  medi- cinateorica.  In  quest'opera,  come  ormai  sappiamoci,  si  ritrovano, inserite  negli  schemi  del  metodo  calcolatorio,  divenuto  di moda  anche  a  Bologna  come  a  Padova,  tutte  le  tesi  fonda- mentali dell'averroismo,  concernenti  Dio,  le  altre  intelligenze separate,  e  in  particolare  l' intelletto  possibile  e  la  copulatio di  questo  con  1'  intelletto  agente;  tesi  tutte,  specialmente  quelle riguardanti  l' intelletto  umano,  desunte  dai  tre  scritti  di  Si- gieri,  che,  secondo  l'attestazione  del  Nifo,  si  leggevano  ancora alla  fine  del  secolo  XV. Ma  qui  accade  di  doverci  porre  un  piccolo  problema.  Nessun dubbio  sulla  data  di  pubblicazione  dei  Qnolibeta  dell'Achil- lini,  che  nel  1494,  trentunenne,  si  esibiva  campione  della dottrina  sigieriana  in  una  pubblica  disputa  alla  quale  erano intervenuti  dotti  di  varie  tendenze.  È  per  caso  in  questa  cir- costanza che  Giovanni  Pico  e  il  Nifo  si  trovarono  a  far  viaggio 8  Ib.,  f.  54  r- 9  Ib.,  f.  57r-v;    ff.  59  r-62  v. 'o  V.  sotto,  p.    288. "  Cfr.  il  mio  Sigieri,  cit.,  pp.    132-152. '^  Libro  Segreto,  cit.;  n.  3,  dall'anno  1504  a  tutto  il  1575,  f.  4  r. '3  Cfr.   saggio  prec. 228        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI insieme,  diretti  a  Bologna,  disputando  tra  loro  come  l'unità  del- l'intelletto potesse  conciliarsi  con  l' individualità  e  la  sopravvi- venza dell'anima  del  singolo '4?  Il  Nifo  ci  fa  sapere  di  essere stato  averroista  sigieriano  prima  del  1492,  e  pretende  d'aver composto  nell'estate  di  quest'anno,  poco  più  che  ventunenne, il  Tractatus  de  intellectu  nel  quale  la  dottrina  sigieriana  è combattuta.  Ho  già  espresso  piìi  volte  i  miei  dubbi  sulla  veri- dicità del  Nifo,  il  quale  aveva  troppo  interesse  ad  acconciare il  racconto  della  sua  vita  in  modo  da  meritarsi  le  grazie  del vescovo  di  Padova,  Pietro  Barozzi^S.  Il  piccolo  problema  che vorrei  porre,  e  che  non  sono  in  grado  di  risolvere,  è  questo: chi  portò  a  Padova  o  a  Bologna  gli  scritti  di  Sigieri  ricordati dal  Nifo  ?  Fu  Paolo  Veneto  che  certamente  dimorò  a  Oxford e  a  Parigi  ?  Fu  Giovanni  Pico  ?  Fu  l'Achillini  stesso,  se  mai fosse  vero,  come  pretende  il  Gaurico,  che  anch'egli  soggiornò a  Parigi  ?  Del  resto,  gli  scambi  fra  le  due  università  italiane e  quella  parigina  erano  frequenti,  e,  come  sappiamo  di  fran- cesi che  durante  il  Quattro  e  il  Cinquecento  erano  venuti  a studiare  a  Padova  e  a  Bologna,  sappiamo  del  pari  che  Pietro e  Lorenzo  Pasqualigo,  patrizi  veneziani,  erano  stati  a  studio  a Parigi,  e  il  primo  anzi  nel  1494  vi  aveva  sostenuto,  ventiduenne, ben  due  mila  conclusioni  i^. 2.  -  Nell'estate  del  1498,  quando  all'  insegnamento  della medicina  teorica  aveva  riunito  quello  della  filosofìa  naturale, l'AchilUni  fece  stampare  la  sua  seconda  opera  De  orhihus  in quattro  libri '7.  Nel  primo  libro  ritroviamo  tutte  le  grandi tesi  della  fisica  celeste  di  Aristotele,  nella  più  rigida  interpre- tazione averroistica,  fino  al  punto  che  è  ritenuta  assurda  la teoria  tolemaica  degli  eccentrici  e   degli  epicicli,   che   aveva 14  A.  Nifo,  In  libriim  Destvuctio  Destructionum  Averrois  comment., I,  dub.  8;  cfr.  ib.,  IV,   dub.  7;  cfr.  sotto,  pp.   31Q,  376-77  e  451. 15  V.  sopra,  pp.   101-102  e  sotto,  p.  311,  n.  52. 16  V.  sotto,  p.  289. 17  «  Hoc  secundum  opus  in quatuor libros  divido  ».  Il  che  esclude l'esistenza  di  quel  trattato  De  proportionibiis  niotuum,  che  secondo  lo Hain,  n.  71,  sarebbe  stato  stampato  a  Bologna  «  per  Benedictum  Hecto- ris  1494  ».  Questo  trattato,  composto  più  tardi,  usci  postumo,  come diremo  più   giù,   nel   15 15. SÌ  il  grande  merito  di  salvare  le  apparenze  dei  moti  planetari assai  meglio  che  non  la  teoria  delle  sfere  concentriche,  ma  che mal  si  conciliava  coi  principi  della  fisica  aristotelica.  E  l'Achil- lini,  come  in  generale  tutti  gli  averroisti,  ci  teneva  alla  fedeltà ai  testi  che  egli  s'era  assunto  l' impegno  di  esporre.  Nel  se- condo libro  di  quest'opera  si  parla  invece  delle  intelligenze motrici,  cioè  di  Dio,  primo  motore  immobile,  e  quindi  dei motori  preposti  al  governo  di  ciascun  cielo.  A  questo  punto  il maestro  bolognese  si  chiede  se,  oltre  alle  inteUigenze  separate, esistano  altresì  dei  dèmoni.  La  credenza  nei  dèmoni  e  nelle loro  opere  prodigiose  non  era  diffusa,  alla  fine  del  Quattro- cento, soltanto  nel  popolino,  ma  anche  nei  ceti  colti,  presso i  quali  la  demonologia  cristiana  era  rincalzata  da  quella  neo- platonica. L'Achillini  nel  suo  rigido  averroismo  non  sa  con esattezza  ove  collocare  siffatte  nature  ibride,  di  spiriti  imbe- stiati,  e  quale  funzione  propriamente  assegnare  ad  esse.  Am- messa per  fede,  l'esistenza  dei  dèmoni  è  relegata  tra  le  opi- nioni volgari  i8.  E  quanto  ai  fatti  meravigliosi  che  ad  essi vengono  attribuiti,  il  bolognese  è  d'avviso  si  possano  spiegare con  l'arte  umana  o  per  mezzo  di  cause  naturaH,  a  dir  vero, non  meno  meravigliose,  come  farà  più  tardi  il  Pomponazzi, e  come  aveva  fatto  molto  prima  Pietro  d'Abano. Dopo  questa  parentesi,  egli  torna  a  parlare  dell'  immuta- bilità di  Dio,  ingenerabile,  incorruttibile,  inalterabile,  non soggetto  a  movimento  locale    a  mutamento  di  pensiero, poiché  tutto  atto  senza  potenza.  Di  questa  divina  immuta- bihtà  partecipano  anche  le  altre  intelligenze  celesti,  sebbene in  queste  sia  qualche  potenzialità,  in  quanto  ogni  intelUgenza di  sotto  subisce  l'azione  di  quella  di  sopra,    che  questa  è intelletto  agente  per  rapporto  a  quella  che  vien  dopo,  e  quella che  vien  dopo  può  dirsi  intelletto  possibile  per  rapporto  alla precedente,  come  già  sapevamo  dai  Qiioliheia  de  intelligentiis  '9. Primo  intelletto  agente  che  immediatamente  o  mediatamente informa  di    tutte  le  intelligenze  inferiori,  è  Dio.  Ma  le  intel- Ugenze  inferiori  sono  informate  da  quelle  di  sopra  senza  su- bire cangiamento  nel  tempo,  bensì  con  atto  eterno,  che  fa i8  De  orbibus,  II,  diib.  i,  fol.  37  rb  (secondo  l'edizione  degli  Opera omnia,  curata  da  Panfilo  Monti,  Venezia,  1545,  alla  quale  per  comodità mi  richiamo) . '9  Ib.,  dub.  2,  Secundo  principaliter,  Septimum  dictum,  fol.  39  va. Cfr.  Qiiol.  de  intell.,  V,  dub.  3,  f.  18  rb;  e  qui  sopra,  pp.  197-198  e  217. 230        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI dire  talora  ad  Averroè  che  esse  sono  atti  puri  senza  potenza, cioè  puro  intendere  senza  mutamento. Ultima  delle  intelligenze  è  l' intelletto  umano  che  propria- mente si  disse  possibile  o  potenziale,  poiché  non  ha  altra  na- tura che  quella  di  essere  in  potenza.  Questo  intelletto,  unico per  tutta  la  specie  umana  e  forma  che    all'uomo  il  suo  essere specifico  di  uomo,  non  passa  dalla  potenza  all'atto  del  cono- scere se  non  è  coadiuvato  dall'esperienza  sensibile.  In  quanto passa  dal  non  conoscere  al  conoscere  le  cose  del  mondo  sen- sibile, che  sono  il  suo  oggetto  proprio,  esso  è  soggetto  a  mu- tamento o  alterazione.  Questa  alterazione  era  intesa  comu- nemente come  modificazione  dell'  intelletto  stesso  ad  opera delle  specie  intelligibili  o  rappresentazioni  in  esso  delle  cose conosciute.  L'Achillini  respinge  questa  teoria,  appoggiandosi a  un  famoso  testo  del  VII  della  Fisica  aristotelica -o,  che  aveva già  richiamato  l'attenzione  d'Averroè,  e  coglie  l'occasione per  ribadire  un  concetto  già  da  lui  affermato  alla  fine  del terzo  Qttolib.  de  iìitelligentiis  -i.  Aristotele  aveva  detto  che nella  parte  intellettiva  dell'anima  non  si      generazione né  alterazione  vera  e  propria:  l'atto  conoscitivo  non  importa un  mutamento  qualitativo  intrinseco  all'  intelletto,  ma  una semplice  variazione  del  rapporto  fra  questo  e  le  forme  del mondo  sensibile  che  la  mente  conosce  in    stesse  senza  bi- sogno che  una  rappresentazione  o  «  specie  intelligibile  »,  di- stinta dalla  realtà  conosciuta  e  dal  soggetto  conoscente,  venga a  inserirsi  fra  l'una  e  l'altro.  Un  mutamento  qualitativo  e intrinseco  subiscono  invece  le  facoltà  sensitive  e  con  esse  la cogitativa,  cui  l' intelletto  s'unisce  nell'atto  d'apprendere  le forme  del  mondo  sensibile.  L' intelletto  in    stesso  è  immu- tabile, come  i  principi  logici  e  come  le  forme  a  priori  di  Kant; senza  di  che  nessun  giudizio  certo  sarebbe  possibile;  il  muta- mento e  l'alterazione  sono  soltanto  nel  contenuto  del  cono- scere, e  soltanto  per  denominazione  estrinseca  s'  attribuiscono all'  intelletto.  Perciò  l'Achillini  distingue  con  Sigieri  l' intel- letto dall'anima  razionale:  quello  è  unico  in    stesso  per  tutta la  specie  umana;  questa  invece,  risultando  dall'unione  del- l' intelletto  con  la  cogitativa,  è  individuale  al  pari  di  quest'ul- tima e  diversa  in  ogni  uomo;  e  a  questa,  propriamente,  e  non -°  T.  e.  20,  e.  3,  247  b  I  sgg. -^  Diib.   3,   f.    13  ra:   Hic  aliquantulum  morabimur. a  quello,  spetta  la  funzione  raziocinativa  e  discorsiva,  consi- stente appunto  nell'applicazione  delle  immutabili  forme  del pensiero  alla  mutevole  esperienza  sensibile.  Merito  dell' Achil- lini  è  appunto  questo,  che  a  lui  spetta  per  altro  in  quanto ha  ripreso  un  motivo  di  alcuni  pensatori  della  prima  metà del  secolo  XIV  --,  d'aver  capito  che  la  dottrina  delle  specie intelligibili  finisce  per  offuscare  la  conoscenza  della  realtà, ricacciata  al  di   della  rappresentazione  che  attua  il  soggetto conoscente.  L'atto  conoscitivo  è  possibile  solo  in  quanto  il reale  conosciuto  è  presente  per  se  stesso  al  soggetto  che  l'ap- prende. Vero  è  che,  per  l'Achillini,  le  cose  del  mondo  fisico  hanno un  «  esse  reale  »  fuori  del  soggetto  che  le  pensa,  e  non  possono essere  in  questo  se  non  per  il  loro  «  esse  intentionale  »;  di  guisa che  lo  sdoppiamento  fra  realtà  in  quanto  appresa  e  realtà  in sé  risorge  e  rende  plausibili  le  obiezioni  che  altri  aristotelici e  averroisti  ebbero   a  rivolgere  al  filosofo   bolognese. E  primi  fra  tutti  il  Pomponazzi  e  Marcantonio  Zimara. Il  Pomponazzi  si  dichiarò  «  contra  modernos  pedagogos,  qui tenent  secundum  Averroem  quod  intellectus  possibilis  nihil de  novo  recipit  »,  fin  dal  1500,  mentre  commentava  a  Padova il  De  anima  -3.  I  «moderni  pedagoghi»  dai  quali  dissentiva  erano il  Nifo,  l'Achillini  e  il  suo  fido  Achate,  Tiberio  Bacilieri,  che, per  le  ragioni  accennate  più  su,  era  diventato  collega  del mantovano  nello  studio  patavino.  Questo  è  confermato  da una  nota  in  margine  al  codice  napoletano  che  ci  ha  tramandato il  commento  del  Peretto:  «  Nota  contra  socios  Achillinum  Tybe- riumque  bononienses  »  -4.  Più  tardi,  mentre  commentava  a Padova  la  stessa  opera  aristotelica,  nel  corso  dell'anno  scola- stico 1504-1505,  il  maestro  mantovano  dedicò  una  quaestio speciale  a  esporre  e  combattere  «  opinionem  noviter  repertam quae  tenet  nullo  pacto  dari  species  intelligibiles  ».  Veramente questa   opinione    non    era   proprio    «  noviter   reperta  »,    come 22  Vedasi  il  mio  libretto  Soggetto  e  oggetto  del  conoscere  nella  filosofia antica  e  medievale,   Roma,   Edizioni  dell'Ateneo,   1952,  pp.   2555.23  Bibl.  Naz.  di  Napoli,  mss.  Vili.  D.  81,  f.  52  r,  e  Vili.  E  42,  f.  195  r. -4  Ib.  La  nota  nel    ms.  napoletano  Vili.   D.   81,   f.  52  r  parrebbe  di mano  di  Antonio  Surian  che  trascrisse  il  testo  della  riportazione,  di cui  forse  è  autore  quel  Marco  da  Otranto  che  è  Marcantonio  Zimara, il  quale  ne  avrebbe  fatto  copia  a  Basilio  Troiano  e  questi  a  Gian  Bene- detto Caravegi  da  Crema,  dal  quale  l'ebbe  il  Surian.] del  resto  ben  sapeva  il  Pomponazzi  ^s;  ma  nuova  poteva  sem- brare per  il  modo  come  la  presentavano  e  per  il  vigore  col quale  la  difendevano  i  due  «pedagoghi»  bolognesi.  Ma  nuova o  no,  il  Peretto  non  esitava  a  giudicarla  «  abominevole,  fatua e  bestiale  »  : Et  dico  primo  quod  opinio  ista  est  abominabilis,  fatua  et  be- stialis  et  nihil  boni  ab  ea  potest  capi.  Ego  enim  nihil  intelbgo  de opinione  ista.  Isti  contra  se  adducunt  duo  miUia  auctoritatum  et totam  ecclesiam  doctorum,  ipsosque  glosantes  totaliter  dilaniant et  lacerant.  Vide  in  scriptis  suis  ~^. Che  il  mantovano  non  avesse  presa  per  il  suo  verso  e  non avesse  capito  l'opinione  d'Averroè  e  dell' Achilhni,  non  è  da stupire,  dato  l'orientamento  del  suo  pensiero  quale  doveva rivelarsi  anche  meglio  in  seguito.  Così  anche  nell'esposizione del  VII  della  Fisica,  fatta  a  Bologna  nell'anno  scolastico 15 17-15 18,  giunto  al  commento  del  testo  20,  sul  quale  si  fon- davano gli  averroisti  della  corrente  dell'Achillini,  torna  a ripetere  : Ista  est  pars  dignissima  in  qua  aut  ego  erro  aut  omnes  aiii maxime  erraverunt;  sed  credo  quod  potius  iUi  decipiantur  quam ego;  sed  in  hoc  constituam  vos  iudices.  In  ista  ergo  parte  commen- tator  ponit  unum  documentum,  ex  quo  traxit  Burleus,  quod est  de  mente  commentatoris,  cum  anima  sit  unica  in  omnibus hominibus,  ipsam  nihil  capere  {ins  capit)  de  novo,  ncque  acquirere [ms  aquirit)  scientiam  per  species  de  novo  advenientes,  sed  scientia est  substantia  animae.  Et  non  possum  [non]  mirari  de  istis  mo- dernis,  qui  faciunt  se  inventores  et  autores  huius  viae,  cum  vi- deant  Burleum  ante  se  de  hoc  iam  expresse  loqui.  Imo,  ante Burleum  Henricus  de  Gandavo  tenuit  hoc  idem  esse  de  mente commentatoris;  et  etiam  Thomas  ascribit  hoc  commentatori, Hcet  propter   aham   rationem  27. Non  meno  aspro,  contro  l' interpretazione  che  l'Achillini aveva  sostenuta  del  pensiero  d'Averroè,  è  il  giudizio  di  Mar-     1 25  Infatti  nel  ms.  napoletano  Vili,  E.  42,  f.  1951,  si  legge:  «Pro quo,  domini,  debetis  scire  quod  insurgit  nova  phylosophia,  immo  an- tique; quare  Burleum  videatis:  expresse  super  textu  commenti  2oi septimi  physicorum  dicit  intellectum  speculativum  esse  eternum  et  non dari  species  intelligibiles  commentatoris;  hec  etiam  tenet  augustinus sessa,   Alexander  Achylinus  et  multi  alii  insequentes  i  tos....  ». 26  Ms.  napol.  VIII.  D.   31,  f.   83  r. 27  In  VII  de  phys.  auditu,  Bibl.  Nation.  di  Parigi,  ms.  lat.  6533,  f.  Jj 330  r  (ad  t.  e.  20);  cfr.  ms.  45  della  Biblioteca  del  Collegio  Campana  di  9 Osimo] c'antonio  Zimara  da  Otranto,  in  una  sua  quaestio  «  Utrum ad  mentem  Averroys  intellectus  possibilis  recipiat  species intelligibiles  subiective  ».  Esposta  e  criticata  la  dottrina  del- l'Achillini,  della  quale  vorrebbe  far  rilevare  l'assurdità  dal punto   di  vista  aristotelico  ed  averroistico,  egli  conclude: Et  in  veritate  opinio  istius  hominis  adeo  est  erronea,  ut  me pudeat  amplius  arguere  centra  ipsvim.  Ipse  enim  ignorat  adhuc quomodo  forma  materialis  generatur.  Item  habet  fateri  quod formae  materiales  secnndum  suum  esse  formale  accipiantur  in sensibus  interioribus,  quia  non  est  maior  ratio  quare  in  intellectu possibili  materiales  formae  sint  secundum  esse  formale,  et  non in  ipsa  cogitativa  et  imaginativa.  Quantum  autem  ista  sint  incon- venientia,  non  solum  sapientibus,  sed  etiam  yulgaribus  sunt novissima  [1.  notissima].  Unde  licet  mihi  dicere  de  isto  homine, quod  dixit  commentator  de  Avicenna,  in  tertio  Celi,  comm.  67, quod  videlicet  parvitas  exercitationis  ipsius  viri  in  naturalibus et  bona  confidentia  in  proprio  ingenio  deduxit  ipsum  ad  maximos errores^S. A  risolvere  le  obiezioni  mosse  alla  tesi  dell'Achillini  bisogna tener  costantemente  presente  la  distinzione  fra  anima  razio- nale e  intelletto  in  sé.  L' intelletto  possibile,  in    considerato e  in  quanto  unico  per  tutta  la  specie  umana,  non  è  modificato da  alcuna  rappresentazione  che  gli  venga  dal  mondo  sensibile. Invece,  in  quanto  unito  alla  cogitativa  individuale  di  Socrate e  di  Calila,  con  la  quale  forma  l'anima  razionale  composta  di ciascuno  individuo  umano,  esso  è  certamente  soggetto  a  mu- tazione e  ad  alterazione,  non  per  il  mutare  di  qualcosa  in esso,  ma  per  il  mutare  dell'  immagine  sensibile  che  è  nella cogitativa  cui  è  unito.  Che  se  l'Achillini  dice  l' intelletto  pos- sibile pura  e  nuda  potenza  senz'atto  di  sorta,  prima  dell'atto d' intendere,    questo    va    inteso    per    rapporto    all'  intelletto -8  M.  A.  Zimara  de  sancto  Petro  de  Galatinis  Terrae  Hj^drunti,  ar- tium  doctoris,  Quaestio  qua  species  intelligibiles  ad  mentem  Averrois defenduntur  ad  Magnificum  patritium  \'enetum  Antonium  Surianum; s.  1.,  a  cura  di  Francesco  Storella,  pridie  idus  lanuarii  1554.  La  stessa «  quaestio  »  fu  pubblicata  dal  francescano  Girolamo  Girelli,  professore di  teologia  nello  studio  di  Padova,  in  principio  del  suo  Tractatus  adversus quaestionem  M.  A.  Zimarae  de  speciebus  intelligibilibus  ad  mentem  an- tiqiioritm  Averrois  praesertim.  Venetiis,  1561.  Il  passo  riportato  è  al f .  7  V.  Il  Girelli,  che  aveva  studiato  a  Padova,  ov'era  stato  alunno  del Pomponazzi,  cita  l'Achillini  (f.  23  r  e  26  v),  ma  si  rifa  specialmente  a Enrico  di  Gand  e  al  carmelitano  inglese  Giovanni  di  Baconthorpe, noti   avversari   delle    «species  intelligibiles.] agente  che  è  tutto  atto  senza  potenza  ed  è  la  scienza  in  atto, al  cui  possesso  tende  l' intelletto  possibile. Il  III  libro  del  De  orhihus  s'apre  col  settimo  dubbio  del- l'opera: «  an  intelligentia  sit  forma  dans  esse  caelo  ».  Anche su  quest'argomento  l'Achillini  si  sforza  di  mantenersi  fedele ad  Averroè:  ogni  cielo  è  composto  di  materia  e  di  forma;  il corpo  sferico  di  esso  è  la  materia,  l' intelligenza motrice  è  la sua  forma.  Per  questa  unione  ciascun  cielo  è  un  animale  vi- vente, non  di  vita  vegetativa  o  sensitiva,  come  pretendeva Avicenna,  ma  di  vita  intellettuale.  Le  sfere  celesti  sono  perciò quegli  animali  immortali  ed  eterni  di  cui  parlano  Aristotele nel  IV'  dei  Topici -9  e  Porfirio  nella  sua  Isagoge  alle  Categorie  3°. Animali  viventi  di  vita  intellettuale,  l'atto  dell'  intendere e  del  volere  si  predica  dei  cieli,  di  cui  le  intelligenze  son  forme sostanziali,  a  quel  modo  che  si  predica  dell'uomo  di  cui  è forma  sostanziale  l' intelletto  possibile,  che  è  l' infima  delle intelligenze  separate. Sebbene  i  corpi  celesti  siano  dotati  di  spazialità  e  di  movi- mento al  pari  dei  corpi  del  mondo  inferiore,  essi  son  «  corpi spirituali  »,  immuni  da  composizione  di  materia  e  di  forma, poiché  il  loro  essere  è  costituito  dall'unione  immediata  con  la propria  intelligenza.  Questo  concetto  averroistico  di  una  «  cor- poreità spirituale  e  immateriale»,  che  piacque  anche  al  Ficinosi, fu  oggetto  di  lunghe  controversie  fra  gli  averroisti  e  le  altre scuole  aristoteliche,  e  fra  gli  averroisti  stessi. Dio  è  la  prima  delle  intelligenze  separate;  e  come  ognuna  di queste  è  forma  sostanziale  del  proprio  cielo,  ch'essa  avviva di  vita  intellettuale  e  a  cui  imprime  movimento,  così  anche Dioè  forma  sostanziale  del  primo  cielo  mobile  al  quale,  insieme al  primo  moto,  imprime  la  propria  perfezione  intellettuale  3^ Con  ciò  il  bolognese  non  fa  che  sviluppare  un  concetto  già chiaro  nella  sua  precedente  opera,  Quol.  de  intelligentiis,  I, dub.  2.  L' idea  di  Dio,  quale  emerge  da  siffatto  modo  di  ve- dere, è  r  idea  di  un  Dio  strettamente  legato  al  mondo  finito ^9  Arist.,    Top.,   IV,    e.    2,    i22b    14:     tcov  ^cóoiv    jjièv  ■8-VY]Tà  xà •^'à-B-àvaTa. 30  Porfirio,   Isagoge  et  in  Arist.   Categor.  comni.  ed.   A.  Busse,  nei Commentaria  in  Arist.  graeca,  voi.  IV,  De  differentia,  p.   io,   11  sgg. 31  Argmn.  in  Platon.   Theol.  ad  Laurent.  Medicen  [in  Opera,  Basilea, 1561,   t.   I,   Epist.   lib.   II,  p.   707). 3-  De  orbibìts,   III,   dub.    i,   f.   47  rb-vb. i di  Aristotele,  come  forma  e  motore  non  mosso  della  prima  sfera celeste,  e  anima  del  primo  «  corpo  spirituale  »  che  contiene  e racchiude  entro  di    le  altre  sfere  animate  e  immortali,  fino al  cielo  lunare,  che  racchiude  nella  sua  concavità  la  «  sphaera activorum  et  passivorum  »,  ossia  i  quattro  elementi  e  quelle cose  che,  sotto  r  influenza  celeste,  «di  lor  si  fanno».  Forma  e motore  di  un  mondo  finito,  è  evidente  che  di  siffatto  Dio  non si  può  dimostrare  l' infinità    l'onnipotenza    la  libera  azione creatrice. Del  resto,  per  ciò  che  concerne  l'animazione  dei  cieli,  v'erano teologi  disposti  ad  ammetterla.  L'Achillini  lo  sa  bene;  ma  os- serva che  da  parte  dei  teologi  esistono  difficoltà  non  facilmente superabili  ad  accogliere  simile  teoria.  Per  essi,  infatti.  Dio creò  le  intelligenze  «  in  statu  merendi  et  demerendi  ; viatrices enim  aliquantulum  fuerunt  »,  durante  quella  «  morula  »  con- cessa loro  da  Dio  per  potere  scegliere  liberamente  il  bene  o il  male  33.  Ora  che  cosa  sarebbe  accaduto  se  l'anima  del  primo cielo  avesse  peccato  ?  Il  primo  cielo  sarebbe  stato  dannato. Eppure  esso  avrebbe  dovuto  accogliere  i  beati,  a  meno  che Dio  non  avesse  preparato  per    e  per  i  santi  un  altro  luogo più  adatto,  o  che  non  avesse  predestinato  l' intelligenza  di quel  cielo  alla  beatitudine  eterna  !  Ma  il  maestro  bolognese taglia  corto  su  questo  e  altri  problemi  sottili  e  imbarazzanti: per  lui,  secondo  la  verità  della  fede,  non  può  ammettersi  che Dio  sia  unito  come  forma  ad  un  cielo;  ciò  ripugna  alla  sua infinità  e  al  potere  che  ha  di  trarre  le  cose  dal  nulla  34. Tutto  questo,  per  altro,  riguarda  i  teologi  e  non  la  filosofia, se  per  filosofia  s'  ha  da  intendere,  come  quasi  tutti  allora  in- tendevano, il  sistema  aristotelico  della  natura,  cosa  che  non tutti  gli  storici  della  filosofia  han  sempre  avvertito. E  problema  tutto  teologico  è  quello  discusso  nel  dubbio ottavo  dell'opera,  che  è  il    del  terzo  libro,  intorno  alla  crea- zione dal  niente  e  al  cominciamento  o  novitas  del  mondo  nel tempo.  In  oltre  venti  fittissime  e  uniformi  colonne  in-folio, interrotte  da  appena  due  capoversi,  la  dottrinateologica della creazione  del  mondo  nel  tempo  è  sottoposta  ad  una  serrata e   minutissima  critica  che   ne   dimostra    l' inconciliabilità   coi 33  Cfr.    Dante,    Par.,   XXIX,   49-51. 34  De   orb.] principi  più  Certi  della  metafisica  aristotelica  35,  per  termi- nare, al  solito,  dopo  tanto  sforzo,  con  questa  dichiarazione: «  Tenendum  est  autem  deum  creasse  mundum  et  non  ab aeterno,    et    ab    aeterno   ipsum    potuisse    creare....  »! 36. Segue  il  nono  quesito  o  dubbio,  «  utrum  caelum  sit  finitae magnitudinis  in  actu  »,  intorno  al  quale  l'Achillini,  fedele ad  Aristotele  e  ad  Averroè,  mostra  di  non  tenere  in alcun  conto  il  tentativo  fatto  da  alcuni  teologi  del  secolo XIV,  di  dedurre  la  possibilità  d'un  universo  infinito  dalla infinità  e  onnipotenza  di  Dio;  che  anzi  dalla  limitatezza  del- l'universo aristotelico  egli  è  condotto  a  limitare  la  potenza divina.  Perciò  egli  si  contenta  di  osservare  :  «  Quod  si  theo- logus  concedat  deum  posse  lacere  corpus  infinitum,  oportet ipsum  dicere  has  difiìnitiones  quantitatum  non  esse  diffini- tiones  absolute,  sed  quantitatum  finitarum,  quemadmodum oportet  ipsum  concedere,  quod  acquale  vel  inacquale  non est  passio  quantitatis,  sed  est  passio  propria  quantitatis finitae  »  37  ;  nel  che  consentono  appieno  il  Cusano  e  il  Bruno. Nel  decimo  quesito  col  quale  si  conclude  il  terzo  libro,  il maestro  bolognese  esclude  la  possibilità  di  altri  mondi  fuori di  quello  descritto  da  Aristotele,  che  ha  per  centro  la  terra e  per  limite  la  convessità  della  prima  sfera  di  cui  è  forma  so- stanziale Dio  stesso. Anche  nel  quarto  libro  troviamo  ribadite  le  grandi  tesi  del- l'aristotelismo averroistico  intorno  alla  natura  celeste  presa nel  suo  complesso.  Sferico  è  il  cielo,  perché  corpo  perfettissim.o cui  non  può  competere  se  non  la  perfettissima  delle  figure geometriche,  qual  è  appunto  la  sferica  38.  Ed  è  formato  di natura  luminosa  che  consegue  alla  luce  intellettuale  dell'  in- telligenza che  l'anima  e  lo  muove,  diminuendo  d' intensità giù  giù,  di  grado  in  grado,  fino  alla  sfera  lunare,  la  cui  lumino- sità propria  è  appena  percettibile  nelle  ecclissi  di  luna  39.  Ampio sviluppo  maestro  Alessandro    al  quesito  concernente  l'eter- nità del  moto  celeste,  connesso  con  quello  dell'eternità  del mondo  e  dibattutissimo  insieme  a  questo,  nei  commenti  al- 35  Ib.,   f.    5irb:    «ad   quartum,   stando  in  principiis   philosophorum, rationes  militant;  sed  negatis  eorum  principiis,  tiinc  cessai  disputatio  ». 36  Ib.,  i.  52ra. 37  Ib.,  f.  52ra. 38  Ib.,  IV,  dub.   I, f.  54ra-vb. 49  Ib.,  dub.   2,  f.   54vb-55rb.] l'ottavo  della  Fisica  4°.  Circolare  ed  eterno,  il  moto  delle  sfere celesti  riflette  l'eterna  circolarità  del  pensiero  delle  intelli- genze motrici:  «  Quia  igitur  intellectio  intelligentiae  exit  ab intelligente  et  revertitur  super  idem  ut  intellectum  est,  ideo intellectio  est  principium  motus  circularis,  quoniam  in  cir- culo  exit  corpus  ab  a,  ut  a  principio,  et  revertitur  in  idem  a, ut  in  terminum,  per  arcum  circuii»! 41. L'ultimo  quesito  del  De  orèzèiis,  concerne  l' influenza  celeste sul  mondo  infralunare.  In  nessun'altra  trattazione  quanto in  questa  dell'Achillini  appare  evidente  come  le  dottrine astrologiche  sull'  influenza  dei  cieli  avevano  finito  per  pren- dere consistenza  metafisica  nel  sistema  aristotelico  della  na- tura, nel  quale  le  sfere  celesti,  coi  loro  motori  intellettuali, e  il  mondo  elementare,  contenuto  nel  concavo  dell'orbe  lu- nare, son  solidali  e  quasi  direi  complementari  fra  loro,  legati come  sono  da  un  legame  di  causalità  42.  «  Si  caelum  staret, ignis  in  stupam  non  ageret,  quia  Deus  non  esset  »,  suonava una  proposizione  condannata  dal  vescovo  di  Parigi  nel  1277  43. E  l'Achillini:  se  il  movimento  celeste  s'arrestasse,  non  solo il  fuoco  non  s'apprenderebbe  alla  stoppa  e  allo  zolfo,  ma  addi- rittura «  tunc  non  essent  ignis,  stupa  aut  sulfur»;  e  ciò  per  la ragione  «  quod  in  primo  instanti  quietis  caeli  resolverentur omnia  inferiora  in  materiam  primam,  quia  desineret  caelum  esse conservans  interiora...;  aut  in  nihil  omnia  redirent.  Ideo  supra dictum  est,  quam  repugnat  naturae  vacuum,  aut  materiam esse  sine  forma,  tam  repugnat  caelum  quiescere.  Ideo  Aver- roes,  12.  Mataphysicae,  comm.  41,  auctoritate  Aristotelis,  9. Meìaph.,  [t.J  e.  16,  [e.  8,  io5ob  22  sgg.)  :  '  Non  est  timendum caelum  quiescere  '  44.  Meno  male  ! Ma  nel  trattare  della  causalità  che  il  mondo  celeste  esercita su  tutte  le  cose  del  mondo  inferiore,  il  bolognese  è  indotto  a porsi  il  problema  della  libertà  umana.  Sigieri45  e  Giovanni  di 40  Ib.,  dub.  3,  f.  55rb-57ra. 41  Ib.,  dub.  4,  f.  57ra-vb. 42  Su  questo  legame  fra  il  cielo  e  il  mondo  inferiore,  cfr.  Averroè, De  caelo,  I,  comm.  22;  Aristotele,  Meteor.,  I,  e.  i,  338b  22;  e.  2,  339* 21  sgg. 43  Denifle  e  Chatelain,  Chart.  Univers.  Paris.,  1,  p.  552. Cfr.  «Giorn. Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXIX,  1951,  p.  379. 44  De  orb.,   IV,   dub.   5,   f.   59rb. 45  Cfr.  F.  Van  Steenberghen,  Sig.  de  Brab.  d'après  ses  oeuvres inédites,  voi.  II,  Siger  dans  l'  hist.  de  l'Aristotélisme,  nella  collez.  Les philosophes  belges,  t.  XIII,  Louvain,  1942,  pp.  624  e  663-665. 238        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Jandun  46  se  l'eran  posto  assai  prima,  e  l'avevan  risolto  allo stesso  modo.  L' influenza  dei  corpi  celesti  non  s'esercita  in modo  diretto  se  non  sui  corpi  infralunari.  Sull'  intelletto  e  la volontà  umana  questa  influenza  non  s'esercita  se  non  indiretta- mente, nella  misura  che  lo  spirito  umano  è  legato  al  corpo. Ma  per  se  stessa  quest'  influenza  non  s'esercita  sull'atto  del giudicare  e  del  volere,  che  può  resistere  ad  ogni  influenza indiretta.  Ora  la  nostra  libertà  trae  origine  dal  giudizio  della ragione,  che  per    è  immune  da  ogni  diretto  influsso  celeste. Al  qual  proposito  l'Achillini  coglie  l'occasione  per  chiarire l'equivoco  che  nasce  dal  confondere  la  libertà  umana  con  la contingenza,  la  quale  nel  linguaggio  aristotelico  è  ben  altra cosa.  La  libertà  è  propria  del  giudizio  che  non  è  determinato dall'oggetto  appreso;  la  contingenza  deriva  invece  da  indi- sposizione della  materia  «  che  a  risponder  molte  volte  è  sorda  »; la  prima  è  propria  dell'uomo;  la  seconda  spazia  in  tutta  la natura  sublunare,  ove  l' impronta  del  suggello  celeste  è  osta- colata dalla  cera  mortale  47, Ma  anche  in  questo  l'Achillini  non  dice  niente  di  nuovo. Lo  stesso  concetto  della  libertà,  più  che  svolto,  è  appena  ac- cennato. 3.  -  Poco  dopo  la  pubblicazione  del  De  orbi  bus  a  mezzo  della stampa,  il  maestro  bolognese  preparava  l'edizione  di  alcuni rari  opuscoli  pseudo  aristotelici  insieme  ad  altre  cose  non  meno rare,  fra  le  quali  egli  inserì  anche  un  suo  trattatello  De  univer- salibus,  la  cui  composizione  è  probabile  risalga  agli  anni  in cui  leggeva  logica  fra  il  1484  e  il  1487.  Nacque  così  l'Opus septisegmentatum    stampato    nel    1501,    a    spese    dell'editore 46  Phys.,    vili,    q.    6. 47  De  orb.,  1.  e,  f.  58vb:  «  Ex  potentiali  in  genere  intelligibilium  na- scitur  libertas,  sed  ex  potentiali  in  genere  sensibilium  nascitur  contin- gentia.  Hoc  voluit  Philosophus,  6.  Metaph.,  textu  comm.  5,  in  transla- tione  graeca:  quare  materia  erit  causa  praeterquam  ut  in  pluribus aliter  accidentis....  Quod  igitur  dixi  in  primo  opere,  Quolibeto  [de  in- telligeutiis]  primo,  [dub.  3,  nell'ediz.  del  1494]  :  '  Sequitur  secundo  nul- lam  esse  in  rebus  contingentiam  ad  quas  non  concurrit  homo  ',  passum est  ab  impressura  defectum,  non  apponendo  '  libertatis  '  »  [prima  di '  contingentiam  '].  Ma  nell'edizione  del  1506  e  in  quella  del  1508,  l'au- tore ebbe  cura  di  correggere  l'errore. bolognese  Benedetto  d'  Ettore  Facili.  La  stampa  riuniva  in- sieme queste  rarità:  Pseudo  Aristotele,  De  secretis  secretorum, De  regum  regimine,  De  sanitatis  conservatione,  De  physionomia. De  signis  tempestatum,  ventorum  et  aquarum,  De  mineralibus; poi  il  fragmento  De  intellectu  di  Alessandro  d'Afrodisia  nella traduzione  medievale  di  Gerardo  da  Cremona,  il  De  animae beatitudine  di  Averroè,  cui  tien  dietro  l'opuscolo  De  universa- lihus  dell' Achillini  stesso;  infine  l'epistola  d'Alessandro  il Macedone  ad  Aristotele,  De  mirahilihus  Indiae. L'anno  seguente  deve  aver  curato,  presso  lo  stesso  editore Ijolognese,  l'opuscolo  De  primo  et  ultimo  instanti  di  Walter Burley,  a  spiegazione  del  quale  egli  aggiunse  una  breve  nota: Alex.  Achillini  Bon.  Examinatio  huius  quadrate  figure  et  ad- dictio  oblunge  (f.  A  5),  cui  seguono  (f.  A  6-B  6)  le  Proportiones di  Alberto  di  Sassonia  (Bononie....  per  Ben.  Hectoris,  die XXIII  Aug.  MCCCCCII.  La  rara  stampa  è  posseduta  dalla Bibl.  Nationale  di  Parigi,  Rés.  V.  810). Nel  1503  curava  altresì  la  stampa  del  libretto  di  Agostino Trionfo  da  Ancona,  agostiniano.  De  cognitione  animae  et  eitis 'itentiis,  cui  l' Achillini  aggiungeva  una  Quaestio  de  sensihilibns noribus  di  Maestro  Prospero  da  Reggio,  egli  pure  agosti- .:  .no,  «  excerpta  et  sumpta  ex  quaestionibus  ab  eo  Parisius J'.putatis  supra  prologo  primi  magistri  sententiarum  »  (Bo- logna, presso  Giovanni  Antonio  de'  Benedetti,  31  maggio 1503)  ;  e  poco  dopo  quella  della  Destructio  in  arborem  porphy- rianam  dello  stesso  Trionfo,  presso  lo  stesso  stampatore  de' Benedetti  (io  luglio  1503).  Nello  stesso  anno  e  presso  lo  stesso editore,  die  in  luce  la  Quaestio  de  subiecto  physionomiae  et chyromantiae,  o  anche  De  Chyromantiae  principiis  et  physio- nomiae, dedicata  a  Bartolomeo  Coclite  e  premessa  all'opera di  questo,  Chyromantiae  ac  physionomiae  anastasis  cum  ap- probatione  magistri  Alex.  Achillini,  uscita  a  Bologna  presso il  de'  Benedetti  nel  1504  e  dedicata  ad  Alessandro  Bentivoglio, figlio  del  signore  di  Bologna,  Giovanni  IL  Due  altre  quae- stiones,  una  De  potestate  syllogismi,  l'altra  De  subiecto  medicinae, dedicate  all'alunno  Virgilio  Porto  da  Modena,  l' Achillini stampò  a  Bologna,  presso  lo  stesso  Giovanni  Antonio  de' Benedetti,    nel    1504. Questo  Virgilio  Porto  era  ancora  alunno  dell 'Achillini  e  ne aveva  raccolto  le  lezioni  su  quei  due  argomenti.  Nel  1505 si  addottorò,  e  nel  nuovo  anno  scolastico  cominciò  a  leggere medicina  teorica  a  Bologna  fino  al  1525,  quando  passò  a  me- dicina pratica;  ma  il  6  agosto  1527  venne  a  morte  ancor  gio- vane 48.  Ecco  la  dedica  affettuosa  del  maestro  : Alexander  Achillinus  Virgilio  Porto  Mutinensi, discipulo  haud  penitendo,  foelicitatem. Nostra  quaedam  fragmenta  (ut  moris  eorum  est),  Virgilii  mi amantissime,  diligentem  eorum  collectorem  adeunt.  Tu  enim urbanitate  et  virtutibus  et  doctrina  is  es,  quem  inter  caeteros nobis  dilectos  elegi,  apud  quem  aptissime  reponantur;  te  enim semper  cognovi  nostri  nominis  studiosum.  Logicalia  quidem alios  docebis;  medicinalia  vero  exacte  (ut  assoles)  contempla- beris:  ex  quibus  non  minus  gloriae,  Alexandre  tuo  aurigante, te  iam  comparaturum  existimo,  quam  hactenus  ex  poeticis  mu- neris  (/.  numeris)  adeptus  sis.  Haec  igitur  nostris  aliis,  quae  apud te  sunt,  adiungas.  Vale,  et  libenter  res  nostras  perlege. 4.  -  L'  II  settembre  1505,  presso  lo  stesso  de'  Benedetti, uscì  il  De  elementis  che  si  può  dire  formi,  insieme  al  De  intelli- gentiis  e  al  De  orbibiis,  la  terza  parte  di  un'opera  complessiva, la  quale  abbraccia  tutto  il  sistema  aristotelico-averroistico della  natura,  ossia  tutta  intera  la  sfera  cosmica,  avente  la terra  per  centro  e  per  periferia  il  cielo  delle  stelle  fisse.  Consa- pevole dell'  importanza  dell'opera,  l'Achillini  dedicò  il  De elementis  «all'invittissimo  principe  e  padre  della  patria,  Gio- vanni II  Bentivoglio  »,  con  una  lettera  che  è  documento  im- portantissimo per  stabilire  i  legami  che  univano  il  filosofo  al signore  di  Bologna. Neil'  «  explicit  »  di  questa  e  dell'opera  precedente  l'Achil- lini, anzi  che  col  nome  d'Alessandro,  comincia  a  sottoscri- versi «  il  figlio  di  Claudio  Achillini  »,  arieggiando  alla  lontana la  maniera  degli  arabi.  A  rendere  piìi  solenne  l'edizione  del De  elementis,  il  giovane  Porto  fece  scattare  il  suo  estro  poetico e  dettò  questo  epigramma,  che  si  legge  sul  frontespizio,  e  in cui  il  nome  di  Claudio  Achillini  è  ricordato  nel  momento  che per  la  prima  volta,  per  quanto  io  sappia,  al  figlio  veniva  dato l'appellativo   di  nuovo   Aristotele: Cum  modo  legisset  titulum  natura  libelli huius,  Achillaeo  est  obvia  facta  seni, 48  Su  di  lui,  V.  TiRABOSCHi,  Bibl.  Moden. atque  ait:  O  nimium  foelix  hoc  pignore,   Claudi, quam  melius  dici  Nicomachus  poteras. Un  altro  epigramma  scrisse  per  la  stessa  stampa  Ludovico Boccadiferro,  che  traduce  va  il  suo  cognome  in  quello  meno plebeo  di  Siderostomo.  Anch'egii  era  discepolo  dell' Achillini, e  più  tardi  ne  continuerà  l' insegnamento  averroistico  a  Bologna, ma  con  assai  minore  vigore  speculativo. Il  De  elementis  è  diviso  in  tre  libri.  Nel  primo  si  parla  dei mutamenti  e  delle  vicissitudini  che  accadono  nel  mondo  sublu- nare e  della  materia  che  n'  è  il  soggetto.  In  28  diibia  son  di- scussi tutti  i  problemi  concernenti  l'esistenza  della  materia prima,  la  sua  natura  di  soggetto  indeterminato  e  potenziale del  divenire  fisico,  la  sua  conoscibilità,  i  suoi  rapporti  con  la forma,  con  le  dimensioni,  e  il  concetto  di  privazione.  Niente di  particolarmente  notevole,  tranne  questi  tre  punti:  primo,  il sscondo  dubbio  «an  Sorte  non  existente,  Sortes  non  sit  homo», che  richiama  l'attenzione  sulla  discussione  che  fa  di  questo problema  anche  Sigieri  di  Brabante,  nella  Quaestio  utrum haec  sii  vera:  'Homo  est  animai',  nullo  homine  existente  '^^; secondo,  il  sesto  dubbio,  ove  si  nega  la  tesi  che  attribuiva alla  materia  una  forma  sostanziale  di  corporeità  da  essa  inse- parabile; terzo,  il  dodicesimo  dubbio,  ove  si  sostiene  che  la materia  prima  è  ingenerabile  e  incorruttibile  e  perciò  eterna, checché  ne  pensassero  altri  con  Avicenna. Il  II  libro  tratta  degli  elementi  e  della  loro  mescolanza.  Al qual  proposito  il  bolognese  riprende  in  esame  l'annoso  pro- blema se  nei  «  misti  »  restino  in  atto  o  soltanto  in  potenza  le forme  elementari,  ritorna  sulla  «  forma  corporeitatis  »  che Avicenna  voleva  inseparabile  dalla  materia,  e  fa  un  fugace accenno  alla  famosa  «  colcodea  «  dello  stesso  Avicenna,  «  quae est  decimus  intellectus  in  descendendo  a  deo,  et  est  formarum datrix  in  concavo  lunae  assistens  ad  regulandam  activorum et    passivorum   sphaeram   et   ipsam   conservandam  »  5°.    Altro 49  De  elementis,  I,  diib.  2,  f.  gava.  P.  Mandonnet,  Sig.  de  Brab. et  l'averr.  latin  au  XI Ile  siede,  seconda  parte:  testi  inediti.  Nella  coli. Les  philos.  belges,  t.  VII,  Louvain,  igo8,  pp.  65-70. 50  De  eleni.,  II,  art.  2,  f.  ii2rb.  SuU'origine  e  il  significato  della  pa- rola «  Colcodea  »,  dopo  quanto  ne  aveva  scritto  Alfonso  Nallino,  son ritornato  in  «  Giorn.  Crit.  d.  Filos.  It.  »,  XXXIV,  1955,  p.  188,  per dimostrare  che  essa  entrò  in  circolazione  coli 'edizione  del  Conciliator di  Pietro  d'Abano, Venezia.] tema  è  quello,  allora  di  grande  attualità,  se  e  come  le  forme sostanziali  siano  capaci  d'accrescimento  e  di  diminuzione,  di maggiore  o  minore  intensità  (art.  3").  Più  importante,  sebbene non  nuovo,  è  quello  che  egli  dice  della  generazione  degli  or- ganismi viventi,  e  in  particolare  dell'uomo  (art.    e  50).  Tutte le  forme  degli  esseri  corporei,  da  quelle  elementari  a  quelle animali,  son  tratte  dalla  potenza  della  materia.  Ma  mentre le  forme  elementari  permangono  nei  «  misti  »,  attenuate  nelle loro  proprietà,  come  aveva  detto  Averroè,  la  «forma  mixtionis  » resta  soltanto  potenzialmente  nel  vegetale,  e  come  l'anima vegetativa  si  corrompe  all'apparire  dell'anima  sensitiva,  nella quale  rimane  potenzialmente  o  virtualmente.  L'Achillini  in questo  non  si  dilunga  molto  da  S.  Tommaso  e  da  Pietro  d'Abano. In  certi  momenti,  anzi,  egli  sembra  accogliere  la  tipica  dot- trina tomistica  dell'unità  della  forma  sostanziale.  Con  due strappi  però:  uno,  di  minore  importanza,  concerne  la  per- manenza delle  forme  elementari  nei  «  misti  »  ;  l'altro,  assai maggiore,  riguarda  l'unione  dell'  intelletto   col   singolo. A  rammendare  quest'ultimo  strappo  che  compromette l'unità  della  coscienza  umana,  l'AchilHni  s'adopra  con  ogni accorgimento  dialettico,  pur  mantenendosi  fermo  sulla  tesi averroistica  fondamentale  :  l'unità  dell'  intelletto.  È  interes- sante seguirlo  nel  suo  tentativo. Lo  sviluppo  dell'organismo  umano  s' inizia  con  una  fase puramente  vegetativa,  come  aveva  detto  Aristotele.  Principio delle  funzioni  vegetative  nell'embrione  è  la  così  detta  «  anima vegetativa  »,  all'apparire  della  quale  la  precedente  «  forma mixtionis  »  si  corrompe.  Così,  nella  seconda  fase  dello  sviluppo embrionale,  alla  forma  vegetativa  subentra  quella  sensitiva, mentre  la  prima  si  corrompe.  Ma  qui  l'Achillini  si  domanda: —  Allora  dovremmo  dire  che  prima  d'essere  animale,  l'em- brione nella  prima  fase  è  stato  pianta  ?    No    egli  risponde  ; —  perché  altro  è  esser  pianta,  altro  è  vivere  a  mo'  di  pianta, come  dice  appunto  Aristotele  51.  L'anima  vegetativa  d'una pianta  è  termine  della  nascita  di  quella  pianta,  ed  è  quindi forma  determinata  e  perfetta  nella  sua  specie;  la  forma  ve- getativa nell'animale,  invece,  è  forma  indeterminata  e  imper- fetta; più  che  punto  d'arrivo,  è  preparazione  e  avviamento 51  Ib.,  art.  4,  f.   i24vb. ad  un  grado  più  alto  di  vita;  questa  è  in  via,  direbbe  Dante  5^, quella  è  già  a  riva. In  questo  concetto  del  passaggio  dall'  indeterminato  al determinato  parrebbe  dovesse  cercarsi  la  chiave  per  intendere come  r  intelletto,  unico  in  sé,  s'unisce  all'anima  sensitiva  a costituire  l' individuo  umano  particolare.  Ed  è  concetto  ari- stotelico che  mitiga  alquanto  la  crudezza  dell'altro  concetto, essere  le  forme  sostanziali  come  i  numeri  e  come  le  figure  della geometria,  di  cui  non  si    aqcrescimento  o  diminuzione senza  cambiamento  di  specie.  Aristotele  appunto,  nel  De  ge- neratione  animalium,  II,  e.  3,  aveva  detto  che  nel  processo genetico  non  nascono  insieme  l'animale  e  l'uomo,    l'animale e  il  cavallo  53.  Dal  che  parrebbe  che  l'animale,  che  precede l'uomo  e  il  cavallo,  dovesse  essere  non  una  forma  determi- nata e  specifica,  ma  una  forma  generica  e  indeterminata, la  quale  tende     a  determinarsi  in  cavallo,   qua  in  uomo. Venendo  a  parlare  appunto  del  processo  genetico  umano (art.  50),  il  maestro  bolognese  si  chiede  «  an  in  ipso  (homine) animam  intellectivam  expectet  sentitiva  »  54.  E  per  risolverlo, ricorda  anzitutto  quali,  a  suo  modo  di  vedere,  ne  sono  i  due presupposti  : Unum,  quod  intellectus  sit  forma  informans  materiam,  dans esse  hominem.  Aliud,  quod  prius  tempore  sit  anima  sensitiva in  materia,  quam  intellectus  possibilis.  Quorum  primum  in  libro De  intelligentiis  declaravi  55,  et  etiam  in  libro  De  orbihus,  [II, dub.  VI],  quaestione  de  motu  intellectus.  Ouibus  addo,  quod ambo  illa  asseruntur  ab  Aristotele,  2.  De  genevatione  animalium, [cap.  3],  dicente:  '  Sed  quamobrem  talem  animam  prius  haberi necesse  sit,  ex  his  quae  De  anima  disseruimus  apertum  est.  Sen- sualem  autem,  qua  animai  est,  tempore  procedente,  recipi  et rationalem,   qua  homo  est,  certum  est. Quest'  «  anima  sensitiva  »  che  precede  l'apparire  dell'  intel- ligenza, è  una  forma  generica  e  indeterminata  che  prepara l'avvento  di  un'altra  forma  più  determinata,  per  la  quale l'uomo  comincia  già  a  distinguersi  dal  cavallo  e  dagli  altri animali;  e  questa  è  la  cogitativa.  La  cogitativa  è  nell'uomo 52  Purg.,  XXV,   54. 53  Arist.,  De  gen.   animai.,   II,  e.  3,   736b  2. 54  De  elem.,   II,  art.   5,  f.    i26ra. 55  Si  veda  sopra,  pp.   208-209. 244        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI quello  che  negli  altri  animali  si  dice  estimativa,  ed  è,  insieme air  immaginativa,  alla  memorativa  e  al  ((  sensus  communis  », uno  dei  così  detti  sensi  interni.  Come  l'estimativa  negli  ani- mali, anche  la  cogitativa  (che  talora  è  chiamata  essa  pure  esti- mativa) ha  la  funzione  di  distinguere  e  giudicare  sensibilmente le  percezioni  particolari  e  quello  che  v'  è  nelle  cose  apprese  di utile  e  di  dannoso.  Per  questo  essa  è  chiamata  anche  «ratio particularis  »  ;  ma  è  facoltà  sensibile,  legata  all'organismo, tanto  che  i  medici  e  anatomisti  antichi  e  medievali  le  assegna- vano come  organo  il  «  ventricolo  medio  »  del  cervello,  mentre all'  immaginativa  assegnavano  quello  anteriore,  e  alla  memora- tiva quello  posteriore.  Ma  oltre  alla  funzione  ora  accennata, la  cogitativa  umana  ne  ha  un'altra,  per  la  quale  si  distingue sostanzialmente  dall'estimativa  degli  altri  animali:  essa  è ordinata  a  preparare  quelle  immagini  sensibili,  o  fantasmi, quasi  riassunto  di  tutto  il  mondo  dell'esperienza  sensibile, che  r  intelletto  farà  oggetto  di  elaborazione  mentale,  scien- tifica, traendo  fuori  dalle  rappresentazioni  particolari  il  con- cetto universale.  Mentre  nell'animale  inferiore  all'uomo  l'anima sensitiva  per  mezzo  dell'estimativa  si  può  dire  sia  giunta  a riva,  ed  abbia  raggiunta  la  più  alta  perfezione  di  cui  è  capace, non  così  è  della  cogitativa  umana,  la  quale,  per  quest'ultima sua  funzione  preparatoria  all'atto  dell'  intendere,  è  ordinata per  sua  natura  a  congiungersi  con  l' intelletto  possibile. Questo  alla  sua  volta,  nella  gerarchia  delle  intelligenze  se- parate, è  quello  che  tiene  l' infimo  grado,  perché,  pura  potenza d' intendere,  è  ordinato,  per  iniziare  il  suo  passaggio  all'atto, ossia  per  divenire  intelletto  in  atto,  all'apprensione  intelligi- bile delle  forme  del  mondo  sensibile,  di  cui  la  cogitativa  gli somministra  le  rappresentazioni  particolari. Perciò  non  si  può  dire  che  la  cogitativa  sia  la  vera  forma  del- l'uomo, come  pure  dicevano  molti  averroisti  56,  e  che  per  essa l'uomo  si  distingua  dagli  altri  animali.  O  se  vogliamo,  essa  è forma,  sì,  ma  incompleta.  E  questo  perché  la  cogitativa  umana 56  Fondandosi  su  un  famoso  detto  d'Averroè,  De  anitna,  III,  comm.  20  : ■«  Et  per  istum  intellectum  [queni  vocat  Aristoteles  passibilem-,  e  che Averroè  denomina  cogitativa]  differt  homo  ab  aliis  animalibus  ».  Al qual  detto  gli  averroisti  sigieriani  ne  opponevano  però  un  altro,  tratto dal  primo  commento  allo  stesso  terzo  libro  del  De  aniìiia:  «  Cum  per hanc  virtutem  [rationalem]  difterat  homo  ab  aliis  animalibus,  ut  dictum est   in   multis  locis  ». non  è  ancora  giunta  a  riva;  a  riva  essa  giungerà  quando  sarà unita  all'  intelletto  possibile,  che,  alla  sua  volta,  è  ordinato per  sua  natura  ad  essere  eternamente  unito  alla  cogitativa umana,  negl'  infiniti  individui  della  specie.  V  è  insomma  tra la  cogitativa  umana  e  l' intelletto  possibile  un  vincolo  sostan- ziale, per  cui  l'una  è  ordinata  per  natura  all'altro,  e  recipro- camente, ed  entrambi  si  completano  a  vicenda.  Forma  com- pleta dell'uomo,  sia  in  universale,  quanto  alla  specie,  sia  in particolare,  quanto  ai  singoli,  è  dunque  l' intelletto  possibile unito  alla  cogitativa;  e  non  solo  forma  assistente,  ma  vera forma  informante  che    all'uomo  l'essere  di  uomo  e  ne  fa il    soggetto    dell'  intendere. A  prima  vista  potrebbe  parere,  e  certe  espressioni  potrebbero indiirci  a  crederlo,  che  l'anima  cogitati^•a,  tratta  dalla  potenza della  materia,  e  l' intelletto  possibile,  venuto  dal  di  fuori, fossero  due  nature,  due  quiddità  diverse,  due  forme,  anzi  due anime.  Ed  effettivamente  esse  stanno  nell'uomo  a  rappresen- tare due  modi  di  conoscenza  che  all'Achillini,  come  ad  Ari- stotele e  a  Platone,  son  parse  irriducibili: Duo  igitur  svint  principia  cognoscendi  in  ncibis  reperta:  unum universaliter,  et  est  intellectus,  et  est  incorporeus,  inorganicus, incorruptibilis;  aliud  vero  singulariter,  et  est  sensus,  et  est  virtus in  corpore  et  organica  et corruptibilis,  et  est  anima  cogitativa  57, Ma  poiché  la  cogitativa  è  forma  incompleta  ed  è  ordinata ad  unirsi  all'  intelletto,  e  questo  alla  sua  volta  è  complemento di  quella,  possiamo  ben  dire  che  dalla  loro  unione  risulta un'anima  composta,  come  aveva  detto  Sigieri  58,  la  quale  è tutta  intera  forma  dell'uomo.  Tuttavia,  poiché  la  cogitativa è  forma  incompleta  che  riceve  il  suo  ultimo  complemento  dal- l'unione con  r  intelletto,  possiamo  dire  ugualmente  che  1'  in- telletto termina  il  processo  della  generazione  umana,  e  che esso  ha  da  ritenersi  forma  dell'uomo  a  più  forte  ragione  che non  l'anima  cogitativa: Quamvis  in  homine  duae  species  colligentur,  ibi  est  tantum intellectus,  qui  est  ultima  forma,  qua  homo  est  homo.  Cogitativa igitur  forma  non  est  ultima,  sed  ordinatur  in  intellectum.  Non tamen  est  homo  unus  per   simplicem  formam,    sed  per  composi- 57  De  ehm.,  II,  art.  5,  f.   lijrb. S^  Cfr.  sopra,  p.  206. 246        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI tissimam;  nullum  enim  est  mixtiim  homine  compositius.  Habet igitur  homo  duo  esse:  unum  est  esse  inateriale  a  cogitativa; reliquum  vero  est  esse   divinum   ab   intellectu   possibili  59. Perciò  l'Achillini  nei  QuoUbeta  de  intelligentns,  ai  quali  più volte  si  riferisce  nel  secondo libro  del  De  elementis,  aveva detto  : Non  potest  intellcctus  informare  materiam,  non  informante cogitativa,  quia  non  stat  materia  sine  forma  constituta  in  esse per  eam....  Neque  potest  cogitativa  informare,  non  informante intellectu,  quia,  dato  informabili  ultimate  disposito  et  informativo, ponitur  informatio.  Est  autem  materia  informata  cogitativa  in- formabile propinquum  et  ultimate  dispositum  ad  recipiendum inteilectum  ^°. Le  quali  parole,  secondo  la  testimonianza  del  Nife,  son tolte  alla  lettera  dall'opera  di  Sigieri,  De  intellectu  ad  fratrem Thomam  ^i. Il  terzo  ed  ultimo  libro  del  De  elementis  abbraccia  dician- nove quaestiones ,  intorno  alle  proprietà  degli  elementi,  e  cioè alla  quantità  e  alle  loro  qualità,  al  movimento,  alla  gravità, alla  figura  e  al  luogo  proprio  di  ciascuno.  E  poiché  le  teorie dello  Heytesbury,  o  Heutisbery,  come  lo  chiamavano,  e  quelle del  Suisset,  o  meglio  Swineshead,  erano  venute  a  scompi- gliare le  idee  dei  maestri  bolognesi  non  meno  che  di  quelli padovani,  anche  l'Achillini  s' impegna  in  una  prolissa  discus- sione del  problema  di  moda,  se  di  ogni  cosa  naturale  si  dia un  massimo  e  un  minimo  6=,  sul  quale  nel  corso  delle  sue  lezioni e  in  trattati  speciali  ebbe  a  soffermarsi  più  volte  anche  il Pomponazzi,  imprecando ai  calculatores  forestieri  e  nostrani  ^3. A  questo  problema  tien  dietro  una  non  meno  prolissa  discus- 59  De  elem.,  1.  e,  f.  i2gra. ^°  V.  sopra,  p.  206. 6^  NiFO,  De  intellectu  et  daemonibus,  I,  tr.  3,  e.  18;  cfr.  il  mio  Si- gieri, cit.,  pp.  17-18. ^2  De  elem..  Ili,  dub.   i,  f.   230va  sgg. ^3  Pomponazzi,  De  maxima  et  minimo  ad  Laurentium  Molinum, Ms.  Ambrosiano  R.  96  sup.,  f.  i52r  (vecchia  numeraz.  f.  39r)  ;  In  I Phys.,  Parigi,  Bibl.  Nation.,  ms.  lat.  6533,  f.  49  Gr  sgg.;  Arezzo,  Bibl. Frat.  de'  Laici,  ms.  389,  f.  42V  sgg.  (il  Pomponazzi  prende  di  mira  par- ticolarmente il   suo   concittadino   Pietro   da   Mantova),   nonché   le   due opere  a  stampa  De  reactione  e    Tractatus penes   quid   intensio    et   re- missio    formarum    attendatur. sione  sul  quesito  «  utrum  aliquid  moveat  se  ».  E  sebbene  l'au- tore dichiari  di  voler  trattare  di  ogni  specie  di  movimento, celeste  o  elementare,  animato  o  inanimato,  sostanziale  o accidentale,  corporale  o  spirituale,  egli  s' intrattiene  più  a lungo  intorno  al  moto  naturale  degli  elementi  e  dei  «misti»  e specialmente  alla  gravità  e  «  leggerezza  »,  ritenute  con  Ari- stotele e  Averroè  forme  sostanziali  dei  corpi,  all'azione  del cielo,  del  «  luogo  naturale  »,  del  generante  edi  ciò  che  rimuove r  impedimento  al  cadere  o  all'elevarsi  di  un  corpo  64.  Le  stesse idee  averroistiche,  che  l'Achillini  sosteneva  a  Bologna,  aveva sostenuto  a  Padova  il  Pomponazzi,  nell'anno  1500,  commen- tando r  Vili  della  Fisica  65.  Ad  un  certo  momento  il  maestro bolognese  accenna  anche  al  moto  violento  dei  proiettili.  E come  il  Pomponazzi,  sostiene  egli  pure  che  il  proiettile  lan- ciato «movetur  a  medio»  e  combatte  la  tesi  dell' « impetus  » difesa  dai  «parisienses»66^  cioè  da  Giovanni  Buridano,  da  Ni- cola d'Oresme,  da  Alberto  di  Sassonia,  detto  Albertuccio  o Alberto  il  piccolo,  per  non  condonderlo  con  Alberto  Magno, e  altresì  da  Marsilio  di  Inghen,  e  portata  a  Bologna  da  maestro Biagio  da  Parma  che  d'Albertuccio  era  stato  alunno  a  Parigi  ^7. Seguono  altri  diciassette  quesiti  intorno  ai  quattro  elementi e  alle  loro  qualità  sostanziali.  La  soluzione  di  essi  è  quella averroistica.  Ma  l'ultimo,  il  diciannovesimo,  ha  un'  impor- tanza speciale  per  il  tempo  in  cui  è  posto  :  «  Dubitatur  decimo- nono, utrum  terra  sit  ubique  habitabilis  ».  Il  problema  se l'era  già  posto  Pietro  d'Abano  prima  del  1310,  nella  diff.  LXVII del  suo  Conciliator,  e  l'aveva  discusso  con  ampiezza,  ricor- dando i  viaggi  di  Marco  Polo  e  la  relazione  di  frate  Giovanni cordigliere,  cioè  del  francescano  Giovanni  del  Pian  del  Car- 64  De  eleni.,  Ili,  dub.  2,  f.  I34ra  sgg.,  e  specialmente  sulla  gravità  e nerezza,  f.  i36rb. 65  Bibl.  Naz.  di  Napoli,  ms.  Vili.  D.  81,  f.  1311:  Questio  Magistri Petri  Pomponatii....  de  motu  gravium  et  leviiim,  quam  fecit  Magister Petrus  dum  legeret  librum  8.  Physicoriun  anno  domini  1500.  Sullo stesso  argomento  il  mantovano  ritornò  nel  commento  all'  Vili  della Fisica  del  1518,  Arezzo,  Bibl.  Frat.  de'  Laici,  ms.  389,  f.  3iiv-3i2r, ove  combatte  la  «  solutio  de  impulsu  que  communiter  tenetur  a  pari- siensibus  »    (ad  t.   e.    82). 66  De   elem.,    1.  e,  f.    I35va    «  Secunda   est   opinio    Parisiensium....  ». 67  A.  Maier,  Zz£^ei  Grundprobletne  der  scholastischen  Naturphilosophie: das  Problem  der  intensiven  Grosse;  die  Impetustheorie.  2*  ediz.  Roma, 1951,  pp.  1 13-313,  e  per  Biagio  Pelacani  da  Parma  in  particolare] pine  68.   L'Achillini  conosce  e  cita  il  Conciliator,  ma  di  mala voglia  e  senza  entusiasmo: Quod  autem  sub  aequinoctiali  continue  habeantur  ficus,  aut quod  aer  sit  ibi  temperatissimae  dispositionis,  aut  quod  aninialia ibi  habitantia  temperatam  habeant  complexionem,  aut  quod  pa- radisus  terrestris  ibi  sit:  sunt  res  quas  experientia  naturalis  nobis non  ostendit  ^9. Il  che  è  ben  detto  per  il  paradiso  terrestre,  ma  non  per  le altre  cose  ricordate,  delle  quali  1'  «  experientia  naturalis  »  di arditi  viaggiatori  e  missionari  era  cominciata  da  un  pezzo. Il  filosofo  bolognese,  che  pur  sapeva  qualcosa  di  ciò  che  co- storo narravano  di  aver  visto  e  toccato  con  mano,  senza avere  il  coraggio  di  negarlo,  si  contenta  di  dire  che  è  cosa  che non  riguarda  i  filosofi  intenti  alla  ricerca  del  perché,  bensì gli  «  storiografi  »  cui  spetta  d' indagare  se  un  fatto  è  o  non  è  : «  Pro  malori  parte  veritas  illarum  (causarum)  ex  historia '  quia  est  '  dante,  petenda  est  ;  ideo  haec  historiographis  re- linquantur,  et  praesertim  de  Marco  Veneto  aut  Dominico Indiano  loquentibus  »  70.  Chi  sia  questo  Domenico  Indiano non  saprei  dire.  Ma  coloro  che  avevan  parlato  e  scritto  del- l' India  e  delle  terre  australi  eran  più  d'uno.  Negli  anni  stessi in  cui  l'Achillini  componeva  il  De  elementis, s'aggirava  per r  India  e  le  terre  australi  Ludovico  de  Varthema,  che  pare,, e  non  senza  buon  fondamento,  fosse  oriundo  bolognese. 5.  -  Il  5  marzo  1506,  uscì  «  per  Benedictum  Hectoris  Biblio- polam  Bononiensem  »  la  seconda  edizione  dei  Quoliheta  de intelligentiis ,  cui  l'autore  premise  diciotto  dubia  sollevati  dal conte  Annibale  Rangoni,  al  quale  l'edizione  era  dedicata,  in- sieme con  le  soluzioni  di  essi.  Questi  diciotto  dubia  nelle  edi- zioni successive  sono  stati  rimandati  in  fine  dell'opera. Tutti  questi  scritti  hanno,  in  complesso,  carattere  stretta- 68  Che  «  cordelarius  ))  (in  francese  cordelier)  significhi  «francescano» o  «  cordigliere  »,  è  sfuggito  a  Sante  Ferrari,  in  quel  suo  volumaccio, pieno  di  tanti  spropositi,  I  tempi,  la  vita,  le  opere  di  Pietro  d'Abano, p.  276,  del  quale  ho  parlato  a  lungo  sopra,  nei  primi  due  saggi,  eil ove   «  cordelarius  »  è  diventato  un  cognome,    Cordellari  ! 69  De  eleni.,   Ili,   dub.    19,   f.    i49rb. 70  Ib. mente  filosofico,  se  per  filosofia  s' intende,  come  s' intendeva allora,  la  teoria  della  natura  completata  dalla  metafisica. Le  stesse  questioni  De  suhiecto  physiononiiae  et  chiromantiae e  De  suhiecto  medicinae ,  ben  poco  hanno  che  riguardi  da  vicino la  medicina  propriamente  detta.  Tuttavia  dalle  Anotomicae annotationes ,  pubblicate  postume  dal  fratello  Giovanni  Fi- loteo,  nel  settembre  1520,  e  delle  quali  parleremo  più  oltre, si  può  ricavare  che  maestro  Alessandro,  il  quale  dal  1494 reggeva  una  delle  cattedre  di  Medicina  Teorica,  fu  condotto  a discutere  di  anatomia  e  di  fisiologia 7".  In  queste  Annotationes infatti  egli  accenna  più  volte  ad  osservazioni  da  lui  fatte  nel 1502  (f.  i6v),  nel  1503  (ff.  5v,  15V,  16)  e  nel  1506  (f.  12 v). Lo  studio  bolognese,  da  quando  l'Achillini  assunse  l' insegna- mento della  Medicina  Teorica  ebbe  quasi  sempre  tre  maestri deputati  «  ad  lecturam  Chyrurgiae  »,  che  di  solito  aveva  per testo  fondamentale  V Anatomia  del  Mondino,  sulla  guida  del quale  si  conducevano  le  dissezioni  dei  cadaveri  o  «  anotomie  », che,  alla  fine  del  Quattrocento  e  nei  primi  del  Cinquecento, si  facevano  con  speciale  messa  in  scena,  pari  a  quella  non  meno solenne  per  la  confezione  della  Triaca.  A  queste  «  anotomie  » assistevano  maestri  e  scolari  e  per  l'occasione  si  sospendevano per  otto  o  dieci  giorni  le  lezioni.  Siccome  l'Achillini  non  fu mai  deputato  «  ad  lecturam  chyrurgiae  »,  è  verosimile  che egli,  come  maestro  di  Teorica,  abbia  preso  parte  a  qualcuna delle  abbastanza  frequenti  « anotomie  »  tenute  negli  anni  da lui  stesso  indicati  e  in  altri  ancora  ~-. Nell'anno  scolastico  1502-3,  fra  i  maestri  deputati  a  leggere 71   A.    Pazzini,    La   scoperta   della   membrana  timpanica,  nella  rivista //   Valsalva,   IX,    1933,  pp.    298,  scrive:   «L'Achillini lesse  anatomia nell'università  di  Bologna  nel  1497,  ma  per  breve  tempo.  Nel  1501  ri- prese la  cattedra  e  la  tenne  fino  al  1508  ».  La  notizia  è  inesatta  per  più versi.  Una  cattedra  d'anatomia  a  Bologna  allora  non  esisteva.  Di  ana- tomia si  occupavano  il  professore  di  Teorica,  quando  faceva  lezione su  un  testo  di  anatomia,  per  es.  su  talune  parti  del  Canon  di  Avicenna o  su  alcuni  trattati  di  Galeno  ecc.,  e  il  professore  di  Chirurgia.  L'Achil- lini fu  sempre  professore  di  Teorica  dal  1494  al  1506,  e  dall'ottobre  1508 al    1512. 7*  Oltre  a  queste  «  anotomie  »  pubbliche,  ve  n'erano  del  resto  anche di  private  che  i  maestri  facevano  per  proprio  conto,  quando  ne  avevano la  possibilità,  a  scopo  d' indagine  scientifica.  Cfr.  G.  Martinotti,  L'  in- segnamento dell'anatomia  a  Bologna  prima  del  sec.  XIX,  in  Studi  e  me- morie per  la  Storia  dell'univ.  di  Bologna,  voi.  II,  Bologna,  191 1,  p.  30  sgg. Ma  l'autore  non    esempi  per  il  periodo  dell'Achillini,    dice  che fossero   frequenti. Chirurgia,  insieme  a  Domenico  della  Lana,  che  già  insegnava da  vari  anni,  e  a  Biagio  de'  Mercuri,  ucciso  il  5  novembre  1505, compare  nello  studio  bolognese  la  figura  di  Jacopo  o  Beren- gario da  Carpi,  detto  semplicemente  il  Carpo.  Questo  illustre maestro,  che  godeva  della  protezione  d'Alberto  Pio,  signore  di Carpi,  commentando  il  Mondino,  ebbe  a  correggerlo  su  molti punti,  e  dominò  la  chirurgia  bolognese  del  suo  tempo,  cui  aprì nuove  vie,  fino  alla  sua  partenza  per  Ferrara  nel  1527.  A  pro- posito della  scoperta  del  martello  e  dell'  incudine  nell'orecchio medio,  gli  storici  della  medicina  sono  incerti  se  attribuirla all'Achillini  o  al  Carpo,  e  sembrano  quasi  insinuare  che  vi fosse  rivalità  fra  i  due  colleghi  bolognesi.  Il  certo  è  che  l'Achil- lini  nelle  Annotationes  non  ne  fa  cenno;  e  d'altra  parte  il Carpo,  nei  Commentaria  cum  amplissimis  additionihus  super Anatomia  Mundini,  stampato  a  Bologna,  «  per  Hieronymum de  Benedictis.  Pridie  Nonas  Martii.  M.D.XXI  »,  quando  il collega  era  morto  da  quasi  nove  anni,  trattando  nel  comm. XXXVII  (fol.  477r)  di  questi  due  ossicini,  lungi  dall'attri- buirsene  la  scoperta,  e'  informa  che  «  sunt  aliqui  qui  volunt quod  illa  ossicula  moveant  aerem  intra  stantem  et  panni- culum  praedictum  ».  E  anche  nelle  Isagogae  hreves  et  exactis- simae  in  anatomiam  humani  corporis  (seconda  ediz.  del  1530, s.  1.,  pp.  230-32),  lo  stesso  Carpo  torna  a  parlare  dei  «duo ossicula  »  e  delle  varie  opinioni  per  intenderne  la  funzione. Se  se  ne  discuteva,  ed  altri  avevano  opinioni  diverse  da  quella di  maestro  Jacopo,  è  segno  che  questi  «  duo  ossicula  »  erano stati  notati  da  qualche  tempo,  forse  in  qualcuna  delle  «  ano- tomie  »  tenute  dallo  stesso  chirurgo,  e  alle  quali  un  maestro di  Teorica,  qual  era  l'Achillini,  non  poteva  rimanere  estraneo  73 Giacché  è  risaputo  come  nel  corso  appunto  di  queste  «  ano- tomie  »  e  nelle  discussioni  inevitabili  a  cui  davano  occasione, furon  notate  discordanze,  le  quali  ogni  giorno  cresce van  di numero,  fra  l'esperienza  e  le  trattazioni  anatomiche  di  Ga- leno, di  Avicenna,  del  Mondino  o  di  Ugo  da  Siena,  e  si  venne rinnovando  la  scienza  anatomica. Nel  1506,  Alessandro  Achillini  godeva  dunque  a  Bologna della  più  alta  considerazione  come  filosofo  e  come  medico  e 73  Del  resto  l'attribuzione  di  questa  scoperta  all'Achillini  si  fa  ri- salire a  ciò  che  ne  dicono  Eustachio  Rudio  e  Giulio  Casserio  piacentino. Cfr.  G.  N.  Pasquali  Alidosi,  / dottoribolognesi di  teol.  filos.  medie, e  d'arti  liberali  dall'anno  1000  per  tutto  marzo  1623,  Bologna] del  favore  dei  Bentivoglio  che  gareggiavano  coi  signori  di Ferrara  e  d'  Urbino  e  coi  Medici  nel  proteggere  gli  studi,  le arti  e  i  begli  ingegni  74,  Per  Natale  del  1504,  il  fratello  Giovanni Filoteo  Achillini  portava  a  termine  il  suo  enfatico  e  strampa- lato poema  intitolato  Viridario,  stampato  a  Bologna,  nel  1513, «  per  Hieronymo  di  Plato  Bolognese  »,  e  dedicato  a  «  Gioanne de  Medici  Cardinale,  bora  Leone  sommo  Pontifice  ».  Nel canto  X,  Giovanni  Filoteo  tesse  le  lodi  di  Bologna;  prima  delle donne  e  dei  gentiluomini  illustri,  poi  degli  studi  che  dan  fama a  Felsina.  Fra  i  dotti  bolognesi  due  ne  indica  in  particolare: l'uno  è  Giovanni  Zaccaria  Campeggi,  allora  giurista  di  gran fama,  che  dopo  avere  insegnato  il  diritto  a  Pavia  e  a  Padova, s'era  fermato  definitivamente  a  Bologna  (a  meno  che  Gio- vanni Filoteo  non  intenda  del  figlio  di  lui,  Lorenzo,  che,  insieme al  padre,  teneva  la  cattedra  straordinaria  di  diritto  civile, egli  pure  giurista  di  grido  e  futuro  cardinale,  cui  saranno affidate  importanti  e  delicate  missioni  diplomatiche)  ;  l'altro è  Alessadro  Achillini,  che  il  poeta,  suo  fratello  minore,esalta con  orgoglio  e  ammirazione   (ff.   i84v-i85r)  : Dui  lumi  chiari,  ciascaduii  divino: lune  il  Campeggio,  laltro  lo  Achillino. Di  luna  legge  e  laltra  quel  Campeggio, si  come  e  voce  e  ver,  porta  corona. Ne  gli  altri  studii  lo  .\chillino  veggio, che  Theologia  sparge  in  ogni  zona. lalta  philosophia  laudar  non  deggio, che  fama,  e  de  laltre  arti,  il  Mondo  introna. Me  glorio,  godo,  e  laudo  il  Creatore che  a  questo  unico  son  fratel  minore. Chi  legge  e  intende  lopre  sue  superne, dove  e  insudato  in  la  sua  gioventute, gli  darà  laudi  gloriose  e  eterne. Hor  pensi,  pervenendo  a  senettude, le  lucubration,  calami  e  lucerne scranno  al  letto  et  al  lettor  salute. Di  un  lustro  a  punto  il  mezzo  camin  varca, sei  debito  farà  Ih  orrenda  Parca. Che  maestro  Alessandro  fosse  dottissimo  in  filosofia  e  nelle altre  arti  lo  sapevamo  ;  ma  che  egli  si  fosse  addentrato  anche  in 74  Nel  bimestre  settembre-ottobre  1491,  e  in  quello  di  novembre- dicembre  1504,  fu  anche  del  consiglio  degli  Anziani.  Catalogus  omnium doctoriini  collegiatorum  in  artibus  liberalibus  et  in  facilitate  medica,  Bo- logna] un  campo  così  diverso  come  quello  degli  studi  di  teologia, ci  sarebbe  facilmente  sfuggito,  se  il  fratello  poeta  non  avesse richiamato  l'attenzione  su  questo  aspetto  della  sua  cultura. A  dir  vero,  più  volte,  leggendo  taluni  dei  suoi  scritti,  m'era accaduto  d' imbattermi,  senza  farci  troppo  caso,  in  brani  che, ben  considerati,  attestano  nell'autore  buona  conoscenza delle  cose  teologiche,  pari  certamente  a  quella  di  Tiberio Bacilieri,  il  quale,  averroista  alla  maniera  dell'Achillini,  non esitava  a  dichiararsi  pronto,  se  il  papa  l'avesse  gradito,  a  in- terrompere l'esposizione  d'Aristotele  e,  «relieto  lumine  na- turali, propositiones  creditas  magna  cum  facilitate  et  bre- vitate   resolutissimas   reddere  »  1^. Il  19  maggio  del  1506  l'Achillini  avrebbe  dovuto  essere presente  come  compromotore  all'esame  di  dottorato  che  quel giorno  dovevano  subire  maestro  Guglielmo  Spinola  da  Modena, che  per  un  biennio  era  già  stato  Rettore  dello  studio  «  et optime  se  habuerat  in  officio  »,  e  maestro  Guido  da  Pesaro. Dovette  invece  farsi  rappresentare  da  un  collega,  perché «  tunc  temporis  iverat  Romam,  ut  interesset  disputationibus fìendis  in  capitulo  generali  fratrum  minorum  tam  observanti- norum  quam  conventualium,  grafia  sui  honoris,  studiique nostri  ac  almae  civitatis  bononiae  »  7^.  Nel  saggio  che  segue, si  dirà  quanto  basta  di  questa  disputa  avvenuta  il  6  giugno 1506  in  casa  e  sotto  la  protezione  del  Cardinale  Domenico Grimani.  Il  patrizio  veneziano  Geronimo  Taiapietra  prota- gonista di  questa  disputa,  al  capitolo  generale  dei  frati minori  tenuto  a  Roma,  giostrava  in  difesa  di  quel- l'averroismo sigieriano  che  l'Achillini,  dodici  anni  prima, aveva  difeso  durante  un  altro  capitolo  generale  di  francescani a   Bologna.    L' invito    deve   essere   stato   rivolto    all'Achillini 75  Nella  dedicatoria  a  Giulio  II  della  Lectura  in  tres  libros  de  anima di  Tib.  Bacilieri,  Pavia, 1508.  Cfr.  il  mio  Sig.  d.  Brab.  nel  pensiero  ecc., p.  136.  A  convincerci  della  buona  conoscenza  che  all'Achillini  non  do- veva mancare  deUe  cose  teologiche,  oltre  ai  molti  luoghi  nei  quali  egli mette  in  rilievo,  su  vari  argomenti,  il  dissenso  irriducibile  tra  filosofi e  teologi,  basta  ricordare  i  brevi  accenni  alla  libertà  degli  angeli  {De  orò., ITI,  dub.  I,  f.  47rb),  alla  grazia  infusa  {ib.,  dub.  2,  f.  5ira),  alla  duplice natura  in  Cristo  [De  eleni.,  II,  art.  2,  f.  ii2rb),  al  peccato  originale  e alla  giustificazione  {ib.,  art.  5,  f.  i29rb),  alla  transustanziazione  e  al- l' identità  del  corpo  di  Cristo  nel  sepolcro  {ib.,  i29rb-vb)  e  simili. 76  Libro  segreto  del  collegio,  cit.,  n.  3,  f.  6r.  Cfr.  L.  Mùnster,  Aless. Achillini,  in  Riv.  di  Storia  delle  Scienze  Mediche  e  Naturali] dal  Card.  Grimani,  per  desiderio  del  Taiapietra  stesso,  cui doveva  stare  a  cuore  d'avere  al  suo  fianco,  nel  pubblico  ci- mento, un  maestro  di  tanta  autorità,  del  quale  condivideva  il pensiero. Però  fu  un  peccato  che  maestro  Alessandro  fosse  assente da  Bologna  quel  19  maggio,  poiché  maestro  Geronimo  de Bombaxia,  priore  per  quel  trimestre  del  Collegio  di  medicina, annota  di  suo  pugno  nel  Libro  Segreto  del  Collegio  stesso: «  Et  eadem  die  habuimus  opulentam  colationem  a  docto- ratis»;  usanza  non  del  tutto  infrequente,  e  fatta  oggetto,  a quanto   mi   consta,    anche   di   speciali    norme   regolamentari. 6.    Nell'autunno  dello  stesso  anno  l'Achillini,  che  era  priore del  Collegio  (carica  già  da  lui  coperta  altre  volte),  dovette provvedere  alla  sua  incolumità  personale,  all'appressarsi  delle milizie  papali:  «  Erat  enim  tunc  temporis  universa  urbs  in sagis  ob  terorem  summi  pontificis,  qui  magnis  et  gallorum  et italorum  copiis  ad  eam  approperabat,  ut  urbem  suam  libe- ram  in  liberiorem  redigeret;  quod  sibi  sviccessit  fuga  opti- matum  bentivolorum,  qui  tunc  ei  preerant,  suscepta  ».  Come fautore  dei  Bentiviglio,  egli  il  7  novembre  era  fuggito  a  Pa- dova, mentre  nella  carica  di  priore  gli  era  successo  maestro Chiaro  Francesco  de'  Genuli  77. L'  II  novembre  Giulio  II  faceva  il  suo  ingresso  in  Bologna, e  i  maestri  dello  studio  andavano  a  rendergli  omaggio: Die  xi'^  novembris,  Beatissimus  sumnius  pontifex  iullius  papa secundus  honorificentissime  ingressus  est  praetorium  fori  bono- niensis,  tanquam  Dominus  benemeritissimus;  et  nostra  collegia iverunt  obviani  ei  pedestres  usque  ad  mansionem  prope  positam strale  maioris,  cum  vestibus  et  biretis  rosaceis  et  banale  de  variis, et  beatitudinem  suam  associavimus  usque  ad  sanctum  petrum. Sic  enim  consue visse  alios  collegiatos  factitare,  a  Domino  Paris de    grassis,    Magistro   ceremoniarum,    accepimus  78. Fuggito  da  Bologna,  l'Achillini  era  accolto  come  maestro nella  seconda  cattedra  ordinaria  di  filosofia  naturale,  a  Pa- dova. Ivi  appunto  lo  troviamo  come  concorrente  del  Pompo- 77  Libro  segreto,  n.  3,  f.   yr.  Cfr.  L.  Mùnster,  p.   16. 78  Libro   segreto,    ib. ] nazzi  che  occupava  la  prima  cattedra,  come  risulta  dal  titolo dalla  reportatio  del  corso  di  lezioni  che  il  Peretto  Mantovano tenne  nell'anno  scolastico  1506-1507  sul  De  substantia  orbis di  Averroè: Expositio  libelli  de  substantia  orbis  ex. mi  ac  tempestate  nostra naturalis  philosophiae  luminis  Magistri  petri  pomponacci  Man- tuani.  Patavij.  M.D.VII.  xx  mensis  Februarij,  dum  primum locum  ordinariae  philosophiae,  ad concurentiam  ex. mi  allexandri achiUini   bononiensis,    publice   profìteretur  79. Sebbene  il  Facciolati  pretenda  di  sapere  che  maestro  Ales- sandro era  stato  professore  a  Padova  nel  quadriennio  1484- 1488,  e  che  in  quest'ultimo  anno  aveva  avuto  per  antago- nista il  Pomponazzi,  la  notizia  è  smentita  dai  rotuli  bolognesi e  dagli  altri  documenti  del  Collegio  delle  Arti  e  di  Medicina che  danno  presente  a  Bologna  l'Achillini  ininterrottamente dal  1484  al  1506.  Invece  è  certo  che  il  mantovano,  che  iniziò il  suo  insegnamento  padovano  solo  nel  1489,  ebbe  a  concor- rente, quando  ritornò  a  Padova  nel  1499,  l'alunno  e  socio dell' Achillini,  Tiberio  Bacilieri,  lino  alla  partenza  di  lui  per Pavia,  e,  partito  questo,  il  Fracanziano.  Prima  dunque  che con  l'Achillini,  il  Pomponazzi  s'era  scontrato  col  di  lui  «  fido Achate  »,  che  del  suo  Enea  non  era  per  altro  che  una  pallida e  sbiadita  ombra  ^o. Soltanto  dunque  nei  due  anni  scolastici  1506-1508  il  Pe- retto si  trovò  ad  avere  per  concorrente  l'Achillini,  del  quale già  conosceva  il  pensiero.  Ma  a  giudicarne  dal  contenuto dell' Expositio  libelli  de  substantia  orbis,  i  dissensi  fra  i  due, per  quanto  senza  dubbio  notevoli,  non  paion  tali  da  do- ver degenerare  in  risse.  Anzi,  non  ostante  i  dissensi,  vi  sono nell'esposizione  pomponaziana  molte  pagine  che  il  bolo- gnese avrebbe  potuto  sottoscrivere  a  piene  mani.  Così,  per esempio,  quando  il  mantovano  combatte  la  teoria  avicenniana della  «  forma  corporeitatis  »  coeterna  alla  materia  (fol.  yv  sgg.)  ; o  quando  tratta  della  dottrina  averroistica  delle  «  dimensiones interminatae  »  anteriori  ad  ogni  forma  corporea  (f .  I3r)  ;  o quando  nega  con  Averroè  che  le  sfere  celesti  siano  animate da  un'anima  sensitiva,  distinta  dall'  intelligenza  motrice, come   pretendeva  ugualmente   Avicenna   (f.    i/r).   Anche   sul 79  Cod.   Vat.   Regin.   lat. ] grosso  problema  An  caeluni  sit  compositum  ex  materia  et  jorma (ff.  i8r-24r),  il  Pomponazzi  si  sforza  di  mostrare  come  le  varie opinioni  in  contrasto  si  possan  difendere  e  come  si  possan risolvere  gli  argomenti  che  ad  ognuna  si  obiettano.  Il  suo  ari- stotelismo e  il  suo  averroismo  insomma  non  hanno  la  rigidità intransigente  del  pensiero  dell'Achillini.  Col  quale  il  manto- vano era  in  sostanza  d'accordo  anche  nel  dubitare  della  di- pendenza delle  intelligenze  e  dei  corpi  celesti  dalla  causalità efficiente  del  primo  motore  (f.  28r-30v),  e  altresì  della  infinità intensiva    del    vigore    col    quale    questo    muove l'universo (f.    33V-34V). La  vera  e  profonda  differenza  fra  l'uno  e  l'altro  maestro, trovatisi  di  fronte  a  Padova,  è  questa.  L'Achillini  accetta integralmente  l' interpretazione  averroistica  d'Aristotele,  an- che là  dove  altri  aveva  visto  discordanze  fra  il  testo  e  il  com- mento e  nel  pensiero  stesso  d'Averroè  aveva  notato  non  poche contradizioni,  onde  le  molte  opinioni  sul  vero  pensiero  dello stagirita  e  le  diatribe  fra  gli  stessi  averroisti,  ciascuno  dei quali  aveva  in  serbo  il  suo  modo  di  risolvere  quelle  discor- danze e  contradizioni.  Quello  del  bolognese  rappresenta  uno dei  sistemi  più  coerenti  d' interpretazione  del  pensiero  d'Ari- stotele, dal  punto  di  vista  rigidamente  averroistico.  Per  mezzo di  sapienti  accorgimenti  logici,  suggeriti  dalla  più  scaltrita arte  dialettica,  per  via  di  impensati  ravvicinamenti  di  testi e  di  sottili  distinzioni,  le  contradizioni  spariscono,  i  contrasti sono  conciliati,  le  obiezioni  mosse  dai  dissenzienti  risolte,  le dubbiezze  dissipate.  Di  guisa  che  il  sistema  aristotelico- averroistico,  costruito  con  procedimenti  deduttivi  che  mentre scimmiottano  quelli  della  geometria  in  realtà  si  risolvono  in una  caricatura  del  metodo  matematico,  ostenta  una  compat- tezza in  tutte  le  sue  parti,    da  dare  l' illusione  della  raggiunta certezza,  in  cui  l'animo  si  quieta  e  non  sente  più  l'acre  puntura del  dubbio.  In  questa  superba  convinzione  di  essere  ormai arrivato  «  al  segno  che  si  tien  gran  miracol  di  natura  »,  e  pros- simo alla  copiilatio  con  l' intelletto  agente,  l'Achillini  non aspira  orm.ai  ad  altro  che  ad  assomigliare  ad  Aristotele,  del quale  dice  con  Averroè  :  «  qui  divinus  potius  quam  humanus  ; quoniam  a  M.  D.  annis  cifra  non  est  inventus  error  in  eius dictis  alicuius  momenti;  naturae  enim  consiliarius  extitit»!  8', 8i  De   phys.    auditu,    f.  óyvb. 256        l'aristotelismo    tal  C  vano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Al  Pomponazzi,  al  contrario,  questa  balda  sicurezza  dell'  in- fallibilità  d'Aristotele   e    d'Averroè   era   venuta   meno. Egli  non  soltanto  afferma  «  quod  Aristoteles  non  fuit  deus et  ipse  non  novit  omnia»  82,  ed  ugualmente  «quod  Commen- tator  erravit  neque  ipse  est  deus  «^3,  ma  spesso  dichiara  di non  riuscire  a  intenderli,  che  preferirebbe  esser  discepolo che  non  maestro,  talvolta  anzi  non  esita  a  qualificare  pazzesche, dal  punto  di  vista  della  stessa  ragione  umana,  le  loro  dottrine. Ma  il  più  spesso,  da  quell'uomo  faceto  che  era,  più  che  incapo- nirsi a  dissolvere  gli  argomenti  dei  suoi  avversari  (cosa  non facile  senza  accettarne  taluni  presupposti,  il  che  l'avrebbe  con- dotto ad invischiarsi  in  un  perpetuo  circolo  vizioso,  senza  via d'uscita),  preferiva  motteggiare  con  essi  e  svignarsela  con qualche  piacevole  e  magari  salace  barzelletta.  Esempi:  nel febbraio  1520,  stava  esponendo  il  secondo  libro  del  De  cado, e  precisamente  il  commento  averroistico  al  testo  34,    dove  si pretende  di  poter  dimostrare  con  arzigogoli  sillogistici  che  il mondo  «  non  potuisset  esse  nec  maior  nec  minor,  secundum philosophos  »,  perché  esso  ha  da  esser  proporzionato  alle  di- mensioni dell'uomo,  «  cum  mundus  sit  propter  hominem  ». Questo  modo  di  argomentare  stuzzica  la  vena  umoristica  del Peretto: Modo,  si  mundus  esset  maior,  homo  non  posset  vivere;  nam si  haberetis  thalamum  maximum,  non  possetis  vivere,  quia  ibi esset  nimis  frigus.  Unde  si  Sanctus  Petronius  esset  in  decuplo maior,  organum,  quod  nunc  habetur,  non  posset  sentiri  per  totum. Similiter,  si  mundus  esset  maior,  sol  esset  nimis  parvus,  et  sic non  posset  calefacere,  et  sic  corrumperetur  homo.  Similiter, si  esset  minor,  nimis  sol  calefaceret,  et  ita  non  possent  esse  plures celi.  Mundus  ergo  non  potest  esse  maior  neque  minor;  et  est  sicut dicebat  illa  bona  mulier,  quod  virga  bene  manebat  in  vulva  sua, et  quod  virga  non  oportebat  quod  fuisset  nec  maior  nec  minor, nec  grossior  nec  subtilior,  nec  curtior  nec  longior;  ita  quod  era, ut  dicitur,  a  punto.  Et  hoc  respondent  fatui  philosophi  ad  istam dubitationem  84. E  perché,  mentre  il  moto  violento  dei  proietti  è  più  intenso da  principio  e  poi  va  rallentando,  il  moto  naturale  dei  gravi  e dei  leggieri  «  est  in  fine  velocior  »  ?  La  ragione  ve  la    Averroè  : ^2  Arezzo,    Bibl.    Laici,    ms.    390,   f.    41V;    cfr.   Parigi,   Bibl.  Nation., ms.   lat.    6534,   f.    I3r. 83  Arezzo,  ms.  cit.,  f.  47V;  Parigi,  ib.,  ms.  lat.  6533,  f.  53V. 84  Parigi,   ib.,    ms.   lat.   6534,    f.    6ov. Et  ponit  conimentator  huius  rationem:  v.  gr.,  grave  descen- dens  in  fine  velocius  est  quam  in  principio,  quia  confortatur  ex desiderio  finis  et  termini;  ideo  intenditur  desiderium,  et  intento desiderio  intenditur  virtus  motiva  et  motus.  Exemplum  do  vobis: quando  vos  itis  ad  amicam  et  appropinquatis  illi,  antequam  figatis priapum,  vos  mandate  fuor  el  seme  in  sulle  cosce.  Similiter,  quando aliquis  est  clericus,  non  desiderat  papatum;  sed  quando  incipit liabere  sacerdotia  magna,  incipit  desiderare  episcopatum,  postea cardinalatum,  et  tunc,  quando  est  cardinalis,  magnopere  papatum desiderat,  quia  illi  est  propinquus.  Et  ita  dicit  commentator....85. Alla  fine  di  novembre  1522,  stava  commentando  il  primo delle  Meteore,  e  precisamente  il  capitolo  della  pioggia,  della rugiada,  della  grandine,  della  neve  e  della  brina.  Seguendo passo  passo  il  testo  aristotelico  e  prendendo  in  esame  le  varie opinioni  così  poco  convincenti  intorno  alle  cause  del  riscalda- mento e  raffreddamento,  della  siccità  e  dell'umidità,  esce  in queste  dichiarazioni: Ego  multos  annos  consideravi  ista,  et  ex  toto  mihi  non  sati- sfacio,  et  volo  addiscere  2as  dubitationes  quas  nescio  solvere,  et solutionem  relinquo  istis  meis  sociis  qui  cenant  cum  deo  et  omnia sciunt....  Domini,  ego  dico  vobis  sicut  dicebat  Petrarca:  '  Così  ben io    potessi    con    lingua  '    exprimere    quaelibet    mente    concipio.... Domini  et  filij  mei,  dicam  vobis  veruni:  certe  quo  ad  nostrum saeculum,  multum  laudo  fratres  sancti  Hieronymi,  idest  li  lesuati, quoniam  non  student  et  nihil  faciunt  nisi  dicant  '  Pater  noster  ' et  'Ave  Maria'.  Et  ita  contenti  vivunt  et  sine  molestia.  Et  quantum ad  alium  saeculum,  magis  laudo,  et  mallem  habere  conditiones Socratis,  qui  ad  hoc  devenit  et  dixit  hoc:  'Unum  scio,  quod nihil  scio  ',  quam  conditiones  Aristotelis,  quem  credo  quod  multa finxerat  se  scire,  quae  tamen  ipse  ignoraret.  Dico  vobis  quod ista  nescio  solvere.  Solvant  qui  continuo  prandent  cum  deo  qui habent  intellectum  adeptum  ^6. I  soci  che  pranzano  e  cenan  con  Dio  e  san  tutto,  sono  evi- dentemente quegli  averroisti  che,  come  l'Achillini  e  il  Baci- lieri,  ritenevano  fosse  concesso  al  filosofo  di  giungere,  in  questa vita,  al  termine  dello  sviluppo  filosofico  e  al  congiungimento coir  Intelletto  agente,  nel  quale  consiste  il  pieno  appagamento del desiderio  umano  di  sapere. Paolo  Giovio  si  trovava  a  Padova,  sui  ventiquattro  anni,  di- scepolo del  Peretto,  quando  questi  ebbe  per  concorrente  l'Achil- 8?  Ib.,  f.   i64r. **^  Parigi,    ib.,    ms.   lat.    6535,   f.    i2or-v. I 258        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI lini  fuggito  da  Bologna;    che  quello  che  egli  racconta dell'uno  e  dell'altro  è  testimonianza  di  quanto  ebbe  ad  osser- vare. Al  grande  cacciatore  di  aneddoti  non  pareva  vero  di  tra- mandarci qualche  fugace  impressione,  colta  a  volo,  intorno  ai personaggi  del  tempo,  nei  quali  s'era  imbattuto.  Egli  infatti niente  ci  dice  dell'insegnamento  dell' Achillini  a  Bologna.  Ce  lo rappresenta  a  Padova,  averroista  che  gode  fama  di  solido  e  ben digesto  sapere,  mentre  il  Pomponazzi,  astioso  rivale  ^7,  mosso da  ambizione,  gli  vuota  la  scuola.  Un  po'  trasandato  nel  ve- stire e  nel  portamento,  ma  con  fronte  sempre  raggiante,  si- curo di  sé,  eccolo    al  portico  pretorio,  nel  circolo  dei  dotti, mentre  nel  rozzo  gergo  scolastico  affronta  l'avversario  e  cerca d' irretirlo  entro  le  maglie  dei  suoi  bifronti  e  cornuti  enti- memi ^^,  E  talora  sembra  averlo  abbattuto  col  vigore  delle  sue stoccate;  ma  il  più  delle  volte  quello  sfugge  alla  presa  delle armi  dialettiche,  l' impeto  dei  colpi  vibrati  cadenelvuoto,, stornato  da  una  facezia  o  da  un  motto  salace,  «  salsa  dicaci- tate  »,  che  suscitava,  in  chi  assisteva  a  quelle  giostre  di  sillo- gismi, le  più  scroscianti  risate. Negli  anni  del  soggiorno  padovano  l'Achillini  attese  a  riunire in  un  sol  volume  le  opere  che  aveva  stampate  separatamente  a Bologna  e  che  abbiamo  elencate  fin  qui.  La  prima  edizione  degli Opera  omnia  fu  fatta  a  Venezia  a  spese  degli  eredi  di  Otta- viano Scoto,  ed  apparve  il  29  luglio  1508.  Essa  comprendeva  i Quolibeta  de  intelligentns,  il  De  orbibus,  il  De  universalibus,. il  De  elementis  89  e  le  questioni  De  principiis  chiromantiae  et phvsionomiae,  De  potestate  syìlogismi  e  De  subiecto  medicinae. 87  II  Capparoni,  Profili  bio-bibliografici  di  medici  e  naturalisti  celebri italiani  dal  sec.  XV  al  sec.  XVIII.  Roma,  1926,  p.  12,  dice  addirittura che  a  Padova  l'Achillini  «  ebbe  a  soffrire  l' invidia  del  Pomponazzi con  il  quale  sostenne  non  lievi  dispute,  avendolo  ad  avversario  poco cortese  e  corretto  ».  Tutto  questo  mi  pare  che  aggravi  un  po'  troppo  il racconto   del   Giovio. 88  Paolo  Giovio,  Elogia  virorum  literis  illustrium.  Basilea,  1577, pp.  71-72  e  p.  86.  In  questa  edizione  dell'opera  del  Giovio  si  trova  quel ritratto  dell'Achillini  che  il  Mlinster  (1.  e,  p.  15)  riproduce diseconda mano,  dichiarando  di  non  sapere  donde  provenga.  Un  ritratto  del filosofo  bolognese  il  Giovio  doveva  possedere  nel  suo  museo  a  Como. Una  copia  di  esso,  se  non  proprio  l'originale,  si  trova  ora  nel  ballatoio della  sala  Fagnani  presso  la  Bibl.  Ambrosiana  di  Milano,  somigliante all'  immagine  degli  Elogia.  Altro  ritratto  dell'Achillini  è  posseduto  dal museo    dell'  Università    di    Bologna. 89  La  dedica  al   Bentivoglio  naturalmente  fu  omessa. La  partenza  di  questo  insigne  maestro  aveva  lasciato un  gran  vuoto  nello  studio  bolognese,  e  le  autorità  accade- miche, che  non  riuscivano  a  colmarlo,  lo  sollecitarono  a  ritor- nare sulla  sua  cattedra,  minacciandolo  dell'ammenda  di  cin- quecento ducati  d'oro  e  di  pene  anche  più  gravi,  ove  non avesse  ottemperato  all'ordine  9°.  Così  egli  il  14  settembre  150S fece  ritorno  in  patria,  ove  riprese  la  sua  attività  normale di  dottore  dei  due  collegi  delle  Arti  e  di  Medicina,  e  il  duphce insegnamento  della  filosofia  naturale  e  della  medicina  teorica; tanto  poco  il  nuovo  regime  papale  si  preoccupava  dell'opposi- zione che  avrebbe  potuto  venirgli  dalla  filosofia. Al  periodo  del  ritorno  a  Bologna  appartiene  il  trattato De  distinctionibus,  edito  quivi,  «  per  Ioannem  Antonium  de Benedictis...,  Anno  domini  1510.  Die  5.  Octobris  ».  L'opera concerne  i  concetti  trascendentali  di  ente,  uno,  vero,  buono, e  quelli  di  essenza,  di  cosa,  di  identico  e  distinto,  della  distin- zione reale  e  della  distinzione  concettuale,  delle  formalità scotistiche,  della  relazione  e  dei  suoi  fondamenti,  dell'ana- logia e  dell'uso  di  questi  concetti;  di  guisa  che  la  trattazione ci  dà,  di  scorcio,  un  sommario  di  tutto  il  pensiero  metafisico dell'Achillini  intento  a  salvare  e  a  conciliare  la  dottrina d'Averroè  con  quella  dei  maggiori  maestri.  Nel   1509,   come 90  Da  una  lettera  dei  Quaranta  riformatori  dello  Studio  bolognese, in  data  11  sett.  1507  (pubblicata  da  B.  Podestà,  Di  alcuni  docum.  ined. riguardanti  P.  Pomponazzi,  in  «Atti  e  Mem.»  della  R.  Deput.  di  Storia Patria  per  le  provincie  di  Romagna,  Anno  VI,  Bologna,  1868,  p.  142, nota),  appare  che  i  riformatori  avevano  già  prima  fatte  le  loro  rimo- stranze, perché  s'era  assentato  senza  licenza.  L'Achillini  s'era  scusato «  cum  dire  che  ne  fu  concessa  hcentia  dal  M.  co  Sr.  Confaloniero  d'  Justi- tia  »  e  che  senza  di  ciò  non  sarebbe  mai  partito.  Ma  i  Quaranta  repU- carono  che  la  licenza  non  era  stata    richiesta    concessa  nella  forma valida.  Perciò  s'affrettasse  a  far  ritorno,  se  non  voleva  esser  multato di  500  ducati  d'oro  o  colpito  con  altre  gravissime  pene  «  nelle  quali incorrono  li  nostri  doctori  che  partono  da  Bologna  senza  licentia  per andare  a  legere  fora  nelli  externi  studi  ».  Tuttavia  l'AchiUini  non  ri- tornò che  un  anno  dopo.  Nel  Lib.  Partitorutn  (Arch.  di  Stato  di  Bologna, voi.  13,  f.  136V),  al  14  sett.  1508,  si  trova  che  con  19  su  19  fave  bianche «I  conduxerunt  Ex.m  Artium  et  Medicinae  Doctorem,  D.  M.m  Alex,  de Achilinis  ad  legendum  in  Studio  Bononie  »  col  salario  di  900  lire  bolo- gnesi, integre  e  privilegiate,  e  alla  condizione  di  leggere  Teorica  ordi- naria al  mattino  e  Filosofìa  ordinaria  la  sera.  La  formula  «  conduxe- runt »  vuol  dire  che  si  tratta  di   un  nuovo  ingaggio. 26o        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI maestro  di  Teorica,  commentò  la  prima  fen  del  IV  libro  del Canon    di    Avicenna  91. Ripreso  il  corso  delle  lezioni,  egli  si  dette  nel  1511  a  esporre il  De  physico  auditu  di  Aristotele.  Ma  l'esposizione  fu  inter- rotta dagli  eventi  bellici  di  quell'anno.  È  noto  come  il  grande capitano  Gian  Giacomo  Trivulzio,  al  servizio  del  re  di  Francia, il  23  maggio  di  quell'anno  avesse  ripreso  Bologna  al  papa  e come  avesse  riaperte  le  porte  al  ritorno  dei  Bentivoglio.  Ma Giulio  II,  fatta  lega  con  gli  Spagnoli,  non  tardò  a  usare  dei servigi  di  questi  per  far  bombardare  la  città  e  ridurla  all'ob- bedienza della  Chiesa.  Sorpreso  dagli  avvenimenti,  il  maestro continuò  a  far  lezione  finché  gli  alunni,  per  fuggire  all'assedio, non  disertarono  lo  studio  9^.  Il  5  febbraio  del  1512,  penetrato di  sorpresa  in  città  Gaston  de  Foix  obbligò  gli  Spagnoli  a sbloccare  Bologna.  Ma  dopo  la  battagha  di  Ravenna  dell'  11 aprile,  perduto  l'appoggio  francese,  i  Bentivoglio  dovettero di  nuovo  prendere  il  largo. Com'era  suo  costume,  l'Achillini  avrebbe  fatto  volentieri  a meno  di  pubblicare  questo  frammento  di  esposizione  del De  physico  auditu.  Ed  infatti  egli  non  aveva  mai  pubblicato nessun  commento  a  scritti  d'Aristotele  o  d'altri,  bensì  tratta- zioni originali  sebbene  ispirate  al  pensiero  d'Aristotele  e  d'Aver- roè.  Perciò  mi  sorprende  assai  quello  che  Ladislao  Miinster scrive  93  degli  Opera  omnia  nell'edizione  del  1508  curata  dal- l'autore stesso:  «  Si  tratta  in  gran  parte  di  opere  d'Aristotele, di  Alessandro  Afrodisiaco  (!  !  !),  d'Averroè  ecc.  provviste  di commenti  dell' Achillini  ».  Ma  ch'egli,  non  che  scorsa,  non abbia  mai  visto  in  faccia  questa  edizione,  è  provato  dal  fatto 91  Nel  cod.  latino  14  (io)  dell'  Università  di  Bologna  si  trova, tra altre  cose  dell' Achillini,  una  Expositio  supra  prima  41  Avicennae,  da- tata 7  settembre  1509.  L.  Frati,  Indice  dei  codici  latini  conservati  nella R.  Bibl.    Univers.  di  Boi.,   Firenze,    1909,  p.    io.   V.  sotto,  p.    269. 92  II  Fantuzzi,  Notizie  degli  scrittori  bolognesi,  I,  p.  51,  dice,  senza per  altro  citare  la  fonte,  come  «l'anno  1512,  alli  15  Gennaio,  tenendosi una  radunanza  di  Teologi,  di  Dottori  legisti  e  d'altri  Uomini  insigni, per  consultare  se  si  dovea  ricevere  il  Legato  proposto  a  Bologna  dal Conciliabolo  di  Pisa  (cioè  il  Cardinale  San  Severino,  fatto  legato  di quella  radunanza  e  Governatore  di  Bologna),  gli  aderenti  a'  Benti- voglio sostenevano  l'affermativa,  e  fra  essi  Alessandro  Achillini  piià d'ogni  altro  aringo  con  grande  arte  ed  impegno  per  sostenerla.  E  se non  potè  ottenere  l' intento,  ne  venne  però,  che  fu  determinato  di  non ricevere    questo    quello  destinato  allora  dal  Pontefice  Giulio  II  ». 93  0  Riv.  di  St.  delle  Se.  Med.  e  Naturah  »,  XXIV,    1933,  p.   71. I che  fra  le  opere  incluse  in  questa  edizione  pone  il  De  physico auditu,  stampato  la  prima  volta  nel  1512,  e  il  De  niotimm proportione,  di  cui  diremo  più  giù. L'Achillini,  dunque,  per  sua  esplicita  dichiarazione,  non pensava  affatto  a  dar  in  luce  una  nuova  esposizione  dell'opera aristotelica,  parendogli  che  bastassero  quelle  greche,  latine ed  arabe  che  correvan  per  le  mani  di  tutti.  In  ciò  fu  imitato dal  Pomponazzi,  che  non  pensò  mai  a  dare  alle  stampe  alcuno dei  numerosi  commenti  ad  Aristotele,  lasciati  inediti  nelle riportazioni  dei  suoi  alunni.  Quello  che  decise  il  bolognese  a desistere  dal  suo  proposito,  è  quanto  egli  stesso  scrive  in principio  del  frammento: Fugeram  olim  Peripateticorum  principis  Aristotelis  librorum interpretationes  notis  mandare,  quoniam  expositores  tum  Graeci, tum  Arabes,  tum  Latini,  evolvere  ipsos  cupientibus  textum  Ari- stoteUs  piane  aperuerunt.  Difficultates  autem  circa  sententias Aristotelis  et  Averrois  contingentes,  ex  libris  a  me  editis  non  dif- ficile erat  comprehendere.  Sed  quia  varii  auditores  varia  fragmenta philosophica,  me  legente,  varie  collegerant,  et  me  inscio  meo nomine  publicaverant,  non  passus  sum  ut,  quae  nostra  non  erant, prò  nostris  haberentur.  Ideo  coactus  sum  haec  scripta,  tum  ap- ponendo tum  variando  tum  rescindendo,  diligentius  repurgare, ut  ipsa,  manu  propria  elaborata,  proprium  auctorem  recogno- scerent  v4. E  alla  fine  dell'opera: Hucusque  (cioè  fino  al  principio  del  libro  II,  t.  e.  i)  nos  pro- secuti  sunt  audientes.  Quod  si  amplius  durassent,  noster  labor longior  fuisset.  Et  haec  nostra  recognoscens,  fragmenta  esse  vo- luissem, sed  fractionum  fragmenta  sunt,  quoniam  eis  commi- nutiva  fractio  supervenit,  Hispanis  Bononiam  armis  impeten- tibvis  et  moenia  machinis  deicientibus  95. Per  giocondità  del  lettore  aggiungerò  che  nel  II  volume della  Storia  dell'università  di  Bologna  di  Luigi  Simeoni  (Zani- chelli, Bologna  1940,  p.  51)  si  legge  che  Alessandro  Achilhni, 94  Alex.   Achillini,   Expositio  primi   Physicoriitn.   E  infine:  Expli ciiint  fragmentorum  fractiones  physicales  ab  Alex.  Ach.  Bon.  ordinariam Theorice  de   mane  publice  docente.   Impresse  per  Hieron.   de  Benedictis civem  bonon.  Anno  Domini  M.D.XII,  f.  iv.  Questa  avvertenza  è  stata omessa  nell'edizione  degli  Opera  omnia  curata  da  Panfilo  Monti  nel  1545. 95  Ib.,  f.   33rb,  e  nell'edizione  del  Monti,  f.  gorb. 202  se  non  scopritore,  fu  almeno  «  il  primo  descrittore  degli  ossi- cini dell'orecchio  nel  suo  De  physico  auditu  ».  Con  che  il  Si- meoni  parrebbe  credere  che  in  questa  opera  l'Achillini  si occupi  dell'anatomia  dell'orecchio  !  E  questa  doveva  essere un'opinione  ben  radicata  in  lui,  se  anche  poche  pagine  dopo scrive  che  il  bolognese  fu  «  celebre  tanto  come  dialettico..,, quanto  come  anatomico  e  medico  »,  e  che  «  le  opere  che  di  lui possediano....  che  trattano  tanto  De  universalibiis  come  De physico  auditu...,  mostrano  questo  doppio  carattere»  (p.  57). Ora  nel  De  physico  auditu  non  si  parla  affatto  di  cose  atti- nenti all'anatomia,  bensì  di  quello  di  cui  Aristotele  parla  in quest'opera  e,  fra  l'altro,  anche  degli  universah,  ma  dell'organo dell'udito    proprio   no. Un'altra  opera  composta  dall' Achillini  in  questi  ultimi  anni della  sua  vita  e  lasciata  inedita  è  il  De  proportione  motuum. L'argomento  riguarda  il  rapporto  che  Aristotele,  nel  VII  della Fisica9^,  aveva  stabilito  tra  la  forza,  la  resistenza  e  la  velocità del  movimento,  e  il  tentativo  da  parte  di  Tommaso  Bradwar- dine,  di  Nicola  d'Oresme  e  degli  altri  «  calculatores  »  di  tra- durlo in  un  rapporto  matematico.  Le  dottrine  di  costoro,  por- tate in  Italia  da  Biagio  Pelacani  da  Parma,  «  Parisius  docto- ratus  »,  avevano  suscitato  vive  controversie  tra  coloro  che accettavano  la  novità  delle  «  calculationes  »  e  gli  averroisti che  alle  nuove  dottrine  furono  piuttosto  ostili.  L'  Achillini si  mostra  pienamente  informato  dello  stato  della  questione, allora  dibattutissima  anche  a  Padova  e  a  Bologna.  Conosce e  cita  il  commento  del  Campano  alla  Geometria  di  Euclide, l'Aritmetica  di  Giordano  de  Nemore,  i  trattati  calcolatori  di Tommaso Bradwardine,  del  Swineshead,  dello  Heytesbury, di  Nicola  d'Oresme,  d'Albertuccio  ossia  d'Alberto  di  Sassonia, di  Paolo  Veneto,  di  Giovanni  Marliani  «  in  sua  quaestione subtili  de  proportionibus  »,  insomma  tutta  la  letteratura  del- l'argomento, che  noi  oggi  ben  conosciamo  attraverso  le  dotte e  dihgenti  ricerche  della  Dott.  Anneliese  Maier97.  Intento  del maestro  bolognese  era  quello  di  salvare  le  regole  delle  propor- zioni formulate  da  Aristotele  e  da  Averroè  nel  VII  della  Fisica e  di  accordarle  con  le  teorie  calcolatorie,  a  differenza  di  quello 96  Cap.  5,  249b  27-25ob  8  (t.  e.  35-39)- 97  Die  Vorlàufer  Galileis  im  14.  Jahrhundert,  Roma,  1949,  pp.  79-215; An  der  Grenze  von  Scholastik  u.  Naturwissenschaft,  Roma,  1952,  pp. 257-384. I APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  263 che  pensava  potesse  farsi,  pochi  anni  dopo  la  morte  di  lui, il    Pomponazzi  98. L'opera  non  potè  essere  pubblicata  dal  filosofo  bolognese perché  prevenuto  dall'  improvvisa  morte.  Lo  Hain,  n.  71, registra  quest'opera  dell' Achillini  col  titolo  De  distyibiitionihus ac  proportione  motuum,  e  la    stampata  a  Bologna,  «  per Benedictum  Hectoris  »,  nel  1494.  Ma  il  Gesamtkatalog,  I,  p.  79, dichiara  l'esistenza  di  questa  edizione  «  zweifelhaft  ».  Io  la direi  semphcemente  inventata.  Per  due  ragioni:  primo,  perché nell'opera  sono  citati  il  De  orbibtis  e  il  De  elementis  sicura- mente posteriori  al  1494;  secondo,  perché  il  fratello  Giovanni Filoteo  che  nel  15 15  ne  curò  l'edizione  postuma,  la    come inedita,  nella  dedica  a  Leone  X:  «  Itaque  Alexandri  ipsius auctoris  nomine  (quando  ipse  funere  praeventus  acerbo  non potuit)    ea  sanctitati  tuae   nuncupatim   dico  »  99. Ma  il  2  agosto  15 12,  coli 'animo  profondamente  amareggiato per  gli   avvenimenti   che   avevano   turbato   la  serenità   dello 98  «  Aliqui  ergo  ducti  inani  gloria  voluerunt  salvare  Aristotelem  ; Inter  quos  fuit  Ioannes  Marilianus,  qui  construxit  tractatum  in  quo intendebat  salvare  Aristotelem;  et  aliqui  fecerunt  tractatum  centra Marilianum....  Et  totus  mundus  apud  me  non  salvaret  Aristotelem, et  Aristoteles  sibimet  contradicit,  et  videbitur  aperte  errasse,  et  una  re- gula  alteri  contradicit.  Fortassis  enim  quod  decipior;  sed  iudicabitis vos  per  dieta   Aristotelis,   quod   non  potest  salvari.    Aristoteles  etiam fuit  homo  et  decipi  potuit,  sicut  etiam  possibile  est  me  decipi »  (P. Pomponazzi,  In  ynm.  Phys.,  ad  t.  e.  39,  ms.  aretino,  Bibl.  de'  Laici,390,  f.  180V  sgg.).  Giunto  alla  fine  della  sua  riportazione,  l'alunno, che  dal  cod.  della  Kungl.  Biblioteket  di  Stoccolma,  Va.  24  (cfr.  «  Giom. Crit.  Filos.  It.  »,  XXXVII,  1958,  p.  354)  appare  essere  quel  Magister Hieronymus  Bonus  o  de  Bono,  da  Bologna,  laureato  in  Artibus  et Medicina  il  13  ott.  1519  (Libro  Segreto  del  Collegio,  cit.,  f.  32v),  annota:   P^^  ribadire  la scoperta  del  Mondini,  che  le  altre  pretese  opere  anatomiche non  erano  che  una  sola,  pubblicata  con  titoli  diversi  nelle varie  edizioni,  e  per  correggere  l'errore  accolto  anche  dal De  Renzi,  pur  così  informato.  Tuttavia,  io  non  ho  voluto prestar  fede  neanche  al  Mondini  e  al  Medici,  e  ho  voluto  rer.- "8  L.  e,  p.  13. "9  Mazzuchelli,  Gli  scrittori  d'Italia,  t.  I,  p.   102. '2*'  G.   Fantuzzi,  op.  cii.,  pp.  54-55. 272  dermi  conto  de  visti  della  curiosa  vicenda  i-'.  Ho  potuto  così constatare  che  la  prima  edizione  è  quella  che  vide  la  luce  a Bologna  il  24  sett.  1520,  a  cura  di  Giovanni  Filoteo  Achillini, col  titolo  di  Anotomicae  annotationes ,  nella  stamperia  di  Ge- ronimo de'  Benedetti,  con  dedica  a  Panfilo  Monti,  che  di maestro  Alessandro  era  stato  alunno,  ed  ora  teneva  la  cat- tedra ordinaria  di  medicina  teorica,  «  Bononiensis  Gymnasii splendor  immortalis  »,  nientemeno  !  Questa  dedica  porta  la data  del  12  settembre  dello  stesso  anno,  ed  ha  nel  frontispizio la  ben  nota  xilografia,  sormontata  dal  nome  «  Magnus  Alexander Achillinus  »  ;  sotto  il  ritratto  di  lui,  tre  distici  di  Annibale Camillo  da  Correggio,  «  Artium  et  Medicine  discipulus  ».  La dedica  parrebbe  escludere  che  vi  fossero  edizioni  anteriori. La  stessa  opera,  col  titolo  De  humanis  corporis  anatomia, uscì  a  Venezia  nel  1521,  per  Io.  Ant.,  et  fratres  de  Sabio, con  la  stessa  dedica  di  Giovanni  Filoteo  a  Panfilo  Monti. Terza  stampa  della  stessa  opera  è  quella  che  apparve  nel FascicuUts  medicinae  di  Giovanni  de  Ketam,  ediz.  veneziana «  per  Caesarem  Arrivabenum  »,  del  1522.  In  questa  edizione l'opera  dell' Achilhni  forma  il  trattato  X  della  raccolta,  subito dopo  V Anatomia  del  Mondino,  e  porta  questo  titolo:  Anno- tationes anathomie  Alex.  Achil.  honon.;  ed  anch'essa  ha  la  de- dica del  1520  a  P.  Monti.  Dell'edizione  di  Venezia,  1516, in  fol.  secondo  il  Capparoni,  in    secondo  lo  Hirsch,  nessuna traccia,  sebbene  altri  la  ricordino  per  sentita  dire.  Delle  edi- zioni posteriori  a  quella  del  1522  non  mi  sono  occupato.  Il colmo  in  questo  pasticcio  pseudo  erudito  è  raggiunto  dal Miinster  ^^z^  il  quale,  dopo  aver  parlato  della  prima  e  della seconda  opera  secondo  l'ordine  del  Capparoni  e  dello  Hirsch, aggiunge  di  suo  che  le  Annotai,  anatomicae  del  1520  pare  non siano  un  nuovo  trattato,  bensì  l'unione  delle  due  precedenti!  '23. I-'  Esempio  tipico  non  so  se  di  disinvoltura  o  d' improntitudine  let- teraria, da  parte  di  troppi  scrittori,  avvezzi  a  copiacchiare  come  scola- retti e  a  spacciare  per  certo  quello  che  hanno  appreso  soltanto  per sentito  dire. ^^^  L.  e,  p.   72. 1^3  Curioso  è  il  caso  di  A.  Pazzini.  Nello  studio  già  segnalato,  che  è del  1933,  sebbene  parli  di  «scritti  anatomici»  (p.  298),  egU  con  questa espressione  parrebbe  tuttavia  intendere  le  sole  Adnotationes  anato- micae che  nel  Fascicuhis  medicinae  del  Ketam  sarebbero  state  pubbli- cate, dice  lui,  col  titolo  in  Mundini  Anatomiam  adnotationes.  Invece nella  Storia  della  medicina,  voi.  I,  Soc.  Editr.  Libr.,  Milano,  1947,  p.  614, J Queste  Anotomicae  annotationes  che  il  maestro  bolognese aveva  lasciato  tra  le  sue  carte,  non  costituiscono  propria- mente un'opera  di  anatomia  umana  da  dare  alle  stampe,  ma lo  schema  forse  d'un'opera  che  egli  andava  preparando  e  per la  quale  raccoglieva  osservazioni  che  gli  era  accaduto  di  fare nel  corso  di  diverse  dissezioni  anatomiche  predisposte  da  lui stesso  o  insieme  ad  altri  colleghi.  Queste  dissezioni  avevano lo  scopo  di  riconoscere  nell'organismo  umano  quello  che si  legge  in  Galeno  o  in  Avicenna,  nel  Mondino  o  in  Ugo  da Siena.  Nel  corso  di  queste  ricognizioni  accade  talora  all'Achil- lini  di  notare  errori  commessi  dagli  anatomisti  precedenti, e  discordanze  fra  quello  che  leggeva  negli  scritti  di  costoro e  quello  che  gli  rivelava  l'esperienza.  Spesso  egli  ha  cura  di descriverci  il  procedimento  col  quale  egli  conduceva  la  dis- sezione, e  di  suggerire  il  modo  più  adatto  per  mettere  a  nudo, senza  lederlo,  quell'organo  o  tessuto  che  si  ha  in  animo  di studiare.  L'opera,  come  dicevo,  è  semphcemente  abbozzata; ma  anche  in  questo  stato,  essa  costituisce  un  notevole  docu- mento di  quello  che  s'andava  maturando  nelle  scuole  di  chi- rurgia. Mentre  le  rumorose  dispute  intorno  al  modo  d' in- tendere i  testi  classici  dell'anatomia  recavano  assai  scarsa luce  per  una  esatta  rappresentazione  della  struttura  dell'or- ganismo umano,  gì'  impetuosi  torrenti  di  parole  s'arrestavano, le  ire  si  placavano,  quando  gli  occhi  dell'anatomista  e  di  coloro che  gli  facevan  corona  nell'anfiteatro,  si  fissavano  su  quello che  il  coltello  metteva  a  nudo,  e  la  luce  dell'esperienza  rive- lava qualcosa  di  nuovo  e  d' insospettato.  Il  che  del  resto avvenne,  nel  secolo  XVI,  non  solo  nel  campo  dell'anatomia, ma  in  tutte  le  ricerche  concernenti  la  natura,  e  non  per  in- flusso dell'umanesimo  e  del  platonismo,  ma  per  un  processo di  critica  interna,  quasi  direi  di  autocombustione,  in  seno alle  scuole  aristoteliche.  Galileo  stesso  vien  dall'aristotelismo in  via  di  dissoluzione.  Il  Rinascimento  è  frutto  dell'approfon- dirsi e  dell'estendersi  dell'esperienza  in  tutti  i  campi  del  sa- pere   naturale. Com'  è  noto,  Panfilo  Monti  nel  1545,  mentr'era  professore vedo  che  è  ritornato  all'errore  del  Capparoni  e  dello  Hirsch.  Se  avesse dato  un'occhiata  alla  memoria  del  Mondini  e  all'opera  di  M.  Medici, oltre  alla  correzione  di  questo  errore,  vi  avrebbe  trovato  forse  qualcosa che  poteva  giovargli  anche  per  l'argomento  da  lui  trattato,  riguar- dante la  scoperta  della   membrana  timpanica.] a  Padova,  raccolse  in  un  volume  gli  Opera  omnia  dell' Achil- lini,  cioè  tutte  le  opere  che  il  maestro  bolognese  stesso  aveva dato  alle  stampe,  più  il  De  proportione  motuuni;  e  il  volume, edito  da  Geronimo  Scoto  a  Venezia,  fu  dedicato  al  patrizio veneziano  e  chiarissimo  filosofo  Sebastiano  Foscarini.  Perché ne  lasciò  fuori  le  Anotomicae  a?inotationes  ?  Non  certo  perché egli  non  le  ritenesse  autentiche;  ma  verosimilmente  perché  gh parvero,  come  sono,  opera  frammentaria,  piii  schema  e  ma- teria di  opera  che  opera  completamente  delineata;  o  forse anche  perché  quelle  note  gli  parvero  ormai  sorpassate  e  di scarso  valore,  dati  i  rapidi  progressi  che  l'anatomia  in  quegli anni  andava  facendo. Sì  che  agli  occhi  dell'alunno  editore  l'opera  dell' Achilhni degna  d'essere  presa  ancora  in  considerazione  e  tramandata e  meditata  era  opera  di  filosofo.  E  questa  sola  egli  intese  tra- mandarci con  l'edizione  da  lui  curata  1-4.  Con  le  Annoiationes il  Monti  trascurò  altresì  gì'  inediti  che  non  dovevano  mancare sia  tra  le  carte  del  maestro,  o  dispersi  in  riportazioni  di  scolari. 9.  -  Se  ora  ci  chiediamo  quale  è  stato  il  giudizio  complessivo degli  storici  sull'opera  globale  dell'Achillini,  dobbiamo  con- statare, anzitutto,  che  troppi  son  coloro  che  ne  hanno  parlato per  sentito  dire.  E  questo  tanto  tra  gh  storici  della  filosofia quanto  tra  quelli  della  medicina.  Di  costoro  evidentemente non  è  da  tener  conto.  Come  non  è  da  tener  conto  di  giudizi come  quello  del  Munster  '^s,  il  quale  da  ciò  che  dell'Achilhni narra  a  modo  suo  il  Giovio,  è  indotto  a  rappresentarcelo come  «  schizzoide  >>  ! Il  primo  che  ha  parlato  dell'averroista  bolognese  dopo averne  scorse  le  opere,  se  non  tutte,  almeno  i  Qitoliheta  de intelligentiis,  fu,  tra  gli  storici  della  filosofia,  Francesco  Fio- rentino nel  suo  Pomponazzi  del  1868,  pp.  252-262.  E  a  quel che  ne  disse  allora  l'onesto  Fiorentino  si  rifanno  su  per  giù  gli storici  posteriori,  trascurando  però  taluni  giudizi  di  questo e  altri  esagerandone  fino  a  renderli  irriconoscibili.  Che  l'Achil- lini  fosse  un  averroista,  tutti  a  un  di  presso  s'accorsero;  ma 1^4  Tuttavia  le  Anotomicae  annotationes  non  furon  mai  del  tutto  di- menticate e  il  nome  dell'Achillini  vien  ricordato  da  anatomisti  po- steriori, anche  quando  le  sue  opere  filosofiche  erano  ormai  cadute  del tutto  in  oblio. 125  L.  e,  p.  59. APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  275 se  averroista  di  più  o  meno  stretta  osservanza  pareva  dubbio. La  tesi  che  l' intelletto  possibile,  forma  immateriale  e  incor- ruttibile, infima  delle  intelligenze  celesti,  è  unica  per  tutta  la specie  umana,  è  certamente  tesi  averroistica.  Ma  pareva  al Fiorentino  che  il  bolognese  si  discostasse  dallo  schietto  aver- roismo, perché  questo  riteneva  1'  intelletto  forma  assistente e  non  informante  dell'uomo,  l'Achillini  invece  ammetteva che  r  intelletto  umano,  pur  essendo  unico  per  tutta  la  specie, è  vera  forma  informante  che    all'uomo  il  suo  essere  di  uomo. Se  non  che  lo  storico  calabrese  non  pare  s'accorgesse  che  con  que- sta seconda  tesi,  senza  rinnegare  la  prima,  la  dottrina  averroi- stica non  era  affatto  parzialmente  abbandonata,  ma  anzi approfondita;  e  che,  grazie  a  questo  approfondimento,  veni- vano a  cadere  tutte  o  gran  parte  di  quelle  obiezioni  che  si facevano  alla  tesi  averroistica,  di  spezzare  l'unità  del  soggetto umano  cui  s'attribuisce  l'atto  d' intendere.  E  già  prima,  Si- gieri  e  Tommaso  di  Wilton,  Paolo  Veneto  e  Giovanni  Pico, coetaneo  del  bolognese,  avevano  interpretato  il  pensiero d'Averroè  alla  stessa  maniera;  e  questo  non  per  motivi  di fede,  ma  per  eliminare  dalla  dottrina  aristoteUco-averroistica un  assurdo  evidente  sul  quale  speculavano  gli  avversari  del- l'averroismo; tanto  vero  che  l'anima  razionale  che  yien  detta informare  l'uomo,  resta  in    unica  per  tutta  la  specie  umana. Non  è  pertanto  esatto  l'affermare  che  ogni  seguace  d'Averroè riteneva  l' intelletto  «  forma  assistente  »  dell'uomo  e  non «  forma  dans  esse  ». Il  Fiorentino  è  stato  colpito  anche  da  un  passo  del  De  eie- mentis  (II,  art.  5,  verso  la  fine),  ove  si  parla  dell'unione  del- l' intelletto  con  l'anima  sensitiva  dell'uomo,  come  abbiamo visto  più  su,  e  dove  l'Achillini  torna  ad  esporre  con  nuovi particolari  la  sua  dottrina  sigeriana  già  esposta  nei  Quolibeta de  intelligentiis.  Ad  un  certo  momento  si  domanda:  «  Quo- modo  stat  opinio  Aristotelis  cum  fide      giacché  tanto  l'inter- pretazione che    del  pensiero  dello  Stagirita  Averroè,  quanto quella  che  ne    Alessandro  d'Afrodisia,  secondo  la  ragion naturale,  discordan  dall'  insegnamento  della  fede.  E  il  nostro averroista  risponde:  Il  fatto  che  entrambe  discordin  dalla fede,  significa  che  tutte  e  due  son  false,  e  che  su  questo  punto, come  su  altri  non  pochi,  bisogna  che  noi  credenti  abbando- niamo il  filosofo;  ma  dovendo  scegliere  a  lume  di  ragione  tra quelle    due    interpretazioni,    entrambe    false,    quella    che    ha I 276        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI miglior  verisimiglianza,  sceglieremo  quella  d'Averroè,  perché, sostenendo  questi  che  l'anima  è  forma  informante  che  dà all'uomo  l'essere  di  uomo,  viene  a  dire  che  l' intelletto,  nel- l'atto di  unirsi  all'uomo,  termina  il  processo  della  genera- zione umana  e  quindi  ha  in  qualche  modo  un  cominciamento nel  tempo,  come  appunto  insegna  la  fede. In  tutto  questo  non  vedo    incertezza    spossatezza  da parte  dell' Achillini;    tanto  meno  che  egli  si  senta  spinto «ad  accettare  l'averroismo  dopo  averlo  dichiarato  falso «'^ó. L'opposizione  tra  molte  tesi  difese  da  Aristotele  e  la  verità cristiana  era  comunemente  ammessa,  da  quando  Alberto Magno  aveva  proclamato  che  «  theologica  cum  Physicis  prin- cipiis  non  conveniunt»'-?,  e  che  al  filosofo  che  voglia  trattare delle  cose  naturali  secondo  i  principi  della  ragion  naturale, non  deve  importare  dei  miracoli  della  fede  '-8.  È  vero  che  Tom- maso, combattendo  l' interpretazione  averroistica  del  pen- siero d'Aristotele,  s'era  adoprato  ad  accordar  questo  col  pen- siero cristiano.  Ma  questo  concordismo  tomistico  non  era parso    di  buon  gusto    di  buon  augurio,  non  solo  ad  aver- roisti  come  Sigieri,  discepolo  in  questo  d'Alberto  Magno,  ma nemmeno  ad  alcuni  teologi  che  s'erano  ribellati  al  tentativo «  de  Aristotele  haeretico  facere  omnino  catholicum  ».  E  molti, non  solo  maestri  in  artibus,  ma  anche  teologi  e  commentatori delle  Sentenze  di  Pietro  Lombardo,  dalla  fine  del  secolo  XIII al  secolo  XVI,  ritennero  perfettamente  fondata  sul  testo aristotelico  e  legittima  l' interpretazione  averroistica,  salvo quando  questa  discordava  da  quella  di  altri  commentatori autorevolissimi,  come  Alessandro,  Filopono  od  altri  special- mente greci. Ora  ai  tempi  dell'Achillini  e  del  Pomponazzi,  a  Bologna come  a  Padova,  era  obbhgo  di  leggere  e  discutere  il  testo  ari- stotelico e  il  commento  d'Averroè.  Averroisti  si  dissero  tutti quelli  che,  rifiutando  il  concordismo  tomistico,  d' ispirazione avicenniana,  mostravano  ripugnanza  a  «  miscere  diversa brodia))i29,  e,  per  quello  che  concerneva  il  pensiero  aristotelico, s'attenevano  al  commento  averroistico.  Il  che  non  implicava ^'^^  Fiorentino,  ib.,  p.  259. 127  Metaphys.,  XI,  tr.  3,  e.   7. 1-8  De  gen.   et  corr.,   I,   tr.    i,   cap.    22,   ad  t.  e.   14.  Cfr.  «Rivista   di Storia  d.  Filos.]  affatto  che  essi  dovessero  accettare  le  dottrine  d'Aristotele quali  erano esposte  da  Averroè,  come  loro  proprio  pensiero. Gli  averroisti  potevano  quindi  con  perfetta  coerenza  dichia- rare che  la  dottrina  dell'eternità  del  mondo  e  dell'unità  del- l' intelletto  era  dottrina  vera  e  necessaria  nel  sistema  del  pen- siero aristotelico;  ma  che  questa  dottrina  era  falsa  secondo la  fede  che  s' ispira  al  \"angelo  e  non  ai  libri  d'Aristotele. Il  che  è  perfettamente  vero  anche  per  noi. Questo  non  hanno  ancora  compreso  taluni  storici  della  filo- sofia. Uno  dei  quali '3",  dopo  aver  detto  che  «enger  an  dem averroistischen  Aristotehsmus  schloss  sich  Alex.  Achilhni  an (aus  Bologna,  war  Professor  der  Philosophie  u.  Medizin, zuerst  in  Padua  (!),  seit  1509  (!)  in  Bologna,  wo  er  um  1518  (!) starb)....  »,  aggiunge:  «  So  weit  Aristoteles  von  dem  christlichen Glaubensstandpunkt  (z.  B.  hinsichtlich  der  Schòpfung  der Welt)  abweicht,  ist  er  ini  Sinne  der  Kirchlichen  Lehre  zu  kor- rigieren  »  (la  sottolineazione  è  mia  e....  pour  cause).  Il  qual giudizio  vien  trasportato  di  sana  pianta  nella  massiccia  Storia della  filosofia  di  N.  Abbagnano  (voi.  II,  I,  U.T.E.T.,  1948, p.  70)  :  «  In  realtà  la  sua  preoccupazione  [dell' Achillini]  co- stante è  quella  di  correggere  la  dottrina  aristotelica  nel  senso dell'  insegnamento  ecclesiastico  »  (anche  questa  sottolineazione è  mia)  '31.   Ma  egli  v'aggiunge  qualcosa  di  suo,  che  aggrava '30  Ueberweg-Moog,  Die  Philos.  der  Neuzeit  bis  zuyn  Ende  des  X  Vili. Jahrh.,  Berlin,  1Q24,  p.  28.  E  già  prima  E.  Renan,  Averroès  et  l'averr., 3*  ed.,  Parigi,  1S66,  p.  361:  "  Tout  en  reconnaissant  que  sur  ces  deux points  (l'unite  des  àmes  et  1'  immortalité  collective)  la  doctrine  d' Aver- roès est  conforme  à  Aristote,  Achillini  rejette  expressement  ces  théories comme  opposées  à  la  foi  ».  E  cita  H.  Ritter,  Gesch.  der  neneren  Philos., I  parte,  p.   383  sgg.,  citato  anche  dal  Fiorentino. '3'  La  stretta  aderenza  dell'Abbagnano  al  Moog  appare  anche  da quel  che  l'uno  e  l'altro  dicono  dello  Zimara.  Scrive  il  secondo:  «  Noch strenger  hielt  am  Averroismus  fort  M.  Ant.  Zimara  (aus  Neapel.... gestorb.  1532)....  In  ihnen  (Schriften)  suchte  auch  er  den  Averroismus mit  Kirche  zu  vereinen.  Die  Einheit  des  menschlichen  Intellektes  wird von  ihm  als  Einheit  der  allgemeinen  Erkenntnisprinzipien  gedeutet  ». E  l'Abbagnano:  «e  lo  stesso  [di  spogliare  l'aristotelismo  e  l'averroismo dei  loro  caratteri  originari  in  omaggio  ad  una  preoccupazione  dogma- tica] accade  nelle  dottrine  del  napoletano  M.  A.  Zimara  [ma  se  era  di S.  Pietro  in  Galatina  presso  Otranto,  tanto  che  a  Padova  lo  chiamavano l'Otranto  o  l'Otrantino  !]  (morto  nel  1532),  anch'egli  professore  a  Pa- dova, il  quale  interpretava  l'unità  dell'  intelletto,  sostenuta  dall'aver- roismo, come  l'unità  dei  principii  universali  della  conoscenza  ».  Dello stesso  avviso  pare  sia  anche  G.  Saitta,  //  pens.  ital.  nelV  Umanesimo e  nel  Rinasc,  voi.  II,  Bologna,  1950,  pp.  379-80:  «  Le  sue  Contradictiones \ 278        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI assai  l'errore  dell'autore  tedesco:  «L'aristotelismo  e  l'aver- roismo sono  stati  qui  spogliati  dei  loro  caratteri  originari, in  omaggio  ad  una  preoccupazione  dogmatica  ».  Preoccupazione che  l'Achillini,  al  pari  degli  altri  averroisti,  non  mostra  mai d'avere,  anche  quando,  constatata  l'opposizione  fra  Aristotele e  il  dogma,  dice  esser  dovere  del  credente,  che  tale  voglia rimanere,  di  ripudiare  Aristotele,  non  di  correggerlo,  che  vor- rebbe dire  travisarlo.  In  questo  i  nostri  vecchi  erano  onesti e  coerenti. L'ottimo  E.  Garin  132  ricorda  la  breve  preghiera  che  si  legge in  principio  del  De  elementis:  «  Luminum  clarissima  lux,  qua ac  solutiones  ex  dictis  Aristotelis  et  Averrois  parlano  dell'unità  dell'  in- telletto di  tutti  gli  uomini  come  l'unità  dei  principii  universali  del conoscere  ».  Il  Moog  e  l'Abbagnano  non  citano  alcuna  fonte  della  loro affermazione.  Il  Saitta  invece  cita  le  Contradictiones  dello  Zimara, senza  però  indicare  un  punto  preciso.  Ma  egli  non  deve  averle  lette: che  lo  ritengo  troppo  intelligente,  se  le  avesse  lette,  da  lasciarsi  scap- pare simile  afferm_azione.  E  allora  ?  Allora  il  Moog,  l'Abbagnano  e  il Saitta  derivano,  direttamente  o  per  via  indiretta,  il  loro  giudizio  dal libro  del  Renan,  Averroès  et  l'averroisme,  ove  appunto  accade  di  leg- gere (ed.  cit.,  p.  375):  «L'unite  de  l' intellect  est  adoptée  dans  le  sens de  l'unite  des  principes  communs  de  l'esprit,  mais  ouvertement  rejetée en  ce  sens  qu'  il  n'y  aurait  qu'un  seul  principe  substantiel  de  la  raison humaine  ».  E  il  Renan  cita  le  Solutiones  contradicionum,  Averrois  Opera, t.  XI  dell'ediz.  di  Venezia  1560,  fol.  177V-188V  (più  semplice  e  più comodo  era  citare  le  stesse  Solutiones  contrad.  super  III  de  anima, contr.  XVI).  Se  il  Moog,  l'Abbagnano  e  il  Saitta  si  fossero  presa  la  briga di  andare  a  vedere  questo  luogo  dello  Zimara,  avrebbero  potuto  con- statare, con  non  poca  sorpresa,  che  il  Renan  quel  giorno  doveva  essere febbricitante  o  ubriaco  o  fortemente  distratto,  giacché  l'averroista otrantino  in  quel  luogo  dice  esattamente  il  contrario.  Ivi  lo  Zimara, che  s'era  proposto  di  conciliare  un'apparente  contradizione  fra  due affermazioni  d'Averroè,  riporta  un  brano  del  commento  di  Temistio al  De  anima,  ove  si  legge  appunto  ;  «  Unde  enim  communes  illae  animi conceptiones  praenotionesque  communes  omnibus  haberentur  ?  Unde indigentia  illa  impressaque  omnium  mentibus  primorum  notitia  con- stitisset,  natura  duce,  nulla  ratione,  nulla  doctrina  ?  Unde  postremo intelligere  mutuo  et  intelligi  vicissim  possemus,  nisi  iiniis  singularis intellectus  fttisset,  quem  communem  omnes  homines  haberemus  ?  ».  Pla- tone, osserva  lo  Zimara,  con  un  simile  ragionamento  aveva  dimostrato l'esistenza  deUe  idee.  Temistio  ed  Averroè  lo  usano  per  dimostrare l'unità  dell'intelletto;  se  no,  bisognerebbe  ammettere  che  la  scienza nell'alunno  si  generasse  da  quella  del  maestro  a  quel  modo  che,  secondo Aristotele,  il  fuoco  si  genera  dal  fuoco.  «  Hoc  autem  sequitur  secundum ponentes  pluralitatem  inteUectus,  ut  ipse  (Averroès)  opinatur....  ». Niente  di  più  si  legge  nell'opera  dello  Zimara,  il  quale  non  si  chiede affatto  se  questa  dottrina  s'accordi  o  meno  con  la  fede.  A  lui  basta chiarire  il  pensiero  d'Aristotele  e  del  suo  commentatore,  eliminando le  contradizioni.  V.  anche  sotto,  pp.  350-351. 132  L.  e. omnes  aliae  veritates  illiistrantur,  me  per  umbras  materiae tutum  ab  errore  per  Filium  hominis  ducas  in  te  ipsum  ». E  l'accenno  a  una  breve  preghiera  è  anche  in  principio  del De  physico  aiiditu:  «Deus  illuminatio  mea  sit.  Primo  dubi- tatur....  ».  L'uso  di  dar  principio  ad  un'opera,  ed  anche  alla lezione,  nel  nome  di  Dio,  era  un  tempo  costume  di  ogni  buon cristiano  non  meno  che  di  ogni  fedele  maomettano.  Perciò non  parrà  strano  di  trovare  che  anche  il  Pomponazzi  al  suo corso  di  lezioni  sul  De  substantia  orhis,  cominciato  il  20  feb- braio 1507,  premettesse  una  «  oratiuncula  accomodata  », della  quale  però  il  raccoglitore  delle  lezioni  non  riporta  il tenore  133.    si  creda  che  questo  fosse  formaHsmo  o  ipocrisia. Nella  maggior  parte  dei  casi,  non  vi  sono  serie  ragioni  per  du- bitare della  sincerità  di  chi  si  protestava  buon  cristiano, senza  per  questo  rinunziare  alla  sua  libertà  d' interprete  del pensiero  aristotelico;  libertà  che,  a  mio  avviso,  non  che  nuo- cere ha  giovato  molto  alla  fede,  non  costretta  violentemente negli  artificiosi  schemi  d'un  sistema  filosofico  ormai  in  via  di dissoluzione. E  così  maestro  Alessandro,  l'averroista  Alessandro  Achil- lini,  poteva  riposare  tranquillo  nella  chiesa  di  S.  Martino,  a Bologna,  come  tredici  anni  più  tardi  il  Peretto  mantovano in  quella  di  S.  Francesco  nella  sua  città  natale,  sotto  le  grandi ali  del  perdono  di  Dio. 133  Cod.  Vat.  Regin.  lat.   1279,  f.  3r. Di  averroisti  della  corrente  di  Sigieri  di  Brabante  nel  Ri- nascimento italiano  m'era  accaduto  d' incontrare,  alcuni anni  addietro,  Giovanni  Pico  della  Mirandola,  Alessandro Achillini,  Agostino  Nifo  negli  anni  della  sua  giovinezza,  Ti- berio Bacilieri  e  Antonio  Bernardi  della  Mirandola '.  Ma  il  grup- po dei  sigieriani  doveva  essere  più  numeroso,  e  ad  esso  parreb- be che  avesse  aderito,  in  un  momento  del  suo  sviluppo  intel- lettuale, anche  il  Pomponazzi,  come  mi  propongo  di  dimo- strare a  suo  tempo.  Ma  fu,  da  parte  del  Peretto,  l'ultimo tentativo  di  salvare  l'esegesi  averroistica  d'Aristotele;  dopo  di che,  s'orientò  decisamente  verso  l'alessandrismo. Invece  un  altro  convinto  sigieriano  dei  primi  anni  del  Cin- quecento è  il  patrizio  veneziano  Geronimo  di    Taiapietra o  Taiapiera.  Costui,  figlio  del  quondam  Quintin  di    Taia- pietra, dopo  essere  stato  per  otto  anni  a  studiare  a  Padova, richiamato  in  famiglia  per  dedicarsi  alla  vita  pubblica,  come si  conveniva  ad  un  giovane  del  suo  rango  sociale,  s'accostò al  cardinale  Domenico  Grimani  del  titolo  di  S.  Marco  e  pa- triarca d'Aquileia,  non  che  munifico  protettore  degli  studi e  degli  studiosi  -,  per  averne appoggio.  Fu  senza  dubbio  per suggerimento  del  Grimani  che  il  giovane  Taiapietra  si  preparò a  un  pubblico  cimento  per  coronare  col  dottorato  in  filosofia la  carriera  di  studi  intrapresa  a  Padova  e  terminata  con  la *  Dal  ((Giorn.  Crit.  d.   Filos.  Ital.  »,   XXXI,    1952,  pp.   306-330. '  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano,  Roma, Edizioni  Italiane    1945. ^  P.  Paschini,  Domenico  Grimani  cardinale  di  S.  Marco,  Roma, Edizioni  di   Storia  e   Letteratura] licentia  docendi,  ossia  col  titolo  di  magister  artium.  L'occa- sione di  una  pubblica  disputa  s'offrì  con  la  convocazione, per  la  fine  della  primavera  del  1506,  del  capitolo  generale dell'  Ordine  dei  frati  minori,  del  quale  il  Grimani  era  cardinal protettore.  L'uso  di  siffatte  dispute  in  occasione  di  capitoli generali  dei  vari  ordini  religiosi  era  una  veneranda  usanza, vecchia  d'oltre  due  secoli. Sollecitato  dunque  dal  Grimani,  il  Taiapietra  si  recò  a  Roma per  dar  saggio  del  suo  sapere.  La  pubblica  discussione  ebbe luogo  in  una  solenne  riunione  di  dotti  tenuta  nella  residenza abituale  del  cardinale  a  Roma,  il  giorno  di  sabato  6  giugno 1506  3.  L' indomani  mattina,  domenica  della  Trinità,  il  gio- vane dottorando  fu  presentato  a  papa  Giulio  II,  perché  si degnasse  conferirgli  il  titolo  di  dottore  in  ariibiis.  La  ceri- monia è  così  ricordata  nei  suoi  diari  da  Paride  Grassi  4,  maestro delle  cerimonie  del  papa.  Dopo  la  messa  cantata  del  cardi- nale Arboreo  e  la  creazione  da  parte  del  papa  di  un  milite aurato,  dice  il  Grassi: [f.    2i6v]    Creatio   doctoris   in   artibus   per  papani   in   capella. Cum  adhuc  papa  sederet,  superveneruiit  Cardinalis  de  Grimanis et  orator  venetus  qui  rogarunt  papam,  ut  dignaretur  quendam dominum  magistrum  [Hieronymum  Taiapietra]  doctorem  in artibus  creare,  qui,  ut  testificati  sunt,  bene  se  gessit  in  disputa- tionibus  cum  fratribus  ordinis  minorum  qui  venerant  ad  capitulum generale  etc.  Et  sic  sua  Sanctitas  absolute,  idest  sine  cerimoniis, ipsum  genuflexum  creavit  [f.  2i7r]  doctorem  hoc  modo,  videlicet: papa  ante  doctorandum  genuflexum  hec  verba  dixit,  videlicet: Intelleximus  a  Cardinali  de  Grimanis  et  ab  oratore  veneto  quod sis  in  artibus  exscellens  et  doctus,  quodque  in  disputationibus  pri- dianis  que  apud  edes  suas  habite  fuerunt  te  laudabiHter  exhi- bueris;  propterea  nos,  tam  ad  predictorum  relationem,  quam etiam  ad  intuitum  tue  virtutis  et  meritum,  creamus  te  doctorem in  artibus,  dantes  tibi  omnia  privilegia  que  alii  in  quibuscumque studiis  et  universitatibus  habere  consueverunt,  in  nomine  patris et  tìlii  et  spiritus  sancti  '. Quo  facto  ipse  doctor  osculato  pede  pape,  illi  gratias  agens, recessit.  Et  Cardinalis  de  Grimanis  et  orator  predicti  gratias etiam  pape  egerunt. Il  venerdì  successivo,  12  giugno,  la  notizia  del  fatto  era  già arrivata  a  Venezia,  poiché  Marin  Sanudo  "^  la  registra  sotto 3  Fra  i  presenti  alla  disputa  era  l'Achillini.  V.  sopra,  pp.   252-53. 4  Cod.  Vat.  lat.  4739,   f.    2i6v-2i7r. 5  Diarii,  voi.  6,  col.  352. questa  data  con  parole  che  attestano  la  fedeltà  del  cronista: Item,  come  a  dì....  sier  Hironinio  da  dia'  Taiapiera,  quondam sier  Quintino,  tene  le  conclusion  in  chaxa  dil  cardinale  Grimani. Et  el  cardinal  episcopo  di  Urbin  disputò  contro  una,  dicendo l'era  ereticha;  il  cardinale  Grimani  la  mantenne,  et  vinse;  et  così a  dì....   il  papa  lo  dotoroe. Siccome  la  notizia  giunta  da  Roma  non  indicava  il  giorno esatto  della  discussione  e  quello  del  conferimento  del  titolo dottorale,  l'onesto  Sanudo  lascia  i  due  spazi  in  bianco.  In compenso  ci  trasmette  due  notizie  preziose:  quella  dell'obie- zione che  il  cardinale  Gabriele  Gabrielli,  vescovo  di  Urbino, ebbe  a  fare  a  una  tesi  sostenuta  dal  Taiapietra,  perché,  a  suo parere,  «  l'era  ereticha  »,  e  quella  dell'  intervento  del  Gri- mani in  favore  del  suo  protetto. Del  resto,  prima  della  fine  del  mese  il  neo  dottore  era  già  di ritorno  a  Venezia;  poiché  negli  stessi  Diarii  di  Marin  Sanudo si   legge  6. A    28  [giugno  1556].  Fo  gran  conscio.  Vene  uno  dotor  nuovo, vestito  de  scarlato,  si  ha  dotorato  a  Roma,  sier  Hironimo  da  cha' Taiapiera,  quondam  sier  Ouintin.  l'o  fato  podestà  de  Verona,  et niun    non   passò. Da  questo  momento  egli  entra  nella  carriera  amministra- tiva e  poUtica,  e  non  so  se  si  sia  più  occupato  di  filosofìa. Nei  Diarii  del  Sanudo  il  suo  nome  ricorre  spesso,  ma  sempre per  le  cariche  ricoperte  in  servigio  dello  stato  veneziano. Ciò  potrebbe  spiegare  perché  il  nome  di  Geronimo  Taiapietra sia  sfuggito  anche  al  diligentissimo  Luigi  Ferrari  che  l'omette sì  nella  prima  che  nella  seconda  edizione  del  suo  grande  Ono- masticon.    in  fondo  avrebbe  interessato  molto  neppur  me, se  il  suo  nome  non  fosse  legato  a  un  suo  libro  del  quale  ritengo valga  la  pena  dire  qualcosa. Questo  libro  s' intitola:  Sunima  divinarum  ac  naturalium difficilium  quaestionum  Romae  in  capitiilo  generali  fratrum minorum  per  Hieronymum  Taiapietra,  patritium  Venetum, puhlice  discussarum.  E  fu  stampato  a  Venezia  «  a  domino Pincio  Mantuano.  Anno  Domini  M.CCCCC.VI.  die  VI  Aprilis  ». Il  libro  fu  pubblicato  dunque  il  6  aprile,  cioè  due  mesi  prima ^  Ih.,  col.   260. 2S4        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI della  discussione,  che  evidentemente  era  stata  preparata per  tempo  dal  cardinal  Grimani,  cui  la  Summa  è  dedicata. Recandosi  a  Roma,  il  Taiapietra  portava  con    il  volume, come  programma  della  pubblica  discussione  che  doveva aver  luogo  il  6  giugno.  Così  aveva  fatto  Giovanni  Pico,  pubbli- cando nel  i486  le  novecento  Condusiones  per  la  disputa  che avrebbe  dovuto  tenersi  a  Roma  nel  gennaio  1487;  così  aveva fatto  anche  Vincenzo  Querini,  altro  patrizio  veneziano,  quando s'apprestava  a  discutere,  parimenti  in  Roma,  le  sue  Condu- siones, «  in  Ecclesia  Sanctorum  Apostolorum,  die  XXIX Mali  »  del  1502  7. L'opera,  come  dicevo,  è  dedicata  dall'autore  al  cardinale Domenico  Grimani.  Nella  dedica  il  Taiapietra  accenna  al distacco    forzato    dallo   studio    patavino: ....  quum  mihi  mine  redeunduni  esset  ad  meos,  qui  me  in patriam  ex  celebratissimo  gymnasio  patavino,  in  quo  octo  iam perpetuis  annis  vitam  non  minus  honestam  quam  studiosam duxi,    centra   propriam    ferme   voluntatem    revocabant. A  Padova  dunque  aveva  dovuto  recarsi  al  principio  del- l'anno scolastico  1497-98,  quando  v'era  ancora  Agostino Nifo  da  Sessa.  Costui,  alunno  di  Nicoletto  Vernia,  aveva cominciato  a  insegnare  a  Padova  appena  ventunenne,  durante l'anno  accademico  1491-92,  nella  seconda  scuola  di  filosofìa straordinaria,  ove  professava  la  dottrina  averroistica  di  Si- gieri  di  Brabante.  Nel  1495  era  stato  promosso  alla  seconda scuola  ordinaria  come  concorrente  del  Pomponazzi,  col  quale debbono  essere  cominciati  fin  d'allora  i  litigi.  E  quando  nel 1496  il  mantovano  si  dimise  dall'  insegnamento,  il  Nifo  fu chiamato  a  succedergli.  In  questi  anni  egli,  ambiziosissimo e  astuto,  mentre  si  dava  da  fare  per  schivare  l'accusa  d'eresia, combattendo  l'averroismo  prima  da  lui  professato  3,  per  non 7  V.  sotto,  il  saggio  XIII,  p.   400. 8  Nifo,  De  intellectu,  I,  tr.  2,  e.  9:  «  Longo  tempore  Averroy  va- cavi et,  ut  dixi,  hanc  opinionem  (di  Sigieri)  sequebar  ad  mentem  eius»; In  lib.  Destr.,  Ili,  dub.  2:  «  Peccatum  meum  longo  tempore».  Dalle indicazioni  cronologiche  fornite  dal  Nifo  stesso  in  quest'ultimo  scritto, Disp.  XIV,  dub.  I,  quaestio  3  in  fine,  e  dub.  3,  quaestio  5,  parrebbe che  ciò  vada  riferito  al  periodo  prima  del  1494.  Dalle  quali  indicazioni si  dovrebbe  dedurre  che  egli  fosse  nato  nel  1470,  oppure  verso  la  fine del  1469,  come  nelV Arbole  de  casa  Nipho  (nel  voi.  ms.  Historia  e  docu- menti della  famiglia   Nifo,   posseduto   da   Benedetto  Croce,   p.    212). inimicarsi  il  vescovo  Pietro  Barozzi,  anzi  per  procacciarsene la  benevolenza,  come  faceva  nello  stesso  tempo  quella  vecchia volpe  di  maestro  Nicoletto  9,  era  riuscito  a  circuire  molti giovani  delle  più  ragguardevoli  famiglie  patrizie  veneziane che  a  Padova  venivano  per  fare  i  loro  studi  e  procacciarsi  il titolo  di  «  dotor  »  tenuto  in  gran  conto  dal  governo  della  Se- renissima e  quasi  direi  indispensabile  per  l'accesso  a  talune cariche  dello  stato.  Suoi  discepoli  erano  stati  Vincenzo  Que- rini,  Geronimo  Bernardo  e  Antonio  Giustinian,  l'amicizia  dei quali  si  compiace  spesso  di  ricordare  ^°.  A  Francesco  Bra- gadin,  patrizio  veneto,  dice  egli  stesso  d'aver  dedicate  certe sue  Quaesiiones  de  anima  "  che  non  mi  risulta  fossero  mai stampate;  a  Lorenzo  Donato  dedica  nel  1497  l'edizione  da lui  curata  del  prologo  d'Averroè  alla  Fisica  '-;  a  Sebastiano 9  V.  sopra,  i  saggi  IV,  V  e  VII. I''  Tutti  e  tre  son  ricordati  nei  Collectanea  s\x\De  auima,  III,  t.  e.  36, e  nel  commento  alla  Desimciio,  prol.  I,  dub.  8,  XIV, dub.3.  Da  quest'ul- timo luogo  si  rileva  che  tanto  Geronimo  quanto  il  padre  erano  morti prima  del  gennaio  1497,  quando  il  commento  alla  Destritctio  fu  stampato. Nel  luogo  citato  dei  Collectanea,  oltre  che  ai  tre  patrizi  veneziani  ri- cordati, raccomanda  il  suo  libro  anche  a  Pietro  Campesano,  medico e  filosofo  di  Bassano  che  in  quegli  anni  doveva  studiare  a  Padova. Egli  è  il  padre  del  poeta  di  Bassano  Alessandro  Campesano  (G.  B. Vergi,  Notizie  intorno  alla  vita  e  alle  opere  degli  scritt.  d.  città  di  Bass., e.  I,  Venezia,   1775,  pp.   16-17). "  Collect.,  prohemium:  «In  questionibus  meis  libri  de  anima  in- scriptis  domino  Francisco  Bragadeno  patricio  Veneto)'.  Marin  Sanuuo, Diarii,  II,  col.  579-580,  ricorda  una  disputa  avvenuta  in  Venezia  nel- l'aprile 1499  alla  presenza  del  patriarca  intorno  ad  alcune  tesi  pericolose, e  fra  coloro  che  intervennero  ad  essa  menziona  Giorgio  Pisani,  Marco Dandolo,  Marin  Zorzi,  Nicolò  Michiel,  Piero  Pasqualigo,  dottori,  Pietro Corner,  lacomo  Michiel,  Francesco  Bragadin  «  doctissimi  in  philo- sophia  ».  Nota  invece  la  mancanza  di  «  sier  Antonio  Zustinian,  dotor, che  leze  philosophia  ».  Su  Francesco  Bragadin,  v.  Zeno,  «  Giorn.  di letter.  »,   t.   V,   pp.   369,   362-364. 12  Scrive  E.  Garin  a  propo  ito  dei  primi  scritti  del  Nifo  {Rinasci- tnento,  II,  1951,  p.  63):  «Innanzi  all'edizione  della  Fisica,  che  reca  la data  del  1495,  v' è  una  lettera  di  ringraziamento  a  Lorenzo  Donato.... In  uno  degli  esemplari  da  me  esaminati  la  dedica,  del  1495.  è  sul  verso di  una  carta  che  sul  recto  reca  una  lettera  con  cui  il  Nifo  presenta  per l'approvazione  il  suo  commento  alla  Destructio  destritctionum,  compi- lato fra  il  1494  e  il  gennaio  '97  ».  E  più  oltre:  «  Ad  ogni  modo  esce  nel  '95 l'edizione  curata  dal  Nifo  della  Fisica  col  commento  d'Averroè  »  (p.  65). Dove  il  Garin  abbia  trovato  che  questa  edizione  della  Fisica  del  1495 sia  stata  curata  dal  Nifo,  io  non  so.  So  invece  che  la  lettera  del  Nifo, anzi  del  Niffus  de  Suessa  a  Maestro  Nicolò  Grassetto,  francescano  e inquisitor  dell'eretica  pravità  (vedetelo  divotamente  genuflesso  ai  pie' della  Vergine,  a  Padova,  nella  chiesa  del  Santo,  di  fronte  alla  tomba di    Antonio    Trombetta),    è    sicuramente    posteriore    alla    stampa    del Badoèr  il  De  intellectu,  sostanzialmente  rimaneggiato  e  pub- blicato per  le  stampe  nel  1503,  quando  aveva  ormai  detto addio  a  Padova  e  prima  ancora  all'averroismo  i?;  per  Gero- nimo Bernardo  compone  il  De  sensu  agente,  compiuto  il  14 giugno  1495,  ma  pubblicato  nel  1497,  quando  il  Bernardo  era morto,  e  dedicato  a  G.B.  Spinelli,  patrizio  partenopeo  m; al  Giustinian  dedica  il  commento  In  XII  Metapysicae  pubbli- cato nel  1505,  ma  composto  assai  prima  su  preghiera  di  Ge- ronimo Bernardo,  il  cui  nome  il  Nifo  accoppia  sempre  a  quello del  Giustinian;  a  Santo  Moro,  altro  giovane  patrizio  che  aveva commento  alla  Desiriictio,  non  solo  perché  si  riferisce  a  questa,  ma perché  è  stampata  nel  recto  di  un  mezzo  foglio  facente  parte  dell'ul- timo quinterno  di  questo  volume;  l'altra  metà  contiene  due  pagine della  Destnictio  (quinterno  q,  fol.  I2ir-v).  Il  verso  poi  del  mezzo  foglio, al  cui  recto  è  la  lettera  al  Grassetto,  reca  il  prologo  di  Averroè  alla  Fi- sica e  la  dedica  di  questo  prologo  al  pretore  Lorenzo  Donato,  per  la ragione  che  gli  editori  del  '95  l'avevano  omesso.  Niente  di  più. 13  V.  sopra,  p.  102.  Alla  fine  del  trattato  stampato  si  legge:  «Et sic  consumatus  est  liber  de  intellectu.  26.  Augusti,  1492.  In  Patavino studio  ».  Ora  che  nel  1492  il  Nifo  abbia  scritto  una  Quaestio  de  intellectu (cfr.  la  dedica  del  De  intellectu  a  Seb.  Badoèr,  neU'ediz.  del  1503)  è verosimile;  ed  è  verosimile  che  l'avesse  scritta  in  senso  sigieriano,  tanto che  gli  emuli  poterono  accusarlo  d'eresia,  com'egli  stesso  ci  fa  sapere. Ma  che  questa  Quaestio  sia  identica  col  trattato  pubblicato  nel  1503, è  difficile  crederlo,  dopo  quel  che  egli  stesso  confessa  a  Sebastiano Badoèr  :  «  Placuit  quedam  tollere,  mutare  alia,  addere  plurima  »  !  Troppo interesse  aveva  il  Nifo  a  voler  far  credere  che  fin  dal  suo  primo  anno d' insegnamento  s'era  liberato  dall'averroismo  inviso  al  Barozzi.  Vuo- le il  Garin  un  esempio  della  fede  che  merita  il  Nifo  ?  Eccoghelo. Nell'edizione  dei  Collectanea  ch'egli  aveva  pronta  il  12  settembre 1498,  e  che  vide  la  luce  per  la  stampa  col  titolo  In  librum  de anima  Aristotelis  et  Averrois  commentatio ,  a  Venezia,  «  per  Petrum de  Quarengiis  Bergomensem.  Studio  et  impensa  domini  Alexandri Calcidonij,  Pisaurensis.  M.ccccc.iij.  Die  x.  Maij  »,  dedicando  l'o- pera a  Baldassar  Miliani,  patrizio  partenopeo,  il  Nifo  vede  un  segno particolare  d'amicizia  neU'essersi  il  Calcidonio  addossate  le  spese  della stampa  del  volume:  «  quod  et  noster  Alexander  Calcedonius,  communis amicus,  tui  et  mei  amoris  omni  solertia  sumptibusque  prò  his  edere instituit  ».  Ebbene,  nella  ristampa  degli  stessissimi  Collectanea  nel  1522 (Suessa,  Super  libros  de  anima,  Venetiis),  in  fine  della  prefazione  che  vi appose,  questo  barabba  osa  scrivere:  «Quantum  igitur  inique  Alex. Calcidonius  Collectanea  nostra  publicaverit  quantumve  venenose,  ex bisce  patet.  Ego  enim  publicare  illa  non  destinaveram,  nisi  nono  pressis anno  »  !  che  e  frase  oraziana  adattissima  a  imbrogliare  anche  meglio  le carte.  Ma  V.  anche  più  oltre,  p.   370,  n.   8. ^4  L'opera  fu  pubblicata,  come  «  codicilus  »  al  commento  della  De- structio,  nel  1497.  Che  al  momento  della  pubblicazione  tanto  Geronimo Bernardo  che  suo  padre  fossero  morti,  risulta  dalla  frase  dello  stesso Nifo  in  fine  del  commento  alla  Destructio:  «quorum  animae  in  perpe- tuum  gaudeant  »,  confermata  dalla  dedica  del  commento  In  XII  Me- tapysicae al  Giustinian. avuto  alunno  a  Padova  negli  ultimi  anni,  dedica  il  commento al  De  beatitudine  animae  di  Averroè,  rimaneggiando  un  vecchio scartafaccio  del  periodo  averroistico,  di  mano  del  suo  alunno veronese  Bernardino  Plumazioij;  al  cardinale  Domenico  Gri- mani  dedica  nel  1497  il  commento  alla  Destructio  destnictionum , servendosi,  per  insinuarsi  nell'animo  del  cardinale,  dell'am.i- cizia  d'un  tal  prete  Prosdocimo  familiare  del  Grimani;  più tardi  nel  1504  gli  dedicherà  anche  il  trattato  De  primi  motoris infinitate;  e  nello  stesso  anno  dedicherà  a  Vincenzo  Querini il  De  diehus  cniicis. Ma  non  ostante  tutte  queste  amicizie  e  protezioni,  non  potè sottrarsi  ai  «  latrati  »,  com'egli  più  volte  si  duole,  dei  suoi colleghi  e  avversari.  Non  saprei  se  per  questa  o  per  altra ragione,  nel  1497,  si  allontanò  da  Padova.  Il  Facciolati  '^  per altro  informa  che  «  revocatus  est  anno  MCDXCVIII,  stipendio argenteorum  CXX  »  ;  il  che  lascerebbe  supporre  che  fra  le ragioni  del  malcontento  vi  fosse  anche  quella  dello  scarso stipendio.  Sappiamo  di  professori  che  correvano    dov'erano megUo  pagati,  e  che  spesso  la  minaccia  di  andarsene  era  un buon  mezzo  per  farsi  aumentare  lo  stipendio.  Ma  il  Facciolati ci  fa  sapere  che,  non  ostante  questo  aumento,  il  Nifo  «  anno vertente  rursus  abiit  »,  in  cerca  di  miglior  fortuna,  o  sempli- cemente per  sposarsi  con  Angela  Laudi  da  Sessa.  A  Padova non  tornò  più,  sebbene  siamo  informati  che  nell'ottobre  1503 e   nel  gennaio   1504  egli  s'adoprava   per  tornarvi  17. Vi  tornò  invece  nell'ottobre  del  1499,  dopo  la  morte  di Nicoletto  Vernia,  il  Peretto  mantovano,  cioè  il  Pomponazzi, '5  Anche  quest'opera  porta  in  fine  la  dichiarazione:  «Compievi Patavii.  M.ccccxcii.  xiv  Maij  ».  Santo  Moro  si  addottorò  a  Padova nel  maggio  1505  (M.  Sanudo,  Diarii,  VI,  col.  163).  Quando  il  Nifo gli  dedica  l'opera,  sa  che  l'antico  scolaro  di  Padova  «nunc...  naturae mundique  interpretem gravissimum  evasisse  ».  Io  non  conosco  altre edizioni  anteriori  a  quella  scotina  di  Venezia  del  1524.  Di  Geronimo Bernardo  dice  (I,  comm.  56)  :  «  accepi  verba  haec  ut  iacent  in  codice meo,  quem  felix  illa  Hieronymi  Bernardi  memoria  olim  mihi  misit  ». Vi  sono  non  pochi  rimandi  al  trattato  De  inteUectii,  e  non  di  rado  nella stesura  che  esso  ebbe  dopo  la  revisione  ! 16  Fasti   gymn.    patav.,    1,    parte    II,    p.    109. 17  M.  Sanudo,  Diarii,  V,  col.  171,  766.  Anzi  sotto  la  data  del  25 marzo  1504  (col.  972)  si  legge:  k  Item,  ave  lettere  de  l'orator  nostro  in corte,  che  domino  Agustino  Sexa,  qual  è  li,  vengi  a  lezer  a  Padoa,  et li  ha  dimandato.  Par  contento  venirvi,  et  è  facto  più  docto  di  quello era,    et    ha    studiato   in    grecho  ». 26»        dopo  due  anni  d'assenza '8,  per  restarvi  ininterrottamente  fino all'assedio  della  città  nel  1509.  V'erano  poi  maestro  Pietro Trapolin,  averroista  moderato,  che  dall'  insegnamento  della filosofia  naturale  era  passato  a  medicina  teorica,  frate  Antonio Trombetta  francescano  e  fra  Geronimo  da  Monopoli  dome- nicano, che  insegnavano  in  concorrenza  la  metafisica,  l'uno ad  mentem  Scoti,  l'altro  ad  mentem  Thomae.  Dal  1500  all'estate del  1503  era  venuto  a  Padova  il  bolognese  Tiberio  Bacilieri, alunno  e  poi  collega  di  Alessandro  Achillini  del  quale  condi- videva le  idee  '9,  forse  a  sostituire  Antonio  Fracanziano  che  in seguito  ad  una  lite  fra  maestri  aveva  lasciato  lo  studio  pado- vano ed  aveva  seguito  a  Roma  il  nuovo  cardinale  Marco Corner  -0.  Ma  nell'ottobre  del  1503  il  Fracanziano  torna  a Padova  ad  occuparvi  la  seconda  cattedra  di  filosofia  ordinaria, in  concorrenza  col  Pomponazzi,  mentre  maestro  Tiberio, che  diceva  mancargli  appena  quattro  dita  per  arrivare  alla piena  e  perfetta  copulatio  con  l' intelletto  agente  -",  aveva accolto  r  invito   di  recarsi  a  Pavia. Sotto  la  guida  di  siffatti  maestri  il  giovane  Geronimo  Taia- pietra  aveva  fatto  i  suoi  studi  a  Padova;  e  con  lui  c'erano negli  stessi  anni,  su  per  giù,  Andrea  Mocenigo,  figlio  di  Leonardo e  nipote  del  doge  Giovanni;  Gaspare  Contarini,il  futuro  cardina- le; Antonio  Surian,  nipote  del  patriarca  di  Venezia  dello  stesso nome;  Santo  Moro,  e  altri  rampolli  delle  più  illustri  famiglie  pa- trizie veneziane.  Maestri  e  scolari  vivevano  uniti  da  uno  stesso spirito  goliardico  non  scompagnato  da  febbrile  ansia  di  sapere. Nel  dicembre  del  1500,  il  Peretto,  che  marciava  ormai  verso la  quarantina,  pensò  bene  di  accasarsi  con  una  gentil  donna padovana  figlia  di   Francesco   Dondi  dell'  Orologio.   Ed  ecco i^  Cfr.  Facciolati,  Fasti,  1.  e;  C.  Oliva,  Note  suW  insegnamento di  P.  Pomponazzi,  III,  in  «  Giorn.  crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  VII,  1926, pp.    181-183. '9  Facciolati,  ib.,  p.  iii.  V.  sopra,  pp.  226-27.  Il  6  ag.  1501,  era  pre- sente ai  dottorati  in  artibìts  di  M.  Ant.  Zimara  e  di  Girol.  Oleari,  col titolo  di  «extraordinarius  philosophiae >>  (Arch.  d.  Curia  Vesc.  di  Padova, Acta  grad.,   voi.   47,   f.    i62r). 20  Fr.  Franceschetti,  La  famiglia  dei  conti  Fracanzani  di  Verona, Vicenza  ed  Este  con  notizie  dei  loro  antenati  ecc.  Bari,  presso  la  Direz. del   Giorn.    Araldico,    1896,    pp.    30-31. 21  Pomponazzi,  In  XII  Metaphys.,  ad  t.  e.  17:  «Ideo  Tiberius iactatus  solum  sibi  defìcere  quatuor  digitos  ad  hoc  ut  foelicitatem  istam pertingat  »  (Arezzo,  Bibl.  Fraternità  de'  Laici,  Ms.  389,  f.  248r;  Cod. Ambros.  A.  52  inf.,  f.   2o8r) . Andrea  Mocenigo  intonare  per  l'occasione  nn  epitalamio  in latino,  ove  tra  molte  reminiscenze  mitologiche  si  leggono questi  due  distici  molto  confidenziali  rivolti,  s' intende,  allo sposo  22  ; Ista  dies  omnes  reliquos  divellit  amores  : paecipit  haec  soli  perpetuoque  vaces. Substulit  ista  dies  sectari  fornice  tetra scorta  suburbano,  substulit  ista  dies.... Ma  la  giocondità  della  vita  studentesca  nel  rumoroso  e  gaio ambiente  dello  studio  patavino  non  distoglieva  questi  giovani patrizi  veneziani  dallo  scopo  per  cui  erano  venuti  sulle  rive del  Bacchigliene  tra  le  «  antenoree  mura».  E  Marin  Sanudo  23 ci  fa  sapere  che  1'  11  maggio  1505,  «  zorno  di  Pasqua  di  mazzo, da  poi  disnar,  sier  Santo  Moro  di  sier  Marin,  studia  a  Padova, tene  le  conclusion  ai  Frari,  qual  è  impresse.  Arguì  molti,  videlicet domino  Laurentio  Bragadin,  leze  in  philosophia  [a  Venezia], sier  Piero  Pasqualigo  24,  dotor,  cavalier,  sier  Marin  Zorzi, dotor,  e  altri,  et  poi  andò  a  Padoa  et  si  dotoroe  ».  Ugualmente il  Sanudo  al  26  marzo  1506  annota  che  «  in  questo  zorno,  in la  chiesia  di  Frari,  fo  tenuto  le  conclusion  per  sier  Antonio Surian,  quondam  sier  Michiel,  nepote  del  patriarcha  nostro, qual  studia  a  Padoa.  Vi  fu  il  reverendissimo  patriarcha,  e l'orator  di  Franza  e  molti  patricii  invidati  e  dotori»-s.  Con -2  Io.  Brunatius,  Poìììponatius,  nella  Raccolta  di  opuscoli  scient.  e filos.,   t.    XLI,    Venezia,    1749,    pp.    34-35. -3  Diarii,   VI,  col.   163. 24  Di  Piero  Pasqualigo  riferisce  il  Sanudo,  ib.,  I,  col.  631,  sotto  il 22  maggio  1497,  che  a  Roma  «  haveva  tenuto  conclusion  publice  et  si aveva  facto  uno  honor  grandissimo  et  hora  sta  dotorado  nomine  pon- tificis  dal  cardinal  di  San  Zorzi  ».  E  sotto  il  19  giugno  1498  {ib.,  col.  964)  : «  Vene  da  Milan  in  questa  terra Pietro Pasqualigo,  dotor,  patricio veneto,  stato....  et  si  trovò  a  Milan  al  tempo  dil  capitolo  general  di  frati minori  dove  tene  le  conclusion  publiche.  Vi  fu  el  ducha  con  li  oratori, et  fu  molto  comendato,  come  si  have  lettere  di  Marco  Lupomano  orator nostro  nel  conscio  di  pregadi.  Questo  avia  studiato  a  Paris,  et  è  giovane di  età  de  anni  2....  et  è  doctissimo  ».  Il  Degli  Agostini,  Not.  storico- critiche  intorno  la  vita  e  le  opere  degli  scrittori  veneziani,  t.  II,  Venezia, 1754.  P-  304.  dice  che  Piero  nel  1494  a  22  anni  sostenne  a  Parigi  due mila  conclusioni.  Anche  il  fratello  Lorenzo  Pasqualigo  aveva  studiato a    Parigi    (Sanuco,    ib.,    col.    51). -5  M.  Sanudo,  Diarii,  VI,  col.  324.  La  cronaca  di  questa  disputatio è  fatta  dallo  stesso  Surian  in  una  pagina  del  volume  in  cui  ricopiava  le lezioni  tenute  dal  Pomponazzi  sul  De  anima  nel  1500  e  nel  1504  (Ms. della  Bibl.  Naz.  di  Napoh,  Vili.  D.  81,  f.  76V,  già  descritto  da  P.  O. Kristeller,  in  «  Revue  intern.  de  philosophie  »,  V,   1951,   15,  pp.   148- 19 290        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI questa  pubblica  disputa  anche  il  Surian  conquistava  il  titolo di  «  dotor  »,  come  appare  da  quanto  il  Sanudo  ricorda  sotto  la data  del  12  luglio  -6.  E  sarei  quasi  tentato  di  credere  che, allo scopo  di  conseguire  il  dottorato,  anche  Vincenzo  Querini affrontasse  a  Roma  la  solenne  disputa  cui  accennavo  e  alla quale  assistè  anche  Pietro  Bembo,  egli  pure  patrizio  veneziano, cavalier  ma  non  «  dotor  «  qual  era  invece  suo  padre. Quello  di  stampare  le  Conclusiones  per  la  pubblica  disputa non  mi  consta  che  fosse  un  obbligo;  ma  si  sa  che  Giovanni Pico  le  aveva  stampate  nel  i486,  il  Querini  le  aveva  stampate, «  impresse  »  le  aveva  Santo  Moro,  e  anche  il  Taiapietra  si  af- 149),  ed  è  importante  perché  c'introduce  nel  bel  mezzo  dell'ambiente scolastico  padovano:  «  Que  disputatio  a  me  habita  fuit  Patavii  per biduum  1505,  more  veneto,  die  vero  22°  marcii.  Et  prima  die  argu- mentatus  est  dominus  Bernardus  de  Portenarijs,  florentinus  patritius, Artistarum  rector;    loco  R.  dominus  Cristophorus  Marcellus,  patritius venetus,  prothonotarius  apostolicus;    magister  Antonius  Trombeta ordinarius  Metaphysice,  Patavii  legens;  4"  Dominus  magister  Hie- ronymus  de  Monopoli,  ordinis  Thomistarum,  ordinariam  Metaphysice legens  [cfr.  Quètif-Echard,  Scriptores  Ord.  Praed.,  II,  p.  76];    Do- minus magister  Antonius  faventinus  ordinariam  theorice  medicine  le- gens; 6°  Dominus  magister  Franciscus  de  Caballis,  brixiensis,  ordi- nariam practice  medicine  legens.  Et  disputatio  hec  habita  fuit  in  aede cathedrali,  in  choro  penes  altare  maius,  coram  R.mo  domino  D.  Petro Barocio,  episcopo  patavino,  et  magnificis  Andrea  Griti,  pretore,  Paulo Pisani  equite,   prefecto  Padue,   R.mo  D.    Hieronymo   Barbadico  primi- I cerio  Sancti  Marci.  Duravit  disputatio  usque  ad  24    horam  satis  fe- 1 liciter  die  dominico,  et  fuit  dominica  quadragesime  quarta.  1^  die  (et fuit  habita  in  salis  magnis),  primo  argumentatus  est  Dominus  magi- ster Mauricius  ordinis  Minorum  hybernicus,  preceptor,  ordinariam theologie  legens;    Dominus  magister  Gaspar  perusinus  ordinis  Thomi- starum [cfr.  QuÈTiF-EcHARD,  1.  c,  p.  24],  Ordinariam  theologie  pro- fessus  et  profitens;    Dominus  magister  Petrus  Trapolinus,  patavinus,, ordinariam  theorice  medicine  legens;    Dominus  Petrus  mantuanus,. olim  preceptor;  5"  Dominus  Antonius  Fracancianus,  vicentinus,  ordi- narius philosophie,  ambo  professi  et  profìtentes.  Et  disputatio  fuit mane  Venetiis  autem  die  26  marcij,  die  Jovis,  in  aede  S.  Francisci Minorum;  et  interfuit  R.mus  Patriarca,  patruus  meus,  R.mus  D.  D.  ar- chiepiscopus  spalatensis,  D.  Bernardus  Zane,  R.mus  Marcus  Antonius Foscarenus,  episcopus  Emonensis  [cioè  di  Città  Nova  in  Istria],  R.mus D.  D.  Dominicus  episcopus  Chisamensis,  suffraganeus  R.mi  D.  Pa- triarche.  Argumentatus  est  in  primis  Dominus  Sebastianus  Foscharenus, doctor,  legens  lecturam  physice  Venetiis;  2° loco  R.mus  D.  D.  Bernardus Zane,  archiepiscopus  Spalatensis;    loco  Dominus  Andreas  Mozenigus, doctor;  4"  D.  magister  Petrus  de  Cruce  ordinis  Minorum,  regens  ibi; 5°  Dominus  Santes  Maurus,  doctor  etc.  Et  fuit  dies  felicissima.  Quare Deo  semper  honor  et  gloria  ». 26  M.    Sanudo,    ib.,   col.  373.  frettò  a  presentarle  stampate.  Più  tardi,  so  di  Matteo  Bin, le  cui  «  conclusiones  »,  dedicate  a  Nicolò  Michiel,  Procurator di  S.  Marco,  furon  discusse  a  Venezia  nel  dicembre  1510-7; e  so  pure  di  Giulio  Ruggiero,  discepolo  a  Padova  di  M.  An- tonio Genua,  che  stampa  le  sue  Positiones ,  cioè  le  sue  tesi, dedicandole  al  cardinale  Ercole  Gonzaga,  per  la  disputa  che doveva  aver  luogo  a  Padova  nella  chiesa  di  S.  Antonio  nel luglio  1557  ^8  ;  e  l'esempio  suo  sarà  seguito  due  anni  dopo da  un  altro  discepolo  del  Genua,  M.  Antonio  Mocenigo  29, nipote  di  Vincenzo  Diedo  patriarca  di  Venezia,  per  la  disputa che  doveva  aver  luogo,  come  nel  caso  di  Antonio  Surian,  a Venezia  e  a  Padova. Non  conosco  il  contenuto  delle  tesi  o  «  conclusion  »  soste- nute dal  Surian  e  dal  Moro;  conosco  invece  quello  delle  Con- clusiones del  Querini  e  del  Bin,  delle  Positiones  del  Rug- giero e  dei  Panidoxa  theoremataque  del  Mocenigo.  Il  Querini, discepolo  del  Nifo  quando  questi  aveva  già  abbandonato l'averroismo,  si  dichiara  apertamente  contro  Averroè  come aveva  fatto  il  maestro.  Invece  averroista  è  il  Bin;  e anche  il  Ruggiero  e  il  Mocenigo  sostengono  apertamente la  dottrina  averroistica  del  Genua  combinata  con  quella di  Simplicio.  Allo  stesso  modo  il  Taiapietra  è  un  risoluto  so- stenitore dell'averroismo  della  corrente  sigieriana,  del  quale, dopo  la  partenza  del  Nifo  da  Padova,  era  stato  sostenitore Tiberio  Bacilieri.  Ciò  apparirà  meglio  dall'esame  del  conte- nuto della  sua  opera. Un'aperta  professione  d'averroismo  accade  d' incontrare  tìn sulla  soglia  del  libro,  cioè  nel  proemio  intitolato  anch'esso al  Grimani.  Dopo  avere  accennato  ad  Aristotele  come  «  regula *7  La  rara  stampa  veneziana  della  Casa  G.  Tacuino,  è  posseduta dal  British  Museum,  1172,  h.  i  (i).  All'amico  Carlo  Dionisotti  son debitore  della  cortese  segnalazione  e  del  microfilm. ^8  Positiones  hasce  de  vero  et  bono  Julius  Rugerius  ad  disceptandum proposuit.  In  quibus  si  quid  a  religione  ac  summa  veritate  dissentire  lector animadvertet ,  id  non  ex  animi  sententia,  sed  ex  Aristotelis  ac  veterum Philosophorum  placitis  pronunciatum  sciat.  Venetiis  mdlvii,  f.  yor Finis.  Disputabuntur  triduo  Patavij  in  tempio  D.  Antoni],  mense Julij,  Die...,  Hora....  Nella  sezione  ottava  «de  homine  quatenus  intel- ligit  et  speculatur  »  (fol.  54V  sgg.),  accade  d'incontrare  tutte  le  tesi dell'averroismo  Simpliciano  del  Genua,  coli'  idea  della  «  progressio  » dell'unico  intelletto  «  ad  secundas  vitas  »  nei  diversi  corpi  umani  ecc. Cfr.   sotto,   XIII,   p.    388   sgg. 29  V.  sotto,  XIII,  p.  3   9  ^gg.. 292        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI in  natura  »  secondo  il  noto  concetto  d'Averroè  3°,  il  giovane filosofo  veneziano  continua: Post  queni  prinius  floruit  Averroes  cordubensis,  qui  ex  graecis expositoribus  velut  ex  optimis  quibusdam  fontibus  philosophiam non  tam  hausisse  quam  expressisse  visus  est.  Eos  enim  insequi et  incessere  delectatus  est  apprime,  unde  is  solus  est  qui  condigne et  recte  apud  omnes  commentatoris  nomen  adeptus  fuit;  tantum enim  est  ex  agro  fertili  messem  tacere.  Hinc  est,  ut  qui  Averroem exacte  legerit,  et  suis  quaeque  locis  singulatim  singula  contu- lerit,  eius  doctrinam  facile  percipiet  ab  optimis  manasse  aucto- ribus.  Quid  enim  aliud  est  commentator  Averroes  quam  Alexander, Themistius,  Simplicius,  ac  demum  ipsemet  Aristoteles  transpo- situs  ?  Ouamobrem  et  nos  divino  beneficio  confisi,  non  vana  si- militer  gloriae  cupiditate  impulsi,  et  absque  ulla  prorsus  invidia, sed  solum  utilitatem  aliquam  studiosis  afterre  anhelantes,  penes horum  virorum  sententiam  quarumdam  diftlcilium  quaestionum summam  seu  compendium  ordinare  suscepimus:  ea  enim  beni- volentia  perypatheticos  prosequor  omnes,  et  praesertim  summum Aristotelem  eiusque  magnum  commentatorem  Averroem,  omnium philosophantium  vere  duces,  ut  si  quid  ex  illorum  disciplinis  de- prompserim,  quod  utile,  pulchrum  lionestumque  putem,  id  quippe omnibus  communicatum  esse  velim,  quo  omnes  literati  una mecum  ipsorum  rapiantur  amore  eosque  digna  veneratione  pro- sequantur   et   colant. Verum  nos,  divini  Platonis  De  legibus  imitati,  ut  scilicet  ne cuivis  liceat,  quae  aediderit,  aut  privatim  ostendere,  aut  in  usum publicum  concedere,  antequam  super  id  publici  et  idonei  con- stituti  iudices  ea  viderint  et  probarint  (quod  maxime  observant venerabiles  illi  magistri  parisienses),  opus  hoc  nostrum  in  stu- diosorum  communem  usum  concedere  ullo  pacto  voluimus,  ante- quam gravssima  amplissimi  Venetiarum  prothoflaminis  censura  et lima  castigetur;  cuius  quidem  titulis  et  laudibus  (nisi  defraudetur) solum  ipsemet  accedit  religiosissimus  antistes  Antonius  Surianus; simulque  nisi  prius  in  clarissimorum  virorum  conventu  et  corona opus  hoc  manutenerem  et  tutatus  essem. E  il  «  prothoflamen  »  di  Venezia,  cioè  il  patriarca  Antonio Surian,  zio  di  quell'altro  Antonio  Surian,  che  era  stato  disce- polo a  Padova  del  Pomponazzi  e  del  Fracanziano,  e  che  del Peretto  ci  ha  tramandato  le  lezioni  sul  De  anima  del  1500  e del  1504,  contenute  nel  codice  della  Bibl.  Naz.  di  Napoli, Vili.  D.  81,  studiato  dal  Kristeller,  il  buon  patriarca  di  Ve- nezia, dicevo,  dopo  aver  letta  l'opera  del  Taiapietra,  lungi dallo  scandolezzarsi  di  questa  aperta  esaltazione  d'Averroè, 3°  De  anima.  III,  comm.   14. che  avrebbe  fatto  fremere  il  vescovo  di  Padova,  Pietro  Ba- rozzi,  gli  scrive  questa  candida  letterina  che  si  legge  in  fondo al  volume: Filii  [sic)  diarissime,  praeclarum  opus  tuum,  in  quo  Aristotelis peripatheticorum  principis  et  Averrois  eius  fidi  et  luculentissimi commentatoris  sensum  diligenter  et  ad  unguem  examinasti,  non mediocri  gaudio  voluptateque  lectitavi,  eo  quod  te  philosophum praestantissimum  noverim,  tum  et  ortodoxae  matri  ecclesiae obsequentissimum.  Quo  fit  ut  te  quam  maximis  prosequamur laudibus,  magnisque  honoribus  te  decorandum  extollendumque censeamus.  Exinde  enim  persuaves  et  amenissimos  tibi  fructus acquires,  nec  modicam  saeculo  utilitatem,  patriaeque  nostrae gloriam   allaturus    es.    Vale. Eppure  l'averroismo  dell'opera  non  concerne  soltanto  una o  due  tesi  che  vi  siano  difese  quasi  di  passaggio,  ma  domina tutto  intero  il  volume,  dalla  prima  all'ultima  pagina;  salve sempre,  s' intende,  le  solite  proteste  d'obbligo,  chiaramente espresse  o  sottintese,  che  l'autore  cioè  non  persegue  altro intento  che  quello  di  esporre  qual  è  il  genuino  pensiero  d'Ari- stotele e  del  suo  fedele  commentatore,  senz'alcun  pregiudizio per  la  fede   e   per  gì'  insegnamenti   della   Chiesa. L'opera  si  divide  in  due  libri  :  il  primo  concerne  otto  problemi dibattutissimi  nelle  scuole  di  filosofìa,  alla  soluzione  dei  quali  son dedicati  altrettanti  trattati,  e  in  ciascuno  di  essi  un  capitolo è  consacrato  alla  esposizione  della  vera  dottrina  del  Filosofo e  del  suo  fedelissimo  interprete,  mentre  altri  son  riservati  a combattere  più  le  obiezioni  dei  «  cacoaverroisti  »,  com'egli li  chiama  (lib.  II,  tr.  i,  e.  7),  che  non  quelle  degli  avversari dell'averroismo.  Nel  primo  trattato  si  discute  il  problema  se unico  sia  il  principio  di  tutte  le  cose,  o  possa  esser  molteplice; e  nel  quinto  capitolo  «  philosophi  et  commentatoris  vera positio  inducitur  cum  suis  rationibus  et  fundamentis  ».  Nel secondo  trattato,  si  parla  della  immaterialità  e  semplicità divina;  e  nel  cap.  14  «  philosophi  et  commentatoris  vera  po- sitio inducitur  ».  Nel  terzo  trattato  si  dimostra  la  tipica  tesi averroistica  «  Deum  tantum  seipsum,  idest  essentiam  pro- priam  intelligere  ac  intueri  »;  e  nel  cap.  11  «  vera  positio  philo- sophi et  commentatoris  in  hac  materia  ponitur  ».  Nel  trattato quarto  si  pone  il  quesito  «  an  primus  motus,  qui  est  diurnus, sit  immediate  a  Deo  glorioso  »,  e  si  critica  la  tesi  dell'aver- roista  Giovanni  di  Jandun,  il  quale  sosteneva  che  Dio  non  può muovere  il  primo  mobile  se  non  per  mezzo  della  prima  intelli- genza; nel  cap.  6  poi  è  esposta  la  vera  opinione  del  filosofo e  del  SUO  commentatore  su  questo  argomento.  Nel  trattato quinto  è  presa  in  esame  la  vexata  quaestio,  se  Dio  sia  causa efficiente  delle  cose  eterne,  cioè  delle  intelligenze  e  dei  cieli, poiché  delle  cose  corruttibili  non  v'  è  dubbio  che  esse  non  pos- sono esser  prodotte  immediatamente  da  Dio.  È  noto  che  il teologo  agostiniano  Gregorio  da  Rimini  riteneva  che,  secondo Aristotele,  Dio  è  causa  finale  ultima  delle  intelligenze  e  dei cieli,  ma  non  causa  efficiente  del  loro  essere 31.  Il  Taiapietra, d'accordo  con  Sigieri  -,  è  del  parere  che,  pur  essendo  coe- terne a  Dio,    le  intelligenze  motrici  che  i  cieli  incorruttibili son  tratti  all'esistenza  da  lui  per  via  di  vera  causalità  effi- ciente, e  in  proposito  intraprende  una  lunga  disquisizione  che dura  per  diversi  capitoli  contro  il  teologo  agostiniano;  giacché è  bene  si  sappia  che,  per  quanto  riguarda  l' interpretazione del  pensiero  d'Aristotele,  vi  furono  teologi  che  si  spinsero anche  più  in    di  taluni  averroisti.  Nel  cap.  13  è  esposta  la vera  dottrina  del  filosofo  e  del  commentatore  «  cum  suis  ra- tionibus  et  fundamentis  »,  che  è  poi  la  dottrina  sigieriana. Nel  trattato  sesto,  è  discusso  un  altro  problema  oggetto  di lunga  contesa,  fin  dai  tempi  di Sigieri,  se  cioè  Dio  nel  muo- vere il  mondo  si  palesi  di  virtù  intensivamente  infinita  ossia, come  soleva  dirsi,  di  infinito  vigore.  Dopo  aver  combattuto r  interpretazione  che  d'Aristotele  avevan  dato  S.  Tommaso, Alberto  Magno  e  Duns  Scoto  e  quella  di  alcuni  averroisti  che, a  suo  giudizio,  falsavano  il  pensiero  d'Aristotele  e  d'Averroè, l'autore  passa  ad  esporre,  nel  cap.  io,  la  «  vera  positio  »  del- l'uno e  dell'altro,  riaffermando  la  sua  fiducia  nel  commen- tatore : Quum  inter  tot  celebres  philosophos,  nullus  adhiic  posterio- rum  philosophantium  aut priorum,praeter  Aristotelem,  inventus sit  qui  commentatori  Averroi  in  rebus  naturalibus  aut  divinis exponendis  equipolleat,  unde  merito  nomen  magni  et  certe  maximi commentatoris  est  assequutus,  ideo,  primae  philosophiae  princi- piis  innitendo,  in  hoc  quesito  ad  mentem  philosophi  et  commen- 31  Lectura  in  II  Sent.,  dist.  i,  q.  i;  cfr.  Giov.  di  Baconthorpe, In  II  Sent.,  dist.  i,  q.  i;  Giov.  di  Jandun,  Meiaphys.,  II,  q.  5;  id., ■Quaestiones  sup.   De  siibst.   orbis,   q.    14. 32  Cfr.  F.  Van  Steenberghen,  Sig.  de  Brab.  d'après  ses  oeiivres inédites,   II    voi.,   Louvain] tatoris  dicimus  infinitum,  ut  proposito  attinet,  alias infiniti  di- stinctiones  omittendo,  dupliciter  intelligi  posse:  vel  secundum tempus  et  durationem,  vel  secundum  virtutem  et  vigorem;  quo- rum unum  vocant  latini  infinitum  extensive,  et  alterum  intensive. Pro  quo  sciendum  quod  si  primum  principium  secundum  primum modum  infinitum  intelligatur,  hoc  utique  ad  mentem  philosophi et  commentatoris  concedendum  est,  quoniam  primus  motor motu  locali  uno  et  continuo  movet  per  infinitum  tempus;  et  sic etiam,  secundum  eos,  quaelibet  intelligentia  est  infinita;  quae- libet  enim  intelligentia  movet,  secundum  Aristotelem,  orbem proprium  motu  locali  circulari  infinito.  Potest  et  secundo  modo intelligi  primum  principium  esse  infinitum  in  qualitate  actionis, scilicet  in  vigore;  et  hoc  pacto  negat  philosophus  et  commen- tator. Ma  rendendosi  conto  che  un'affermazione    grave  poteva sonare  sgradita  alle  orecchie  dei  teologi,  il  nostro  s'affretta a  dichiarare: Sed  quamvis  isti,  philosophus  scilicet  et  commentator,  sic dicant,  nihilominus  tamen  dico  secundum  fidem  et  veritatem, quod  deus,  qui  est  primum  principium,  est  virtutis  infinitae, scilicet  in  qualitate  actionis,  ita  quod  quantum  est  de  se  potest velocitare  motum  in  infinitum,  immo  movere  in  instanti,  nec  est limitata  sua  virtus  ad  actionem  determinatam  ;  et  hoc  absque omni  ambiguitate  verum  est,  non  tamen  potest  convinci  aut comprehendi  ex  sensatis;  et  ideo  non  est  mirum  si  philosophus ac  caeteri  antiquorum  naturales,  sensata  tantum  insequentes, illud  minime  comprehenderunt.  Quum  enim  deus  ipse  naturae  sit auctor,  potest  utique  plus  facere  quam  possit  natura  vel  natura- liter  comprehendi,  quoniam  quemadmodum  ipse  omnia  excedit in  infinitum,  sic  etiam  profecto  in  agendi  potentia.  Iccirco  iuxta illud  quod  primo  Esaias  et  postmodum  Paulus  dixerunt,  propter ista  et  alia  quae  oculus  non  vidit  nec  auris  audivit,  nec  in  cor hominis  ascendit,  sacrosantae  ecclesiae  sanctissimis  doctoribus sine  aliqua  haesitatione  credendum  est,  et  absque  aliqua  demon- stratione  aut  sensuum  experientia  etc. E  la  stessa  dichiarazione  ripete,  come  d'uso,  tutte  le  volte che  gli  accade  di  toccare  un  problema  intorno  al  quale  vi  sia conflitto  fra  la  filosofìa  e  la  teologia. Nel  settimo  trattato  si  chiede  se  il  numero  delle  intelUgenze motrici  debba  dedursi  dal  numero  dei  movimenti  e  delle  sfere celesti,  oppure  se  ve  ne  siano  di  non  addette  al  moto  dei  cieli; e  nel  cap.  4  è  esposta  al  solito  l'opinione  del  filosofo  e  del  com- mentatore, che  il  Taiapietra  ancora  una  volta  toglie  a  difen- dere. Inoltre  nel  cap.  12,  è  esposta  la  vera  opinione  del  filosofo 296        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI e  del  commentatore,  che  la  nobiltà  delle  intelligenze  va  posta in  relazione  con  la  maggiore  ampiezza  e  altezza  delle  sfere da  esse  mosse.  Nell'ottavo  ed  ultimo  trattato  del  primo  libro, si  dibatte  l'annoso  problema,  se  la  materia  di  cui  constano  i cieli  sia  «  eiusdem  rationis  cum  materia  horum  inferiorum  »  ; e  di  nuovo  nel  cap.  12  viene  esposta  e  difesa  come  vera  la dottrina  d'Averroè,  la  quale  combacia  perfettamente  con quella  del  principedei filosofi,  e  vi  si  dice  che  la  materia  dei cieli  non  è  in  potenza  a  diverse  forme,  ma  soltanto  a  diverse posizioni  locali. Il  secondo  libro  si  divide  in  sei  trattati.  Il  primo  dei  quali verte  sulla  natura  dell'anima  umana  e  precisamente  sul  pro- blema «  utrum  humana  et  rationalis  anima  sit  una  vel  plures, dans  esse  homini  et  immortalis».  Fin  dal  primo  capitolo  di  que- sto trattato,  l'autore  ci  palesa  candidamente  qual  è  il  suo  inten- to: anzitutto  rigetterà  tutte  le  opinioni  che  più  s'allontanano  da Aristotele  e  da  Averroè;  poi  riferirà  quelle  che  più  si  avvici- nano al  loro  pensiero  :  «  Demum  veram  philosophi  et  commen- tatoris  addemus  sententiam  ab  ea  quascunque  amovendo cavillationes,  ut  eius  veritas  clarior  appareat....  ».  Ed  egli non  meno  candidamente  spera  che  dalla  sua  fatica  verrà  non poco  giovamento  alla  restaurazione  della  filosofìa,  che  al  co- mune giudizio  degli  averroisti  pareva  in  quei  tempi  non  poco decaduta: Unde  speramus  laborem  hunc  nostrum  non  modo  rem  peri- patheticam,  idest  Averroycam,  adiuvaturum  esse,  verum  etiam aucturum,  quum  forte  scriptum  hoc  non  tantum  erit  causa  de- clarandi  rem  obscuram  et  latentem  multum  in  philosophia,  sed etiam  aliis,  hoc  est  bene  dispositis,  initium  fiet  vel  occasio  Iabo- randiindoctrinaphilosophi  et  commentatoris,  et  ad  communem utihtatem  quamphira  scitu  nobilissima  scribendi.  Et  sic  forte in  Italia  reviviscet  philosophia,  quae  temporibus  meis,  M.D.V., cum  philosophis  pessum  ivit,  adeo  ut  hac  tempestate  pauci vel  nulli  reperiantur  philosophi;  sunt  autem  in  precio  triviales, nebulones    et    sophistae  33;    sperandum    est  tamen    naturam    ali- 33  È  un  lagno  che  Averroè  aveva  fatto  dei  filosofi  del  suo  tempo, nel  famoso  prologo  alla  Fisica;  ed  è  curioso  vedere  come  gli  averroisti della  fine  del  Quattrocento  e  dei  primi  del  Cinquecento  lo  ripetano  pei loro  tempi.  V  insiste  in  particolare  il  Pomponazzi,  parafrasando  sia il  prologo  al  primo  libro  della  Fisica  sia  quello  al  terzo  (Cod.  lat.  della Bibl.  Naz.  di  Parigi,  n.  6533,  f.  6v  e  lagr;  Arezzo,  Fratern.  de'  Laici, ms.  3QO,  f.  (x-jv,  e  ms.  300,  f.  igir.  Cfr.  «Giorn.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  », XXX,    1951,    pp.    371-372). quando  nostri  misertam  iri,  et  nobis  integram  redituram  philo- sophiam  et  philosophos;  natura  namque  non  deficit  in  necessariis neque  abundat  in  superfluis.  Iccirco  laborandum  est  prò  viribus ut  ad  nos  redeat  niater  nostra  pliilosophia. Con  questa  speranza  nel  cuore,  che  la  filosofia  aristotelico- averroistica  minacciata  da  un  lato  dal  concordismo  tomistico che  la  svisava,  e  dall'altro  dalla  retorica  umanistica  che  la disprezzava  e  dileggiava,  il  nostro  giovane  averroista  si  ac- cinge a  difendere  quella  che  era  apparsa  la  più  ostica  delle tesi    averroistiche,    qual'  è    quella    dell'unità    dell'  intelletto. Ed  anzitutto  egli  espone  e  combatte,  sulla  scorta  d'Averroè,  la dottrina  di  Alessandro  d'Afrodisia,  intorno  alla  quale  si  dif- fonde per  ben  sei  lunghi  capitoli  (2-7).  Nel  cap.  4  accade  d' in- contrare questa  allusione  all'ambiente  filosofico  padovano: «  Conantur  quidam  alexandrei  et  acutissimi  viri  prò  Alexandro ad  rationes  Averroys  et  auctoritates  Aristotelis  respondere....  >>. Giusto  un  anno  prima,  nel  1504,  il  Pomponazzi,  che  stava  com- mentando a  Padova  il  terzo  del  De  anima,  s'era  posto  il  pro- blema dell'  immortalità  dell'anima,  e  pur  dichiarandosi  an- cora propenso  a  ritener  possibile  una  soluzione  positiva  del problema  secondo  la  ragione,  aveva  dimostrato  in  che  modo la  tesi  d'Alessandro  avrebbe  potuto  sostenersi.  Forse  allu- dendo al  Pomponazzi,  il  Taiapietra  nel  rintuzzare  le  ragioni degli  alessandristi  osserva  :  «  Etsi  Alexandrea  opinio  lumini tantum  innitendo  naturali  non minus  forte  substentabilis sit  34  iuxta  fundamenta  sua,  quam  et  averroyca,  hoc  nihilo- minus  in  loco  ipsum  ad  intentionem  philosophi  minime  lo- quentem  fuisse  proculdubio  ostendemus  »  (cap.  5).  Nel  qual passo  è  quanto  mai  significativa  la  distinzione  fra  ciò  che  è sostenibile  «  lumini  tantum  innitendo  naturali  »,  e  ciò  che  è sostenibile  «ad  intentionem  philosophi».  A  prescindere  dai  fran- cescani che  di  questa  distinzione  facevano  largo  uso,  essa  è una  novità  nella  storia  dell'aristotelismo;  Aristotele  non  ha visto  tutto  quanto  si  può  vedere  col  lume  di  ragione;  la  ra- gione umana  può  spaziare  forse  oltre  i  confini  del  mondo  ari- 34  Come  appunto  diceva  il  Pomponazzi,  commentando  il  terzo  libro del  De  anima  nel  1504  (Vedasi  P.  O.  Kristeller,  Two  impubi.  Que- stions  on  the  Soul  of  P.  Pomponazzi,  in  «  Medievalia  et  Humanistica  », Vili,  1955,  pp.  87-90,  94),  quando  il  Taiapietra  era  ancora  studente a  Padova.]stotelico  :  è  un'  idea  sulla  quale  insiste  più  volte  il  Pompo- nazzi  e  che  doveva  ferire  a  morte  l'autorità  di  cui  Aristotele, «maestro  e  duca  de  l'umana  ragione ))3s,  aveva  finora  goduto. Dopo  la  critica  della  tesi  alessandrista,  il  nostro  espone  e confuta  la  dottrina  di  Abubacher,  «  Averroys  socius  )>,  di  Aven- pace,  «  eius  magister  «,  quasi  fossero  due  persone  diverse,  di Avicenna  e  di  Alfarabi  (cap.  8)  ;  e  qui  eccolo  nel  cap.  9,  in quo  Aristotelis  et  Averroys  vera  positio  ponitur  in  hac  materia cum  suis  motivi s,  ad  esporci  l' interpretazione  sigieriana  del pensiero  di  questi  due  filosofi: Clini  binas  hiicusqne  illustrivim  peripatheticorum  opiniones ostenderimus,  qiias  tamqnam  impossibiles  omnino  ad,  mentem philosophi  reliquimus,  superest  videre  et  de  tertia,  quae  est Averroys  se  unicum  ad  intentionem  Aristotelis  loqui  pollicentis. Aliorum  autem  sapientum  opiniones  hoc  in  tractatu  non  inda- gamur.  Item  quia  intentio  nostra  in  praesentiarum  non  est  de omnibus  loqui,  sed  tantum  manifestare  quae  fuit  opinio  commen- tatoris,  et  quorundam  errorem  refellere,  qui  temporibus  nostris nonnulla  monstra  in  hac  materia  (ut  finxerunt  de  intentione Averroys)  enixi  sunt.  Tum  etiam,  ut  sententia  est  philosophi, thopicorum  primo,  capite  IX,  quolibet  proferente  contraria  opi- nionibus  sapientum  sollicitum  esse  stultum  est. De  anima  igitur  disceptantes  quadrifariam  circa  ipsius  in- coeptionem  loqui  poterant:  primo,  quod  quandoque  producta fuit  in  materia,  quandoque  corrupta:  quem  modum  sequutus est  Alexander  aphrodiseus,  ut  disputavimus  in  pracedentibus abunde  satis,  in  quo  quidem  tamquam  demonstratum  nobis palam  est,  rationalem  animam  non  a  corpore  incipere,  neque  in corpus  desinerei  illam  quoque  prò  parte  insequi  visi  sunt  arabum sapientes,  ut  supra  piane  constat.  Secundo,  quod  novum  acceperit esse,  quod  nunquam  perditura  sit:  et  hic  dicendi  modus  Platonis est,  cui  contradicit  philosophus  et  commentator,  Divinorum  XII, tex.  co.  XXXIX;  et  primo  Coeli,  tex.  co.  CXX;  alioquin  natura possibilis  verteretur  in  necessariam;  nullum  enim  novum  est perpetuum.  Tertio,  quod  nullum  eius  fuerit  initium,  sed  dissi- panda  quandoque  foret:  et  is  quoque  modus  impossibilis  est; omne  namque  aeternum  a  parte  ante  est  etiam  aeternum  a  parte post,  et  econtra,  ut  sententia  est  philosophi  et  commentatoris, ibidem,  primo  Coeli  et  mundi  3^;  nec  aliquis  hominum  dudum  id percepit,  quod  quum  perscrutata  non  sit  dignum,  absque  auctore 35  Dante,  Conv.,  IV,  vi,  8. 36  T.  e.  104-109  (e.  IO,  27gb  32-280=1  31).  A  questo  principio  del  De coelo  fa  appello  il  card.  Bessarione,  In  calimin.  Platonis,  III,  e.  22,  so- stendo  che,  per  Aristotele,  se  l'anima  è  immortale  ed  eterna  a parte  post,  deve  esserlo  anche  a  parte  ante,  con  tutti  gli  assurdi  che  dal punto  di  vista  aristotelico  ne  seguirebbero,  se  l'anima  intellettiva  fosse dimissum  fuit.  Quarto,  quod,  ncque  quandoque  cadet,  nec  exor- dium  ulluni  aliquando  acceperit:  si  igitur  rationalis  anima  nec incepit  cum  corpore,  nec  in  corpus  desinet,  sed  semper  fuit  et aniplius  semper  erit  immortalis  ac  substantia  semper  existens simplex  et  immixta,  humano  orbi  secundum  esse  unita,  non  tamen corruptibilis  nec  alterabilis  secundum  eius  substantiam,  opinio redditur  Aristotelis  scilicet  et  Averroys  et  multorum  tam  anti- quorum quam  modernorum  peripatheticorum,  ut  Themistii, Theophrasti,  Pythagorae  et  caeterorum  eiusdem  sectae.  Id  igitur in  quo  veriores  scilicet  peripathetici  concurrunt,  est  rationalem animam  nec  incipere  cum  corpore,  nec  etiam  incipere  ab  aliquo corporis,  nec  desinere  in  potentiam  corporis,  nec  in  corpus  ipsum, sed  esse  semper  qviid  immortale  divinum  et  impatibile.\'erum  id  in  quo  discreti  et  differentes  sunt  isti  viri,  hoc  porro loco  a  me  perscrutandum  non  expectetur:  tum  quia  prò  nunc tantum  philosophi  et  commentatoris  opinionem  venamur,  ex qua  ad  caeteras  quascumque  discrimen  colligere  poterimus; tum  quia  praeter  opinionem  opus  nostrum  multum  excresceret. Hanc  sententiam  comprobant  Aristotelis  auctoritates  mul- tae;  quarimi  quae  adversus  Alexandrum  iam  adductae  sunt nobis  sufficiant.  Motiva  autem  philosophorum  sunt  multa,  et primum  quod  ad  hoc  movit  Averroym,  fuit  ratio  fortis  quae  ex libro  De  substantia  orbis  piane  colligitur,  quoniam  nulla  forma inducta  in  materia  non  mediantibus  interminatis  dimensionibus  et non  per  dispositiones  qualitativas  et  quantitativas  praecedentes, simul  accipit  esse  cum  toto.  Sed  rationalis  anima  hominis huiusmodi   est.  Ergo  etc. Amplius  amne  quod  est  dominus  suorum  actuum  est  abstractum et  immortale.  Sed  anima  humana  intellectiva  talis  est.  Ergo  etc. Maior  utique  evidens  est  ex  se:  quod  enim  non  habet  dominium suorum  actuum,  ad  unam  tantum  partem  determinatur;  que- madmodum  ad  delectabile  appetitus  sensitivus;  et  talis  procul- dubio  est  materiae  immersus.  Minoris  autem  veritas  inductive declaratur:    nam    si   uni   vero   philosopho    vel   religioso  offeratur inoltre  moltiplicata  col  numero  degli  uomini.  Si  che  il  Bessarione  ne aveva  concluso:  «Igitur  alterum  de  his  duobus  dicat  necesse  est:  aut enim  unum  eundemque  intellectum  omnibus  esse,  aut  una  cum  corpore animam  interire  ».  E  se  egli  poteva  ritenere  [ib.,  e.  27)  che  nessuno era  riuscito  finora  a  dimostrare  la  falsità  della  tesi  averroistica  dell'unità dell'  intelletto,  secondo  i  principi  della  filosofia  aristotelica,  il  Pompo- nazzi,  che,  pur  ritenendo  perfettamente  aristotelica  questa  dottrina, la  considerava  stoltezza  {fatuitas),  almeno  fin  dal  1504  (cfr.  Kristeller, 1.  e,  p.  93,  e  il  ms.  napol.  Vili.  E.  42,  f.  i86r),  troncò  nell'inverno 1515-1516  le  sue  precedenti  esitazioni,  e  prese  a  sostenere  con  risolu- tezza la  tesi  che,  pur  essendo  quello  dell'  immortalità  dell'anima  un «  problema  neutrum  »,  tutti  i  principi  formulati  da  Aristotele,  e  se- gnatamente quello  stabilito  in  questo  luogo  del  De  caelo,  sembrano concludere  alla  mortalità  dell'anima.  Pochi  mesi  dopo  scrisse  il  trattatello De  immortalitate  aniniae.  Ma  sullo  sviluppo  del  pensiero  del  Perette  intor- no a  questo  argomento,  cfr.  «Giorn.  Crit.»,   XXXII,    I953.  PP-  45  e  175. puella,  appetitus  tunc  tendit  in  fornicationem,  quia  delecta- bile;  intellectus  autein  reicit  et  fugit,  quia  malum  et  propter offensionem  dei  proximique.  Ecce  igitur  qualiter  hominis  intel- lectiva  anima  domina  est  suorum  actuum,  quia  scilicet  potest delectabile  fugere  vel  persequi;  non  sic  autem  appetitus  ipse. Et  haec  fuit  ratio  divini  Platonis  in  Phaedone,  ibi  inter  omnes efficacior,  quam  olim  ab  eo  accepit  platonicus  Plotinus,  in  tractatu de  immortalitate  animae,  quam  etiam  adducit  divus  Albertus  in libro  De  origine  animae.  Et  fuit  haec  ratio  apud  aliquos  tantae effìcaciae  et  auctoritatis,  ut  palam  dixerint,  quod  qui  conatur hanc  solvere  rationem  fatuus  est. Rursum,  quod  intelligit  omnia  tam  materialia  quam  imma- terialia  est  iinmateriale,  et  per  consequens  immortale;  haecenim  se  consequuntur,  ut  constat  in  intelligentiis;  sed  intellectiva hominis  anima  omnia  comprehendit,  tam  scilicet  materialia  quam etiam  iinmaterialia  ;  igitur  immaterialis  est,  et  ex  consequenti immortalis.  ]\Iaioris  primam  partem  innuit  philosophus,  iii.  Deanima,  tex.  co.  iiii,  quum  dixit,  quod  omne  recipiens  debet  esse denudatimi  a  natura  rei  receptae.  Secunda  etiam  pars  patet; alioquin  rationalis  anima  esset  organica,  et  sic  determinata  ad unum,  cuius  tamen  oppositum  in  nobismetipsis  comprehendimus. Minorem  vero  in  nobis  proculdubio  quottidie  experimur.  Quare etc.  Et  confirmatur,  nam  anima  nostra  intellectiva  universaliter et  abstracte  intelligit;  ergo  et  ipsa  est  abstracta  et  immortalis; secus  ipsa  esset  aut  aliquis  quinque  sensuum,  aut  sextus  sensus, et  sic  per  consequens  non  iniiversaliter  intelligeret  ;  quod  apud perypatheticos  est  valde  absurdum  et  manifeste  falsum.  Adhuc, si  ista  rationalis  anima  non  est  abstracta  et  immortalis,  tunc aut  est  complexio,  aut  forma  superaddita  complexioni;  sed  non primum,  quia  tunc  esset  accidens,  quod  nullus  sanae  mentis fateretur;  minus  etiam  secundum;  sequeretur  enim  ipsam  esse organicam  et  extensam,  et  sic  fìeret  determinata  ad  unum  que- madmodum  et  caeteri  sensus,  cuius  tamen  oppositum  in  nobis manifeste  percipimus  omnia  et  universaliter  percipientes. His  ita  prealibatis,  inquiunt  veriores  perypathetici  hunc  intel- lectum  materialem  esse  formam  perpetuam  ex  utroque  latere, loquendo  praecipue  ad  intentionem  philosophi  et  commentatoris, unicamque  omnibus  hominibus  inesse,  ac  minime  generabilem aut  corruptibilem  nec  eductam  de  potentia  materiae.  Amplius opinantur  ipsam  facere  per  se  unum  cum  homine  constituto  in esse  per  cogitativam;  et  ponunt  quod  intellectus  ipse  non  potest informare  materiam  non  informante  cogitativa;  non  enim  stat materia  absque  forma  constituta  in  esse  per  eam  ;  nec  potest intellectus  informare  sine  sua  proxima  et  ultima  dispositione, quae  quidem  est  cogitativa  respectu  intellectus;  unde,  esto  quod cogitativa  ipsa  non  sit  forma  generica,  ordinatur  nihilominus  in intellectum  propter  ipsius  essentialem  ordinem  ad  ipsum.  Nec econverso  potest  cogitativa  informare  materiam  et  ipso  quoque non  informante  intellectu;  positis  enim  informabili  ultimate disposito  et  ipso  informativo,   necessario   et  ipsa  insurgit  inforniatio  37.  Est  autem  materia  informata  cogitativa  informabile propinquum  et  ultimate  dispositum  ad  humanum  recipiendum intellectum;  et  sic  potest  una  formia  substantialis  ad  aliam  esse dispositio,  dummodo  forma  illa  praeparans  non  sit  materiae  ratio recipiendi. Adduntque  post  haec  hunc  eumdem  intellectum  primo  et  ade- quate informare  totum  orbem  humanum;  secundario  vero  illius partes,  ut  scilicet  sunt  individua  hominis.  Nec  intellectui  humano, quamvis  sit  unicus  et  individuus,  pluribus  dare  esse  aeque  primo hominibus,  utputa  Socrati,  Fiatoni,  Ciceroni  et  sic  de  aliis,  re- pugnat;  in  via  namque  philosophi  et  commentatoris  constat intelligentias  esse  individua,  ut  xii.  Primae  Pìiilosophiae  et  in libris  De  coelo;  et  illa  eadem  esse  cum  suismet  quidditatibus; unde  intellectus  materialis,  quum  sententia  commentatoris,  se- cundo  Physice  auscultationis ,  infima  sit  intelligentiarum,  erit  et ipsa  individuum  et  sua  quidditas;  septimo  enim  Methaphysicae, comm.  xli,  et  iii.  De  anima,  comm.  ix  et  x,  in  abstractis  a  ma- teria non  differt  quidditas  ab  eo  cuius  est.  Intellectus  igitur  ma- terialis individuum  erit  et  singularis;  ob  id  tamen  nihil  prohibet, licet  intellectus  ipse  sit  etiam  quidditas  universalis,  dare  esse hoc  et  singulare  homini,  ut  iam  dictum  est.  Et  sic  apparet  quo- modo  esse  hominis,  in  eo  quod  homo,  est  ultimo  per  hunc  intel- lectum, et  quomodo  difterentia  hominis,  in  eo  quod  homo,  su- mitur  ultimate  ab  hoc  eodem  intellectu  ;  et  sic  quoque  individuum ipsum  humanum,  idest  constitutum  ex  cogitativa  tanquam  ex materiali,  et  ex  ipso  intellectu  tanquam  ex  formali,  utputa  Sortes vel  Plato,  habent  esse  hoc  ad  ipso  intellectu  ultimate.  A  materia autem  divisa  informabili  cogitativa  dimensionibus  mediantibus informante,  nascitur  possibilitas  multiplicationis  individuorum sub  eadem  specie;  quae  omnia  propter  esse  universale  ipsius intellectus,  ut  supra  diximus,  informari  possunt  ab  ilio,  et  ab eodem  sumere  esse  suum  verum  hoc  et  unum. Et  breviter  autumant  intellectum  ipsum  primo  esse  formam adequatam  totius  suae  sphaerae  humanae;  secundario  vero  par- tium  sphaerae,  ut  particularium  hominum,  hoc  scilicet  pacto quod,  inquantum  quidditas,  partiri  possit  per  materias  informatas dimensionibus  et  cogitativis,  inquantum  autem  individuum, est  id   esse  per  quod  individuum  hominis  est  hoc  ultimate. Dicuntque  praeterea  opinionem  esse  Averroys,  ut  intellectus uniatur  homini  non  tantum  ut  ars  et  motor  instrumento  et  or- gano, sed  etiam  secundum  operationem  et  esse.  Yocant  autem  aliquid  alteri  vmiri  secundum  esse,  quando  illud  habet  esse  et nomen  ab  eo;  non  autem  audiunt  esse  prò  operatione,  iuxta illud   '  vivere  viventibus  est  esse  ',   nec  prò  esse   educto  de  po- 37  Questa  tesi  si  trova  alla  lettera  nei  Quolibeta  de  intelligentiis  di Alessandro  Achillini  (v.  sopra,  pp.  206  e  246,),  e  il  NiFO,  De  intellectu, I,  tr.  3,  e.  18,  la  dice  tolta  dal  trattato  De  intellectu  di  Sigieri  (cfr.  il  mio Sig.   di  Brab.  nel  pens.  ecc.,  p.  18  e  p.  73). 302        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI tentia    niateriae;    sed   per   esse    intelligunt   informationem    quam corpori   tribuit   intellectus. Dicunt  etiam  quod,  quando  aliqua  forma  unitur  alicui  mate- riae,  duo  debemus  considerare:  primum,  prout  ipsa  forma  ma- teriam  constituit  in  esse,  scilicet  prout  forma  materiam  informat eique  nomen  et  difììnitionem  concedit  simul,  prout  ipsa  forma  a materia  sustinetur  ac  ab  ea  dependet  in  esse  et  conservari  secun- dum  suum  genus  causae,  ac  etiam  ab  ea  in  operari  dependet; secundum  autem  prout  aliqua  forma  aliquod  subiectum  sive materiam  in  esse  constituit,  ipsa  tamen  per  subiectum  vel  ma- teriam in  esse  non  constituitur,  sicut  se  habet  intelligentia  et orbis;  et  huiusmodi  asserunt  se  habere  rationalem  animam  ad hominem,  sive  ad  orbem  humanum  et  suas  partes,  ut  iam  dictum est.  Dat  ante  intelligere  hanc  distinctionem  Averroys,  Physicorum primo,  comm.  Ixiii,  ubi  ait:  '  Et  quia  coelum  caret  hoc  subiecto, ideo  caret  forma  quae  substentetur  per  hoc  subiectum,  et  fuit necesse  ut  forma  eius  sit  liberata  ab  hoc  subiecto,  et  non  habet constitutionem  per  corpus  codeste,  sed  corpus  codeste  consti- tuitur per  illam,  ut  scies  alibi  '  etc.  Ex  quibus  apparet  aliquam esse  formam  subiectum  suum  tantum  constituens,  non  autem per  illud  constituta,  sicut  est  de  forma  codi  et  de  anima  intel- lectiva  in  proposito  nostro;  alia  vero  est  forma  constituens  su- biectum suum  in  esse,  ac  per  illud  ipsa  quoque  in  esse  constituta» Hoc  idem  dicitur  in  vili.  Physicae  auscultationis,  ex  comm.  lii.... Illud  idem  etiam  et  in  capite  ii.  De  substantia  orbis....  Hanc  eandem sententiam  possumus  sumere  a  commentatore  iii.  De  anima^ comm.  V.  et  comm.  xx,  non  minus  quam  a  Themistio,  ibidem  in Paraphrasi  sua  de  anima.  Caeterum  quod  ista  sit  opinio  commenta- toris  Averroys,   ex  verbis  suis  intdligi  potest.   Ait  enim.... Nel  cap.  IO,  il  Taiapietra  riferisce  le  obiezioni  che  a  lui facevano  gli  altri  averroisti,  i  quali  ritenevano  che  per  Averroè r  intelletto  è  separato  dall'uomo,    che  «  intentio  fuit  commen- tatoris,  quod  intellectus  possibilis,  licet  sit  unicus  in  omnibus hominibus,  non  tamen  proprie  dat  esse,  sed  operationem,  eo modo  quo  dicunt  aliqui  intelligentiam  uniti  coelo,  non  dando ei  perfectiones  primas,  sed  tantum  secundas,  et  hoc  modo anima  ipsa  intellectiva  unitur  homini,  secundum  commen- tatorem,  mediantibus  scilicet  fantasmatibus  ».  Ed  anzi  tutto riferisce  cinque  obiezioni  ricavatedalle  opere  dei  vecchi  aver- roisti. A  queste  ne  aggiunge  ben  ventisette  che  gli  movevano i  contemporanei,  irritati  dal  vedere  la  dottrina  d' Averroè interpretata  in  modo  così  diverso  dal  consueto  :  «  ex  modernis autem  inveniuntur  quos  adeo  positio  nostra  in  via  commen- tatoris  fastidit,  quod,  ut  eam  penitus  delerent,  omne  quasi possibile  induci  contra  illam  attulere  »,  Nel  riferire  questi  argomenti,  egli  usa  sempre  il  plurale  «  dicunt  »,  «  volunt  »  etc. Ma  giunto  alla  fine  del  capitolo,  abbandona  il  plurale  e  addita un  certo  dottore  contemporaneo  di  cui  però  non  fa  il  nome: «  Ex  his  potissime  vult  iste  doctor  colligere  positionem  hanc contradicere  fundamentis  Averroys  expresse,  ut  supra  dictum est.  Et  fortius  et  uberius  instetit  iste  homo  in  hac  materia,  quam aliquis  alter  quem  ego  unquam  viderim.  Et  iudicio  meo  multum laboravit  hic  vir,  sed  frustra....  ».  E  nel  capitolo  successivo, rispondendo  a  queste  obiezioni,  torna  ad  accennare  a  costui {ad  vigesimum  septimum): Et  certe  sum  admiratus  de  isto homine  qui  aliquas  tam  frivolas  rationes  aduxerit  ».  Quasi con  certezza  si  può  ritenere  che  questo  dottore  averroista  che inveiva  contro  quello  che  egli  riteneva  un  travisamento delpensiero  d'Averroè,  fosse  Marcantonio  Zimara?^.  Ad  ogni modo  è  indubbio  che  la  controversia  non  era  tra  averroisti  e antiaverroisti,  ma  tra  averroisti  e  averroisti,  cioè  tra  primi cugini,  se  non  proprio  tra  fratclh  carnali.  Ed  erano  maestri dello  studio  patavino:  «Sed  post  hos  invenio  aliquos  qui  in gymnasio  publico  patavino  se  magnos  philosophos  faciunt, voluntque  per  urbem  digito  ostendi  ac  ab  omnibus  observari; sed  quo  iure  non  video  »  (/&.).  Alla  spocchia  di  questi  «  chaco- averroyci  expositores  »  il   Taiapietra  oppone   la  sua  superba "1^  Cfr.  sotto,  p.  340.  Marcantonio  Zimara,  che  nel  1505  de- dicava ad  Andrea  Mocenigo,  discepolo  del  Pomponazzi  (v.  sopra, p.  289)  la  Quaestio  de  principio  individuationis ,  le  Annotationes  in Ioannem  Gandavenseni  super  Quaestionibits  Metaphysicae  e  la  Quaestio de  triplici  causalitate  intelligentiae  (in  appendice  alle  Ouaesiiones  di Giov.  di  Jandun  sulla  Metafisica,  Venezia,  1505),  era  quello  che  meglio rappresentava  l'averroista  combattuto  dal  Taiapietra  (v.  sotto,  p.  34  ) sgg.).  Non  è  tuttavia  da  escludere  che  egli  si  riferisse  direttamente  al Pomponazzi,  che,  discutendo  dell'  immortalità  dell'anima,  nel  1504, aveva  combattuta  la  dottrina  sigieriana  in  questi  termini  (cfr.  Kri- steller,  1.  e,  p.  gì)  : «  Alia  est  opinio  quorundam  se  averroistas  existi- mantium,  qui  dicunt  quod  anima  ita  se  habet  ad  corpus  sicut  forma  ad materiam.  Vult  autem  opinio  ista  quod  fuerit  de  intentione  Averrois, animam  intellectivam  esse  formam  dantem  esse  ipsi  corpori.  Formarum autem  dantium  esse  aliquae  sunt  constitutae  in  esse  per  subiectum et  eductae  de  potentia  subiecti  et  insunt  ex  mutua  dependentia  ei; aliae  vero  sunt  quae  nec  sunt  constitutae  in  esse  per  subiectum,  nec sunt  eductae  de  potentia  subiecti,  nec  insunt  ei  ex  mutua  dependentia, tamen  dant  esse  ipsi  subiecto.  Et  talis  forma  praesupponit  corpus organizatum  actu  existens,  et  [non]  inducitur  absque  disposinone praevia,  sed  praesupponit  omnes  conditiones  requisitas  ».  Le  stesse cose  nel  ms.  napol.  Vili.  E.  42,  f.  i84r.  Cfr.  «  Giorn.  Crit.  Filos.  Ital.  »,. XXXVII,   1958,  p.  346. certezza  di  essere  nel  vero  :  «  Et  haec  et  tanta  dixi,  quia  hanc viam  ad  mentem  commentatoris  caeteris  subtiliorem  et  pro- babiliorem  esse  existimo,  ac  ab  omni  contradictione  remo- tiorem  »  (cap.  11).  E  più  oltre:  «Et  ista  est  resoluta  doctrina philosophi,  et  panis  non  est  tradendus  canibus  »   (ib.). Nel  mio  studio  sulla  diffusione  del  commento  di  Simplicio al  De  anima  e  sulle  ripercussioni  ch'esso  ebbe  nelle  contro- versie della  fine  del  secolo  XV  e  di  quello  successivo,  ho  di- mostrato che  i  primi  a  trarne  profìtto  furono  Giovanni  Pico della  Mirandola  e  il  Nifo,  e  come  l'uno  e  l'altro,  ma  special- mente il  secondo,  avessero  trovato  in  Simplicio  una  conferma del  loro  averroismo  di  marca  sigieriana  39.  La  quale  opinione è  condivisa  dal  nostro,  che  nel  cap.  XII  così  scrive: Post  haec  omnia  invenitur  una  alia  opinio  quae  Simplicio  ascri- bitur,  qui  ex  intellectu  et  cogitativa  aggregai  animam  rationalem, quasi  ex  istis  compositam,  quae,  si  recte  intelligatur,  ad  iiostram opinionem  reducitur.  Puto  enim  quod,  quum  ipse  fuerit  unus ex  bonis  Aristotelis  expositoribus  (ut  omnes  graeci  latinique philosophi  de  ipso  testantur),  voluerit  cogitativam  realiter  di- stingui ab  intellectu  ;  verum  quoquo  modo  rationalis  anima  ex cogitativa  et  intellectu  componi  dicitur,  prò  quanto  cogitativa omnino  habet  introitum  in  essendo  animam  hominis  licet  non  ulti- mate, et  distinguendo  ipsum,  ac  ipsum  in  specie  non  ultimate reponendo.  Et  confirmatur  hoc,  quia  quae  ad  invicem  quoquo modo  vel  vere  componuntur,  ad  invicem  et  distinguuntur.  NTon autem  credo  Simplicium  tenere  cogitativam  et  intellectum  esse idem  realiter,  secundum  tamen  gradus  distinctos,  quoniam  tunc realiter  essent  plures  intellectus  generabiles  et  corruptibiles,  sicut de  cogitativis  evenit.  Et  hanc  sententiam  confirmat  Averroys, duodecimo  Methaphysicae,  comm.  xxxviii,  ubi  ait:  '  Et  ex  hoc quidem  apparet  bene  quod  Aristoteles  opinatur,  quod  forma hominum,  in  eo  quod  sunt  homines,  non  est  nisi  per  continua- tionem  eorum  cum  intellectu  qui  declaratur  in  libro  de  anima  '. Unde  patet  quod  Averroys  vult  quod  differentia  hominis,  in- quantum homo,  ultimate  sit  ab  intellectu.  Hoc  idem  sentit  Aver- roys in  Libro  destruc.  desiruc,  [disp.  i],  in  solutione  dubii  xxxiii, et  viii  ibidem.  Quare  etc...  Et  sic  etiam  verificatur  quod  intel- lectus is  non  est  actus  corporis,  idest  non  est  forma  educta  de potentia  materiae  ab  agente  scilicet  naturali,  ut  testatur  philo- sophus;  ob  id  tamen  nihil  prohibet  quod  intellectus  ipse  sit  actus corporis,  idest  forma  informans  corpus  et  dans  esse  corpori,  ut supra  iam  diximus....  Et  ex  his  habetur  haec  Simplicii  positio  in via  peripatheticorum  optime  tirmata. 39  Vedansi  più  oltre  i  saggi  XIII  e  XIV. Indi  il  giovane  maestro,  dopo  aver  fatto  vedere  in  che  la tesi  d'Averroè  sull'  intelletto possibile  differisca  dalla  dottrina di  Temistio  e  di  Plotino  (cap.  13),  e  dopo  aver  risolte  le  obie- zioni degli  altri  averroisti  e  degli  avversari  dell'averroismo (capp.  14-18),  torna  ad  insistere  che  la  sua  maniera  d' inten- dere il  pensiero  d'Averroè  concorda  in  tutto  e  per  tutto  con quanto  asserisce  il  commentatore  di  Cordova  e,  con  lui,  pen- sano i  migliori  averroisti,  a  capo  dei  quali  è  Sigieri  (cap.  ig)  : Ecce  ergo  qvio  modo  vult  ipse  (Avwroes)  intellectum,  inquan- tum quidditas,  partiri  per  materias  informatas  dimensionibus et  cogitativis;  inquantum  vero  est  individuum,  esse  id  per  quod individuum  hominis  est  hoc.  Intellectus  ergo,  ut  habet  esse  reale, est  forma  suo  orbi;  ut  autem  habet  esse  intentionale  et  univer- sale, est  materia  omnium  intellectuum  separatorum.  Et  ista  vi- detur  esse  plana  sententia  Averroys  in  hoc  quaesito,  ut  de  mente eius  tenent  praeclarissimi  viri  et  maxime,  inter  alios,  Subgerius, praecipuvis  averroysta.  Et  iste  fuit  discipulus  Alberti  et  contem- poraneus  Thomae,  et  qui,  in  quodam  suo  tractatu  De  intellecttt adversus  Thomam,  opinatur,  in  via  Averro^'S  et  philosophi,  in- tellectum materialem  esse  formam  perpetuam  ex  utroque  latere. Dal  modo  come  si  parla  qui  di  Sigieri,  è  evidente  che  il Taiapietra  aveva  presente  il  trattato  De  intellectu  del  Nifo che  era  stato  stampato  a  Venezia  nel  1503.  Ma  mentre  questi s'era  già  separato  dell'averroismo  professato  a  Padova  nei suoi  primi  anni  d' insegnamento,  il  giovane  filosofo  veneziano è  ancora  perfettamente  averroista,  e  si  direbbe  che  dalle  opere del  Nifo  abbia  attinto  soltanto  quel  che  gli  serviva  per  cono- scere il  pensiero  dell'averroista  brabantino,  del  quale  si  fa- ceva difensore  e  propugnatore  dinanzi  al  capitolo  generale dei  frati  minori  a  Roma,  contro  le  argomentazioni  del  Nifo stesso   ch'egli   rintuzza. Il  secondo  trattato  del  secondo  libro  ha  per  oggetto  1'  «  ul- tima prosperitas  et  beatitudo  »,  ossia  1'  £ÙSai!J.ovia  aristotelica, intorno  alla  quale  dissertarono  a  lungo  gli  averroisti.  Sigieri,  a quanto  riferisce  il  Nifo,  ne  aveva  parlato  in  un  libretto  De felicitate,  ed  aveva  sostenuto  in  proposito  forse  le  sue  più ardite  tesi  40.  Per  Aristotele  il  fine  supremo  dell'uomo,  in  quanto uomo,  consiste  nel  pieno  appagamento  del  desiderio  che  la 40  Nifo,  De  intellectu,  II,  tr.  2,  e.  17;  De  beatitudine  animae,  II,  com- mento 21.  Vedasi  il  mio  Sigieri,  cit.,  pp.  22-28,  e  qui  sopra,  pp.  215-16. 20 306        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI mente  ha  di  sapere,  cioè  di  conoscere  la  realtà,  non  solo  nelle sue  manifestazioni  contingenti,  ma  nelle  sue  cause  e  ragioni eterne.  Occorre  quindi  che  la  mente  risalga,  al  di    del  mondo sensibile  e  di  quel  che  nasce  e  muore,  all'eterno  e  immuta- bile, al  mondo  metafisico,  al  cui  centro  è  il  principio  di  ogni intelligibilità  e  il  fine  ultimo  cui  le  cose  tutte  tendono.  Ma  può r  intelligenza  umana,  legata  com'  è  alla  sfera  della  sensibilità, giungere  a  conoscere  in  se  stessa  la  pura  realtà  ideale  di  Dio e  delle  intelligenze  motrici  intorno  a  lui  ?  Aristotele  non  dà una  soluzione  chiara  di  questo  problema;  e  perciò  i  suoi  com- mentatori greci  ed  arabi  l'avevano  cercata  nel  pensiero  pla- tonico e  neoplatonico,  elaborando  quella  tipica  dottrina  della copiilatio  della  mente  umana  con  l' intelletto  agente,  della quale  si  fece  un  necessario  complemento  dell'etica  aristote- lica. Se  r  intelletto  umano  non  fosse  capace  d' innalzarsi a  conoscere  in  se  stesse  le  sostanze  separate,  aveva  detto Averroè  nel  commento  i  al  secondo  della  Metafisica,  il  desi- derio umano  di  conoscere  la  verità  sarebbe  vano,  ed  inutile sarebbe  l'esistenza  di  tali  sostanze  che  noi  non  potremmo mai  arrivare  a  conoscere  nella  loro  vera  natura.  È  certo  in- teressante veder  posto  il  desiderio  umano  di  conoscere  a fondamento  dei  nostri  giudizi  intorno  alla  realtà.  Ma  a  ciò non  badarono  i  pensatori  medievali.  I  quali  si  sforzarono  piut- tosto d' intendere  come  la  conseguenza  fosse  dedotta  dalle premesse,  contro  S.  Tommaso  che  negava  la  legittimità  di questa  deduzione  4'.  In  che  modo  giustificasse  la  legittimità della  deduzione  Sigieri,  è  fatto  conoscere  dal  Nifo,  al  quale s' ispira  anche  questa  volta  il  giovane  patrizio  veneziano  nel riecheggiare  che  fa  la  dottrina  sigieriana: Onod  si  foret  hominibus  omnino  impossibile  (conoscere  in  se stesse  le  sostanze  separate  e  Dio)...,  tane  natura  ociose  egisset; fecisset  enim  id,  qnod  est  in  se  naturaliter  intellectum,  non  com- prehensum  ab  aliquo,  et  sic  esset  frustra,  quemadmodum  si  fe- cisset solem  non  comprehensum  ab  aliquo  visu.  Hanc  sequellam diversi  diversimode  deducunt;  quidam  enim  eam  sic  deducere consueverant.  Supposito  primo  quod  omnis  intellectio,  conve- niens  intellectui  possibili,  non  conveniat  quin  etiam  homini competat,  hoc  expresse  sensit  philosophus,  primo  De  anima, Lxiiii,  quicquid  dicant  alii;  hoc  quippe  supposito  negato,  aufertur omnis  via  commentatori  ad  probandum  coelum  intelligere;  quare 41  S.  Tommaso,  In  Metaphys.,  II,  lect.   i. si  possibile  est  substantias  separatas  intelligi  ab  intellectu  possibili, possibile  est  quoque  substantias  separatas  intelligi  ab  hoc  homine. Quo  stante,  tunc  arguunt  sic.  Quandocumque  aliqua  reperitur forma  apta  non  recipi  in  maximo  receptivo  alicuius  generis,  illa eadem  non  est  receptibilis  in  minus  receptivo  eivisdem  generis. Sed  intellectus  possibilis  in  genere  intelligentiarum  est  maxime receptivus,  ut  constat  iii.  De  anima  42.  Igitur  si  primam  formam non  est  possibile  intellectum  possibilem  recipere,  ncque  etiam est  possibile  alium  intellectum  primam  ipsam  recipere  formam. Unde  omnes  frustrarentur  intelligentiae  mediae  ab  hoc  scilicet line,  qui  est  deum  gloriosum  et  sublimem  intelligere.  \'erum quandocumque  intellectus  abstractus  non  potest  intelligere  su- periora, ipse  non  potest  intelligere  inferiora;  sed  nulla  intelli- gentia  media  potest  primam  intelligere,  ut  iam  deductum  est; igitur  nulla  intelligentia  media  potest  et  intelligentiam  mediam intelligere  ;  sed  neque  deus  "  potest  intelligentias  medias  intelli- gere, ut  Divinovum  xii,  de  mente  Averroys  43  concluditur.  Et neque  intellectus  noster  possibilis,  ut  fatentur  adversarii,  eas intelligere  potest.  Igitur  intellectus  possibilis,  naturaliter  in  se intelligibilis,  non  est  ab  aliquo  comprehensus;  sic  patet  ociositas maxima  in  natura.  Ex  quo  habetur  quod,  nisi  abstracta  intelli- gerentur  a  nobis,  essent  utique  ociosa.  Et  haec  fuit  deductio Subgerii  44,  viri  in  familia  averroyca  non  obscuri  (Lib.  II,  tr.  2, e.  3)- Ma  il  Taiapietra  sa  che  non  tutti  gli  averroisti  convengono nel  modo  di  argomentare  di  Sigieri;  dal  quale  dissente  in  parti- colare  Giovanni   di   Jandun: Alii  autem,  ut  Ioannes  Gandavensis  in  Quaestionihus  suis  de anima,  quaestione  trigesima  septima  45,  aliter  deducunt.  Et  ipsi accipiunt  primo  quod  substantiae  separatae  comparantur  ad  in- tellectum nostrum  ut  formae  natae  intelligi;  intellectus  vero noster  comparatur  eis  ut  subiectum  natum  recipere  illas  comprehen- sive  et  spiritu aliter;  quod  ex  verbis  Averro3^s  multis  viis  probari potest.  Primo,  namque  intellectus  possibilis  ultimus  est  abstracto- rum;  sed  semper  infìmus  intellectus  est  materia  superioris,  infima enim  intelligentia  perficitur  a  superiori  sicut  materia  perficitur a  forma,  ut  dicunt  philosophi.  Et  confirmatur:  quoniam  vilius est  potentia  respectu  nobilis,  et  nobile  est  tanquam  actus  respectu vilis;  igitur,  quemadmodum  substantiae  separatae  sunt  natae ntelligi  secundum  earum  naturas,  ita  noster  intellectus  est  natus 42  Arist.,  De  anima,  III,  t.  e.  5  (e.  4,  ^zgz,  21-24)  e  14  (429b  30sgg.). 43  Poiché  secondo  Averroè,  Metaphys.,  XII,  comm.  51,  Dio  conosce soltanto  se  stesso  e  non  le  cose  inferiori  a  sé. 44  Cfr.  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.   11;  De  beat,  an.,   I,  comm.  53. 45  O  meglio,  «  trigesima  sexta  ».  Ma  anche  questa  svista  è  nel  Nifo, De  intell.,  1.  e. 3o8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI perfici  ab  eis  secundum  suani  naturain.  Amplius,  intellectus  pos- sibilis  est  materia  omnium  abstractorum  et  omnium  intelligi- bilium;  sed.  materia  non  corruptibilis  ab  ipsis  formis  est  apta  et potens  suscipere  omnes  formas;  intellectus  igitur  noster  potest recipere  omnia  intelligibilia.  Accipiatur  igitur  prò  constanti, quod  intelligentiae  sint  potentes  intelligi  ab  intellectu  nostro potentia  quidem  naturali;  et  similiter  intellectus  noster  potest intelligere  illas  potentia  naturali,  sicut  et  ipsa  materia  potentia naturali  potest  omnes  suscipere  formas.  Quo  stante,  arguit  modo Ioannessic:  intellectus  possibilis,  corpori  continuus,  est  receptivus et  passivus  intellectionis  abstractarum  [intelligentiarum]  ;  ergo habet  naturalem  potentiam  recipiendi  intellectiones  earum,  per earum  scilicet  essentias;  ergo,  si  aliquando  per  cognitionem  non  at- tinget  eas,  tunc  natura  egisset  ociose,  quoniam  fecisset  illam  poten- tiam naturalem  intellectus  nostri  ad  illas  capessendas,  quae tamen  in  actum  nunquam  adduceretur.  Et  quod  haec  sit  Aver- roys  ratio,  declarat  ibidem  Ioannes  exemplo  eius.  Et  sic  patet quomodo  Ioannes  deducit  illam  sequellam,  exponendo  totam potentiam  intelligendi  ex  parte  nostri  intellectus,  et  non  ex  parte intelligentiarum,  ut  fecit  Subgerius,  qui  totam  intelligendi  po- tentiam  ad   substantias  separatas  convertit   {ib.). La  stretta  dipendenza  dell'averroista  veneziano  dal  Nife, si  rivela  oltre  che  dai  testi  citati,  anche  da  un  particolare  ca- ratteristico, là  dove  s'accenna  (cap,  5)  a  quell'esposizione  del pensiero  averroistico  che  «  veriores  averroyci....  exceperunt a  filio  Averroys  in  tractatu  suo  De  intellectu  »  46. Ma  comunque  interpretata,  la  dottrina  averroistica  sulla «  copulatio  »  e  sulla  «  felicitas  Averroistarum  »,  di  cui  era solito  beffarsi  il  Perette,  è  evidentemente  contraria  all'  in- segnamento teologico.  Perciò  il  Taiapietra  s'affretta  ad  ag- giungere : Verum  quicquid  dicatur  principiis  innitendo  naturalibus  ad mentem  philosophi  et  commentatoris,  nihilominus  secundum veram  theologorum  sententiam  dicimus  nullam  generi  humano  in hac  vita  contingere  posse  foelicitatem  et  beatitudinem,  sed  illam ei  servari  post  mortem  in  alio   statu.   Viatori  enim   non   potest 46  NiFO,  De  intell.,  I,  tr.  4,  e.  12:  «Amplius,  filius  Averroys  in  tractatu de  intellectu»;  II,  tr.  2,  e.  5:  «  Declaravit  has  tres  demonstrationes filius  Averroys  in  tractatu  de  intellectu»,  cfr.  ib.,  e.  ii;  a  anche  nei Collectanea  III,  ad  t.  e.  36:  «et  hanc  domonstrationem  dedit  Alpheeh Averroys  filius  in  tractatu  quem  edidit  ad  instantiam  patris,  et  eam multum  laudavit  »;  e  più  oltre:  «  et  si  inspicies  librum  Alpheeh  Averrois filij  »;  e  ancora  più  giù:  «  Et  in  commentariis,  quos  scripsi  in  libro  feli- citatis    Averroys   et   eius   filii  ». inesse  foelicitas  nisi  in  patria,  nec  etiam  abstracta  ab  eo  cognosci possunt  cognitione  matutina,  sed  tantum  vespertina,  ut  sacri nostri  recte  sentiunt  theologi   (cap.   5). Con  siffatta  dichiarazione,  egli  ha  ottenuto  il  duplice  scopo, di  rassicurare  i  teologi  sulle  proprie  intenzioni,  e  di  poter  di- scutere con  tutta  libertà  intorno  al  vero  pensiero  del  filosofo e  del  commentatore.  E  di  questa  libertà,  procacciata  a  prezzo di  quella  dichiarazione,  approfitta  nel  modo  piìi  ampio,  atte- nendosi al  famoso  commento  36  del  terzo  libro  del  De  anima. Anzi  tutto,  coll'esporre  e  criticare  la  dottrina  di  Alessandro intorno  al  modo  come  l' intelletto  umano  giunge  ad  unirsi con  r  intelletto  agente,  che  per  l'Afrodisio  è  Dio  (capp.  6-11), e  quella  di  Avenpace  e  di  Temistio  (capp,  12-14);  poi  con  lo spiegare  e  difendere  la  tesi  che  ad  essi  oppone  Averroè,  «  qui inter  omnes  philosophos  post  Aristotelem  perfectior  fuit  et subtilior  »  (cap.  15).  Nei  capp.  17  e  18  il  Taiapietra  combatte r  interpretazione  che  del  pensiero  d'Averroè  dava  Giovanni di  Jandun,  il  quale  «  opinatus  est  quod  foelicitas  nostra  con- sistat  in  actu  sapientiali,  et  sit  sapientia  quae  habetur  Divi- normn  xii,  a  textu  commenti  xxix  usque  in  finem  ».  Come  si vede  la  fehcità  in  siffatta  teoria  era  a  portata  di  mano:  per quanto  astrusa,  la  Metafisica  aristotelica  non  è  poi  inintelli- gibile, e  sopra  tutto  abbastanza  facile  a  capire  è  la  parte  del XII  libro  che  parla  appunto  delle  sostanze  separate  che  muo- vono i  cieli,  e  della  pura  mente  di  Dio.  Ma  il  possesso  delle scienze  speculative  non  basta  alla  suprema  felicità  dell'  in- telletto umano,  occorre  l' inerenza  formale  del  primo  vero nella  mente  umana,  la  cui  potenza  resti  così  tutta  attuata. Il  possesso  delle  scienze  speculative  è  condizione  per  giungere a  questa  beatitudine  dell'  intelletto,  non  il  fine  ultimo  cui aspira  la  mente  umana,  che  riposa  solo  nel  possesso  del  vero eterno  «  fuor  del  qual  nessun  vero  si  spazia  ».  Ora  a  questo possesso  s'arriva  soltanto  con  la  coptilatio  o  continiiatio  del- l' intelletto  possibile  con  l' intelletto  agente,    che  la  poten- zialità del  primo  sia  tutta  sommersa  e  assorbita  nell'attualità del  secondo  : Ipse  (commentator) ,  commento  xxxvi  (3ÌÌ  De  anima)  totiens allegato,  inquit  quod  in  adeptione  illa  nos  intelligimus  omnia  et sumus  sicut  dii,  et  quod  ille  modus  intelligendi  non  -currit  cursu scientiarum    cogitativarum,    quae    habentur    per    discursum,    sed 3IO       l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI est  per  substantiam  intellectus  agentis,  in  quo  omnia  intuitive cognoscimus.  Convincitur  ergo  ad  intentionem  commentatoris, quod  ea  in  cognitione  intuitiva  nos  utique  foelicitamur;  non autem  in  illa  quae  in  Metaphysica  per  demonstrationem  habetur {ib.,    cap.    i8). Del  tutto  aderente  all'  interpretazione  sigieriana  del  pen- siero d'Averroè,  quale  ci  è  nota  per  l'esposizione  che  ne  fa  il Nifo  47  e  che  concorda  con  quanto  pensava  Alessandro  Achil- lini  48,  è  anche  l' interpretazione  che  della  «  vera  dottrina  » del  commentatore  ci    il  Taiapietra: Superest  modo  circa  ambiguitatem  hanc  magni  commenta- toris afferre  sententiam,  quam  omnes  viri  sublimes  in  philosophia ac  in  secta  averroyca  primarii  nobiscum  integre  et  perfecte  sen- tiunt.  Opinamur  enim  itaque  foelicitatem  esse  deum.  Nam  as- sumpta  foelicitatis  diffinitione  prò  maiori,  tunc  si  addatur  haec minor,  videlicet:  sed  deus  est  ultimus  finis,  optimus,  propter se  eligibilis,  ad  nullum  aliud  ordinabilis,  cuius  gratia  omnia  eli- guntur,  bonus  et  perfectus,  pulcherrimus,  delectabilissimus,  per se  sufficiens,  honorabilis,  principium  et  causa  omnium  bonorum; ex  his  ergo  optime  convincitur,  quod  deus  est  foelicitas.  Foeli- citas  enim,  quia  rationem  totius  boni  amplectitur,  omnem  quietat voluntatem;  quia  vero  rationem  totius  entis  continet,  universum saciat  intellectum.  Sed  in  nullo  nisi  in  deo  verius  reperiuntur ratio  totius  boni  et  totius  entis.  Ergo  etc  49.  Et  hoc  forte,  et  sine forte,  balbutiendo  intellexerunt  vetustiores  ;  nec  valet  quod dicunt  quidam  moderniores,  quod  bene  concluditur  deum  esse foelicitatem  simpliciter,  sed  non  homini  propriam....  Sed  profecto hoc  nihil  est,  ut  piane  ostendimus  in  superiori  capite:  hanc  enim conclusionem  habent  Averroes  et  Aristoteles  expresse,  x.  Nicho- machiae,  capite  vii,  scilicet  quod  deus  est  foelicitas  sibi  et  aliis intelligentiis  et  etiam  homini  5°.  Solum  enim  ipse  est  perfectis- siinum  intelligibile  et  appetibile  propter  se;  in  eo  enim  eminenter reperitur  ratio  obiecti  intellectus  et  voluntatis,  immo  solum  ipse est  eminenter  omnia  bona  continens.  Et  confirmatur,  quoniam  id quo  foelicitantur  dii  omnes  est  suprema  hominis  et  omnium  foelici- tas; sed  deus  est  quo  omnes  foelicitantur;  omnes  enim  intellectus foelicitantur  intelligendo  deum;  sed  intellectio  qua  ipse  deus intelligitur  est  ipse  deus;  igitur  omnia  deo  foelicitantur.  Et  haec ratio  tota  est  philosophi,  x.  Nichomachiae,  cap.  x.  Quare  conclu- ditur quod  deus,  ipse  formaliter  est  foelicitas.  Amplius,  quo  foe- 47  Cfr.  il  mio  Sigieri,  p.  24. 48  V.  sopra,  pp.  213-215. 49  Alla  lettera  dal  Nifo,  De  intellectu,  II,  tr.  2,  e.  2. 50  Allude  forse  al  passo  àeWEtìi.  Nicom.,  X,  e.   7,   ii77b   30-32, forse  meglio  al  cap.   8,   ii78b  21-32,   e  al  cap.  9,   ii79a  23-32. licitatur  deus,  foelicitantur  et  alii  omnes  intellectus,  ut  expressa est  sententia  philosophi,  Divinorum  xii,  et  praecipue  commen- tatoris,  ibi,  comm.  xxxviii.  Sed  deus  non  foelicitatur  nisi  dee, ut  inquit  vii.  Politicoruni  :  '  deus  foelix  quidem  est  et  beatus, propter  nullum  autem  extrinsecorum  bonorum,  sed  propter seipsum  ipse'51.  Deo,  ergo,  nedum  homo,  sed  omnia  foelicitantur. Sed  nihil  foelicitatur  nisi  foelicitate.  Deus  igitur  ipsa  est  foelicitas. Et  ex  hiis  verifìcantur  omnia  verba  Aristotelis  in  toto  libro  Ethi- coriim,  ubi  de  foelicitate  sermonem  habet  (cap.   ig). Giunto  alla  fine  del  secondo  trattato,  il  giovane  filosofo, rendendosi  ben  conto  che  siffatta  felicità  è  irraggiungibile  al- l'uomo in  questa  vita,  torna  ad  avvertire  il  lettore  che  tutto quello  che  abbiamo  udito  da  lui  su  questo  argomento,  ad  altro non  mirava  se  non  a  chiarire  qual  è  in  proposito  il  vero  pen- siero  d'Aristotele   e   d'Averroè: Hoc  enim,  in  explanandis  auctoribus,  expositoris  officium esse  consuevit,  ita  quod,  quid  ipse  velit  auctor,  et  determinet  et ad  verbum  interpretetur,  etiam  si  illud  falsum  sit,  ut  auctorum integrae  et  non  manchae,  fideles  et  non  depravatae  sententiae circa  quaeque  apud  omnes  recipiantur5-.   His  autem  sacri  nostri 51  Poi.  (ediz.  Immisch.  Leipzig,  Teubner,  1929),  VII,  e.  i,  i323b 24  sgg. 52  Così  anche  il  Nifo  nella  lettera  all'  inquisitore  Nicolò  Grassetto, della  quale  è  stato  fatto  cenno  sopra  p.  285,  nota  12  :  «in  exponendis  enim auctoribus,  commentatoris  officium  solet  esse,  quid  ipse  auctor  velit  ac sentiat,  etiam  si  id  interdum  minime  verum  sit,  interpretari  ».  Di  questo che  è  non  solo  diritto  ma  dovere  di  ogni  interprete  onesto,  si  valsero tutti  gli  averroisti  per  esporre  con  la  massima  libertà  il  pensiero  d'Ari- stotele e  dei  suoi  interpreti.  Ma  il  Nifo,  per  entrare  nelle  buone  grazie dell'inquisitore,  aggiunge:  «  Itaque  ut  in  illis  quae  ad  philosophiam pertinebant,  philosophi  ac  interpretis  munere  functi,  ipsum  auctorem exposuimus;  ita  in  his  quae  fidei  catholicae  contraria  erant,  ultra  expo- sitoris terminos  evagati  (quemadmodum  hominem  christianum  decebat), ipsi  auctori  contradicimus  eiusque  opiniones  ac  dieta  omnia  theolo- gorum  nostrorum  auxilio  confutavimus  »  (quello  che  il  Taiapietra  e  in generale  gli  averroisti  non  fanno).   Del  che  l'inquisitore  gli    atto: « placetque  mihi  quod  in  philosophia,  christianae  fidei  non  immemor, in  plurimis  philosophos  redargueris,  nihilque  in  toto  opere  invenerim quod  castigatione  dignum  censeam  »  (in  fine  del  volume  che  contiene il  commento  del  Nifo  alla  Desfritctio  e  il  De  sensu  agente,  nell'ediz.  ve- neziana del  1497).  Di  questo  zelo  nel  redarguire  e  confutare  le  dottrine dei  filosofi  ancora  di  più  che  nel  commento  alla  Destriictio,  il  Nifo  fa mostra  nel  De  intellectit,  riveduto  e  corretto  per  l'edizione  del  1503, ove  è  evidente  il  proposito  di  rifarsi  una  verginità  filosofica  antiaver- roistica,  adoprandosi  a  far  credere  che  il  suo  distacco  dall'averroismo risalga  al  1492  e  preceda  quello  del  suo  maestro  Nicoletto  Vernia: «  Hec  sunt  que  preceptor  defendit  ad  mentem  Platonis  et  Aristotelis theologi  iuxta  christianam  nostrani  religionem  multa  addunt, quae  nos  ex  testimonio  prophetarum  credimus;  et  ideo  ea  tantum asserta  esse  volumus,  non  quaerentes  ad  liaec  aliquam  rationem, sed  quantum  ortodoxa  ecclesia  praecipit,  procul  dubio  asseveramus. Itaque,  ut  philosophum  decet  ac  peripatheticum  hoc  in  tractatu quae  ad  philosophiam  pertinebant,  more  phisici  interpretis, declaravimus,  ubi  non  parum  boni  fecisse  arbitramur,  quum multa  in  naturali  philosophia  obscura  et  latentia  iuxta  senten- tiam  philosophi  et  eius  magni  commentatoris  Averroys  in  lucem ediderimus  et  ea  bene  dispositis  aperte  propalavimus   (cap.   21). A  questo  secondo  trattato  ne  seguono  altri  quattro,  concer- nenti rispettivamente  quattro  argomenti  di  filosofia  naturale fieramente  controversi  tra  gli  aristotelici  delle  varie  tendenze, e  cioè  :  «  Utrum  nec  ne  apud  philosophum  plures  substantiales formae  ad  invicem  realiter  distinctae  in  substantiali  composito sint  ponendae  »  (tr.  Ili)  ;  «  Utrum  ad  intentionem  philosophi dementa  remaneant  formaliter  in  mixto  »  (tr.  IV)  ;  «  Utrum simplex  elementum  alterari  possit  et  a  se  »  (tr.  V)  ;  «  De  quo- rumcunque  simplicium  sive  mixtorum  primo  ac  proprie  dicto elemento  »  (tr.  VI)  ;  e  su  tutti  e  quattro  questi  argomenti  il Taiapietra  difende  con  risolutezza  ed  energia  la  dottrina d'Averroè  come  quella  che  combacia  perfettamente  coli'  in- segnamento di  «  quello  glorioso  filosofo  al  quale  la  natura più  aperse  li  suoi  segreti»,  come  pensava  Dante 53.  Ma  di  sif- fatti argomenti  il  nostro  palato,  che  ha  assaporato  Hume  e Kant,  non  ha  più  il  gusto,  che  non  hanno  perduto  invece  i neotomisti,  ai  quali  è  giusto  che  queste  pagine  siano  segnalate. Tale  il  programma  che  l'allievo  dei  maestri  padovani  aveva preparato  per  la  solenne  disputa  romana  del  6  giugno  1506. A  parte  l'accenno  abbastanza  vago  che  Marin  Sanudo  fa  del- l'obiezione del  cardinal  Gabrielli  ad  una  delle  tesi  sostenute dal  dottorando,  perché  «  l'era  ereticha  »,  non  sappiamo  a quali  altri  assalti  dovette  tener  testa  il  giovane  averroista veneziano;  sappiamo  soltanto  che  egli  giostrò  da  bravo  e  che il  giorno  appresso  «  il  papa  lo  dotoroe  ».  O  tempora  ! in  eo  libello  quem  inscripsit  De  animorum  pluralitate,  quem  confecit compluribus  annis  post  nostrum  De  intellectti  librum  »  (Nifo,  De  anima, edizione  del  1522,  comm.  al  t.  5  verso  la  fine).  Eppure  il  Nifo  sapeva bene  che  il  Vernia,  nella  dedica  dell'opera  al  card.  Domenico  Grimani, aveva  dichiarato  di  avere  scritto  anch'egli  il  suo  trattato  nel  1492. Cfr.  sopra,  p.  108. 53  Conv.,    Ili,    V.    7. Nel  volume  su  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinasci- mento italiano,  ebbi  a  riunire  alcune  importanti  testimonianze intorno  a  due  e  forse  tre  scritti  dell'averroista  brabantino,  che si  leggevano  ancora  a  Bologna  e  a  Padova  alla  fine  del  se- colo XV.  Queste  testimonianze  si  trovano  per  la  massima  parte nel  De  intellectn  et  daemonibiis  di  Agostino  Nifo,  il  quale  pre- tende d'avere  scritto  quest'opera  a  Padova  nel  1492,  quando già  s'era  distaccato  dall'averroismo  sigieriano  cui  egli  aveva prima  aderito.  E  pare  che  in  quegli  anni,  se  non  proprio nel  1492,  prima  certo  del  1497,  egli  avesse  scritto  davvero una  Quaestio  de  intellectu  in  senso  sigieriano,  e  che  in  seguito, fra  il  1496-98,  per  evitare  la  taccia  di  eresia  e  guai  maggiori, rielaborasse  quella  Quaestio,  sino  a  farne  il  trattato  De  in- tellectu, stampato  per  la  prima  volta  nel  1503,  e  dedicato  a Sebastiano  Badoèr  morto  appunto  nel  1498:  che  di  edizioni anteriori  non  esistono  tracce  (cfr.  sopra,  p.  286).  In  tal  mo- do il  Nifo  cercava  di  far  credere  che  egli  aveva  preceduto  il suo  maestro  Nicoletto  Vernia  nell'abbandono  dell'averroismo (cfr.  sopra,  p.  311,   n.  52). Nel  De  intellectu  e  nel  commento  al  De  animae  beatitudine di  Averroè,  il  Nifo  si  riferiva  a  due  opere  di  Sigieri  o,  com'egU scriveva,  «  Sugerius  »,  «  Suggerius  »,  «  Subgerius,  vir  gravis, secte  Averro3^stice  fautor,  etate  Expositoris  [cioè  di  S.  Tom- maso] ,  discipulus  Alberti  »,  «  Subgerius  contemporaneus  Tho- me  ».    Queste    due   opere    sono    un    «  tractatus   de   intellectu, *  Dal  «Giorh.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXV,   1956,  pp.   204-209. 314        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI tertio  loco  inscriptus,  qui  fuit  missus  Thome,  prò  responsione ad  tractatum  suum  contra  Averroim  »,  e  un  «  liber  de  feli- citate »  che  pare  identico  col  «  tractatus  intelligentiarum  et beatitudinis  »,  ricordato  dallo  stesso  Nifo  nei  suoi  Colledanea sul  De  anima,  nell'edizione  veneziana  del  1503  e  in  quella del  1522,  nelle  quali  «  Subgerius  »  è  diventato  «  Subiegius  » (si  vedano  le  citazioni  nel  mio  volume,  pp.  18-30).  Ma  nel  suo trattatello  De  primi  motoris  infinitate,  portato  a  termine  nel 1504,  quando  da  cinque  anni  aveva  lasciato  Padova,  il  Nifo sembra  attribuire  a  Sigieri  un  terzo  trattato  «  de  motore  primo et  materia  celi»  (cfr.  il  mio  voi.  cit.  p.  41). L'espressione  «  in  tractatu  suo  de  intellectu,  tertio  loco inscripto  »  potrebbe  intendersi  di  un  volume  di  scritti  sigie- riani,  ove  il  «  tractatus  de  intellectu  »  si  trovasse  trascritto al  terzo  posto  fra  altre  opere  dell'averroista  belga. Delle  varie  dottrine  attribuite  a  questo  Sugerius  o  Subgerius dal  Nifo,  due  giova  qui  ricordare:  quella  che  tende  a  mettere in  evidenza  il  procedimento  deduttivo  onde  Averroè  aveva concluso  che,  se  l' intelletto  umano  non  potesse  intendere  le sostanze  separate,  queste  sarebbero  inutili  {ociosae.  Cfr,  sopra, pp.  215-16)  ;  e  l'altra  che  afferma  che  ogni  intelligenza  in- feriore «  intelligit  sviperiorem  per  essentiam  superioris  »,  ossia in  quanto  l' intelligenza  superiore  l' informa  di    intenzio- nalmente e  s'unisce   ad  essa  (v.  sopra,  pp.  195-198). Orbene:  quanto  alla  prima  di  queste  due  tesi,  sappiamo che  il  domenicano  Francesco  Silvestri  da  Ferrara,  nel  suo commento  alla  somma  Contra  gentiles  (III,  cap.  45,  n.  5), l'attribuisce  a  «  Rugerius  in  tractatu  suo  de  intellectu,  misso Beato  Thomae  prò  responsione  ad  tractatum  suum  contra Averroistas  ».  In  un  primo  momento,  avevo  pensato  (vedasi il  mio  voi.  cit.,  p.  23)  che  il  Silvestri  dipendesse  dal  Nifo  e  che «  Rugerius  »  fosse  un  errore  di  stampa  per  «  Sugerius  ».  Però avevo  aggiunto  :  «  ma  può  darsi  che  egli  citi  da  un  mano- scritto in  cui  il  nome  di  Sugerus.  era  già  stato  mutato  in Rtigerius. Qualche  luce  viene  ora  a  gettare  su  questa,  che  non  è  affatto una  quisquiglia,  l' importante  notizia  nella  quale  mi  sono imbattuto  scorrendo  il  codice  Marciano  (Lat.,  CI.  VI,  271  = 2882),  che  contiene  le  Annotationes  in  jo  UJjro  de  anima  lectae in  hoc  anno  qui  fuit  1521,  die  vero  iovis  quae  fuit  2^  mensis ianuarij,  ah  excellentissimo  ac  celeberrimo  domifio    Ioanne  de Mofìtedocha  hyspano,  unum  (sic)  trium  sui  temporis  philoso- phoriim  peritissimo,  trascritte  fra  il  1523  e  il  1524  dal  padovano Aurelio  Tedoldi,  dottore  nelle  arti,  «  ad  laudem  dei    dic'egli  — et  meae  amicae  quam  maxime  amo  »  (f.  256 v)  !  i. Giovanni  Montesdoch,  spagnolo,  aveva  studiato  a  Bologna, e  nello  studio  bolognese  aveva  insegnato  filosofia  naturale  in concorrenza  col  Pomponazzi  fino  all'anno  scolastico  1514-15, e  per  alcuni  anni  aveva  letto  anche  la  Metafisica.  Ma  in  seguito a  contrasti  che  ritengo  egli  avesse  col  Pomponazzi  -,  lasciò Bologna  e  andò  a  insegnare  a  Roma.  Da  Roma  appunto, per  un  ingaggio  vantaggioso  propostogli  dall'ambasciatore veneto  Marco  Minio,  passò  a  insegnare  filosofia  naturale  a Padova,  verso  la  fine  del  1520,  o  i  primi  di  gennaio  dello  stesso anno  1520  (secondo  lo  stile  veneziano;  quindi  1521),  iniziando il  corso  delle  lezioni  con  la  lettura  del  commento  averroistico al  De  anima.  Nella  lez.  43^,  sul  t.  e-.  14  del  terzo  libro,  egli venne  a  porsi  appunto  il  dibattuto  problema,  come  un'  intel- ligenza inferiore  conosca  le  intelligenze  superiori  ad  essa. Dopo  aver  riferite  varie  opinioni,  egli  accennava  a  quella «  moderna  »  sostenuta  dall'Achillini,  che  l' intelligenza  in- feriore conosce  quella  superiore  «  per  essentiam  superioris  ». Siffatta  tesi,  osservava  il  Montesdoch,  può  dirsi  «  moderna  » solo  in  quanto  alcuni  moderni,  come  l'Achillini,  se  la  sono appropriata.  Ma  prima  di  loro  e'  è  stato  Ruggiero  : 1  Cosi  anche  nel  Marciano  lat.,  CI.  VI,  273  =  2884,  che  contiene le  lezioni  dello  stesso  Montesdoch  sul  primo  e  il  secondo  della  Fisica, del  1523-24,  il  Tedoldi  che  le  stava  trascrivendo  nel  1526,  interrompe la  16*  lez.  sul  secondo  libro,  con  questa  informazione  autobiografica (f.  365r)  :  «  Et  sic  sit  finis  huius  lecturae  nostrae  prò  praesenti  anno  1522, quae  fuit  die  mercuri]  8^  mensis  augusti  et  hora  ii'^  ad  laudem  dei  et beatae  mariae  [atque  amicae  meae  quam  maxime  amo,  quia  hodie] hora  19^  [habui  eam  in  brachiis  meis....  1».  Le  parole  tra  parentesi quadrate  son  coperte  d' inchiostro  e  solo  alcune  appena  leggibili.  Sotto è  un  quadrato  che  doveva  contenere  un  motto  o  un  piccolo  disegno.  Ma anch'esso  è  stato  coperto  d' inchiostro  nero.  E  alla  fine  della  lezione  66» sul  primo  libro  del  De  caelo,  commentato  dal  Montesdoch  nel  1522 (Cod.  Marciano  lat.,  CI.  VI,  272  =  2883),  il  Tedoldi,  che  la  stava  co- piando nella  primavera  del  1524,  annota  (f.  272V)  :  «  Sed  quia  hora  est nimis  tarda,  et  quia  maxime  crucior  amore  meae  amicae,  ideo  valde fessus   cogor   non   amplius   scribere  ». 2  Tanto  che,  lasciata  Bologna  da  un  pezzo,  il  Montesdoch  conservava ancora  del  Peretto  un  ricordo  disgustoso.  Nel  commento  infatti  al proemio  della  Fisica  (lez.  6*,  f.  i6r)  fa  menzione  di  lui  come  «  nimis monstruosus  »,  e  troppo  grossolani  ne  dichiara  i  ragionamenti:  «  dicit rationes  nimis  grossas  ». 3l6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Alia  positio  et  opinio  est  quae  est  opinio  non  moderna,  dato quod  moderni  eam  sibi  tribuant.  Sed  ante  eos  fuit  Rogerius; fuit  magnus  vir,  cuius  opera  non  habentur  impressa,  nec  vidi ea  nisi  in  bibliotheca  sanati  dominici  de  bononia,  et  ea  etiam vidi  romae  in  sanato  Ioanne  de  viridario.  Fuit  etiam  opinio  Ioannis de  ripa;  tamen  Alexander  Achillinus  sibi  eam  tribuit,  quomodo  2^ intelligentia  intelligat  primam    (Ms.   Maraiano  cit.,  f.    138V)  3. Che  questo  «  Rogerius  »  sia  il  «  Sugerius  »  o  «  Subgerius  » di  cui  parla  il  Nife  non  v'  è  dubbio.  Ma  l' importanza  di  questa informazione  del  Montesdoch  consiste  nell' averci  egli  indicato dove  aveva  visto  le  opere  di  questo  «  Rogerius  »  sostenitore della  dottrina  che  l'Achillini  spacciava  per  sua.  Queste  opere non  ancora  stampate,  bensì  manoscritte,  erano  state  viste da  lui  a  Bologna,  nella  biblioteca  del  convento  domenicano di  S.  Domenico,  e  dipoi  a  Padova,  nella  biblioteca  del  mona- stero di  S.  Giovanni  in  Verdara  dei  Canonici  Lateranensi. Veramente  nel  ms.  Marciano  si  legge  :  «  et  ea  etiam  vidi  romae in  sancto  Ioanne  de  viridario  w  ;  ma  è  evidente  che  al  posto  di «  romae  »  deve  leggersi  «  paduae  »  (supponendo  che  il  nome  di Padova  fosse  scritto  con  l' iniziale  maiuscola,  l'errore  di  let- tura si  spiega  facilmente)  ;  a  meno  che  non  debba  leggersi «  romae  [et]  in  sancto  Ioanne  de  viridario  ». Quanto  al  codice  veduto  a  S.  Domenico  di  Bologna,  par- rebbe trattarsi  di  quello  usato  da  Francesco  Silvestri  che, come  abbiamo  visto,  ne  ritenne  autore,  anch'egli,  «  Rogerius», che  si  ha  ragione  di  ritenere  identico  a  «  Sugerius  ».  Questo codice  non  figura  affatto  nei  cataloghi  di  S.  Domenico  pubbli- cati dal  p.  M.-H.  Laurent  [Fabio  Vigili  et  les  hibliothèques  de Bologne  au  début  du  xvie  siede  d'après  le  ms.  Barb.  latin  3185, 3  E  nella  lez.  30^  (f.  q^v)  lo  stesso  Montesdoch  aveva  detto:  «Una est  opinio  Ioannis  de  ripa,  cuius  opera  sunt  bononiae  in  conventu  sancti lacobi,  qui  est  fratrum  Eremitarum.  Et  ipse  bene  intellexit  opinionem averrois  in  hoc  loco,  sicut  aliquis  alius....  Omnia  autem  [ab]  Ioanne  de ripa   accepit   Alexander  Achilinus ».   Come   risulta   dall'opera   del  p. Laurent,  citata  più  oltre,  il  commento  al  primo  delle  Sentenze,  cui  qui si  allude,  era  posseduto  non  solo  dalla  biblioteca  del  convento  di  S.  Gia- como (p.  132,  nn.  77  e  79),  ma  altresì  da  quella  di  S.  Domenico  (p.  27, n.  92)  e  da  quella  di  S.  Francesco  (p.  no,  n.  21).  In  questo  scritto (quaest.  2)  non  solo  Giovanni  da  Ripatransone  si  dilunga  in  ben  quattro articoli  sul  tema  qui  accennato,  ma  ci  offre  un'ampia  esposizione  del suo  modo  d' intendere  la  dottrina  averroistica  sulle  intelligenze  sepa- rate e  suir  intelletto  umano,  molto  vicina  e  spesso  identica  a  quella di  Sigieri.  in  «Studi  e  Testi»,  105.  Città  del  Vaticano,  1943).  Dove  è  an- dato a  finire  e  come  è  scomparso  ?  Siccome  esso  fu  visto  dal Silvestri,  che  nel  1516,  proprio  a  Bologna  nel  convento  di S.  Domenico,  aveva  portato  a  termine  il  suo  commento  alla somma  Cantra  gentiles,  e  dal  Montesdoch,  si  può  pensare  che esso  sia  stato  fatto  sparire  come  opera  d'averroista  inviso  ai domenicani,  che  l'averroismo  ritenevano  una  pericolosa  eresia, a  differenza  di  altri,  per  esempio  degh  eremitani  e  dei  carme- litani, assai  meno  ligi  al  tomismo.  Tanto  più  che  nel  1494 Alessandro  Achillini,  come  ricorda  il  Montesdoch,  aveva  fatte sue  le  dottrine  dell'averroista  brabantino,  pur  evitando  di nominarlo,  nella  pubblica  disputa  tenuta  al  capitolo  generale dei  frati  minori,  nella  primavera  avanzata  di  quell'anno  (v. sopra,  pp.  195-98)  4. Quanto  all'esemplare  che  il  Montesdoch  dichiara  d'aver visto  nella  biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  a  Padova, ho  avuto  il  sospetto  che  esso  potesse  essere  una  copia  di  quello di  Bologna,  ordinata  da  Giovanni  Marcanova,  negli  anni  che questi  insegnava  a  Bologna,  e  quindi  passata  al  monastero  di Verdara  insieme  alla  biblioteca  di  lui.  Ma  dallo  studio  di  L.  Si- ghinolfi,  che  della  biblioteca  del  Marcanova  ha  pubblicato r  inventario  (nei  «  Collectanea  variae  doctrinae  »  in  onore di  Leone  S.  Olschki,  Monaco  di  Baviera,  1921,  pp.  187-222), non  risulta.  Questo  per  altro  non  vorrebbe  dir  molto,  perché spesso  r  inventario  è  assai  generico  e  contiene  non  pochi  nu- meri di  opere  anonime,  fra  le  quali  potevano  ben  trovarsi incastrate  quelle  di  Sigieri.  Al  notaio  premeva  più  di  elencare il  numero  dei  volumi  che  non  il  loro  effettivo  contenuto,  con- tentandosi d'un'  ispezione  molto  superficiale,  che spesso rende  difficile  riconoscere  l'esatta  natura  di  opere  appena accennate  con  titoli  piuttosto  vaghi,  anche  senza  contare  i non  pochi  errori  di  trascrizione  commessi  dal  Sighinolfi. Si  potrebbe  pensare,  è  vero,  che  gli  scritti  di  Sigieri  fossero entrati  per  altra  via  che  non  fosse  quella  del  legato  testamen- tario del  Marcanova.  Ma  è  sicuro  che  essi  non  figurano  nel- l'elenco che  il  Tomasini  redasse  dei  manoscritti  di  Verdara nelle  Bibliothecae  Patavinae  maniiscriptae  puhlicae  et  privatae 4  Ma  potrebbe  anche  darsi  che  l'opera  di  Sigieri  restasse  scono- sciuta o  fosse  dimenticata  dal  Vigili,  poiché  il  suo  catalogo  è  lungi dall'essere  completo. 3l8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI (Udine,  1639),  ^  nemmeno  in  quello  manoscritto  della  Marciana (Ital.,  ci.  XI,  323  =  7107);    che  bisogna  rassegnarsi  a  pen- sare che,  già  prima  del  secolo  XVII,  gli  scritti  di  Sigieri  fos- sero ormai  spariti  anche  dalla  biblioteca  dei  Canonici  regolari Lateranensi  di  Padova. In  questa  biblioteca,  ch'era  assai  ricca,  non  mancavano  com- menti ad  Aristotele  e  trattazioni  concepiti,  queste  e  quelli, secondo  lo  spirito  averroistico.  V'era,  fra  l'altro,  l'ampia esposizione  del  servita  Urbano  Averroista  sul  commento d'Averroè  alla  Fisica,  che  il  Marcano  va  aveva  fatto  copiare a  sue  spese  a  Bologna,  nel  1456,  in  due  grossi  volumi  corretti e  postillati  di  sua  mano.  Quando,  nel  1492,  a  Venezia,  l'opera d'  Urbano  fu  data  alle  stampe  su  un  vecchio  codice  bolognese per  volontà  del  priore  generale  dei  Serviti,  Antonio  Alabanti, dietro  suggerimento  di  Nicoletto  Vernia,  questi  s'accorse  e fece  notare  che  il  codice  trovato  dall 'Alabanti  conteneva  la stessa  esposizione  alla  Fisica,  che  nella  copia  di  S.  Giovanni  in Verdara  era  attribuita  al  Marcanova  (cfr.  sopra  pp.  103-104). Ma  l'osservazione  del  Vernia  passò  inosservata;  e  anche  quan- do dal  monastero  padovano  il  codice  passò  alla  Marciana,  nei cataloghi  di  questa  l'opera  d' Urbano  restò  attribuita  al  Marca- nova,  sebbene  nelV explicit  sia  detto  (Lat.,  CI.  VI,  cod.  104, colloc.  2815,  f.  58orv)  che  il  nome  dell'autore  non  si  conosce: «  cuius  nomen  non  habetur  «  5. Ed  alla  stessa  biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara  e  ai  Ca- nonici regolari  Lateranensi,  che  abitavano  quel  monastero, era  particolarmente  affezionato  l'averroista  maestro  Nicoletto Vernia,  il  quale,  gravemente  ammalato,  il  2  novembre  1478, faceva  testamento  a  loro  favore  e,  qualche  anno  dopo,  faceva ad  essi  donazione  dei  suoi  libri  (vedasi  sopra,  p.  115). Per  quella  volta  la  negra  Parca  lo  risparmiò,  lasciandogli ancora  più  d'un  ventennio,  per  il  piacere  dei  suoi  colleghi ed  alunni,  per  le  sue  filosofiche  speculazioni  e  per  diverse marachelle    non    precisamente    filosofiche.    Ma    quando    sentì ^  A  proposito  dell'opera  d'  Urbano,  che  nel  prologo  dell'edizione del  1492  si  dice  cominciata  il  primo  d'aprile  1334  (cfr.  sopra,  p.  103), gioverà  avvertire  che  il  p.  R.  M.  Taucci,  de'  Serviti,  /  maestri  della fac.  teolog.  di  Bologna,  in  «  Studi  stor.  sull'  Ord.  dei  Servi  di  Maria  », I.  1933.  PP-  31-34.  osservando  che  l'unico  maestro  servita  di  nome Urbano  fiorì  nell'ultimo  decennio  del  sec.  XIV  e  nei  primi  quattro decenni  del  sec.  XV,  propone  di  correggere  la  data  1334  in  1434. che  la  morte  stava  ormai  per  ghermirlo,  il  3  agosto  1499  dettava le  sue  ultime  volontà,  in  Vicenza,  lasciando  ancora  tutti  i suoi  libri,  «  omnes  libros  graecos  et  latinos  »,  ai  Canonici  re- golari Lateranensi  del  monastero  di  S.  Bartolomeo  di  quella città,  perché  fossero  posti  nella  loro  biblioteca,  e  chiedeva altresì  d'esser  sepolto  nella  loro  chiesa  (v.  sopra,  pp.  108  e  126). Nella  biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  a  Padova,  par- rebbe dunque  che  il  Nifo,  discepolo  del  Vernia,  avesse  letto le  tre  opere  da  lui  citate  e  attribuite  al  «  grande  averroista  » Sugerius  o  Subgerius,  ov'egli  dichiara  d'avere  attinta  la  dot- trina, un  tempo  da  lui  seguita,  sul  modo  come  l'intelletto possibile,  unico  per  tutti  gli  uomini,  s'unisce  ai  singoli  e  può dirsi  vera  forma  «  dans  esse  homini  »   (v.  sopra,  pp.   208-10). Lo  stesso  Nifo,  nel  commento  alla  Destructio  destructionum, apparso  per  la  stampa  nel  gennaio  1497,  accenna  ad  una  di- scussione avuta  col  conte  della  Mirandola,  mentre  «  in  corbula  » si  recavano  a  Bologna  (I,  8  ;  v.  sotto,  p.  376).  Ritengo  che  questo viaggio  avvenisse  gli  ultimi  giorni  di  maggio  1494.  Per  la  Pente- coste di  quell'anno,  in  occasione  del  capitolo  generale  dei  frati predicatori  tenuto  a  Ferrara,  c'era  stata  una  solenne  disputa pubblica  alla  presenza  del  duca  Ercole  I,  e  il  giovane  dome- nicano Tommaso  de  \'io,  venuto  apposta  da  Padova  ove  inse- gnava Metafisica,  s'era  trovato  di  fronte  Giovanni  Pico  della Mirandola,  il  quale  gli  aveva  mosso  niente  meno  che  cento obiezioni  (cfr.  Mortier,  Histoire  des  Maitres  Généraux  de  l'ordre des  fr.  Precheurs.  t.  V,  Paris,  1911,  p.  143).  Pochi  giorni  dopo, verso  la  fine  del  mese  di  maggio,  anche  i  frati  minori  aduna- rono a  Bologna  il  loro  capitolo  generale  e,  secondo  il  costume, diramarono  inviti  ai  maestri  e  ai  dotti  delle  città  vicine  che avessero  desiderato  partecipare  alla  disputa  pubblica  che  si sarebbe  tenuta,  more  solito,  in  quell'occasione.  A  Bologna sarebbe  sceso  in  lizza  uno  dei  maestri  dello  studio  che  già cominciava  a  far  parlare  di    per  la  sua  serrata  dialettica  e per  certa  nuova  maniera  d' intendere  l'averroismo.  L' invito doveva  solleticare  il  battagliero  conte  della  Mirandola  e  il Nifo,  che  verosimilmente  era  accorso  da  Padova  alla  disputa nella  quale  era  campione  un  suo  collega.  E  penso  che  tutti  e due  insieme  sian  partiti  da  Ferrara  per  trovarsi  alla  disputa che  il  jo  giugno,  seconda  domenica  dopo  Pentecoste,  l'Achil- lini   avrebbe  tenuto   a  S.   Francesco  in   Bologna. E  quale  non  dev'essere  stata  la  sua  sorpresa  nel  sentire  che maestro  Alessandro  Achillini  discettava  intorno  alle  Intelli- genze, da  quella  del  Primo  Motore  che  è  puro  atto,  giù  giù fino  air  intelletto  possibile  umano  che  è  pura  potenza,  e  con grande  risolutezza  e  abilità  dialettica  faceva  sua  la  dottrina averroistica  di  quel  «  Sugerius  »,  del  quale  anch'egli  aveva  letto gli  scritti  che  a  Padova  si  conservavano  in  S. Giovanni  di  Ver- dara,  ove  ritengo  li  avesse  visti  e  letti  anche  il  Signore  della Mirandola.  Questa  risolutezza  del  collega  bolognese  deve  averlo tanto  più  meravigliato,  che  a  Padova  il  decreto  vescovile  del 1489  aveva  assai  limitato  la  libertà  di  giostrare  sull'unità dell'  intelletto  umano,  ed  egli  e  il  Vernia  si  vedevan  costretti a  dissipare  i  sospetti  che  si  nutrivano  su  loro  come  averroisti. Nel  trattato  De  intellectii,  scritto  dal  Nifo  col  proposito  fin troppo  palese  di  rifarsi  una  verginità  antiaverroistica,  in  gara con  maestro  Nicoletto,  si  direbbe  ch'egli  prendesse  di  mira  i Quolibeta  de  inielligentiis,  pur  senza  nominare  l'autore  di  essi, delle  cui  dottrine  svelava  la  fonte  negli  scritti  di  Sigieri,  dal- l'Achillini  taciuta. Il  nome  di  Marcantonio  Zimara,  largamente  diffuso  nel  se- colo XVI,  è  strettamente  legato  alla  storia  dell'aristotelismo, e  in  particolare  di  quella  corrente  che  fu  l'averroismo,  anzi di  uno  speciale  indirizzo  di  questo  in  contrasto  con  altri  indi- rizzi che  si  reclamavano  ugualmente  da  Averroè,  il  Commen- tatore per  eccellenza  d'Aristotele,  l'arabo  Averrois  di  Cordova «  che  il  gran  commento  feo  ».  Invece  il  nome  del  figlio  di  lui, Teofilo,  è  rimasto  presso  che  sconosciuto,  fra  gli  storici  della filosofia  italiana.  Peggio  :  uno  di  questi  che  di  recente  ha  dedi- cato al  pensiero  italiano  del  Rinascimento  tre  grossi  volumi, Giuseppe  Saitta,  essendogli  accaduto  di  metter  la  mano, senza  volerlo,  sul  massiccio  e  diffuso  commento  di  Teofilo Zimara,  «  Marci  Antonii  F.  »,  al  De  anima,  ha  attribuito quest'opera  al  padre,  ignorando  l'esistenza  del  figlio.  E  fin qui  poco  male.  Ma  egli  s'  è  spinto  assai  più  in    ;  che  non  pare si  sia  reso  conto  che,  mentre  Marcantonio  è  un  averroista schietto  e  tutto  d'un  pezzo,  il  figlio  al  contrario  combatte apertamente  l'averroismo  e  propugna  un  platonismo  cristia- neggiato,  che,  divenuto  di  moda  tra  gli  umanisti  dopo  Marsilio Ficino,  si  proponeva  di  conciliare  Aristotele,  liberato  dal- l'esegesi averroistica,  con  Platone,  con  Plotino,  con  Proclo e  con  Simplicio.  E  questo  è  il  male  peggiore  che  poteva  capi- tare a  Teofilo,  che  cioè  il  grosso  volume  dedicato  al  cardinale Guglielmo  Sirleto,  e  dal  quale  s'attendeva  qualche  fama, non  solo  gli  fosse  tolto,  ma  ne  fosse  travisato  il  pensiero,  col ravvicinarlo  all'averroismo.*  Già  pubblicato  negli  «Atti  del  IV  Congresso  Storico  Pugliese». («Archivio  Storico  Pugliese»,  Vili,  1955).  Sono  stati  apportati  alcuni notevoli  ritocchi. Ma  anche  intorno  a  Marcantonio  Zimara  accade  di  leggere nei  libri  di  storia  della  filosofia  grossi  spropositi,  che  mi  pro- pongo di  correggere,  raccogliendo  quello  che  di  certo  si  sa  in- torno a  lui  e  al  figlio  e  intorno  alle  loro  opere.  Ben  inteso, non  si  tratta  di  richiamare  l'attenzione  dello  storico  su  due astri  di  prima  grandezza  o,  come  si  direbbe  oggi,  su  due  fi- gure di  primo  piano  nel  complesso  panorama  del  nostro  Ri- nascimento: si  tratta  soltanto  di  mettere  nella  giusta  luce due  onesti  pensatori  che,  pur  senza  elevarsi  gran  che  sulla coltura  del  loro  tempo,  meritano  di  non  esser  dimenticati, perché  di  quella  coltura  sono  eminentemente  rappresentativi. I.  -  Marcantonio   Zimara. Di  lui  sappiamo  con  certezza  che  il  30  luglio  1501,  a ore  13,  sosteneva  a  Padova  la  discussione  preliminare  al dottorato  in  artibus,  ossia  fece  il  tentativum  nella  chiesa  di S.  Urbano,  ove  da  un  cinquantennio  soleva  riunirsi  il  «  Sacro Collegio  degli  Artisti  e  Medici»;  e  che  una  settimana  dopo,  il venerdì  6  agosto,  a  ore  20,  nell'aula  solita  d'esami  in  Vesco- vato, sostenne  il  privatum  examen  e  conseguì  il  grado  di  dottore in  artibus.  Il  filosofo  e  medico  Pietro  Trapolin  gli  conferì  le insegne  del  grado  a  nome  del  Sacro  Collegio.  Tutto  questo  è perfettamente  documentato  dagli  atti  del  Collegio  stesso (voi.  319),  nell'Archivio  antico  dell'  Università  di  Padova, e  dagli  Ada  graduum  presso  l'Archivio  di  quella  Curia  vescovile (voi.  47,  f.  i62r).  Da  notare:  presenti  come  testimoni  al  giu- ramento e  al  dottorato  erano  Pietro  Pomponazzi  e  Tiberio Bacilieri;  il  primo  ritornato  da  poco  a  Padova,  ove  insegnava filosofia  naturale  come  ordinario  primo  loco,  il  secondo  ve- nuto via  da  Bologna  per  contrasti  coi  colleghi,  e  straordinario della  stessa  materia.  In  questi  atti.  Marcantonio  è  detto  figlio «  quondam  Nicolai  Zimara  de  Sanctopetro  de  Galatina  terre Hydrunti  ». Altra  cosa  certa  è  ch'egli  potè  fare  gli  studi  di  filosofia  a Padova  grazie  all'aiuto  dello  zio  materno  Pietro  Bonuso, prelato  della  chiesa  di  S.  Pietro  in  Galatina,  al  quale  il    ot- tobre 15 13  dedicò  l'edizione  dei  Subtilissima  Hervei  Natalis Britonis  Quodlibeta  undecim  cum  odo  ipsius  profundissimis tradatibus ,  da  lui  curata  per  l'editore  veneziano  Giorgio  Arri- vabene.   Anche  nella  dedica  della  Quaestio  de  primo  cognito (Venezia,  1508)  a  Marcantonio  Contarini,  figlio  di  Carlo,  ac- cenna espressamente  a  questo  zio  :  «  Petro  Bonusio,  pro- presuli, avunculo,  qui  me  semper  eque  ac  filium  carum  habuit fovitque,  cuique  non  minus  quam  parenti  mee  animam  hanc debere  me  libens  profiteor  ». Baldassar  Papadia  i  lo  dice  nato  da  povera  e  oscura  gente intorno  al  1470:  e  cita  in  proposito  un'  Epistola  ms.  di  Fran- cesco M.  Vernaleone,  che  esisteva  a  suo  tempo  presso  i  Signori Caroti.  Sulla  scorta  della  Quaestio  de  regressu  E xcellen fissimi Domini  Marci  Antonii  Zimarea  (nell'Ambrosiana  di  Milano, Cod.  S.  Q.  +.  II.  36,  ff.  232V-236V),  fui  indotto,  nella  prima edizione  di  questo  saggio,  a  supporre  un  primo  soggiorno  pa- dovano, anteriore  al  1490,  perché  l'autore  di  quella  Quaestio accenna  più  volte  a  discussioni  avute  con  Maestro  frate  Fran- cesco da  Nardo,  che  insegnava  Metafisica  a  Padova  «in  via  Tho- mae»,  mentre  frate  Antonio  Trombeta  insegnava  la  stessa  disci- plina «  in  via  Scoti  »,  e  che  morì  il  17  luglio  1489  (cfr.  A.  G. Erotto  e  G.  Zonta,  La  facoltà  teologica  di  Padova.  Padova, 1922,  pp.  195-197):  «Ad  argumenta  praeceptoris  magistri Francisci  de  Nardo,  dico...;  sed  advertatis  quod  praeceptor meus  antequam  ingrederetur  ad  scolas  ad  legendum,  allo- cutus  fui  eum  supra  hoc,  ....et  dixit  mihi  »  (f.  135V). Ma  pili  tardi,  visto  il  codice  della  Nazionale  di  Napoli, Vili.  E.  42,  che  contiene  il  commento  del  Pomponazzi  ai  primi due  libri  del  De  anima  datato  1514,  ma  certamente  dell'anno scolastico  1508-1509,  e  il  commento  dello  stesso  Peretto  al terzo  libro,  del  1504,  m'accorsi  con  mia  sorpresa  che  quella Quaestio,  attribuita  allo  Zimara  nel  codice  Ambrosiano,  non è  affatto  di  questo,  sibbene  del  suo  maestro,  il  mantovano Pietro  Pomponazzi,  che  più  volte  ricorda  d'essere  stato  di- scepolo del  tomista  di  Nardo.  Quindi  cade  l' ipotesi  di  un  sog- giorno dello  Zimara  a  Padova,  prima  di  quello  indicato  dal Papadia,  il  quale  dice  che  lo  zio  materno,  Pietro  Bonuso, «  r  inviò  adulto  a  Padova  ».  Forse  intorno  al  1495  o  poco  dopo. Fra  i  venticinque  e  trent'anni,  egli  poteva  dirsi  veramente adulto.  E  se  a  Padova  giunse  quando  erano  già  morti  Fran- cesco da  Nardo  e  Pietro  Roccabonella,  vi  trovò  tuttavia maestri  provetti  che  godevano  già  di  gran  fama  o  giovani  che erano  sulla  via  di  procurarsela:   il  faceto  Nicoletto   Vernia, I  Memorie  storiche  della  città  di  Galatina,   Napoli    1792,    pp.    57-58. 324        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI averroista  spregiudicato,  finché  il  vescovo  di  Padova,  Pietro Barozzi,  col  decreto  del  6  maggio  1489  non  l'obbligò  a  ravve- dersi, Pietro  Trapolin,  anch'egli  averroista,  ma  ben  più  mo- derato e  guardingo,  gli  scotisti  Antonio  Trombeta  e  Mau- rizio Ibernico,  il  Peretto  Mantovano  che  già  rivelava  una spiccata  tendenza  a  ribellarsi  all'averroismo  di  moda,  il  vi- centino Antonio  Fracanziano,  concorrente  del  Pomponazzi, Tiberio  Bacilieri  che  a  Padova  professava  l'averroismo  di marca  sigieriana  del  quale  a  Bologna  era  acerrimo  propu- gnatore Alessandro  Achillini.  Agostino  Nifo  aveva  lasciato con  gran  disdegno  lo  Studio  patavino  fin  dall'estate  del  1499, non  sappiamo  se  malcontento  dello  stipendio  o  per  dissensi coi  colleghi.  E  il  4  ottobre  dello  stesso  anno  il  Vernia  moriva, e  la  sua  cattedra  venne  appunto  coperta  col  richiamo  del Peretto,  cui  fu  dato  a  concorrente  il  Fracanziano. Di  questi  maestri,  il  Trapolin  fu  primo  promotore  del  dot- torato in  artihus  del  «  Sanpetrinate  »,  come  lo  Zimara  amava chiamarsi;  ma  di  lui  non  ho  trovato  cenno,    in  bene    in male,  nelle  opere  dell'alunno  \  Del  Pomponazzi  invece  parla spesso;  sebbene  il  rispetto  per  il  precettore  non  gì' impedisca di  combatterlo  su  varie  dottrine,  e  di  pigliarlo  di  mira  più volte  in  modo  assai  vivace  nella  Tabula  dihicidationum  in dictis  Aristotelis  et  Averrois,  e  particolarmente  nella  Quaestio de  immortalitate  animae.  Del  Bacilieri  combatte  la  tesi  che identifica  l' intelletto  agente  con  Dio,  che  egli  attribuisce, come  fa  anche  il  Pomponazzi,  ai  «  bononienses  ».  Al  Trom- beta accenna  anche  alla  fine  delle  Annotiones  sul  settimo della  Metafìsica  di  Giovanni  di  Jandun  :  «  in  his  omnibus subtilissime  repraehenditur  Ioannes  a  praeceptore  meo  Ma- gistro  Antonio  Trombeta  nostre  aetatis  in  metaphysicae speculationibus  viro  emeritissimo»;  nei  Theoremata,  iii:  «  An- tonius  Trombeta  excellens  in  scientia  divina  et  preceptor meus  venerandus  »  ;  e  nella  Quaestio  an  gravia  et  levia  etc. del  ms.  Magliabechiano,  XI,  67,  segnalatomi  dall'amico  Eu- genio Garin:  «  quantumcumque,  ut  dicebat  magister  meus Trombeta,  Franciscus  de  Neritono  dixerit  »  (f.  23r).  Che  egli poi  avesse  a  maestro  anche  Maurizio  Ibernico  è  attestato dal  francescano  Girolamo  Girelli  sulla  fine  del  suo  trattato De  speciebus  intelUgibilibus  diretto  contro  lo  Zimara:   «  Ipse 3  Su  di  lui,  V.   sopra,  il  saggio autem  forte  erravit  propter  amorem  magistri  sui,    qui  fuit Mauritius  Hibernicus  ». Non  sappiamo  con  certezza  quand'egli  cominciò  a  insegnare come  lettore  pubblico;  poiché  le  lezioni  In  primuni  Posteriorum del  Cod.  Ambros.  D.  log  inf.,  ff.  i7r-29r,  potrebbero  essere state  tenute  privatamente  o  anche  pubblicamente  in  anni precedenti  al  dottorato  in  filosofia,  come  mi  risulta  essere intervenuto  a  Padova  per  il  mantovano  Benedetto  del  Triaca (1494),  per  Lorenzo  dal  Molino  di  Rovigo  (1499)  e  per  Fran- cesco Trapolin,  figlio  di  Piero  (1501).  In  fine  della  nona  le- zione sul  primo  libro  degli  Analitici  Posteriori  (f.  28r)  accade di  leggere  questo  curioso  invito  in  versi: Scire  volunt  onines,   niercedem  solvere  nemo: hoc  dixit  noster  qui  claret  in  orbe  Zimarra. In  catedra  manens,  dixit  prò  omnibus  una: solvite,  precor,  omnes,  si  vultis  doceri. In  domino  testor,  magnum  sumpsisse  laborem; hac  prò  doctrina,  propriam  vendidisse  casellam. E  in  margine  :  «  Quare  vobis  dico  :  si  librum  Posteriorum vultis  ut  aperiam,  solvite,  praecor,  omnes  ». Ma  non  dovette  passar  molto  dalla  laurea,  che  fu  assunto alla  «  lettura  »  straordinaria  di  filosofia  naturale.  Intanto, per  procacciarsi  da  vivere  e  poter  continuare  gli  studi,  curò per  gli  eredi  di  Ottaviano  Scoto  l'edizione  delle  Quaestiones in  duodecim  II.  Metaphysicae  di  Giovanni  di  Jandum,  arric- chendola di  citazioni  e  note  marginali.  L'  edizione  scotina, licenziata  il    di  febbraio  1505,  oltre  alle  note  marginali, recava  in  appendice  alcune  opere  originali  che  possiamo  con- siderare tra  le  prime  del  nostro,  anteriori  a  questa  data. La  prima  è  una  diffusa  Quaestio  de  principio  individua- tionis  ad  intentionem  Averrois  et  Aristotelis,  di  ben  venti  co- lonne. Essa  è  dedicata  «  Magnifico  ac  excellenti  artium  Doctori domino   Andreae   Mocionigo    Patricio   Veneto  ». Questo  ((  M.cus  et  Doctissimus  vir,  D.  Andreas  Mocenico, natus  M.ci  et  Cl.mi  D.  Leonardi,  filli  olim  Serenissimi  prin- cipis  Venetiarum  D.  Jo.  Mocenici  »,  era  stato  proclamato dottore  in  artihus,  il  sabato  12  agosto  1503,  nella  cattedrale di  Padova,  con  grande  solennità,  come  s'addiceva  al  suo  alto rango,  «  assistentibus  M.cis  et  Cl.mis  dominis  Thoma  Mo- cenigo  praetore,  patruo,  et  Paulo  Trivisano  equite  praefecto 326        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI urbis  [Paduae],  avunculo,  et  aliorum  praestantissimorum doctorum,  scholarium,  civiiim  et  praelatorum  corona,  per Rev.um  D.  Episcopum  [il  bellunese  Pietro  Barozzi],  eius domino  Vicario  recitante  ».  E  ciò  dopo  essere  stato  esaminato «  per  Venerandum  Collegium  artium  et  medicinae  Doctorum  », e  «  post  longas  lucubrationes  et  scholasticos  labores  et  publicas disputationes  ac  varia  virtutis  et  doctrinae  suae  experimenta  ». Primo  promotore  del  dottorato  era  stato  Pietro  Trapolin, che  anche  questa  volta  conferì  al  neo  dottore  le  insegne  del grado.  Nella  dedica  lo  Zimara  parla  del  nodo  d' indissolubile amicizia  che  lo  legava  al  Mocenigo.  In  realtà  erano  stati  am- bedue alunni  del  Trapolin  e  del  Pomponazzi,  insieme  al  «  go- beto  »  Lorenzo  Venier,  ad  Antonio  Surian  e  a  Gaspare  Con- tarini,  «  artium  scholares  »,  i  quali  nel  verbale  del  dottorato del   Mocenigo   figurano   da   testimoni    (v.  sopra,  p.   i68). Nella  stessa  dedica  il  nostro  accenna  al  turbamento  del  suo animo  per  le  notizie  che  gli  giungevano  da  S.  Pietro  in  Gala- tina,  saccheggiata  dal  ritorno  nel  1504  delle  milizie  spa- gnole per  cacciarne  le  francesi:  «  Pluribus  profecto  quam  pro- miseram  magnifìcientiam  vestram  speculationibus  donassem, nisi  iniqua  fortuna  patriam  meam  Sanctum  Petrum  de  Gala- tinis,  hispanis   militibus   populationi   dedisset  ». Alla  Quaestio  de  principio  individuationis  tengon  dietro  le Annotationes  in  Ioannem  Gandavensem  super  Quaestionihus Metaphysicae  eleganter  discussae  in  via  Aristotelis  et  sui  magni commentatoris  Averrois,  anch'esse  dedicate  ad  Andream  Mo- cionigum.  Su  molti  punti  lo  Zimara  aveva  ripreso  con  sem- plici note  marginali  il  modo  come  Giovanni  di  Jandun  espone il  pensiero  d'Averroè.  Ma  su  altri  punti  le  sue  riserve  esige- vano maggiore  spazio  che  non  fosse  quello  d'una  breve  nota; perciò  aggiunse  al  volume  questa  seconda  appendice,  ove espone  con  ben  maggiore  ampiezza  le  ragioni  del  suo  dissenso dall'averroista  di  Jandun,  la  cui  interpretazione  della  dottrina averroistica  aveva  suscitato  aspre  critiche  da  parte  degli averroisti  padovani  e  bolognesi,  tanto  che  Giovanni  Pico  della Mirandola  giudicava  che  egli,  «  ferme  in  omnibus  quaesitis philosophiae,  doctrinam  Averrois  corrupit  omnino  et  depra- vavit  »  {Conclus.  secundum  Avenroem,  3).  Intento  di  queste Annotationes  è  dunque  quello  di  stabilire  qual  è  il  vero  pen- siero del  commentatore  di  Cordova.  Ma  nel  far  ciò,  il  filosofo di  Galatina  si  diffonde  talora  sino  a  riesaminare  a  fondo  l'argomento  discusso  e  a  scrivere  un  vero  e  proprio  trattato, come  fa  a  proposito  della  questione  12^  del  terzo  libro,  in  una disquisizione  di  ben  oltre  26  colonne. Una  terza  appendice  è  formata  dalla  Quaestio  de  triplici causalitate  intelligentiae ,  concernente  la  natura,  la  dipendenza e  la  finalità  delle  intelligenze  celesti  «  secundum  Aristotelis  et sui  Commentatoris  Averrois  sententiam  »,  problema  dibattu- tissimo  dal  secolo  XIII  al  XVI,  intorno  al  quale  lo  Zimara, come  già  Sigieri  di  Brabante,  difende  la  causalità  efficiente di  Dio  contro  quegli  averroisti  che,  come  l'eremitano  Gre- gorio da  Rimini,  la  negavano.  Una  frase  in  principio:  «vidi plures  tempore  meo,  1502,  philosophantes  »,  parrebbe  indi- care che  la  Quaestio  fu  scritta  in  quest'anno. Con  questo  volume,  stampato  nel  1505  e  che  si  diffuse  ra- pidamente in  tutta  Europa,  Marcantonio  Zimara  di  San Pietro  in  Galatina  in  terra  di  Otranto  si  presentava  agli  stu- diosi di  filosofia  come  un  interprete  agguerrito  e  acuto  del  pen- siero d'Aristotele  e  del  suo  grande  e  fedele  commentatore Averroè,  in  un  momento  quando  il  suo  maestro  e  dipoi  avver- sario, il  mantovano  Pietro  Pomponazzi,  non  aveva  ancora stampato  una  sola  riga.  Non  tutti  accettarono,  si  capisce, l'esegesi  dell'Otrantino,  com'era  chiamato  a  Padova,  anzi molti  presero  a  impugnarla,  su  questo  o  quell'argomento; ma  a  nessuno   era  consentito  ignorarla. Nello  stesso  anno  in  cui  curò  l'edizione  della  Metafisica dell'averroista  di  Jandun,  ne  preparò  altresì  quella  delle  Quae- stiones  super  Parvis  Naturalibus,  per  lo  stesso  editore  vene- ziano, dedicandola  a  Bartolomeo  Montagnana,  iunior,  pro- fessore di  medicina  nello  Studio  patavino  e  appartenente  a una  celebre  famiglia  di  medici  padovani.  La  qual  dedica m' indurrebbe  quasi  a  sospettare,  che  egli  si  stesse  preparando al  dottorato  in  medicina,  adulando  con  lodi  sperticate,  come era  d'uso,  un  membro  del  «  Sacro  Collegio  degli  Artisti  e Medici  »,  che  aveva  il  diritto  di  farsi  «  promotore  »  della  «  gra- zia »,  del  «  tentativo  »  e  infine  dell'  «  esame  privato  »,  nonché quello  di  conferire  le  insegne  dottorali  al  candidato. In  appendice  a  questo  volume,  lo  Zimara  stampò  la  Quaestio de  moventis  identitate  et  moti  ad  intentionem  peripateticorum subtiliter  et  resolute  Patavii  discussa,  e  la  dedicò  al  giovane «  Giovanni  Cristoforo  Capitani,  figlio  del  chiarissimo  medico Pietro»,  per  riconoscenza  dell'appoggio  che  ne  aveva  avuto: 328        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI «  cui  denique  quicquid  dignitatis  in  Patavino  gymnasio  nuper assecutus  sum,   uni   acceptum   refero  ». Dello  stesso  periodo,  perché  ricordata  nelle  Solutiones  del 1508  {Super  III  de  anima,  1^  Contr.  sul  comm.  5)  è  anche  la Quaestio  qua  species  intelligihiles  ad  mentem  Averrois  defen- duntur  ad  Magnificum  patritium  Venetum  Anfonium  Surianum, pubblicata  s.  1.  da  Francesco  Storcila  il  12  gennaio  1554,  e incorporata  nel  Tractatus  adversus  quaestionem  M.  Ant.  Zi- marae  de  speciehus  intelligibilihus  (Venezia,  1561)  del  fran- cescano Girolamo  Girelli  che  era  stato  alunno  del  Pompo- nazzi.  Lo  Zimara  prende  risolutamente  posizione  contro l'Achillini,  il  quale  aveva  negato  le  famose  «  specie  intelli- gibili »,  d'accordo  in  ciò  col  carmelitano  inglese  Giovanni  di Baconthorpe  e  con  Enrico  di  Gand.  Dell' Achillini  dice  anzi quel  che  Averroè  {De  caelo,  III  comm.  67)  aveva  detto  d'Avi- cenna, «  quod  videlicet  parvitas  exercitationis  ipsius  viri in  naturalibus  et  bona  confidentia  in  proprio  ingenio  deduxit ipsum  ad  maximos  errores  ».  L'argomento  era  stato  discusso a  Padova  nel  corso  del  1505  dal  Pomponazzi,  il  quale  non si  mostrò  meno  aspro  contro  l'Achillini;  e  proprio  Antonio Surian  ce  ne  ha  tramandata  la  quaestio  nel  codice  ms.  della Bibl.  Naz.  di  Napoh,  Vili.  D.  81  (ff.  83r-84r).  Un'altra  e pili  ampia  riportazione  si  trova  in  altro  ms.  della  stessa  Bi- blioteca, Vili.   E.   42,   ft.  I95r-20ir. Dalle controversie  tra  i  vari  interpreti  d'Averroè,  trassero vantaggio  gli  avversari  dell'averroismo,  per  insinuare  che  il «  gran  commento  »  formicolava  di  contradizioni,  e  che  neppure Aristotele  ne  era  immune.  Sebbene  il  Pomponazzi  non  ri- fuggisse dal  dirsi  talora  «  averroista  »  o  «  commentista  »,  nel senso  che  egli,  seguendo  una  consuetudine  di  Padova  e  di Bologna,  leggeva  il  testo  d'Aristotele  e  il  commento  d'Averroè che  lo  accompagnava,  e  sulla  parafrasi  e  discussione  dell'uno e  dell'altro  conduceva  la  lezione,  non  di  meno,  con  tutto  il rispetto  per  l'uno  e  per  l'altro,  non  esitava  a  mettere  in  evi- denza le  incertezze  e  le  contradizioni  del  commentatore,  al quale  non  risparmiava  le  sue  critiche  e  i  suoi  sarcasmi.  Di- scepolo del  Peretto  mantovano,  lo  Zimara,  che  per  diversi anni,  dal  1500  al  1505,  ne  aveva  seguito  le  lezioni,  si  propose di  scolpare  tanto  Averroè  quanto  Aristotele  dalle  contradi- zioni ad  essi  attribuite  e  di  mostrare  che  esse  potevano,  con qualche  sottile  distinzione,  risolversi  nel  modo  più  plausibile. Nacquero  così,  fra  il  1505  e  il  1508  le  Solutiones  contra- dictionum  in  dictis  Averrois  che  nella  prima  redazione  uscirono, precedute  dalla  Quaestio  de  primo  cognito,  a  Venezia,  il  1° luglio  1508,  con  dedica  al  patrizio  veneziano,  «  magnifico Marcoantonio  Contareno  magnifici  domini  Caroli  filio  »,  al quale  il  Pomponazzi  dedicherà  nel  15 16  la  prima  stampa  del De  immortalitate  animae,  e  che  nel  1508  era  ancora  un  «  gio- vane »,  sebbene  versatissimo  negli  studi  della  filosofia  aristo- telica. Pochi  giorni  prima  gh  aveva  dedicato  i  trattati  logici di  Aristotele  col  commento  d'Averroè,  da  lui  curati  per  gli eredi  di  Ottaviano  Scoto   (Venezia,   1508,  20  giugno). La  Quaestio  de  primo  cognito  si  riallaccia  alle  lezioni  dello Zimara  sul  prologo  della  Fisica  aristotehca  (I,  t.  e.  2-5,  e.  i, i84a  16  sgg.).  L'autore  di  essa  discute  ampiamente  e  critica le  interpretazioni  che  del  testo  aristotelico  avevano  dato  il Burleo  e  Gregorio  da  Rimini,  dalla  parte  dei  «  nominales  », poi  quelle  di  Duns  Scoto  e  di  S.  Tommaso,  e  infine  oppone  ad esse  quella  che  giudica  più  conforme  al  commento  d'Averroè. Le  Solutiones  sono  opera  composta  a  tavolino,  «  succisivis horis  ac  tumultuarie  ».  Ma  che  lo  Zimara  prendesse  di  mira in  particolare  il  Peretto,  del  quale  si  tace  il  nome,  è  messo  in evidenza  dalla  lettera,  stampata  al  f.  46r  del  volume,  coli'  in- testazione «  Sylvius  Laurentius  a  portu  caballensis  clarissimo artium  et  medicine  doctori  Marco  Antonio  sanctipetrinati  et hidruntino,  ere  publico  in  Gymnasio  patavino  philosophiam profitenti  »,  la  quale  porta  la  data  «  ex  patavio,  idibus  Junij a  Natali  cristiano  M.  D.  VII  ».  Questo  ammiratore  e  forse discepolo  dell'otrantino  ricorda  appunto,  che  «  Petrus  man- tuanus  noster  philosophantium  nunc  primi  fere  nominis,  pu- blico auditorio  profiteri  solet,  hoc  Averroi  esse  genuinum,  ut, cum  implicita  omnibus  viribus  nervisque  explicare  contendit et  adnititur,  maxime  implicat,  eoque  fertur,  diffidente  con- scientia,  quo  denique  ipsum  impetus  errabunde  opinionis impellit  ».  Del  che  egli  pensa  fossero  da  incolpare  gli  ama- nuensi e  gli  stampatori  del  commento  averroistico,  per  incuria dei  quali  circolava  nelle  scuole  pieno   di  errori. Ma  non  soltanto  al  Pomponazzi  intendeva  opporsi  lo  Zi- mara, sì  anche  a  Giovanni  di  Jandun,  a  Gregorio  da  Rimini, al  Burleo,  ad  Alessandro  Achillini  e  al  Bacilieri,  che,  a  suo avviso,  con  errate  interpretazioni,  facevano  cadere  in  con- tradizione il  commentatore  arabo. 330        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI Il  Pomponazzi,  che  non  condivideva  con  lo  Zimara  e  l'Achil- lini  la  fiducia  nell'  infallibilità  d'Averroè,  scrollava  le  spalle ed  osava  negare  la  stessa  fiducia  perfino  ad  Aristotele,  pur ritenuto  da  Dante  «  maestro  e  duca  de  l'umana  ragione  », e  dagli  averroisti  «  regula  in  natura  et  exemplar  quod  natura invenit  ad  demonstrandum  ultimam  perfectionem  humanam  ». Le  contradizioni  di  Averroè  avevano  il  loro  fondamento  in non  poche  contradizioni  del  testo  aristotelico,  che  si  facevano sempre  più  palesi  con  le  nuove  traduzioni  del  periodo  uma- nistico. Perciò  intorno  al  1530,  lo  Zimara  riprese  in  mano  il libretto,  e  ne  preparò  un'edizione  più  completa,  con  l'aggiunta di  nuove  contradizioni  ch'egli  s'adopra  a  risolvere,  associando nel  titolo  alle  contradizioni  del  Commentatore  quelle  del  Filo- sofo: Solutiones  contradictionum  in  dictis  Aristotelis  et  Averrois. Dalla  lettera  di  Silvio  Lorenzo  da  Porto  appare  che  nel- l'anno scolastico  1506-1507  Marcantonio  Zimara,  dottore  non solo  in  artibus  ma  anche  in  medicina  (non  sono  però  in  grado di  dire  in  che  anno  egli  sostenesse  gli  esami  in  questa  materia), professava  pubblicamente  filosofia  naturale  nello  studio  pa- tavino, occupando  evidentemente  una  delle  due  «  letture  » straordinarie  col  modico  stipendio  di  47  ducati  d'argento, secondo  il  Facciolati  [Fasti  gymn.  patav.,  p.  II,  274),  ed  è naturale  che  aspirasse  ad  esser  promosso  alla  «  lettura  »  or- dinaria. Ora  a  metà  settembre  1508  era  rimasta  vacante  la «  lettura  »  ordinaria  «  secundo  loco  »  che  per  due  anni  aveva tenuto  Alessandro  Achillini,  richiamato  sulla  sua  cattedra  a Bologna  (v.  sopra,  p.  259).  Se  la  cattedra  vacante  fosse  stata  as- segnata al  «  Sanpetrinate  »,  questi  sarebbe  venuto  ad  essere  il «concorrente»  diretto,  cioè  l'antagonista,  del  Pomponazzi,  che  oc- cupava la  cattedra  ordinaria  «primo  loco»,  e  da  due  anni,  seb- bene non  fosse  cittadino  padovano,  era  stato  aggregato  al «  Sacro  Collegio  degli  Artisti  e  Medici  »  della  città.  Ma  per riuscire  ad  avere  il  posto  ambito  lo  Zimara  avrebbe  dovuto vincere  le  ostilità  che  si  era  creato  colle  polemiche  ingaggiate contro  il  Peretto,  il  quale  godeva  di  grande  stima  nello  Studio patavino,  e  contro  l'Achillini,  del  quale  era  ben  vivo  il  ricordo. Provvedere  a  coprire  la  cattedra  ordinaria  rimasta  vacante era  compito  del  Senato  veneziano;  e  gli  aspiranti  s'eran  dati da  fare  per  procacciarsi  autorevoli  appoggi  fra  i  membri  di questo,  che  ne  discusse  nella  riunione  del  21  ottobre  1508. Le  proposte  fatte  furon  tre  o  quattro.  Marin  Zorzi  propose Marco  Antonio  della  Torre,  «  fiol  dil  quondam  missier  maistro Hironimo  da  Verona,  qual  à  leto  e  leze  in  philosophia.  Misier Alvise  Pixani,  savio  a  terra  ferma,  messe  di  condur  missier Marco  da  Otranto,  che  etiam  leze  in  philosophia  extraordi- narie ».  Zorzi  Emo  propose  «  il  Sexa  che  è  a  Napoli,  o  ver  il Toseto  »,  cioè  Ludovico  Carensio,  detto  il  Toseto,  padovano, ma  che  da  diversi  anni  insegnava  filosofia  a  Ferrara,  e  che nel  15 17  ritornerà  in  patria  a  ricoprire  una  delle  cattedre  di medicina. È  interessante  vedere  che  fra  gli  aspiranti  era  anche  «  il Sexa  »,  cioè  Agostino  Nifo  da  Sessa,  il  quale  aveva  già  coperto la  cattedra  ordinaria  di  filosofia  «  primo  loco  »  a  Padova, fino  al  1499,  e  n'era  partito,  a  quanto  pare,  per  litigi  coi  col- leghi. Ora  egli  non  cessava  di  brigare  per  tornarvi,  ma  preten- deva uno  stipendio  che  il  senato  veneziano  non  era  disposto a  pagargli.  Leonardo  Anselmi,  console  di  Venezia  a  Napoli, informava  di    a  poco,  che  il  Sexa  «  voj  vegnir  a  Padova  a lezer  im  philosophia.  El  qual  dice  voi  ducati  500  e  non  mancho, perché  dice  è  il  primo  homo  dil  mondo,  e  a  Napoli  leze  et medica;    che  non  havendo  ditti  danari,  non  voi  vegnir» (M.  Sanudo,  VII,  col.  678).  Ma  appena  qualche  giorno  dopo  si dichiarava  disposto  a  venire  per  400  ducati  all'anno,  con ferma  di  tre  anni.  Queste  manovre  del  Nifo  dovettero  esser note  al  Pomponazzi,  che  nel  già  citato  commento  al  De  anima del  1508-9    prese    ad  attaccarlo  con  rinnovata  virulenza. Dopo  Zorzi  Emo  parlò  Polo  Pisani.  Vista  la  difficoltà  di addivenire  a  un  accordo  e  di  far  prevalere  il  suo  candidato, Alvise  Pisani  ripiegò  sulla  proposta  «  de  indusiar  »,  e  così «  fu  presa  la  indusia,  di  8  ballote  »  (M.  Sanudo,  Diarii,  VII, col.  653),  e  lo  Zimara  dovette  rassegnarsi  a  rimanere  alla «  lettura  »   straordinaria. Né  mi  consta  che  egli  fosse  promosso  nel  quinquennio immediatamente  successivo.  La  guerra  contro  la  lega  di  Cam- bra! ebbe  gravi  conseguenze  per  lo  studio  padovano.  Il  6 giugno  1509,  le  truppe  imperiali  al  comando  di  Leonardo Trissino  entrarono  in  città,  e  lo  stesso  giornopare venisse  a morte  Pietro  Trapolin.  Per  il  momento,  cioè  per  qualche  mese, il  turbamento  dell'ordine  pubblico  non  fu  grande;  si  tennero ancora  esami,  e  il  Pomponazzi,  per  esempio,  figura  ancora come   promotore   in   un   dottorato   del   2   luglio. Il  peggio  venne  dopo,  quando  i  veneziani  il  18  luglio  rioc- 332         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI cuparono  il  castello,  e  cominciarono  i  saccheggi  e  le  vendette contro  coloro  che  di  buon  animo  o  contro  voglia  s'eran  com- promessi coi  «  tedeschi  ».  Una  delle  famiglie  maggiormente colpite  fu  quella  dei  Trapolin.  Alberto  e  Roberto,  fratelli  del filosofo,  furon  presi  prigionieri  nella  riconquista  del  castello. Ma  già  due  giorni  prima  le  loro  case  e  quella  di  un  altro  loro fratello,  Nicolò,  furono  saccheggiate.  Ed  anche  la  casa  di  Pietro, che  era  nella  contrada  di  san  Leonardo,  non  lontano  dai  Car- mini, non  fu  risparmiata,  i  suoi  scritti  dispersi,  e  il  figlio  Giulio il  14  agosto  fatto  prigioniero  e  spedito  a  Venezia  con  altri  compa- gni (v.  sopra,  p.  172).  Il  governo  veneziano  fu  abbastanza  cle- mente con  molti  di  coloro  che  s'erano  sottomessi  al  dominio  im- periale su  Padova;  ma  fu  implacabile  con  quattro  dei  maggiori responsabili  di  favoreggiamento,  che  il  sabato  i^  dicembre  1509 mandò  al  capestro:  «Primo  era  Alberto  Trapolin,  fo  fradello di  misser  Pietro  dotor  excellentissimo,  el  qual  Alberto  era di  XVI  al  governo  di  Padoa,  homo  di  gran  inzegno,  et  anche suo  avo  fo  apichato  a  Padoa  a  tempo  di  la  novità  di  misier Marsilio  di  Carrara  dil  1437.  Il  secondo  era  Lodovico  Conte.... Il  terzo  Bertuzi  Bagaroto,  dotor,  qual  lezeva  puhlice  in  iure canonico....  Il  quarto,  Jacomo  da  Lion,  dotor,  el  quale  fé'  la oration  a  l' imperator,  quando  se  deteno  i  padoani,  ne  la  qual dice  gran  mal  de'  veneziani»  (M.  Sanudo,  IX,  col.  358;  v. sopra,  p.  174). Fu  in  questo  periodo  di  rappresaglie  e  specialmente  quando alla  fine  di  settembre  le  truppe  imperiali  tornarono  ad  as- sediare la  città,  che  molti  cittadini  si  allontanarono  da  Padova e  insieme  ad  essi  molti  maestri  dello  Studio.  Fra  questi  cer- tamente anche  il  Pomponazzi,  il  quale  sulla  sua  cattedra  di Padova  non  fece  più  ritorno. E  Marcantonio  Zimara  ?  Si  dice  da  alcuni  che  lo  Studio rimanesse  chiuso  per  otto  anni,  fino  al  1517.  Ciò  non  è  del tutto  esatto.  Dagli  Ada  graduum  presso  l'Archivio  esistente della  Curia  Vescovile  di  Padova  (voi.  49),  risulta,  per esempio,  in  modo  indubbio,  che  1'  8  maggio  1510  Matteo Binno  de  Tomasis,  figlio  del  chirurgo  Mastro  Giacomo,  fece il  dottorato  in  artihus  (f.  4v),  che  1'  11  febbraio  1511  fece  il dottorato  in  iure  civili  Marco  Mantova  (f.  45),  che  il  2  dicembre dello  stesso  anno  Girolamo  Oldoini  fece  anch'egli  il  dottorato in  artihus  (f.  84V),  e  che  il  13  ottobre  1512  s'addottorò  in  ar- tihus il  magnifico  Francesco  del  fu  Gabriele  Morosini (f.  I2ir). Sappiamo  ugualmente  di  altri  conferimenti  di  laurea  sia in  arti  e  medicina,  come  in  diritto  e  in  teologia.  Lo  Studio  pa- tavino, dunque,  anche  negli  anni  successivi  al  1509  e  ai  fatti accennati,  continuò  a  funzionare;  ma  evidentemente  in  modo ridotto,  e  meno  intensa  fu  la  sua  vita.  Ciò  si  constata  in  modo palpabile  esaminando  gli  stessi  Ada  gradimm,  e  più  ancora gli  Atti  del  «  Sacro  Collegio  degli  Artisti  e  Medici  »  (Arch. deirUniv.  di  Padova,  presso  quel  Rettorato,  fase.  321),  ove tra  il  1509  e  il  1512  è  un  salto.  Di  Marcantonio  Zimara  nessuna traccia  in  questi  Atti,  per  questi  anni,  se  ho  ben  veduto. Parrebbe,  dunque,  che  anche  lui  se  ne  fosse  andato.  Dove  ? L'edizione  dei  Quodliheta  dell'Hervaeus  che  uscì  a  Venezia, «per  Georgium  Arrivabenum,  1513,  die  primo  octobris  »,  ed è  curata  e  postillata  dallo  Zimara,  potrebbe  far  pensare  che questi  nel  1512-1513  fosse  a  Venezia.  Ma  la  lettera  con  la quale  dedica  la  sua  fatica  allo  zio  Pietro  Bonuso  mi  induce  a dubitarne.  Dice  infatti  in  essa  che  già  da  otto  anni  è  lontano dalla  patria.  E  aggiunge:  «Ego  enim,  postquam  Patavium, bonarum  artium  fontem,  applicui,  ita  impensam  die  noctuque philosophie  studio  operam  navavi,  ut  hinc  recesserim  nun- quam....  Anno  tamen  elapso  sarcinulas  collegeram,  accin- xeram  me  itineri  ad  te  advolaturus,  quando,  preter  spem, accademia  nostra  ad  dignissimam  me  philosophie  lectionem totis  cervicibus  succollavit  ».  Ora  se  egli  si  laureò  in  artibus nell'agosto  1501,  bisognerà  pensare  che  a  Padova  fosse  andato almeno  un  quattro  anni  prima,  cioè  al  più  tardi  nel  1497. La  lettera  dovrebbe  quindi  essere  del  1506.  E  i  conti  infatti tornano:  «anno  elapso»,  cioè  nel  1505  egli  dovette  essere chiamato,  «  preter  spem  »,  alla  «  lettura  »  straordinaria  di filosofia  naturale.  Sebbene  dunque  l'edizione  dei  Qiiodlibeta dell'  Hervaeus  uscisse  alla  luce  il  primo  ottobre  1513,  essa era  già  stata  preparata  e  consegnata  all'editore  veneziano fin  dal  1506. Alla  guerra  contro  la  lega  di  Cambrai  tenne  dietro  quella della  lega  sacra,  e  la  Lombardia,  la  Romagna  e  1'  Emilia  furon corse  da  milizie  francesi,  spagnole  e  papali.  Lasciata  Padova, ove  aveva  nutrito  la  speranza  di  farsi  strada  e  di  accrescere lo  splendore  della  sua  famiglia,  non  fu  facile  al  povero  filosofo trovarsi  un'altra  cattedra  a  Ferrara  o  a  Bologna,  com'era stato  facile  al  Peretto  mantovano.  Perciò  egli  dovette  deci- dersi a  ritornare  fra  i  suoi  a  S.  Pietro  in  Galatina,  ove  effetti- 334        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI vamente  nel  15 14  lo  troviamo  sindaco  e  già  ammogliato  con una  tal  Porzia,  secondo  le  notizie  raccolte  da  Alessandro Tomaso  Arcudi  4  e  da  Baldassar  Papadia  5,  i  quali  prendono queste  notizie  dalla  Cronaca  di  S.  Pietro  in  Galatina  lasciata manoscritta  dal  medico  filosofo  e  letterato  Silvio  Arcudi, morto  a  72  anni  nel  1646. Prima  di  rimetter  piede  nella  terra  natale,  o  appena  vi  fu arrivato,  egli  dovette  pensare  a  propiziarsi  Giovanni  Ca- strioto,  duca  di  Ferrandina,  sotto  la  cui  giurisdizione,  per disposizione  del  governo  spagnolo,  si  trovava  S.  Pietro  in Galatina.  A  quest'uopo  mise  insieme  il  curioso  trattatello  dei Prohlemata  e  lo  dedicò  al  principe.  Non  mi  consta  che  lo  fa- cesse stampare;  io  ne  conosco  solo  l'edizione  che  ne  fu  fatta a  Venezia  nel  1536  ed  altre  posteriori.  Nella  dedica  appunto al  duca  di  Ferrandina  egli  dice  di  ammirare  in  lui  sopratutto ((  charitatem  qua  literatos  amplecteris,  hac  tempestate  qua  oh bellorum  importunitates  pax  una  cum  litteris  inferire  visa  est  ». Siamo  dunque  negli  anni  che  tengon  dietro  al  1509.  E  poiché Giovanni  Castrioto  morì  il  2  agosto  1514,  il  libretto  è  certa- mente  anteriore   a   questa   data. Sindaco  della  piccola  sua  città  natale.  Marcantonio  si  tro- vava a  rappresentare  quella  comunità  nella  cauta  ma  energica difesa  delle  istituzioni  e  dei  privilegi  di  essa  contro  le  soper- chierie  di  Ferdinando  Castrioto,  successo  a  Giovanni.  In- tanto, un  anno  dopo,  nel  15 15,  gli  nacque  il  figlio  Teofilo, del  quale  diremo  fra  poco.  L' Arcudi  (p.  186)  parla  anche  d'un altro  figlio  avuto  prima,  Nicolò,  il  quale  fu  dottore  in  leggi a  Roma,  ove  testò  nel  1569.  Altri  due  figli  dovettero  nascergli più  tardi.  Ma  le  cure  familiari  e  quelle  pubbliche  non  lo  di- stolsero del  tutto  dagli  studi.  Fra  il  1517  e  il  1519,  uscirono  a Venezia,  curate  da  lui,  per  gli  eredi  di  Ottaviano  Scoto,  le seguenti  opere  di  Alberto  Magno  «  in  via  peripathetica  philo- sophi  theologique  profundissimi  »  :  Naturalia  ac  supernatu- ralia  (cioè  la  Fisica,  il  De  generatione  et  corrupfione,  il  De metheoris,  il  De  mineralihus,  il  De  anima,  il  De  intellectu  et intelligibili  e  la  Metafisica),  accompagnati  da  molte  annota- zioni marginali;  i  Parva  Naturalia  e  gli  Opuscula  (nella  dedica a  Marcantonio  Venier  del  fu  Cristoforo,  lo  Zimara  parrebbe 4  Galatina  letterata,   Genova    1709,   pp.   171-S1. 5  Op..  cit..  pp.   57-58. MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  335 dichiarare  che  le  sue  «  castigationes  et  lucubrationes  »  si  li- mitano al  De  causis,  ma  verosimilmente  sue  sono  anche  quelle apposte  al  De  natura  locorum);  e  le  Due  partes  Summe....  de quatuor  coèvis.  Nell'edizione  di  quest'ultima  opera,  apparsa  il 30  settembre  1519,  lo  Zimara  è  detto  «  philosophiam  Padue publice  profitentem  »,  espressione  che  forse  va  intesa  così «  dum  philosophiam  Padue  publice  profitebatur  ».  Poiché sembra  poco  probabile  che  in  quegli  anni  egli  fosse  tornato a  Padova  6. Dov'era,  dunque  ?  Quasi  certamente  a  Salerno,  chiamatovi da  quel  principe  Ferdinando  Sanseverino  che  amava  circon- darsi di  uomini  dotti  e  dava  impulso  al  rifiorire  degli  studi nella  sua  città.  Infatti  nella  dedica  allo  stesso  Sanseverino dei  Theoremata  compiuti  e  pubblicati  a  Napoli  nei  primi  mesi del  1523,  egli  dice:  «  Animadverti  hoc  ipsum  superioribus annis....  dum  philosophiam  Theoricamque  medicinae  publice in  tua  Salerno  profiterer  ». A  Salerno  aveva  insegnato  anche  il  Nifo,  dopo  ch'ebbe lasciato  Padova.  Lo  Zimara  accenna  ad  un  insegnamento  di più  anni  in  questa  città,  e  ci  fa  sapere  che,  oltre  alla  filosofìa, vi  avea  professato  anche  la  medicina  teorica.  Tuttavia  il  suo animo  era  rivolto  a  Padova. Dopo  i  fatti  del  1509,  dei  quali  abbiamo  fatto  cenno,  lo studio  padovano  condusse  per  più  anni  una  vita  stentata. Gli  scolari  eran  molto  diminuiti,  non  essendo attratti  da maestri  di  grande  rinomanza.  La  città,  che  dall'affluenza  della popolazione  scolastica  traeva  lustro  e  vantaggio,  reclamava  a gran  voce  che  si  provvedesse  sollecitamente  al  bisogno,  per  il rifiorire  dell'università,  perché  «  sia  ritorna  il  Studio  come  era prima»  (M.  Sanudo,  XXIII,  527,  25  gennaio  1517).  E  agli oratori  padovani  che  questo  chiedevano  con  insistenza  fu risposto  dal  Principe  (?'&.,  562,  7  febbraio  1517):  «eramo contenti,  e  si  pratichi  di  condur  li  dotori,  perché  nostra  inten- 6  Però  riferisce  M.  Sanudo  (XXVII,  col.  575,  23  agosto  1519), che  Marcantonio  Loredan,  capitanio  a  Padova,  venuto  in  Collegio  a Venezia,  informò  come  nello  studio  di  Padova  erano  a  quel  momento «  22  dotori  che  leze  artisti  e  26  giuristi,  e  portò  una  letera  per  certo dotor  verìa  a  lezer.  Scrive  ha  fato  perteghe  21  mila  800  ».  Se  per  av- ventura questo  «  dotor  »  fosse  lo  Zimara,  bisognerebbe  pensare  che  egli si  fosse  sobbarcato  nel  15 19  al  lungo  viaggio  a  Venezia,  sia  per  sorve- gliare la  stampa  di  Alberto  Magno,  sia  per  condurre  in  porto  le  trattative per  la  «  lettura  »  a  Padova. 336        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI zion  è  di  ritornar  il  Studio  »  ;  la  quale  assicurazione  fu  rinno- vata il  21  dello  stesso  mese  {Ih.,  596).  Anzi,  narra  il  Sanudo (XXIV,  214)  che  il  7  maggio  1517,  «  dovendosi  comenzar  il Studio  a  Padoa,  fo  eletti  tre  doctori,  quali  dovessero  praticar condur  li  doctori  a  lezer  che  fusseno  excelienti;  i  quali  doctori sono  questi:  sier  Zorzi  Pixani,  sier  Marin  Zorzi,  et  sier  Antonio Zustinian  »  (cfr.  Ib.,  617,  29  agosto  1517,  e  XXVII,  50  e  55, 14  marzo  1519). Il  15  settembre  15 17,  furon  «  ballotati  »  in  Collegio  i  «  rotuli  » dei  maestri  chiamati  a  leggere  sia  nella  facoltà  di  legge  come in  quella  delle  arti  e  medicina  (XXIV,  672).  Pareva  ormai che  le  cose  si  mettessero  bene.  Per  la  filosofia  «  al  secondo loco  »,  era  stato  chiamato  da  Ferrara  Nicolò  Prisciano  ed  era stato  promosso  il  veronese  Girolamo  Bagolino.  Ma  il  duca estense  sollecitava  nel  marzo  del  1520  il  Prisciano  a  tornare «  a  lezer  a  Ferrara  »  (XXVIII,  333,  9  marzo  1520)  ;  se  non che  il  maestro  di    a  poco  morì,  e  fu  necessario  provvedere alla  sua  successione. Il  14  settembre  1520,  riferisce  il  Sanudo,  «  fo  scrito  a  Roma a  rOrator  nostro,  come  de    si  ritrova  el  Spagnolo  [cioè  Montesdoch],  qual  leze  l'ordinaria  di  philosophia,  il qual  alias  desiderava  venir  a  lezer  a  Padoa  al  primo  loco: per  tanto,  havendo  optima  fama,  vedi  si  'il  persevera  in  voler venir,  et  concludi  con  più  avantazo  el  poi  etc.  «  (XXIX,  181). Questo  maestro,  ancor  poco  conosciuto,  era  stato  collega di  Alessandro  Achillini  e  più  tardi  del  Pomponazzi  a  Bologna, ma  aveva  dovuto  abbandonare  quella  città  nell'estate  del  1515. Non  sapevamo  dove  fosse  andato.  Il  Sanudo  ora  ci  fa  sapere che  era  andato  lettore  di  filosofia  a  Roma,  non  essendo  stato accolto  a  Padova. Mentre  si  cercava  di  avviar  pratiche  per  condurre  lo  Spa- gnolo, pare  si  fosse  pensato  anche  al  «  Mantoan  »,  cioè  al  Pom- ponazzi che  era  a  Bologna;  e  il  consigliere  Marco  Minio  sug- geriva il  nome  di  Branda  Porro,  che  leggeva  filosofia  a  Pavia, ov'era  stato  alunno  di  Tiberio  Bacilieri  (M.  Sanudo,  XXIX, 268,  3  ottobre  1520).  Ma  li  studenti,  nell'incertezza  di  avere valenti  maestri,  abbandonavano  Padova  e  anche  quelli  che s'apparecchiavano  al  dottorato  andavano  «  a  conventar  al- trove »,  in  barba  alla  legge,  quand'erano  sudditi  della  Sere- nissima [Ih.,  p.  313,  22  ottobre  1520).  Sicché  i  rettori  di  Pa- dova,   Marin   Zorzi,    podestà,    e    Alvise   Contarini,   capitanio, MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  337 il  3  novembre  «  scriveno  il  Studio  va  in  mina,  per  non  vi  esser doctori  che  lezano,  e  li  scolari  forestieri  vanno  via,  e  li  nostri subditi,  non  stimando  le  leze,  non  voleno  più  star,  non  avendo doctori  da  i  quali  possano  udir....  »  {Ib.,  348). L'allarme  indusse  i  Savi  del  Consiglio  e  Terra  ferma  a  pren- dere una  decisione  sulla  proposta  «  di  condurre  a  lezer  nil Studio  di  Padoa....  domino  Zuan  Montesdocha,  Ispano,  leze  a Roma,  a  la  lettura  dil  primo  locho  di  Philosophia,  cum  sa- lario fiorini  600  a  l'anno....  Et  domino  Marco  Antonio  Ziniara, San  Petrinas,  di  terra  di  Otranto,  leze  a  Salerno  a  la  ordinaria di  teorica  overo  praticha  di  Medicina,  con  salario  fiorini  300 a  l'anno  »   [Ib.). Presa  la  decisione,  le  trattative  col  Montesdoch  furon  portate sollecitamente  a  termine  (76.)  ;  quelle  invece  con  lo  Zimara andaron  per  le  lunghe.  Con  l'andata  a  Padova  dello  spagnolo, che  godeva  di  meritata  fama,  lo  Studio  parve  rifiorire.  Il  che fece  piacere  al  governo  veneziano,  che,  il  13  maggio  1521, s'affrettò  ad  informare  i  due  rettori  di  Padova  «  come  li  Rifor- matori dil  Studio  [che  erano  allora  Zorzi  Pisani,  Francesco Bragadin,  Antonio  Justinian,  par  habino  auto  aviso  domino Marco  di  Otranto  è  per  venir,  però  a  visi  li  scolari»  [Ib., XXX,    181). Se  non  che,  a  questo  punto,  debbo  segnalare  un'  indicazione che  trovo  nel  già  citato  cod.  Ambros.  S.  Q.  -(-.  II.  36,  e  che presenta  qualche  difficoltà  per  accordarsi  con  le  indicazioni precedenti.  In  questo  codice,  prima  della  Quaestio  de  regressu, attribuita  allo  Zimara,  ma  che  invece  è  del  Pomponazzi, come  ho  detto,  v'  è  anche  (f.  229r)  una  Quaestio  de  immorta- litate  animae  domini  Marci  Antonii  Zimarae  Venetiis  discussa corani  Duce  et  Senatoribus,  la  quale  è  cosa  diversa  dalla  Quaestio sullo  stesso  argomento  nel  cod.  Parigino,  Bibl.  Nationale, ms.  lat.  6450,  di  cui  dirò  più  giù.  La  Quaestio  Ambrosiana  è assai  più  succinta.  In  essa  son  ricordati  il  cardinale  di  S.  Do- menico, cioè  il  Gaetano,  «  et  praeceptor  meus  »,  che  è  il  Pom- ponazzi (f.  23ir-v).  Alla  fine  (f.  232r)  si  legge:  «  Gratias  itaque ago  dominationibus  vestris  quae  dignatae  sunt  nostrae  lectioni adesse.  Haec  dieta  sufficiant  de  ista  difficillima  quaestione, die  ultimo  martii  1520,  et  fuit  punctus  Pascatis  domini  nostri yesu   christi.    finis  ». Orbene,  nel  1520,  la  Pasqua  cadde  non  il  31  marzo,  ma  1'  8 aprile.  Invece  l'anno  successivo  1521  la  Pasqua  cadde  proprio 22 338        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI l'ultimo  di  marzo.  Dunque  nel  manoscritto  Ambrosiano,  che è  una  copia  di  mano  di  fra  Zaccaria  da  Milano,  del  1553,  v'  è certamente  un  errore   di  trascrizione. Supponendo  che  per  la  Pasqua  del  152 1  lo  Zimara  fosse venuto  da  Salerno  a  Venezia,  per  saggiare  il  terreno,  egli potrebbe  avere  avuto  abboccamenti  coi  Riformatori  della Studio,  onde  conoscere  meglio  le  condizioni  che  il  Consiglio era  disposto  a  fargh,  parendogli  pochi  300  fiorini;  e  quindi, ripartito  per  Salerno,  in  maggio  avrebbe  fatto  sapere  di  esser disposto  ad  accettarle  e  ad  assumere  l' insegnamento  a  Pa- dova. Tutto  questo,  ben  inteso,  presupponendo  che  la  Quaestio veneziana  de  immortalitate  animae  sia  davvero  dello  Zimara, Ma  ormai  era  tardi,  poiché,  mentre  al  primo  luogo  leggeva l'ordinaria  di  filosofìa  il  Montesdoch,  al  secondo  luogo  era stato  chiamato  da  Pavia  Branda  Porro.  Per  il  momento  lo Zimara  doveva  rinunziare  a  Padova  e  restarsene  a  Salerno^ Ma  il  16  marzo  1523  lo  troviamo  lettore  di  Metafisica  nelle scuole  pubbliche  di  S.  Lorenzo  a  Napoli,  Ciò  appare  dalla expiicit  dei  Theoremata  usciti  a  Napoli  a  questa  data,  con  un epigramma  di  Pietro  Gravina:  «Compievi  hoc  opus  Neapoli, anno  Domini  Millesimo  quingentesimo  vigesimo  tertio,  dum scientiam  divinam  publico  stipendio  legerem  apud  sanctum Laurentium,  sub  regimine  Reverendi  patris  Fratris  Antonini de  Antorosa  de  Neapoli  cui  ego  plurimum  debeo  ». A  Napoli  forse  egli  era  già  l'anno  precedente,  quando,  se- condo l'Arcudi  7  e  il  Papadia,  il  filosofo  e  il  suo  conterraneo,  il giurista  Pietro  Vernaleone,  sarebbero  stati  inviati  dalla  comu- nità di  Galatina,  per  protestare  presso  il  vice-re  contro  i  so- prusi di  Fernando  Castrioto,  e  per  chiedere  che  fossero  ri- spettati i  suoi  antichi  privilegi.  L'Arcudi  anzi  riferisce  una lettera  dello  Zimara  «  Nobilibus  Magnificisque  viris  Sindico et  Regimini  Universitatis  S.  Petri  in  Galatina  »,  del  29  set- tembre 1522,  per  esortare  i  suoi  concittadini  a  mantenersi calmi  ed  attendere  con  fiducia. Ma  anche  da  Napoli  il  suo  pensiero  doveva  esser  rivolto a  Padova;  e  l'occasione  di  tornarvi  si  presentò  nell'estate del  1525,  quando  il  Montesdoch  chiese  al  Senato  veneziana licenza  di  andarsene,  e  questo  glie  l'accordò. Pietro  Bembo  in  due  lettere  a  Gian  Batt.  Rannusio,  del  17 7  Op.  cit.,   pp.    ijb--j-j.Bgosto  e  del  6  ottobre  1525  ^  ci  fa  sapere,  non  senza  amarezza, come   le   cose   andarono. Giovanni  Montesdoch  a  Padova  era  tenuto  in  grande  consi- derazione ed  era  riuscito  a  farsi  un  nome,  secondo  la  testi- monianza del  Bembo,  quale  non  aveva  avuto  prima.  Ma  non debbono  essergli  mancate  accuse  per  la  sua  spregiudicatezza neir  interpretare  Aristotele,    da  parte  degli  averroisti    da parte  dei  teologi,  se  è  vero  quanto  egli  stesso  ci  fa  sapere  in una  lezione  del  1525  sul  terzo  del  De  anima  (Parigi,  Bibl. Nation.,  ms.  lat.  6450,  pp.  139-40):  «  Cum  isti  fratres  vident philosophum,  dicunt:  haereticus  est;  ut mihi  olim  accidit, dum  disputarem  in  capitulo  generali  fratrum  S.  Dominici...; et  quia  eos  male  tractabam,  dixerunt  3*^  die,  me  esse  haere- ticum  ». Non  so  se  per  queste  ragioni,  oppure,  come  insinua  il  Bembo, nella  lettera  a  Gian  Batt.  Rannusio  del  17  agosto  di  quel- l'anno, per  ottenere  l'offerta  d'un  aumento  di  stipendio, senza  farne  aperta  richiesta,  il  maestro  spagnolo  chiese  li- cenza d'andarsene  altrove.  Il  Bembo,  che  pure  era  informato dei  maneggi  per  condurre  il  Montesdoch  a  Pisa,  ove  poi  ef- fettivamente andò  con  lo  stipendio  di  800  fiorini,  sperava che  con  l'offerta  di  «  cento  ducati  d'aumento  »  lo  si  potesse trattenere  con  vantaggio  dello  Studio  padovano,  poiché  dopo la  morte  del  Pomponazzi  si  prevedeva  uno  spopolamento  dello Studio  bolognese  :  «  Se  lo  Spagnolo  resta,  questo  anno  averemo qui  la  maggior  parte  degli  artisti  dello  studio  di  Bologna. E  già  il  Sig.  Ercole  Gonzaga,  fratello  del  Marchese,  che  è stato  forse  tre  anni  o  più  a  Bologna  per  udire  il  Perette,  fa cercar  casa  qui,  per  venir  ad  udir  costui»  [Ib.). Ma  le  cose  non  andarono  secondo  il  suggerimento  e  il  desi- derio del  prelato,  che  arrivava  a  cose  fatte;  poiché  Marin Sanudo  (voi.  XL,  col.  34)  ci  fa  sapere  che  il  16  luglio  era  già stato  «  posto,  per  li  ditti  [Savii  del  Conscio  e  Savii  di  terra ferma],  condur  a  lezer  in  ditto  Studio  [di  Padoa]  in  philo- sophia  domino  Marco  di  Otranto,  qual  ha  lecto  in  molti  Studi, videlicet  in  la  lectione  de  philosophia,  per  do  anni  di  fermo et  uno  de  rispetto  in  libertà  di  la  Signoria  nostra  con  salario di  fiorini  450  a  l'anno  ». La   decisione   rimasta  segreta    dovette   divulgarsi   alla   fine 8  opere,   \enezia   1729,  p.   Ili,  p.    118. 340  di  settembre,  e  il  Rannusio  non  tardò  a  informarne  l'amico. Il  quale  gli  rispose  da  Padova  il  6  ottobre  esprimendogli  il suo  disappunto. Da  questa  lettera  si  rileva  che  responsabili  del  negato  au- mento al  Montesdoch  e  della  chiamata  dello  Zimara  furono i  due  patrizi  veneziani  Marin  Zorzi  e  Francesco  Bragadin, riformatori  dello  studio  di  Padova,  i  quali  si  avvicendarono  per molti  anni  in  questo  ufficio  con  altri  patrizi  che  avevano  fatto gli  studi  a  Padova  e  vi  avevano  conseguito  il  titolo  di  «  dotor  ». E  il  risentimento  del  Bembo  si  rivolge  specialmente  contro  il primo  dei  due  riformatori:  «  M.  Marino  ha  voluto  guastar questo  bello  ed  onorato  Studio,  di  cui  egli  è  guardiano;  e  gli è  molto  ben  venuto  fatto  il  pensiero.  Se  le  altre  sue  imprese così  bene  gli  succederanno,  sarà  felicissimo.  Non  parlo  di  M. Francesco,  percioché  io  intendo  da  ogni  lato,  che  il  voler condur  qui  codesto  Otranto  è  solo  invenzion  di  M.  Marino, e  non  di  lui.  Il  quale  Otranto  è  già  da  ora  tanto  in  odio  di questi  scolari  tutti  dall'un  capo  all'altro,  che  se  ne  ridono  con isdegno.  Perciocché  dicono  che  ha  dottrina  tutta  barbara  e confusa,  ed  è  semplice  Averroista;  il  quale  autore  a  questi dì  assai  si  lascia  da  parte  da  i  buoni  dottori  ed  attendesi alle  sposizioni  de'  commenti  Greci,  ed  a  far  progresso  ne'  testi. E  costui  pare  che  sia  tutto  barbaro  e  pieno  di  quella  feccia  di dottrina,  che  ora  si  fugge,  come  la  mala  ventura.  Siate  sicuro, che  questo  povero  studio  quest'anno,  quanto  alle  arti  non avrà  quattro  scolari  oltrequelli  del  nostro  dominio,  che  ci staranno  mal  lor  grado,  e  sarà  l'ultimo  di  tutti  gli  studi  ». E  più  giù  :  «  Questi  sono  i  governi  e  giudicii  di  M.  Marin  Gior- gio, che  pare  appunto,  che  porti  odio  a  tutti  quelli,  che  sanno le  belle  e  buone  lettere,  o  che  le  vogliano  apparare  e  sapere  ». Anche  di  Sebastiano  Foscarini,  che  più  volte  coprì  la  carica di  riformatore  dello  Studio  padovano  e  dimostrò  «  rara  dot- trina »  nello  esporre  a  Venezia,  nelle  scuole  di  Rialto,  «  le  cose diffìcili  di  Aristotile  e  di  Averrois  il  gran  commentatore  »  9, il  Bembo  pronunzia,  in  una  lettera  allo  stesso  Rannusio, del  7  luglio  1532 1",  un  giudizio  analogo:  «il  qual  Foscarini non  so  come  par  che  sempre  abbia  avuto  in  odio  tutte  le  buone lettere  in  ogni  facoltà  ». '  A.  ZhNO,  in   «Giorn.  de'  Letterati  d'Italia»,  t.  V,  1711,  pp.  366-69. t"  Opere.] Bisogna  però  riconoscere  che,  l'una  e  l'altra  volta,  il  Bembo scriveva  con  l'animo  irritato,  per  le  difficoltà  che,  tanto  lo Zorzi  quanto  il  Foscarini,  opponevano  a  due  suoi  raccoman- dati. A  questo  s'aggiunga  che  il  patriziato  veneziano  era  stato in  gran  parte  educato,  per  quanto  concerne  la  filosofia,  alla tradizione  aristotelico-averroistica,  e  che  a  questa  si  mostrava assai  attaccato,  come  provano  numerosi  documenti.  Il  Bembo, invece,  veniva  dalla  scuola  di  retorica  ed  era  insomma  un «  umanista  »,  e  piuttosto  che  sobbarcarsi  allo  studio  della filosofia  aristotelico-averroistica,  rinunziò  al  titolo  di  dottore i>i  artihus,  del  quale  invece  s'adornava  suo  padre,  Bernardo, «  dotor  e  cavalier  ».  In  lui  l'avversione  per  l'aristotelismo  e l'averroismo,  ereditata  dal  Petrarca,  era,  potremmo  dire, congenita.  Come  gran  parte  degli  umanisti,  egli  non  ebbe  mai il  gusto  per  i  problemi  della  filosofia  e  della  scienza  che  appas- sionavano i  maestri  e  gli  scolari  della  facoltà  delle  «  arti  ». Il  suo  aspro  giudizio  su  «  codesto  Otranto  »  è  espressione  di  un conflitto  più  vasto,  non  ancora  risolto,  nel  pensiero  del  Rina- scimento, che  vide  coabitare  tra  le  mura  della  stessa  città Pietro  Bembo  e    Marcantonio   Zimara. Titolare  della  «  lettura  »  ordinaria  di  filosofia  [i.a  poTrf)  nxXq  Seuxépac?  yoù  acù(jLaTOct.S£CTt ^coaig)  30,  è  detta  uscire  fuori  di    {slq    e^co  Trpotcóv)  3', con  frase  che  curiosamente  ricorda  un'analoga  espressione hegeliana.  La  mente  che  permane  in  se  stessa,  in  un  atto  con- templativo che  dura  eterno,  è  identificata  da  Simplicio  con quello  che  fu  detto  1'  «  intelletto  agente  »  che  è  atto  sostan- ziale per  sua  natura  e  «  non  intende  ora    ora  no  »,  come s'esprime  Aristotele  32;  invece  la  mente  in  quanto  esce  fuori -7  E.  Garin,  Giovanni  Pico  della  Mirandola.  Vita  e  dottrina.  «  Pub- blicazioni della  R.  Università  degli  Studi  di  Firenze.  Facoltà  di  Lettere e  Filosofia».  Ili  Serie,  voi.  V;  Firenze,  1937,  P-  84;  B.  Nardi,  Sigieri di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano.  Roma,  Edizioni Italiane,  1945,  pp.  159-160;  Id.,  Individualità  e  immortalità  nell'aver- roismo e  nel  tomismo,  in  «  Archivio  di  Filosofia.  Organo  dell'  Istituto  di Studi  Filosofici  »,  voi.  dedicato  al  Probletna  dell'  immortalità,  Roma, 1946,    pp.    120-121. 28  Sigieri  di  Brab.,   cit.,  pp.   160-169. -9  Simplicio,  p.  217,  27,  313,  2. 30  Simplicio,  p.  218,  33. 31  Simplicio,  p.  229,  3. 32  Arist.,  De  anima,  III,  e.  5,  43oa  22. 376 di    s' identifica  con  l' intelletto  in  potenza  o  intelletto  pos- sibile o  passivo.  Il  conoscere  umano  comincia  dall'esperienza sensibile,  e  consiste  in  una  liberazione  progressiva  dalla  pas- sività e  nel  ritorno  (àvaSpo^xv))  alla  pura  contemplazione  del. mondo  ideale  33. Questo  concetto  di  un  intelletto  che  permane  in  se  stesso,, e,  uscendo  da  sé,  s'unisce  al  mondo  della  sensibilità  per  ritor- nare a  sé,  in  un  circolo  eterno,  sedusse  il  signore  della  Miran- dola, intento  a  risolvere  il  problema  averroistico  della  «  co- pulatio  »,  ossia  del  congiungimento  dell'unico  intelletto  col- r  individuo,  che  era  stato  il  problema  di  Sigieri,  anzi  dello stesso  Averroè  34. Questo  problema  doveva  essere  assillante  nel  suo  animo. Il  Nifo  narra  a  questo  proposito  l'episodio  d'un  incontro  con lui  e  di  una  discussione  che  dev'essere  avvenuta  nella  prima- vera 1494.  Il  giovane  Suessano,  che  professava  filosofia  a  Pa- dova, aveva  avuto  dal  suo  alunno  Girolamo  Bernardo,  di famiglia  patrizia  veneziana,  un  esemplare  della  Destrttctio destructionum  Algazelis  di  Averroè,  che  pochi  conoscevano, e  stava  preparandone  un  commento  che,  iniziato  nel  1494,, fu  stampato  a  Venezia  nel  1497.  Un  passo  di  Algazele  fermò  a. lungo  l'attenzione   di  lui.   Diceva  il  filosofo   arabo; Forte  aliquis  diceret,  quod  opinio  Platonis  est  vera,  videlicet quod  anima  est  una  et  antiqua,  et  dividitiir  divisione  corponim, et  in  corporea  separatione  redit  ad  suam  radicem  et  unitur. Due  cose  sono  notevoli  in  questo  passo  d'Algazele:  anzi- tutto, che  la  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto  venga  attri- buita a  Platone;  indi,  che  vi  s'accenni  alla  possibilità,  intra- vista da  alcuni,  di  conciliare  la  tesi  dell'unità  con  quella  della molteplicità  numerica  e  individuale  delle  anime.  Ora  il  Nifo racconta  com'egli,  abbattutosi  nel  conte  della  Mirandola,  che insieme  a  lui  era  diretto  in  dihgenza  alla  volta  di  Bologna, ebbe  a  palesargli  i  suoi  dubbi  su  quest'argomento.  E  il  Mi- randolano,  che  evidentemente  la  pensava  come  di  Platone riferisce  Algazele,  cercò  di  far  capire  il  suo  pensiero  al  com- 33  Simplicio,  p.  240  sgg. 34  B.  Nardi,  Introduzione  a  S.  Tommaso  d'Aquino,  Trattato  sul- l'unità dell'intelletto  contro  gli  averroisti.  Firenze,  Sansoni] pagno  di  viaggio  con  questo  curioso  paragone.  Come  per costruire  una  volta  o  un  arco  fa  mestieri  di  quella  impalcatura di  legno  che  li  sostenga  e  che  dicesi  centina;  ma  poi,  quando son  costruiti,  la  volta  e  l'arco  si  reggon  da  sé,  senz'armatura; così  una  sola  idea  di  tutte  le  anime  sorregge  ed  aiuta  ognuna di  esse  a  venire  all'esistenza,  via  via  che  per  virtù  di  genera- zione si  formano  i  loro  corpi;  quando  poi  il  corpo  vivente  è già  formato,  rimane  in  esso  un'ombra  o  vestigio  che  dicesi anima.  Alla  morte  del  corpo,  le  anime  singole  ritornano  al loro  «  semenzaio  »,  che  è  quell'unica  idea  della  quale,  nella loro  individualità  particolare,  erano  ombra,  vestigio  e  riflesso  35. Per  Platone  dunque,  quale  era  inteso  da  alcuni  prima  d'Aver- roè,  e  quale  piaceva  al  Pico  d' intenderlo,  tutte  le  anime singole  sono  un'anima  sola  nella  loro  «radice»;  sono  invece molte,  in  quanto  suoi  germogli  nei  corpi,  ossia  in  quanto  l'anima che  è  una  in    si  comunica  e  si  propaga  negl'  individui  della specie  umana,  uscendo,  come  diceva  Simplicio,  fuori  di  sé. Anche  a  fare  un  po'  di  tara  sui  particolari'  del  racconto  del Nifo,  la  sostanza  del  racconto  sembra  conforme  allo  spirito della  filosofia  pichiana,  nel  momento  in  cui  il  Mirandolano, senza  rinnegare  il  suo  averroismo  del  periodo  padovano,  s' in- dustriava di  svolgerlo  in  senso  platonico. Non  saprei  se  dal  Pico  o  da  altri  il  Suessano  abbia  avuto notizia  del  commento  di  Simplicio  al  De  anima.  Certo  è  che egli  ricorda  più  volte  l' interpretazione  simpliciana  della  dot- trina aristotelica  in  opere  composte  a  Padova  prima  del  1498, prima  di  lasciare  quello  studio.  Una  di  queste  sono  i  Collectanea super  lihros  de  anima,  che  il  Nifo  aveva  approntato  per  la pubblicazione,  nel  1498,  e  mandato  a  Baldassare  Miliani, patrizio  partenopeo,  coli'  intento  che  ne  accogliesse  la  dedica, e  all'abate  Roselo  Salinatore,  suo  concittadino,  per  averne il  giudizio  36.  Nel  1503  essi  furon  pubblicati,  con  dedica  del Nifo  al  Mihani,  dall'editore  veneziano  Alessandro  Calci- donio,  mentre  l'autore,  se  la  sua  asserzione  merita  fede,  aveva 35  Nifo,  In  librum  Destructio  destructionum  Averrois  commenta- ri!,   disp.    I,    dub.    8;    cfr.   disp.    IV,    dub.    7.  V.  sopra,  p.  319. 36  Come  ho  già  avvertito,  i  Collectanea  furono  stampati  dal  Nifo una  prima  volta  nel  1503,  e  di  nuovo  nel  1522  insieme  al  suo  nuovo commento.  L'ultimo  dei  Collectanea,  assai  prolisso,  ma  ricco  d'  impor- tanti notizie,  riguarda  il  famoso  t.  36  del  terzo  libro  del  De  anima, e  la  non  meno  famosa  digressione  d'Averroè  intorno  a  questo  testo. 378        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI stabilito  di  non  darli  alla  luce  prima  che  fossero  trascorsi  i  nove anni  oraziani  dalla  loro  composizione  37;    che  si  può  pensare che  essi  siano  una  delle  prime  fatiche  del  suessano  poco  più che   ventenne. Ora  in  principio  di  questi  Collectanea  sul  terzo  libro,  il Nifo  accenna  alla  questione  dibattuta  fra  gli  espositori,  cui si  riferisce  la  seconda  delle  «  conclusiones  »  del  Pico  «  secundum Simplicium  »,  di  quale  intelletto  Aristotele  intenda  parlare in  questa  terza  parte  della  sua  opera: Verum  circa  intentionem  huius  tertii  apud  expositores  fuit difficultas  non  parva.  Primi  enim  expositores,  quos  impugnare videtur  lamblicus,  sentire  [videntur]  intentionem  huius  esse de  intellectu  imparticipabili,  qui  actu  est  summus  ac  vita  essen- tialiter  optima  et  per  se  ab  anima  separabihs.  Ad  quos  obiicit lambHcus  et  inquit:  «  Quidnam  et  qualis  separabilis  ab  anima intellectus,  et  quod  prima  substantia  et  impartibilis  et  optima vita  et  summus  actus  et  idem  intellegibile  et  intellectio  et  intel- lectus et  eternitas  et  perfectio  et  quies  et  terminus  et  causa  omnium, 12.  Metaphysice  dictum  est»38.  Non  ergo  et  hic  de  Deo  pertractan- dum.  Sed  hoc  lamblici  argumentum  pace  sua  nihil  est.... Ideo  et  aliter  lamblicus  inquit:  «  Magis  vero  nunc  qualis  quis a  nostra  anima  participatus  intellectus  dicendum))39.  Sed  quid velit  lamblicus,  SimpHcius  laborat  exponere.  Ubi  debes  scire, quod  duplex  est  intellectus:  participatus  et  imparticipatus.  Omnis enim  forma,  scilicet  quae  idea  dicitur,  indivisibilis  est  et  terminus seipso;  anima  autem  est  divisibilis,  ut  reflexa  ipsius  denotat  actio: erit  ergo  anima  hominis  vita  hominis  secundum  se  partibilis  ac divisibilis.  Verum,  prout  intellectu  participat,  in  impartibilitatem cadit  ac  in  terminum  et  indivisionem.  Erit  ergo  anima  hominis vita  hominis,  cuius  intellectus  est  forma.  Anima  enim  ipsa  in-dividua est  in  corpore,  ut  Stoici  inquiunt.  Ut  vero  particeps  est intellectus,  impartibilis  ac  indivisibilis  redditur  partitione  et reditione.  Differt  vero  intellectus  participatus  ab  imparticipato  : ille  enim  non  manet  in  se,  sed  alterius  anime  est  forma;  impar- ticipatus autem  in  se  manet,  ac  per  se  separatus  est  et  terminus. Et  sic  imaginatur  aliud  esse  animam,  et  aliud  intellectum,  lam- blicus; anima  enim  vita  est  animalis  humani;  intellectus  vero forma  erit  anime. Sed  quoniam  lamblicus  non  videtur  differre  a  Plotino,  ideo, ut  melius  lamblici  opinio  clarescat,  Plotini  sententiam  expedit enarrare....  Erit  ergo  ordo:  deus  forma  est  intellectus;  intellectus 37  Ciò  è  dichiarato  dal  Nifo  alla  fine  della  prefazione  premessa  al- l'edizione del  1522  identica  a  quella  del  1503,  a  quanto  ho  potuto  vedere. V.   sopra,   pp.    2'-6,   n.   13,  370,    n.   8. 38  Cfr.    Simplicio,  p.  217,  23-27. 39  Simplicio,  vero  anime;  anima  rationalis  vivi  humani.  Erit  ergo  intentio, apud  lamblicum,  huius  libri  de  intellectu  participato,  qui  forma est  anime  rationalis,   que  homo  est,   platonice  loquendo.... Alitar  et  post  hunc  Simplicius.  Intentionem  enim  huius  libri de  anima  rationali  dicit  esse.  Imaginatur  enim  aliud  esse  vitam hominis,  et  aliud  rationalem  animam,  et  aliud  animam  totam ipsius.  Vitam  enim  appellat  ipse  cum  prioribus  intentionem  ho- minis, scilicet  animalis  humani,  que  est  actus  et  perfectio  speci- lìcans  hominem;  rationalis  vero  anima  est  actus  huius  anime, sicut  lumen  diaphani;  ex  quibus  duobus  resultat  tota  anima hominis.  Erunt  ergo  anime  humane  partes  due,  scilicet  rationalis anima  et  vita  ipsa,  qxie  simul  totam  hominis  animam  constituunt. Est  autem  apud  ipsum  duplex  intellectus,  scilicet  quo  ad  divina copulatur  anima,  et  hic  forte  agens  est  intellectus;  alter  quo  ad materialia,  et  hic  quandoque  potestate  et  imperfectus  existit, non  quia  in  se  non  intelligit,  sed  quoniam  ab  alio  scientiam  habet, ut  a  primo,  et  respectu  hominis  quandoque  et  perfectus  est  et completus,  et  hoc  quando  perfecte  toti  homini  unitur.  Erit  ergo intentio  huius  [libri]  loqui  de  parte,  idest  de  anima  rationali, qua  anima  scilicet  hominis  intelligit  et  sapit;  idest,  de  rationali anima,   que  pars  est  anime  hominis,   scrutandum....  4°. In  questo  passo  dei  Collecianea,  a  parte  l' interpretazione più  o  meno  esatta  che  il  Nife  ci    del  pensiero  di  Simplicio, è  certo  che  vi  sono  frasi  prese  alla  lettera  dal  commento  di questo.  Ora,  nel  secondo  commento  che  il  Suessano  recò  a termine  nel  15 19,  maestro  a  Pisa,  avendo  egli  modificato  il suo   modo   d'intendere,   ci   fa   questa   confessione: Animadverte,  tamen  in  Collectaneis  nos  dixisse,  de  mente  Sim- plicii,  intentionem  Aristotelis  hic  esse  de  anima  rationali  que est  pars  anime  humane,  cum  in  greco  eum  non  viderim  tunc. At  postquam  eum  legi  in  proprio  fonte,  reperi  eum  opinari  ut dictum  est,  et  non  ut  in  Collectaneis  dixi  41. E  non  di  meno  il  commento  di  Simplicio  è  ricordato  e  di- scusso parecchie  volte  negli  stessi  Collecianea,  nel  corso  del secondo  libro,  con  espressioni  le  quali  non  lasciano  dubbio che  l'opera  del  commentatore  greco  fosse  familiare  al  Nifo. Se  questi  pertanto  non  la  possedeva  in  greco,  vuol  direche  la possedeva  tradotta.  Questa  traduzione,  anteriore  d'un  mezzo secolo  a  quella  di  Giovanni  Fasolo,   mi   è  sconosciuta.  Essa 40  Nifo,  De  anima,  Venezia,    1522,  Collect.  ad  t.  e.   i. 41  Nifo,  ib.,  comm.  ad  t.  e.   i. ad  ogni  modo  doveva  essere  molto  imperfetta,    da  accrescere le  oscurità  che  sono  già  nel  testo  greco.  Il  Nifo  poi  dovette affrontare  la  lettura  di  Simplicio  con  l'animo  di  trovarvi  una conferma  alle  proprie  idee  sigieriane. Egli  stesso  confessa  di  avere  per  lungo  tempo  aderito  alla dottrina  di  Averroè  nell'  interpretazione  che  di  questa  dava Sigieri  nel  Tractatus  de  intellectu  scritto  in  risposta  al  Tractatus de  unitale  intellecUis  di  S.  Tommaso  43.  I  capisaldi  di  questa dottrina,  che  il  Nifo  dichiara  d'avere  attinto  al  trattato  di Sigieri43,  sono  i  seguenti:  i)  l'intelletto  possibile  è  unico  per tutta  la  specie  umana;  2)  esso,  per  attuare  tutta  la  sua  potenza, ha  bisogno  di  trovarsi  unito  in  ogni  momento  a  una  moltitu- dine d' individui  umani  che  gli  forniscono  le  specie  sensibili, senza  delle  quali  esso  niente  può  intendere;  3)  l'unione  tra r  intelletto  possibile  e  la  «  cogitativa  »,  che  è  la  più  alta  fa- coltà dell'anima  sensitiva,  è  un'unione  sostanziale,  e  non  sem- plicemente accidentale,  come  pensavano  altri  averroisti,  sì che  può  dirsi  che  l'uno  e  l'altra  son  parti  ond'  è  costituita l'anima  razionale  dell'uomo;  4)  l'anima  razionale,  costituita dall'unione  della  cogitativa  coli'  intelletto,  che  in    è  unico, può  dirsi  veramente  «  forma  informante  »,  e  non  soltanto «  assistente  »  dell'uomo,  tale  cioè  che    a  questo  il  suo  essere di  animale  ragionevole,  contrariamente  a  quanto  asserivano altri  averroisti,  i  quali  sostenevano  che  l'anima  intellettiva è  soltanto  forma  assistente. Questa  dottrina  sigieriana  è  presentata  dal  Nifo  come schietta  farina  del  sacco  averroistico,  senza  che  sia  fatto  il nome  di  Sigieri    quello  di  Simplicio,  nel  commento  che  il suessano  scrisse  a  Padova  sul  dodicesimo  della  Metafìsica (ad  t.  e.  17  e  38)  e  nell'esposizione  della  Destructio  destructio- num  (disp.  I,  dub.  23;  IV,  7;  XIV,  i,  quaestio  4)  pubblicata nel  1497.  Invece  nel  De  intellectu  essa  è  esposta  due  volte: nel  lib.  I,  tr.  3,  e.  16,  è  presentata  come  dottrina  di  Simplicio; nel  cap.  18,  come  dottrina  di  Sigieri  tendente  a  trovare  una via  di  mezzo  «  inter  latinos  et  averroycos  ».  Siccome  m'  è già  accaduto  di  richiamare  l'attenzione  sulla  dottrina  che  il Nifo  attribuisce  a  Sigieri,  non  è  forse  inutile  che  con  essa  si raffronti  questo  riassunto  che  nella  stessa  opera  il  suessano 43  Cfr.   B.   Nardi,    Sigieri  di  Brab.,   cit.,  p.  14. 43  I  luoghi  del  Nifo  sono  riuniti  nel  mio  volume  ora  citato,  pp.  13-21. ci  ammannisce,  ancora  una  volta,  del  pensiero  di  Simplicio, prima  di  averne  conosciuto  il  commento  «in  proprio  fonte»: Si  rationales  animae  erunt  plures  et  intellectus  unus,  sic  Sim- plicii  erit  positio.  Imaginatur  enim  Simplicius,  ex  intellectu  et omnibus  praecedentibus  formis,  in  corpore  humano  praeviis, constitui  rationalem  animam,  quae  quidam  est  totum  quoddam constituens  in  esse  hominem.  Et  quoniam  cogitativa  seu  sensitiva anima  praecedens  est  multiplicata,  procul  dubio  rationalis  anima est  numerata  per  corpora.  Quemadmodum  enim  materia  est  una privatione  formarum  in  se,  et  tamen  per  formas  partitur  et  fit altera  alteraque,  sicut  altera  atque  altera  est  forma;  sic  intellectus unus  potentiae  fit  alius  atque  alius,  prout  alteri  atque  alteri  sen- sitivae  unitur  secundum  esse;  et  sic  fiunt  plures  animae  ratio- nales   secundum    corpora,    licet    intellectus    sit   unus. Et  si  dicas  :    Ergo  rationalis  anima  est  corruptibilis,    con- cedunt  rationalem  animam  esse  corruptibilem  totam  ratione partis,  quae  est  totum  praecedens  eam  in  corpore  humano;  tamen intellectus  in  se  incorruptibilis  est.  Est  enim  una  anima  numero unius  hominis:  cuius  una  pars  est  intellectus  incorruptibilis,  et altera  pars  est  totum  quod  praecedit,  scilicet  sensitiva  et  vege- tativa, quae  est  unum  faciens  cum  intellectu.  Et  sic  totum  id est  corruptibile  ratione  praecedentis  partis;  intellectus  autem sempiternus.  Et  hoc  sentire  videtur  Aristoteles  12.  Divmornm dicens:  «  In  quibusdam  enim  nihil  prohibet;  ut  si  est  anima  tale; non  omnis  »,  idest  tota,  «  sed  intellectus;  omnem  namque  impossi- bile est  f orsan  » 44.  Ecce  quo  pacto  Aristoteles  dicit  totam  animam esse    corruptibilem,    sed    intellectus  permanet. Et  si  dicis:    Quando  corrumpitur  totum,  ubi  remanet  intel- lectus ?    dicunt  quidam  quod  remanet  in  se,  sicut  materia: quando  enim  generatur  homo,  statim  accipit  intellectum  tanquam partem  animae  suae;  et  quando  corrumpitur,  perdit  animam,  licet intellectus  remaneat. Et  apud  Simplicium  salvatur  multitudo  rationalium  anima- rum,  et  quomodo  rationalis  anima  dat  esse  homini,  et  salvatur sempiternitas    intellectus.... liane  positionem  multi  credunt  esse  mentem  Platonis,  que- madmodum Algazel.  Inquit  enim:  «Et  forte  aliquis  diceret, quod  opinio  Platonis  est  vera,  quod  anima  est  una  et  antiqua, et  dividitur  divisione  corporum;  et  in  corporea  separatione  redit ad  suam  radicem  et  unitur  ».  Haec  ille  in  libro  Destructio  destructio- nuììi,  dubio  octavo  primae  disputationis.  Ubi  Averroes,  in  so- lutione  illius  dubii,  inquit:  «Et  ideo  anima  Petri  et  anima  Gui- 44  Arist.,  Metaph.,  XII,  t.  e.  17,  e.  3,  io7oa  25-27.  Allo  stesso  modo intende  questo  luogo  d'Aristotele  il  Nifo,  In  duodecinmm  Metaphysices Arisf.  et  Aver....  ad  Antoniiim  lustinianum  Patritium  Venetiim  (Venetiis.... Die  30  lulii  1526;  ma  la  prima  edizione  a  spese  di  Al.  Calcidonio  è  del 1505),  t.  e.  17.  In  quest'opera  degli  ultimi  anni  del  suo  soggiorno  pado- vano,  Nifo   è  ancora  s  sieriano,    ma  non  cita   Simplicio. 382         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI lelmi  quodammodo  possunt  dici  una  et  eadem,  ut  puta  ex  parte formae,  et  sunt  multae  alio  modo,  videlicet  respectu  subiecto- rum  ».  Et  ibidem,  in  solutione  dubii  23.  ait:  «  Omnes  communiter opinati  sunt,  quod  animae  innovatio  est  relativa,  scilicet  quod haec  innovatio  est  eius  adiunctio  cum  corporeis  possibiliter  dictam adiunctionem  recipientibus,  eo  modo  quo  praeparationes  et  po- testates  speculorum  recipiunt  adiunctionem  solis  radiorum  ». Ergo  ex  mente  Averrois  p^ositio  haec  videtur  esse,  et  non  tantum Simplicii.  Idem  etiam  sentire  videtur  Averroes  comm.  38.  duo- decimi Divinorum.  Inquit  enim:  «Et  ex  hoc  quidem  apparet bene,  quod  Aristoteles  opinatur  quod  forma  hominum,  in  eo quod  sunt  homines,  non  est  nisi  per  continuationem  eorum  cum intellectu,  quod  declaratur  in  libro  De  anima  ».  Ecce  quo  pacto piane  positionem  hanc  Simplicii  sentit  Averroes,  occasione  horum verborum  et  multorum  aliorum.  Aliqui  credunt  positionem  hanc esse  intentionein  Averrois,  scilicet  quod  rationalis  anima  sit composita  ex  intellectu  potentiae  et  toto  praecedente,  scilicet vegetativo  sensitivoque  :  ex  quibus  terminatur  ac  conficitur  forma quaedam  simplex,  quae  actu  est  vegetativa,  sensitiva  ac  ratio- nalis; quae  forma  sit  hominis,  secundum  esse  multiplicata  per homines  ac  numerata,  licet  intellectus  sit  unus  in  se,  ut  diximus. Questo  il  Nife  scriveva  prima  di  conoscere  il  testo  greco  di Simplicio;  ma  anche  quando  ebbe  tra  mano  l'esposizione simpliciana  del  De  anima  nella  lingua  originale,  e  ne  trasse vantaggio  per  recare  a  termine  nel  1519,  insegnante  a  Pisa, il  suo  ultimo  commento  sull'opera  d'Aristotele,  stampato insieme  ai  Collectanea  nel  1522,  corresse,  sì,  molti  errori  e inesattezze  in  cui  era  incorso  nelle  opere  giovanili,  ma per  quel che  si  riferisce  all'interpretazione  della  dottrina  di  Simplicio intorno  all'unità  dell'  intelletto  possibile  e  al  modo  di  unirsi di  questo  coll'anima  sensitiva,  rimase  fermo  nell'opinione che  la  tesi  del  commentatore  greco  fosse  sostanzialmente identica  con  quella  d'Averroè45.  E  sebbene  fosse  ormai  tra- scorso un  ventennio  da  che  aveva  lasciato  lo  studio  padovano, il  ricordo  di  quegli  anni  lontani,  in  cui  gli  pareva  d'aver  tro- vato nella  dottrina  di  Sigieri  un  modo  plausibile  di  risolvere gli  argomenti  tomistici,  e  di  Sigieri  discuteva  con  Pico  della Mirandola,  sembra  ad  un  tratto  ridestarsi,  sebbene  in  modo molto  confuso,   nella  sua  mente: Simplicius  arbitratus  est  omnium  hominum  intellectum  unum numero    esse;    rationales    vero    (animas)    prò    hominum    numero 45  Nardi,   Sigieri   di  Brab.,  cit.,   pp.  43-44. IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  383 multiplicari.  Non  desunt  qui  positionem  hanc  Avverei  tribuant, ut  Rogerius  et  Suggerius  uterque  Bacconitanus,  Thomaeque coetanei.  Hi  enim  in  eorum  libellis,  quos  adversus  Thomam  scrip- serunt  prò  defensione  Averrois,  non  modo  positionem  hanc  Averroi, sed   omnibus  graecis  expositoribus  attribuerunt  46. Questo  inestricabile  garbuglio  di  nomi  e  di  idee  era  tutto quello  che  il  Nifo,  divenuto  ormai  tomista  a  modo  suo  e  conte palatino,  col  privilegio  di  fregiarsi  del  titolo  di  «  Medices  », conferitogli  da  Leone  X  nel  1520,  ricordava  del  suo  insegna- mento a  Padova;  ma  era  un  ricordo  che  diventava  di  giorno in  giorno  più  sbiadito  e  confuso  nel  suo  spirito  abbagliato dallo  sfarzo  delle  aule  principesche  e  tutto  preso  dalla  brama di  procacciarsi  privilegi  ed  onori,  senza  celare  le  tardive  fiam- melle che  accendeva  nel  suo  maturo  cuore  il  seducente  aspetto di  qualche  bella  cortigiana. 3.  -  Anche  quando  il  Nifo  ne  fu  partito,  a  Padova  si  con- tinuò per  molto  tempo  a  studiare  il  commento  di  Simplicio al  De  anima  e  ad  interpretarne  il  pensiero  in  senso  averroi- stico.  Giulio  Castellani  da  Faenza,  che  a  Ferrara  aveva  avuto per  maestro  il  bresciano  Vincenzo  Maggi  o  Madio,  alessan- drista,  narra47  com'egli  avesse  trovato  il  commento  di  Sim- plicio oscuro  ed  involuto  nella  maniera  d'esprimersi,  e  che anche  dopo  la  seconda  e  la  terza  lettura  gli  rimanevano  pa- recchi dubbi.  Ma  avendo  avuto  occasione  di  recarsi  a  Padova, fra  il  1562  e  il  1563,  trovò  in  questa  città  uomini  eminenti nello  studio  della  filosofia  e  delle  buone  arti,  che  gli  chiari- rono appieno  le  sue  dubbiezze  :  e  Ita  sane  complura  Simplicii tenebricosa  dieta  illustrarunt  claraque  et  apertissima  red- diderunt  ». Quale  idea  il  Castellani  si  fosse  fatta  della  dottrina  di  Sim- plicio intorno  alla  mente  umana,  dopo  averne  discusso  coi dotti  padovani,  si  può  capire  da  questa  esposizione  che  egli 46  76.,  p.  44. 47  luLii  Castellanii,  Faventini,  In  libvos  Aristotelis  de  humano intellectii  disputationes  sive  lucidissimi  commentarii  ex  doctrina  chri- stianorum  auciorum  ac  philosophorum  antiquoriim  descripti.  Ad  Cosmum Medicem  Florentinorum  ac  Senensiuni  ducem.  Venetiis,  MDLXVII. Lib.  I,  cap.  2,  fol.  5v-yr. 384 ne  fa  e  che  giova  conoscere: Simplicius  igitur,  atque  ii  qui  illuni  praecipue  sectantur  et eius  sententiam  explicant,  humanam  nientem  unani  tantum numero  esse  dicunt,  istamque  in  intelligentiarum  ordinem  col- locant;  tametsi  eam  longe  omnium  infimam  et  humano  orbi assistere  arbitrantur.  Quam  etiam  liomini  nequaquam  dare esse  affirmant  (ita  loquuntur  philosophi,  et  saepe  eorum  verbis facilioris  doctrinae  gratia  uti  nos  oportebit)  ;  sed  aliud  statuunt genus  animae,  quam  Cogitativam  vocant,  a  quo  informatur  homo  : ex  Cogitativa  enim  et  corpore  organico,  tanquam  ex  materia et  forma,  conflatur  liomo;  ex  mente  et  homine,  tanquam  ex  nauta et  navi,  nobilius  quoddam  atque  divinum  compositum  oritur, quippe  quod  intellectus  nobilissimam  ac  divinam  tantum  homini operationem  praebet. Come  già  il  Nifo,  dunque,  anche  questi  maestri  padovani del  tempo  del  Castellani,  facevano  risalire  a  Simplicio  la  tesi averroistica  dell'unità  dell'  intelletto.  Ma  mentre  il  suessano attribuiva  a  Simplicio  la  tesi  sigieriana,  un  tempo  difesa  da Paolo  Veneto  e,  piìi  tardi,  da  Alessandro  Achillini,  da  Ti- berio Bacilieri  e  da  Geronimo  Taiapietra,  secondo  la  quale r  intelletto  unico  s'unisce  alla  «  cogitativa  »  in  modo  da  for- mare con  questa  una  sola  anima  individuale  e  razionale  che, tutta  intera,  è  forma  dell'uomo  e    a  questo  il  suo  essere di  uomo,  i  padovani  cui  accenna  il  faentino  ritenevano,  al contrario,  che  l' intelletto  s'unisce  alla  «  cogitativa  »  soltanto come  «  forma  assistente  «  e  non  come  «  forma  informante  », ossia,  secondo  l'espressione  aristotelica,  «  sicut  nauta    navi  «, Continua  poi  il  Castellani,  sviluppando  concetti  accennati anche  in  alcune  delle   stampata  a  Parigi,  in  «  Officina  Christiani  Wecheli  »,  nel- l'anno 1543,  ispirandosi  al  Bessarione,  osserva  molto  giusta- mente, che  coloro  che  hanno  bisogno  di  confermare  la  loro fede  coH'autorità  di  Aristotele,  non  sembrano  aver  molta fiducia  nella  parola  di  Cristo.  E  poco  più  di  un  ventennio dopo,  esattamente  nel  1567,  un  altro  aristotelico  italiano, ma  non  averroista,  bensì  alessandrista,  Giulio  Castellani  da Faenza,  diceva  che  coloro  che  esitano  a  prender  posizione  e  a dichiarare  il  loro  pensiero  per  ciò  che  riguarda  i  problemi dello  spirito  umano,  per  paura  di  trovarsi  in  contrasto  colla fede,  «  profecto  huiusmodi  homines  ignorare  videntur,  quam Christiana  fìdes  et  charitas  a  philosophandi  ratione  distet, et  quam  nullius  sint  ponderis  Aristotelis  inventa  et  argumen- tationes  ad  sanctissimae  religionis  nostrae  decreta  labe- factanda  ».  E  conclude  con  un  linguaggio  da  gran  galantuomo, senza  falsi  pudori:  «  Audacter  igitur  etiam  possumus  de  animi nostri  substantia  ac  perpetuitate  disserere,  perpendereque diligenter  quid  de  eo  discernendum  voluerit  Aristoteles.  Si quideni  cum  nos  philosophamus,  ex  aliorum  sententia  loquimur, semperque,  ut  christiani,  Sacrarum  Litterarum  preciosissima monumenta  pie  colenda  et  observanda  supponimus  ». Ecco  dunque  a  che  cosa  si  riduce  la  così  detta  «  dottrina della  doppia  verità  »,  della  quale  si  sono  scandalizzati  gli  sto- rici moderni  della  filosofìa.  Non  se  ne  scandalizzarono  invece gl'inquisitori  dell'eretica  pravità;  ai  c]uali  interessava  medio- cremente di  sapere  come  la  pensasse  Aristotele.  Ad  essi  ba- stava di  sapere  che  sia  gli  averroisti  che  gli  alessandristi  non ponevano  in  discussione  le  verità  rivelate,  bensì  la  dottrina di  Aristotele.  Che  se  poi  Aristotele  non  s'accordava  alla  fede di  Cristo,  tanto  peggio  per  lui;  e  tanto  peggio  per  chi  lasciava Cristo  per  Aristotele. S'oda,  per  esempio,  quest'avvertenza  che  Polo  Loredan, patrizio  veneziano,  rivolge  al  lettore  nell'atto  di  congedare per  la  stampa  il  suo  commento  al  De  anima  condotto  secondo lo  spirito  alessandrista  del  Pomponazzi,  del  Porzio  e  del  Ca- stellani, e  dedicato  nel  1596  al  serenissimo  duca  d'Urbino, Francesco  Maria  da  Montefeltro:  «Pie  lector,  haec  mea  com- mentarla pie  legito,  et  tantum  mentem  Philosophi  hic  inter- pretari  scito;  et  me  interpretem  christianum  et  Sanctae  Ro- manae  Ecclesiae  filium  esse  advertito,  et  prò  Domino  nostro lesu  et  Ecclesia  mori  paratum  habeto;  Aristotelem  christia- num non  extitisse  notato,  nec  ipsum  Christiane  scripsisse nec  Christiane  expositum  observato.  Fidem  Christi  Dei  et Dei  filli  tot  tantisque  miraculis  firmatam  inspicito,  auctori- tate  Aristotelis  non  indigeto,  et  si  quae  veritatem  catholicam turbantia  legeris,  tamquam  falsa  et  ab  Aristotele  impio  prolata prò   firmo  et  indubitato  habeto  tenetoque.  Vale  ». Perciò  le  autorità  ecclesiastiche,  dai  primi  anni  del  se- colo XIV  in  poi,  avevano  finito  per  acquetarsi  a  siffatte  di- chiarazioni, e  lasciarono  sia  agli  averroisti  che  agli  alessandristi la  più  ampia  libertà  di  discussione  e  di  critica.  Le  difficoltà che  i  dantisti  trovano  ad  intendere  come  Dante  possa  aver messo  nel  suo  Paradiso,  a  fianco  d’AQUINO,  un  averroista qual  era  stato  Sigieri  di  Brabante,  e  farne  l'elogio  che ALIGHIERI fa  pronunciare  allo  stesso Aquino,  derivano  da due  cose:  primo,  dal  non  aver  capito  la  particolare  natura della  filosofia  di  Dante;  secondo,  dal  non  aver  capito  che  cosa è   stato   l'averroismo. Questi  commentatori  di  Dante,  invece  di  guardare  alla figurazione  dantesca  in  se  stessa  e  in  rapporto  al  pensiero del  poeta  che  pone  «  Averrois  che  '1  gran  commento  feo  » tra  gli  spiriti  magni  del  nobile  castello,  si  son  lasciati  for- viare dalle  raffigurazioni  cui  accennavo  in  principio,  e  nelle quali  Averroè  è  prostrato  nella  polvere  ai  piedi  di  S.  Tom- maso. A  queste  figurazioni  d' ispirazione  domenicana  e  tomistica parrebbe  opporsi  invece  quella  d' ispirazione  agostiniana  che Giusto  dipinse,  poco  prima  del  1370,  nella  cappella  dei  Cor- telieri  annessa  alla  chiesa  degli  Eremitani  a  Padova,  ove aveva  insegnato  Gregorio  da  Rimini.  Dalle  descrizioni  che un  secolo  dopo  ne  lasciò  Hermann  Schedel,  in  questo  affresco del  Menabuoi  Averroè  era  dipinto  a  fianco  di  Maestro  Alberto da  Padova,  teologo  eremitano,  e  del  beato Giovanni  della  Lana  da  Bologna,  filosofo  e  teologo  ed  an- ch'esso eremitano,  morto,   a  quanto  pare,    intorno   al   1350. Questo  affresco  deve  avere  impressionato  il  giovane  ere- mitano Paolo  Veneto  che  pochi  decenni  dopo,  reduce  an- ch'egli,  al  pari  di  Gregorio  da  Rimini,  dalle  scuole  di  Oxford e  di  Parigi,  e  salito  sulla  cattedra  di  filosofia  nelle  scuole  an- nesse al  convento  agostiniano  di  Padova,  ispirò  il  suo  insegna- mento alla  dottrina  sigeriana,  sforzandosi  di  dimostrare  in che  modo  l' intelletto,  unico  per  tutta  la  specie  umana,  riesce ad  individualizzarsi  nei  singoli.  lAlla  stessa  dottrina  sige- riana s' ispirano  verso  la  fine  del  secolo  XV,  Pico  della  Mi- randola, Alessandro  AchiUini,  NIFO (si veda),  Ba- cilieri  e  altri. L'averroismo  che  ormai  pareva  avere  esaurita  la  sua  vi- talità a  Parigi  ed  a  Oxford,  sopraffatto  dallo  scotismo  e  dal- l'occamismo,  s'era  ridotto  ormai  nelle  sue  due  ultime  fortezze di  Padova  e  di  Bologna.  Accade  ancora  di  trovare  qualche altro  averroista  altrove,  come  Luca  Prassicio  a  Napoh,  che già  vecchio  intervenne  nel  1521  nella  polemica  fra  Pomponazzi  e Nifo.  Ma  nel  suo  rigido  attaccamento  al  testo  aver- roistico,  egli  parlava  un  linguaggio  che  si  faceva  di  giorno  in giorno  più  incomprensibile. Anche  a  Bologna,  ove  l'averroismo  sigeriano  aveva  trovato alla  fine  del  Quattrocento  nell'Achillini  un  difensore  ardito  e destro,  non  ebbe  in  Ludovico  Boccadiferro  un  successore degno  di  tanto  maestro.  A  Padova  invece  l'averroismo  prese a  rinnovarsi,  sotto  la  spinta  del  Platonismo. E uscita  a  Treviso  la  traduzione  che  Barbaro  aveva  fatto  delle  Parafrasi  di  Temistio.  A  questo interprete  bizantino  e  a  Teofrasto,  Averroè  stesso  aveva  fatto risalire  la  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto.  Non  fa  quindi meraviglia  che  gli  averroisti  si  ponessero  a  studiare  con  parti- colare interesse   la    parafrasi  temistiana  del  De  anima,  nella 29 450        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI traduzione  del  Barbaro,  visto  che  la  traduzione  medievale  di Guglielmo  di  Moerbeke  era  diventata  estremamente  rara, e  del  resto  era  oltremodo  ostica  all'orecchio  degli  umanisti. Ma  assai  più  della  parafrasi  di  Temistio,  contribuì  al  rinnova- mento dell'averroismo  padovano  la  conoscenza  del  commento di  Simplicio  al  De  anima,  rimasto  sconosciuto  ai   medievali. Il  primo  che,  a  mio  parere,  conobbe  ed  usò  il  commento di  Simplicio  al  De  anima  fu  Pico  della  Mirandola,  il  quale  ne estrasse  ben  nove  tesi  delle  900  preparate  nel  i486  per  k disputa  da  tenere  a  Roma,  che  poi  non  ebbe  luogo.  Il  com- mento di  Simplicio  dovette  attirare  l'attenzione  del  Pico, perché  pareva  contenere  un  elemento  che  poteva  essere  pre— ^ zioso  a  risolvere  il  problema  centrale  dell'averroismo  e  che è  il  problema  centrale  di  tutta  la  filosofia,  e  cioè:  in  che  modo r  intelletto  che  è  un  principio  di  conoscenza  universale  e  che nella  sua  natura  trascende  l' individuo,  si  comunica  a  questo, puntualizzandosi  nello  spazio  e  nel  tempo.  Come  ho  dimo- strato più  volte,  il  significato  storico  ed  il  valore  filosofico dell'averroismo  consiste  appunto  nello  sforzo  di  risolvere questo  problema,  che,  posto  dai  medievali  in  termini,  se  vo- gliamo, contingenti  e  per  noi  inconsueti,  è  il  problema  eterno della  filosofia.  Il  trattato  di  Sigieri  di  Brabante,  De  intellectu, scritto  in  risposta  al  trattato  di  S.  Tommaso  contro  gli  aver- roisti,  questo  trattato  di  Sigieri  che  si  leggeva  ancora  a  Pa- dova negli  ultimi  decenni  del  sec.  XV,  suggeriva  al  signore della  Mirandola,  studente  a  Padova  ed  averroista,  una  solu- zione della  quale  si  ha  l'accenno  in  due  delle  «  conclusiones secundum  Avenroem»:  da  un  lato,  l'anima  intellettiva  è una  sola  in  tutti  gli  uomini;  dall'altro,  sembra  possibile  al Pico,  da  un  punto  di  vista  strettamente  averroistico,  che  la mia  anima,  così  particolarmente  mia  da  distinguersi  dall'anima di  ogni  altro  uomo,  possa  conservare  la  sua  individualità anche  dopo  la  morte. L'elemento  prezioso  che  il  commento  di  Simplicio  forniva al  Pico,  consiste  nell'  idea,  derivata  da  Proclo  e  da  Giambhco, di  un  intelletto  che,  uno  in  sé,  è  capace  di  parteciparsi,  uscendo fuori  di  sé,  in  una  discesa  progressiva  verso  le  «seconde  vite», cioè  la  vita  vegetale  e  quella  animale,  per  poi  ritornare  in  sé, in  un  circolo  eterno  che  ricorda,  anche  nella  curiosa  coinci- denza dell'espressione  verbale,  il  processo  hegeliano  dell'  idea in    che,  uscita  fuori  di  sé,  ritorna  a    come  spirito. Non  è  il  caso  d' indugiarmi  piìi  oltre  ;  ma  non  posso  non ricordare  la  curiosa  immagine  che  il  Pico  suggeriva  al Nifo,  professore  a  Padova,  durante  il  viaggio  che  insieme  eb- bero a  fare  diretti  entrambi  a  Bologna.  L'unità  dell'  intelletto umano  non  è  altro  che  l'unità  dell'  idea  platonica,  che  si  co- munica ai  singoli  rimanendo,  in  se  stessa,  una,  indivisibile  e immoltiplicabile.  Ma,  nel  comunicarsi  ai  singoli,  essa  lascia in  questi  un'  impronta  e  un  vestigio  che  permane  e  costituisce r  individuahtà  dei  singoli.  E,  per  rendere  il  suo  concetto, il  mirandolano  ricorreva  a  questo  paragone.  Come  per  co- struire un  arco  o  una  volta  è  necessaria  quell'  impalcatura che  chiamano  centina;  ma  quando  l'arco  o  la  volta  sono  co- struiti, si  reggono  da  sé,  senza  bisogno  di  sostegno;  così  l'anima individuale  è  una  partecipazione  dell'anima  universale,  la quale  nel  corpo  di  ogni  individuo  umano' lascia  un'impronta in  cui  consiste  l' individualità  di  ogni  uomo. In  tal  modo  il  mirandolano  non  ripudiava  affatto  il  suo averroismo  del  periodo  padovano;  ma  anzi  l'approfondiva  e  lo giustificava  con  un  concetto  neoplatonico,    che  il  problema, nel  quale  si  dibattevano  senza  via  d'uscita  gli  averroisti, pareva  avviato  alla  soluzione. Agostino  Nifo,  professore  a  Padova  dal  1492  al  1499,  uomo di  vasta  erudizione,  ma  confusionario  e  pretenzioso,  credette in  un  primo  momento  di  aver  trovato  nel  commento  di  Sim- pUcio  la  piena  conferma  alla  tesi  sigeriana,  che  egli  ci  attesta di  aver  accolto  nella  sua  prima  giovinezza  e  poi  con  molta disinvoltura  abbandonato. La  vivacità  chiassosa  ed  arrogante  che  il  Nifo  metteva  nel difendere  le  proprie  idee  e  nel  combattere  le  altrui,  contribuì ad  attirare  l'attenzione  sul  commento  di  Simphcio,  del  quale frattanto  fu  preparata  l'edizione  in  greco  che  uscì  a  Venezia nel  1527,  presso  i  Manuzio.  Colui  che  pur  senza  condividere le  idee  del  Nifo,  anzi  combattendole  apertamente,  si  diede con  ardore  a  studiare  il  commento  di  Simplicio  al  De  anima, fu  Marcantonio  de'  Passeri,  detto  il  Genua,  professore  di  filo- sofia nello  studio  di  Padova  sino all'anno  della  sua  morte.  Di  costui  ci  resta  un  importante  commento  al  De anima,  pubblicato  postumo  nel  1576,  a  Venezia,  ad  opera  di fedeli  alhevi  che  si  giovarono  dei  manoscritti  lasciati  dal maestro.  Altre  due  redazioni  dello  stesso  corso,  tenuto  in  anni diversi,   ci  restano   manoscritte  nella  Biblioteca  Vaticana.  Averroista,  il  Genua  riteneva  di  poter  proclamare  il  pieno accordo  fra  Averroè  e  «  il  divino  Simplicio  »,  sia  sulla  tesi  del- l'unità dell'  intelletto,  sia  su  quella  che  vuole,  contro  la  cor- rente sigeriana  del  Nifo,  l'anima  razionale  forma  assistente  e non  inerente  o  «  informante  »  del  corpo  umano.  Inoltre,  egli constatava  l'accordo  tra  il  commentatore  greco  e  quello  arabo anche  su  altri  punti,  segnatamente  sulla  conoscenza.  Nel far  ciò,  egli  si  ado prava  a  sviluppare  alcuni  motivi  platonici che  realmente  erano  latenti  nel  pensiero  averroistico.  Naturalmente il  Genua  fu  uno  dei  più  risoluti  avversari  dell'ales- sandrismo,  e  riprese  per  proprio  conto,  come  altri  averroisti, la  polemica  contro  POMPONAZZI (si veda) e  PORZIO (si veda), i  quali,  al  pari di  Maggi,  di  Landò  e  di  Giulio  Castellani, s'erano  dichiarati  per    Alessandro  d'Afrodisia. L'avvicinamento  di  Averroè  a  Simplicio,  mentre  forniva nuove  armi  agli  averroisti,  sembrò  per  un  momento  smus- sare l'antagonismo  tra  la  filosofìa  aristotelica  e  quella  pla- tonica, la  quale  aveva  avuto  nel  Ficino  un  sagace  rinnova- tore. La  scuola  del  Genua  pareva  anzi  aver  trovato  nel  neo- platonismo la  soluzione  di  quelle  difficoltà,  che  furon  lo  scoglio contro  il  quale  l'averroismo  doveva  naufragare. L'entusiasmo  dei  discepoli  incoraggiava  ed  assecondava l'opera  del  maestro.  Fra  questi  merita  di  essere  segnalato Giovanni  Fasolo,  professore  di  lettere  umane  nello  studio padovano.  Era  da  otto  anni  allievo  del  Genua  e  ben  tre  volte aveva  udito  il  maestro  esporre  il  De  anima,  quando  condusse a  termine  la  traduzione  in  latino  del  commento  di  Simplicio sul  trattato  aristotelico,  stampata  a  Venezia  nel  1543.  Nella lettera  indirizzata  agli  alunni  del  Genua,  e  premessa  alla traduzione  del  secondo  libro  di  Simplicio,  il  Fasolo,  dopo  aver loro  ricordato,  come  il  maestro  solesse  a  tutti  gli  altri  commen- tatori d'Aristotele  anteporre  Averroè  e  Simplicio,  afferma  che tutto  quanto  v'  è  di  buono  nei  libri  dell'arabo,  questi  1'  ha appreso  dal  commentatore  greco.  E  sebbene  egli  riconosca, che,  su  alcuni  punti,  non  s'arriverebbe  a  capire  Aristotele senza  il  commento  averroistico,  tuttavia  ne  mette  in  rilievo lo  stile,  più  che  disadorno,  irto,  oscuro,  barbarico,  mentre l'esposizione  di  Simplicio  è  piana,  senza  ambiguità,  ed  ele- gante. Forte  di  questa  constatazione,  e  più  ancora  dell'esempio del  maestro,  che  non  si  stancava  di  lodare  la  divina  esposi- zione dell'  interprete  greco,  il  Fasolo  rivolge  una  calda  esortazione  ai  suoi  condiscepoli,  perché  vogliano,  ora  che  il  com- mento di  Simplicio  è  reso  facilmente  accessibile  a  tutti,  ces- sare di  logorarsi  il  cervello  sulle  pagine  scabrose  di  Averroè, e  s'affidino  invece  all'espositore  greco.  Si  buttino  pur  via  tutti gli  altri  commenti,  quelli  d'Alberto  Magno,  d'  Egidio  Romano, del  Burleo,  del  Suessano  e  d'altri  insieme  a  quello  d' Averroè, e  si  studi  invece  di  giorno  e  di  notte  soltanto  Simphcio:  «  alios negligite;  Simplicium  unum  vobis  die  noctuque  versandum proponite  w. Questo  vivace  appello  rivolto  dall'umanista  padovano  a cacciar  dalle  scuole  Averroè,  era  fatto,  a  dir  vero,  più  in  nome dell'eleganza  e  del  buon  gusto  letterario,  che  non  nel  nome della  filosofìa;  e  pochi  l'accolsero.  Sicché  Averroè  continuò ad  essere  stampato,  letto  e  discusso  «  in  utramque  partem  » nelle  scuole  di  filosofia  durante  tutto  il  Cinquecento.  Ma quell'appello,  ad  ogni  modo,  è  significativo  del  disgusto  che cominciava  così  apertamente  a  manifestarsi  per  l'averroismo ormai  prossimo  al  tramonto. Chi  credesse  che  a  questo  tramonto  abbiano  contribuito  lo spirito  della  controriforma  e  i  divieti  ecclesiastici,  s' inganne- rebbe. Chiarito  ormai  quello  che  era  il  significato  dell'averroismo come  sistema  interpretativo  del  pensiero  aristotelico,  fu  ri- conosciuta tanto  agli  averroisti  quanto  agh  alessandristi  la più  spregiudicata  libertà  di  discussione  delle  loro  dottrine «  filosofiche  ».  Se  qualche  tentativo  fu  fatto,  da  parte  di  qual- che zelante,  di  Hmitare  siffatta  hbertà,  si  tratta  di  zelo  ec- cessivo e  di  eccezioni  sporadiche. L'averroismo  volse  al  tramonto  sul  finire  del  secolo  XVI  e sul  cominciare  del  secolo  successivo,  perché  al  tramonto  vol- geva ormai  l'aristotelismo,  del  quale  l'averroismo  pretendeva d'essere  la  più  fedele  interpretazione.  L'aristotelismo  a  sua volta  finiva  per  interna  dissoluzione,  sotto  i  colpi  della  critica occamistica,  la  quale,  svalutando  la  conoscenza  astrattiva, metteva  in  evidenza  lo  pseudo  matematismo  dei  procedimenti gnoseologici  che  sono  alla  base  del  sistema  aristotelico  della natura,  e  additava  nella  conoscenza  intuitiva  lo  strumento della  ricerca  scientifica. La  stessa  opposizione  tra  ciò  che  è  vero  per  fede  e  quello che  è  da  pensare  secondo  la  «filosofia»,  se  pur  in  qualche  modo giovò  a  rivendicare  la  Hbertà  della  critica  entro  i  confini  della filosofia  aristotehca,  finì  per  rendere  sempre  più  estraneo  al cristianesimo  raristotelismo  averroistico,  il  quale  si  rivelava incapace  di  sistemare  l'esperienza  religiosa  che  trae  impulso dal  Vangelo.  11  platonismo  invece  era  parso  al  Ficino  una  specie di  propedeutica  al  cristianesimo,    che  sembrava  agevole sviluppare  in  senso  cristiano  i  motivi  religiosi  che  racchiudeva. S'aggiunga  a  questo  l'asperità  di  un  linguaggio  che  lacerava le  orecchie  abituate  dall'umanesimo  all'armonia  e  al  numero della  retorica  classica. Ma  quello  che  determinò  il  crollo  definitivo  dell'aristoter- lismo  e  dell'averroismo,  fu  il  nascere  di  una  nuova  filosofia della  natura,  fondata  su  un  nuovo  metodo  di  ricerca  scienti- fica: la  logica  dell'esperienza.  Mentre  i  precursori  di  Copernico, da  Nicola  d'Oresme  in  poi,  avevano  rimesso  in  discussione l'antica  ipotesi  pitagorica  del  moto  della  terra,  l'averroista  bolo- gnese Alessandro  Achillini  alla  fine  del  secolo  XV  e  nel  primo  decennio del  XVI  combatteva  perfino,  come  troppo  ardita,  la  dot- trina tolemaica  degli  eccentrici  e  degli  epicicli,  per  ritornare  a quella  aristotelica  delle  sfere  concentriche  alla  terra,  considerata il  centro  immobile  dell'universo.  E  mentre  alcuni  scolastici  del sec.  XIV  avevano  dimostrato  la  possibilità  di  un  universo  infinito creato  da  Dio,  ed  avevano  preparato  la  via  al  Cardinal  Cusano e  a  Bruno,  gli  averroisti  del  Quattrocento  e  del  Cinquecento continuavano  ancora  a  sostenere  che  il  mondo  non  si  esten- desse al  di    dell'ottava  sfera  o,  tutt'al  più,  del  primo  mobile,, che  Dio  stesso,  nella  sua  onnipotenza,  non  potesse  creare  altri mondi  diversi  da  questo,  e  che  il  moto  del  primo  mobile  fosse un  movimento  assoluto,  come  punti  di  riferimento  assoluti erano,  per  loro,  il  centro  della  terra  e  la  convessità  della  prima sfera.  Questa  angusta  concezione  dell'universo  fisico  crollava come  un  castello  di  carte,  il  giorno  in  cui,  col  dialogo  della Cena  delle  ceneri  e  con  quello  Dell'universo  infinito  e  mondi, il  concetto  dell'  infinito  faceva  irruzione  nella  filosofia  della natura  e  conduceva  alla  scoperta  della  relatività  di  tutte  le determinazioni  spaziali  e  temporali.  L'averroismo  fu  sepolto sotto  le  rovine  della  fisica  aristotelica. Ed  anche  il  tentativo  del  Pico  e  del  Genua  di  svolgere  ta- luni motivi  del  pensiero  averroistico  in  senso  platonico,  col- l'aiuto  del  commento  di  Temistio  e  di  Simplicio  e  sopratutto- col  sussidio  di  Plotino,  non  valse  a  salvare  1'  averroismo  come sistema.  Per  ciò  che  si  riferisce  al  commento  di  Simplicio,  nel quale  avevano  riposto  le  loro  speranze  il  Genua  ed  i  suoi  padovani,  non  passarono  molti  anni  che  PICCOLOMINI (si veda), il  quale  dopo  la  morte  del  Genua  ne  occupò  la  cattedra  fino al  suo  ritiro,  potè  dimostrare,  con  un  accurato  esame dell'opera  del  commentatore  greco,  che  la  dottrina  di  Simplicio, al  pari  di  quella  di  Proclo,  di  Giamblico  e  di  Prisciano  Lido, non  s'accordava  affatto,  come  avevano  preteso  il  Genua  e  il Nifo,  colla  teoria  averroistica  dell'unità  dell'  intelletto.  E  se nell'averroismo  v'erano  effettivamente  quei  motivi  platonici che  ne  svolse  Pico  della  Mirandola,  ciò  che  dell'averroismo sopravisse  e,  mettiamo  pure,  sopravive  alla  dissoluzione  del sistema,  ha  finito  per  fondersi  col  pensiero  platonico  successivo. Lo  stesso  problema  del  rapporto  dell'  intelletto  coli'  indi- viduo, ossia  del  valore  universale  dell'  intendere  e  dell'  indi- vidualità dell'atto  che  intende,  che  è  il  problema  centrale  del- l'avveroismo  medievale  e  del  Rinascimento,  s'  è  rivelato  mal posto,  pei  termini  nei  quali  era  enunciato,  e  conveniva  mutare i  termini  per  trovarne  la  soluzione.  Abano  Abbagnano Abubacher:   (v.  Aven- pace). Accoramboni  Achillini  Achillini  Achillini  Aeternitni  a  parte  post,  aeternum a  parte  ante  Agenti  univoci  e  sinonimi:  v. Cause  Agostino   (S.):    Agostino  Moravo:    Alabanti  A.:    Albategni  o  Albattani:    Alberto  G.   G. Alberto  Magno Alberto  di  Padova:   Alberto  di  Sassonia,  o  Albertuccio: Albumasar:  Alcocodem:   Alessandrismo:  Alessandristi:(v.   Averroisti). Alessandro  d'Afrodisia Alessandro  di  Hales:  Alf arabi    (Alpharabius),  Abu   Na- sar)  :  Algazel  (Al-Gazali)  :  Alnwich Alpheeh,   Averrois  filius:  Alvise  da  Brescia:  Ammonio:  Anassagora:  Anatomia:   Angeli:   Anima  razionale   0   intellettiva   (v. anche  Intellectus  e  Uomo) Animarum     descensus     et     indivi- duano: Anima    umana    {Immortai .    dell')  Anima  delle  piante  e  degli  animali: Anima  mundi Annibale  Camillo  da  Coreggio Anselmi  Antonio  Andrès:    Antonio  da  Faenza,  v.  Cittadini  A. Antonio  da  Rimini:  Antorosa   (Antonino  de)  Apollonio  di  Tiana:   Aquila   (Sebastiano  dell') Aquilano  (de  Aquila)   Aquinate,    Aquino,    v.    Tommaso d'Aq.  Arcamona  Arcudi  Arcudi  Arcudi  Argelati  Aristotele Aristotele  Infallibilità  d'Aristotele  (Contradizioni  d')  Aristotele  concordato  con  Platone: Aristotele   (Pseudo)  Aristotelismo Averroismo Asìn  Palacios  M.  Astrologia  Giudiziaria:   27,   Aulo  Gellio Avanzo   Avenpace  (v.  anche  Abubacher)  Averroè  (Averroys,  il  Commenta- tore per  eccellenza  di  Arist.) Averroè  (Contradizioni   d')  Averrois  filius,  Alpheeh. Averroismo:  Avicenna:  Bacilieri  Baconthorpe Badoèr    Baeumker  Bagaroto  Bagolino  Gir.:   Baldassarre  da  Chiusi:    Barbarigo   Barbarigo  Barbaro Barozzi  Barzon  Basilio  Troiano:  Bate  Baumgartner  M.  Beatitudo Copulatio,   Felicitas, Perfectio. Bembo  Benavides,  Bonavites Benavides     Marco,  Marco Mantova Benedetto  del  Tiriaca  o  del  Triaca  Benedettucci  Benozzo  Gozzoli Benzi  Bernardi    A.,     Mirandolano:    Bernardino  da  Feltre:  Bernardo   Gir.: Bernieri  da  Nivelles:  Bertela  Bertoldo   di  Mosburg:    Bessarione:    Betoni  Gir.:   Bettini  Biagio   Pelacani Pelacani   B. Bin  o  Binno  Jacopo  de'  Tornasi: Bin  o  Binno  Matteo  de'  Tomasi: Boccadiferro  BOEZIO Boezio  di  Dacia:   Bolderio  Bonamico   Bonaventura    (San):    Bonaventura  Bonet  Bonus  o  de  Bono  Gir.:  Bonuso  Bovio  (Dal  Bò)  Gir.:  Bradwardine  Bragadin   Bragadin  Branca  V.:   Branda  Porro:  Brenzio  Bres.san  B.  Brotto  Brunacci  Bruno  Bruns  Burana  Buridano  Burleo  (Burley)  Gualt.  Buzacarini  Buzacarini  Calcaterra    Calcidio:  Calcidonio  Calcidationes  (v.  anche  Latitudo formarum Calculator,  v.  Suisset. Calfurnio  Campano  Camillo  da  Coreggio:   Campeggi Campeggi  Campeggi  G.  Z.:   Campeggi  Campeggi  Campesano  Campesano  Caninio  Cantimori  D.:  Capitani  Capitani  Capparoni  Capuano  Caravegi  G.  Ben.:Carensio  L.,  detto  il  Toseto  Pa- dovano:  Caro  Carpi  (Iacopo  Berengario da Carrano  Carrati Casio  Gir.   de'   Medici:   Casserio  Castellani  Castrioto  F.  :   Castrioto Causa  Prima:  Causalità  efficiente  e  e.  finale:  Cause  intermedie: Cause  univoche  esinanirne:  Cavalcanti  Cavalli  (de  Caballis,  ab  Equis) Champier  Cr.  Champier  Sin.:  Charpentier  Chirurgia  CICERONE:  Cicogna  Cieli  :  numero,  ordine,  dipendenza  dal  primo  Motore, animazione,  sfere  celesti, v. Motori  celesti,  Eccentrica  ed  epi- cicli,  Influenze  celesti. Cielo,  se  finito  o  infinito:   Circolazioni   cosmiche:  Cittadini  A.  da  Faenza:  Clough  Cecil  H.:   Coclite  Cogitativa  (o  Intellectus  passivus, Imaginativa) Colchodea:   Commentatore,    v.    Averroè. Complexio    anche    Mixtio Concorrenza  (Istituto  padovano della) Contarini  Contarini Contarini  Contarini Conte  Contingenza:  Copernico   Capulatio  o  Continuatio  intellectus possibilis  cum  intellectu  agente (v.  anche  Intellectus  adeptus,  Fe- licitas Corner  Corner  Corradino  da  Bergamo:  Corrado  d'Oria  Coxe  Creazione Cristo  «  primogenitus  omnis  crea- turàe  Cristoforo  da  Recanati Croce  Cusano  Dalais  Dalbò  M.:  Da  Lion   Dallari  Dalla  Scrofa,  famiglia  vicentina; Dal  Molino  Damaselo  Dandolo  M.  :  Dante Da  Porto  D'Arco  C.  De  caitsis  (Liber)  De  Corte  Degli  Agostini De  Ketam  Del  Bene  Della  Pozza  A.:  Democrito Demolins   Demoni:    Denifle  H.  e  Chàtelain  Ch.   De  Renzi  De  Wulf  M.:  8. Dimensiones  interminatae  :  Diede  Diedo  P.  Diedo  Dio  (v.  anche  Causa  prima  o Motore  primo)  :  causa  efficiente e  finale,  forma  del  primo  cielo Motore  primo,  187-93; Infinità  e  onnipotenza  di  D., se  conosca  «alia  a se Dionigi  Areopagita  (Pseudo):  Dionisotti  Domenico  Indiano:   Donato  A.:   Donato Donato  Donato  Dondi  dall'Orologio  C.  Dondi  dall'  Orologio  Dorighello  Dotti  Dotti  Du  Chastel  P.  Duhem  Duns   Scoto   G. Duns  Scoto  G.    (Pseudo):     (v.   Vitale  du    Four). Duodo  Eccardo  di  Hochheim:   Eccentrici    ed    epicicli:    (v.   anche  Cieli). Egidio  Romano Egnazio  Elementi    (v.    anche    Complexio    e Mixtio):  proprietà,   Elia  del  Medigo:   Emo  Emo  Z.:  Empedocle GIRGENTI  Enrico  di  Gand:  Enrico   di   Harclay Entisbery  (cioè  G.  di  Heytesbury) Eternità    del    mondo Eucliph  G.,  V.  Wyclif.  G. Eudemo Endosso:   Eustachio  Rudio:  Facciolati  lac:  Faenza  Antonio  da  E. Cittadini. Fantuzzi  Faseolo  o  Fasolo  Favaro  Federico  Romano:  Felici   (Gir.  de' Felicitas  (v.  anche  CopMlaiio  Ferrari  Ferrari  Ferrarini  Ficino  Fidentius  Petruslunctarius:  Filippo  de  Thoriaco, Filopono  (Philoponus,  Ioannes Grammaticus)  Filosofia.  La  F.  pei  medievali, F.  e  teologia (v.  anche  Verità)  F.  e  cultura,  F.  e  Medicina, 158;  migrazione  della  F., rinnovamento  della  F.  in Italia:   Filosofo  per  eccellenza:  v. Aristotele. Fiorentino  Fr.  Fogolari  Fontana  Forma  sostanziale  :  successione delle  forme,  produzione  o generazione  delle  forme,  dator  formarum  forma  corporeitatis  forma  mixtionis  formarum  intensio  ac  remissio  anche  Calcu- lationes forma  constuens e forma  constituta  Formativa Informativa. Foscarini  Foscarini  Seb.  Fracanziano  o  Fracanzano  Franceschetti  Fr.  :   288. Francesco  Securo  da  Nardo: Francia  Fr.  Frati  Gabrielli Gaeta  Gaetano  (Card.),  v.  Tommaso  de Vio. Gaetano  da  Thiene Galeno  (Galenus,  Galienus)  Galil^ei  Gambalunga  F.  :  Gand,  v.  Enrico  di  G. Gandavo     (de),     Gandavensis,     Jandun  (Giov.  di). Garin  Gaspare  da  Perugia:  Gaurico Gazzoni  Generazione  [cause  della)  :  86. Generazione  univoca Cause  univoche. Gentile  Gentile  da  Foligno Genua   (De  lanua)  Genua  (De  lanua,  de'  Passeri)  Genua  (De  lanua,  de'  Passeri)  N.  Genua  M.  A.,  figlio  del  preced.: Genuli  Gerardo  da  Bologna Gerardo  da  Cremona Gesuati Ghero  Giacobiti,  V.  lacobitae. Giamblico  (lamblicus)  Gian  Michele  de   Bredepalea: Gian  Pietro  de  Cararijs:   Giason  dal  Maino:   Gilson  Giordano  Bruno  G. Giordano  de  Nemore: Giorgio  da  Trebisonda,  Giorgione:  Giovanni  Grammatico Filopono. Giovanni  della  Lana: Giovanni  del  Pian  del  Carpine Giovanni  da  Ripatransone Giovanni  da  Schio Giovio  Girelli  Girolamo  da  Monopoli Girolamo  dal  Muro  Nuovo:  Girolamo  (Pseudo  S.)  Girolamo    da    Verona,     v.     Torre (G.  della  T.). Giulio  Giustinian  Giustinian  Giusto  de'  Menabuoi Gonzaga  Gosvin   de   la   Chapelle:    Grabmann  Gradenigo  Graiff  Grassetto  Grassi  Gravia  et  levia: Gravina Graziadio  da  Venezia Gregorio  Magno  (S.)  Gregorio  da  Rimini Grimani  Gritti  Grutero  Guglielmo  di  Moerbeke,  v.  Moerbeke. Guido  da  Pesaro Guinizelli  G.  :   loi. Hain  Lud.  Haly  ben  Rodoam:   Halyabbas:  Hauréau Hayduck  Helias  Cretensis,  v.  Elia  del  Me- digo. Hervaeus  Natalis: Hervetus  Heytesbury  W.,  v.  Entisbery. Hirsch  Aug.  Homo  significai  coniposituni  ex corpore  et  intellectu: Honiinis  dignitas:  Homo,  microcosmus,  nexus  supe- rioruni  cuni  inferioribus  :  Horen Oresme  (Nic.  d'). H  vie  eh:   lacobitae  (Giacobiti)  Iacopo    da    S.    Martino,    o    I.    da Napoli:   Iacopo  da  Venezia:  Ibernico,  Maurizio  I. Ideae,   ideales   rationes: Imaginativa, Cogitativa. Imagines  astrologicae: Impetus:  Individiiationis principiitìn: Informativa   [Vis):   Intellectus  (talora  Mens).  I.  vocatiis,  assimilativus, Accomodatus acqitisitus,  adeptus  (v.  Co- pìtlatio),  I-  possibilis,  potentialis,  materialis possibilis  unitas poss.  pura potentia  in  genere  intelligibilium , poss.  unio  ad corpus agens perfectionis,  in  actu,  in  habitii, speculativus, progrediens  ad  secundas  vitas,  I.  descensus,  ascensus,  I.  tviplex  in  homine,   impartecipabilis,  partecipabi- lis,  pariicipatus,  forma  animae,  passivus  (v.  Imaginativa,  Co- gitativa),  Intellectum  (Intelligibile,  species intigibilis.  Idea)  : Jntellectiis  et  voluntas:   Intelligentia  prima  (v.  Dio,  Motore primo  immobile)  Intelligentiae  separatae  (v.  anche Sustantiae  separatae): Intelligen- tiariim  individuatio,  Int.  motrici  (v.  anche Cieli),  In- telligentia inferior  cognoscit  superiorem  per  essentiam  superio- ris,  Se  e  come  la  mente umana  conosca  le  Int.  separate, Intelli- gentiae propinquae  uni  puro  et longique  ab  ipso Intelligentiae  an  dent  esse  caelo, dipendenza  dal  Primo  motore,  Intentiones  imaginatae,  phanta- smata:  Intentiones  priinae  et  seciindae  Ioannes  Canonicus:    Ippocrate:    Isacco  IsraeHta: Jandun  (Giovani  di).  Io.  de  Gan- davo,  Gandavensis Kant  Keeler  Kibre  Pearl Krebs  Kristeller  Lana  (Domenico  della)  Lancellotti  (P.  D.  Secondo)  Landò  Languardo  Latitudo  formarum  anche  Forniarum  intensio  et  remissio)  Latituto  intellectintiir. Latomus  I.   Berganus:   Laurent   Lemay  R.  Leone  X: Libertà   e   contingenza:    Libertà  e  necessità:   Liceto  Lippi  Lodovico  o  Luiz  A. Lodovico   da   Varthema;  Longo  Longo  Loredan  Loredan  Loredan  Loredan  Lucano Luigi  da  Porto:  Lullo  Luogo  naturale:   Lorenzo  da  Noale:   Madio,  v.  Maggi. Madruzzo  Maggi  o  Madio  Maier  Malchiavello  Malipiero  Mandonnet  Mantova  Marco,  v.   Benavides. Manupello  Manuzio  Aldo,  il  giovane,  Manuzio  Marco  Polo: Marino:  Marliani Marsilio  da  Carrara MarsiUo  di  Inghem:  Martino  da  Lendinara  (Fra)  Martinotti  Materia  prima:   Matteo  da  Ripalta:   Maurizio  Ibernico  (C  Fihely, detto  M.  I.)  Mazzetti  Mazzuchelli  Medici Medicinae  prae stantia:   Memo  Memoria  e  Reminiscenza:   Mente  [Mens),  v.  Intelletto,  Ani- ma intellettiva. Mente  prima  (v.  anche  Dio,  Intelligentia prima):    Mercati  Mercuri  (Biagio  de')  :Merhno  Michalski  Michiel  Michiel  Microcasmus:  v.  Homo. Miliani  Miliavacca  Minio  Minio-Palnello  Miracoli:  Mistica  averroistica Mixtio  elementaris  (v.  anche  Coni- plexio):  Mocenigo  Mocenigo  Mocenigo  Mocenigo  Mocenigo  Moerbeke  Gugl.  di  Mohler Moisò  Maimonide:    Molin  Momigliano  Mondi  (Impossibilità  di  pili)  Mondini  Fr.  Mondino  de'  Liuzzi:  Mondo   intelligibile    [Reminiscenza del):  Monopsichismo, o    Panpsichismo: Montagnana     (Bartol.     da) (iunior). Montagnana  Montagnana  Montecatino  Montesdoch  Monti  Panf.  Moog  W.,   Ueberweg. Moro  Morosini  Morosini  Morosini  Mortier  Moto  naturale:  Moto  violento: Moto  celeste    (Eternità   del)  Motore  immobile  (Primo);  se muova  con  vigore  infinito forma    dell'universo,Aloiori  celesti  (v.  anche  Intelli- genze separate  e  Cieli):  rapporto  coli' am- piezza e  la  velocità  dei  cieli: Mùller  Regiomontano. Miindus   qualibet  aetate   perfectus: Munk  S.:   Mùnster Mussato  Musuro Nallino  Napoli,  V.  Iacopo  da  N. Nardi  Natura  umana   (Decadenza  della)  Necromanzia:  Nemesio: Nicoletto  Vernia,  v. Vernia  N. Nicolò  di  S.  Sofia:   120. Nifo  (Niphus)  A.  da  Sessa  (Suessanus)  Nobili  Nogarola  Numenio Occam  Odi  o  Oddi   (Rin.  degli) Odoni  Oldoino  Oleari  Oliva Omero: Oratio astronomica: Oresme Orestano  Orlandi  Pagallo  Paganini Panpsichismo,   v.   Monopsichismo. Panizza  Paolo  Apostolo Paolo  dal  Fiume Paolo  dalla  Pergola Paolo  Veneto  (P.  Nicoletti  da Udine Paolo  Francesco  Veneto:  Papadia  Papadopoli  Pardi  Particolari   (Conoscenza  dei)  :  Pascal  Pasolini  Paschini  P.  Pasquale  Pasquali-Alidosi  Pasqualigo  Pasqualigo  Passeri  (De'),  v.  Genua. Pazzini  Peckam  (fra  Pelacani  B.  Pelli  Negre   (G.   F.  delle):   Pendasio  Peretto,  v.  Pomponazzi. Perfecfio  (v.  anche Forma  e  Copnlatio). Pernumia  Pernumia  Persiani  Peurbach  Philosophus Aristotele. Piccolomini  Pico  della  Mirandola  Pico  della  Mirandola  G.  Fr.  Pietro  de  Cruce:  Pietro  da  Mantova:   Pietro  da  Reggio  Pietro  Veneto Pinelli  Pio Pisani  Pisani Pisani  Pitagora Pitagorici Platone Tentativi  di  accordare  P.  con Aristotele Platonici Plotino Plumazio Plutarco  d'Atene Podestà  Polcastro Polcastro  o  Porcastro Poliziano  Polo  Pomponazzi  P.  da  Mantova,  detto il  Peretto  Mantovano Ponte  (Gir.  da)  Porfirio Portenari Portenari Porto  Porzio  Praecantatio Prassicio Fratelli  Prisciano  Prisciano  Lido Probabilia Proclo Profezia Prospero  da  Reggio Querengo Querini Quétif-Echard Quirini  Quirini    e    Querini    Ragnisco  log, Raguseo  Rangoni  Rannusio  Rappi     Cristoforo Crist. da Recanati. Rasis Regiomontano  (Miiller  G.  da  Kònigsberg) :  Reminiscenza,  v.  Memoria. Renan  Ricco  Risurrezione  dei   morti:  Ritter  Roberto  Kilwardby Robortello  Roccabonella  Rochelle  (fr.  Giov.  de  la)  Roselli  Roselli  Roselli  Trapolin Rugerijs  (Lod.  de):    Rugerius,  per  Sugerius Ruggiero  Sabellico Saitta  Salinatore  Salomonius  Salvato  da  Cagli:  366. Sambin  Sanseverino Sansone  Sanudo   o Sanuto  Saraceno Savorgnan  Scaligero Scardeone  Schedel  Schegkius  Schlosser  Scienza  umana anche Intellectus,  Intellectum,   Ideae). Scoto Ottaviano Secondo Segarizzi Securo Francesco  da  Nardo. Sepulveda  Genesio Serapione Sermoneta  Serrano  Sessa,  Suessano,  Sexa,  v.  Nifo Sighinolfì  Sigieri  di  Brabante Silvestri  (Frane,  de'  S.,  detto  il Ferrariensis)  Silvestro  (Padre)  da  Valsansibio Simeoni  Simone  o  Simeone  d'  Este:   Simoni  Simone Simpliciani Simplicio Sirleto Sisto  IV Socrate Solerti  Solino Sostanze  separate  (v.  anche  Intel- ligenze sep.): Se  ab- biano una  causa  efficiente Se  e  come  la  mente  umana conosce  le  Sparaini  (Assalone  de')  da  Cesena:  Species  intelligibile  s,  v.  Intellectum. Speranza Speroni Speroni  Sperone Spinelli  Spinola  Starniti  (?  maestro  de') Steenhawer  J.,  Latomus. Stefano  d'Alessandria:  Stegmùller  Steinschneider  Steuco  A.   Eugubino:   Storcila  Suessano,  v.  Nifo Suisset,  cioè  R.  Swineshead,  detto il  Calculator  Surian  A., Patriarca  di  Venezia: Surian  A.,  nip.  del  prec:  Suriano  Suriano  Sylvius    Laurentius    a    Portu    Caballensis:  Swineshead,   v.   Suisset. Taddeo  da  Parma:  Taiapietra Taiapietra Tasso  Taucci  R.  M.: Tavole  Alfonsine:   Tedoldi  Teodorico  di  Vriberg Temistio Teofrasto Teologia,  v.  Filosofia  e  Teol.  e Verità Pretesa  dottrina  della doppia Terra,  se  dovunque  abitabile:   Théry Thorndike Tiepolo Tiraboschi Tiriaca Benedetto  del  T. Tolomeo Tomasini  Aquino Tommaso    di    Strasburgo Vio Tommaso  di  Wilton Torre   (Gir.   dalla  T.   da  Verona Torre  (M.   A.  Dalla Tosetto Carensio. Tostado  Traini  Trapolin  Tropolin  Trapolin  Trapolin  Trapolin  Fr.,  senior: Trapolin  Fr.,  iunior: Trapolin  Trapolin  Giulio Trapolin  Lanzaroto Trapolin Trapolin  Marina  in   De  Lazzara Trapolin Trapolin    Trapolin  Pietro,  senior:   Trapolin  Pietro,  iunior:  Trapolin Trapolin  Trapolin Trapolin  Ubaldo Trevisan  Trevisan  Trincavelli  Trionfo  Trissino  Trombeta  o  Tubeta  Tumminelli  Turchi   Ueberweg  Ueberweg  F.-Moog  Ugo  Benzi  da  Siena: Ulrico  da  Strasburgo Universale  anche  Intellectus  universalia physica,  realia Universo  aristotelico  (v.  anche Dio,  Causa  prima.  Motore  primo): se  finito o  infinito eternità  e necessità  dell'u.:  Valentinelli  l'aristotelismo  padovano Valier  Vanni-Rovighi  Van  Steenberghen Vedova Venier Venier Venier  Venier  Verbeke  Verci  Verini  Fr.   Secondo Verità  Pretesa  dottrina  della  doppia Vernaleone  Vernaleone  Vernia  Vernia  Nicoletto  da  Chieti  :  V Vimercate  Frane,  da Virgilio Virtus  sancta  Intellectus  assimilativus Visione  beatifica Vitale Vitale Vittori Volta Voluntas  et  intellectus Wadding  Wyclif  Xiberta Zabarella Zaccaria  da  Milano Zane Zeno Zimara Zimara Zimara Zimara Zimara Zerbo Zerbo  Zonta Zorzi Firenze. Bruno Nardi. Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo, Pomponazzi, Virgilio, Enea, inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana nel secolo d’augusto – il secolo d’oro della filosofia romana – il secolo augusteo, pico, abano. Refs.: H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate,” The Swimming-Pool Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il paradiso filosofico” --.

 

Grice e Nasta: la ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio Calabria, Calabri. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di Pitagora.” Grice: “Cicerone argues: Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.

 

Grice e Natoli: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo tragico – origini dell’antropologia romana -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Patti). Filosofo italiano. Patti, Messina, Sicilia. Grice: “I like Natoli. He philosophises on the ‘uomo tragico’ at the source of western civilisation, and also the experience of ‘pain’ at the source of it.” Si laurea a Milano, dove ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Insegna a Venezia e Filosofia della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano.  Attualmente è Professore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.  Attività accademica In particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un'etica neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito, in contrapposizione con la tradizione cristiana.  Filosofia del dolore Una particolare e approfondita analisi sul tema del dolore è stata condotta da Natoli in diverse sue opere.  Il dolore è parte essenziale della vita e per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della felicità:  «I greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele e insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire, ove non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si volge nella gioia e la gioia nel dolore»  La natura infatti dava la vita e nello stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della vita ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi soffre percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante per chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si sente importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte.  Secondo Natoli l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo, il danno («Nel momento in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa, colui che soffre non solo patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»); e uno soggettivo, cioè come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece, è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga un dolore diverso.  Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe quello abbia commesso e, infine, perché il dolore travagli il mondo. Il tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere, tenendo sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva sconfitta.  Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece, ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché «il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.»  Sebbene il dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia, creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza della morte:  «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali modificandone i cicli…»  Una soluzione all'inevitabilità del dolore può essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo.  «Il cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia.»  Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito, ma non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos, che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell'universale fragilità umana.  Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi su Aristotele e Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio” (Venezia, Marsilio); “Ermeneutica e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano, Feltrinelli); “L'esperienza del dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli); “Gentile” (Torino, Boringhieri); “Vita buona vita felice -- scritti di etica e politica” (Milano, Feltrinelli); “Teatro filosofico -- gli scenari del sapere tra linguaggio e storia” (Milano, Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia, espressione, verità” (Milano, Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria degli affetti” (Milano, Feltrinelli); “I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario dei vizi e delle virtù” (Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma, EL); “Soggetto e fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della filosofia” (Milano, Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori); “Natura, poesia, filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche della modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana); “La politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano, Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco” (Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana); “Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana); “I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano, Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa, Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso” (Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia” (Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli); “Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli); “Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore.  In L'esperienza del dolore.  L'esperienza del dolore nell'età della tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa,  I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Intervista per Il Rasoio di Occam, Video intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli. Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Nausito: la ragione conversazionale della scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita di Pitagora.” He rescues Eubulo di Messina, another Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone argues: Nausito speaks Greek; he is, therefore, no Roman!” – Nausito.

 

Grice e Nearco: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia.  A Pythagorean, he plays host to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures Taranto from the Carthaginians. Grice: “When in Athens, and although he knew some basic Greek, Catone refused to speak it – and demanded an interpreter. I assume he demanded an interpreter when he was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.

 

Grice e Nicoletti: la ragione conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia Giulia. – Grice: “His diagramme for ‘arbor porphyriana’ is also brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.”” -- Grice: “I especially like his squaring the square of opposition!” -- Grice: “A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! -- paolo di venezia: philosopher, the son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine O.E.S.A., he spent three years as a student at St. John’s, where the order of St. Augustine had a ‘studium generale,’ at Oxford and taught at Padova, where he became a doctor of arts. Paolo also held appointments at the universities of Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active in the administration of his order, holding various high offices. He composed ommentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle. His name is connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive, and more than forty printed editions of it were made,  His huge sequel, “Logica magna,” is a flop. These Oxford-influenced tracts contributed to the favourable climate enjoyed by Oxonian semantics in northern Italian universities. Grice: “My favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”how peaceful for a philosopher to die while commentingon Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus.”— Paolo da Venezia  Nota disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita.  Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N. (Udine), filosofo. Eremitano, studente all'Oxford e docente a Padova ove ebbe tra gli allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli fu consentito di tornare a Padova.  Seguace di Occam e Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio. Il suo trattato “Logica magna” e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo.  Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione” “Lectura super librum De Anima” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones Politicorum” “Expositio super Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in.  Vedi Pergola,  Dizionario di Filosofia Treccani. Garin, Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: "A Biographical Introduction to N, Augustiniana.  N. Logica, Venetiis, Imperatore, Imperatore,  Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information,  Stanford. Filosofia.  DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI NICOLETTO PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO Informazioni Udine 15 giugno 1429, Padova Forma alternativa       Paolo Veneto Attività agostiniano, teologo, filosofo Luoghi di attivi  tà            Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice, Siena, Bologna, Perugia Immagine del soggetto Paolo di Nicoletto in cattedra (Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 [2464], f. 162v).  Come per la maggior parte dei protagonisti della vita intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue origini. Nacque certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal 1352, quando fece richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire, risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella descritta in una nota manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone, relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al 9 dicembre 1387, quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31 agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme al cugino, mise a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come “cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401. Risale a questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici e in 25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato, composto sul modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a contendere il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conobbe invece una diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli specialisti, forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le più recenti dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397) dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian Ludovico Lambertazzi, professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. Fu con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi anni del XV secolo, impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia fu la Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel 1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”. A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio superPhysicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento universitario deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua attività didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività accademica, in questi anni P. assunse anche responsabilità all’interno della sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa, il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nominò vicario generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio 1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegnò il suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore provinciale della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In breve tempo le relazioni di P. con il governo della Serenissima si fecero ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto. Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana. Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima, una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì a qualche anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica veneta si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua orazione funebre presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P. avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno scritto antiereticale di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute tracce. Il 26 maggio 1422 venne designato reggente, per l’anno 1423, dello studio agostiniano di Siena; il 14 marzo 1423 redasse per la prima volta un testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse quello veneziano di S. Stefano. L’anno successivo, il 23 marzo 1424, P. venne assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda una sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super Praedicamenta Aristotelis, che fu completato l’11 marzo 1428. I registri dell’ordine agostiniano informano inoltre che il 3 luglio 1426 P. redasse una seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. Nel 1427, in occasione delle dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine, improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo.  CHIUDIAndrea Tabarroni Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi, 628.  F. MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine, Tipografia G.B. Doretti, 1907 (estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine», s. III, 14); R. CESSI, Alcune notizie su Paolo Veneto, «Bollettino del Museo civico di Padova», 12 (1909), 79-92; G. GENTILE, Intorno alla biografia di Paolo Veneto, in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1920, 76-86; F. BOTTIN, Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste, Lint, 1983, 85-124; A.R. PERREIAH, Paul of Venice: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green State Universiy, 1986; S. DE FANTI, La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo contributo polacco allaconoscenza della biografia del Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto editore, 1995, 69-90; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane», 2 (1998), 125-137; PAULUS VENETUS, Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber 1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2000; PAULUS VENETUS, Logica Parva. First Critical Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2002.LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long   COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re est annexa doctrina. Ideo volens cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5.ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus,  Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t-C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum , ideo Dislot tractatus primus terminum sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione quide. i.  II suppositionum declarat mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae iusdem , ut: “homo” ,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas, propinquatop.c. 2    cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,” “quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui apud nosft. B Paul. sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci (“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et quida3 S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbiauerbum, et coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque effet,ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”, “nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal.3.quia determinant distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis significans non ter D“homo, significat sor. & pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis vel scriptus significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus in 6.diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul.in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”.  In ifta definitione ponitur terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”,  et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo er.c.c  Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et  “animal” in voce vel in scripto.Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales orationes. Cortes potest , plato in PS pro qui    alia categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui – ut: “Homo est animal.” l o ,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”, prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum & C differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in qua  er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1  mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est universalis, particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista: “omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet, quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur terminus comunis igno  4. diui afol.significatum primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.” , diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis. Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne cella   larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi. sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non ponitur aliquis modus   1:  Figura de in effe.  r e r e .Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium, contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne, subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit,  subcontrarie   reasu diuisio  Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit . Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for currtre , A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric   Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut: “Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et  particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa et  particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus. precisepro eodem vel pro cisdem , fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus  po. disiuncti. 15 De praedicabilibus Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib De converfionetibus supponis et  de diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum  De duabus alös diui De supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen  cinens C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for  De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De gradu comparati  De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq  De gradu superlati -minos pertinentes et De ly incipit et defi : impertinentes  nir  nens. De officialibus pro De defini libus. po. de reg. eius.  inferius De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi  milibus propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs .hui?  De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu  huiuspri De insolubilibus no é de obic Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus Obiectiones contra dif  habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari vel indefinito  mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis con   car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini  Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato. bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura  us trinarius quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera( diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp  dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones duealie decla    Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne   Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra  gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó  currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf.  L madiuifio eftiftaterminori vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio, sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione. Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi. iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo . eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci: fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun, gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical   minátdistributiver particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu? Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter figificatiu?zertre terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu aliquid significat separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria, madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato. busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5 cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies  apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn ' titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues 'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata secuidaria comunis figno vniuersalides  gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla. Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut  Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi, ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones duealie decla    Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne   Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra  gulegeneralespriaé dictorie. Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit.  Quartaregla eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil; bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom? Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal  uerfo.lzñéita i puersione p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet   Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia  tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis. Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun & plures catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi. tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego 5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom cumancedente vifituesbó atucurris.  tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs   Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam difiunctionis.  tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez. eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris. 7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft. tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine & filace prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat & difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo neltuesani   bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis. mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit? Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna  Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin? uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti, làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua  ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato. bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz illequi cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitas figura  us trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis (pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt. zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči. primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b  Logica Parva: Critical Edition from the Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna: Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann, Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3: Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4: Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super commento Averrois, Venezia;  Expositio super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus, extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B in Conti,  Sharpe: Quaestio super universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda), Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica” Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN: University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua: Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”, Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente, Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki; Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda), Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy; Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy , Naples: Bibliopolis; Musco, Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI, Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland; Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari, Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale; Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, 4 vols., Leipzig: S. Hirzel, Graz: Akademische Druck- und Verlaganstalt; Ruello, N. thélogien ‘averroiste’?,” Jolivet (ed.), Multiple Averroès, Paris: Vrin; Introduction,” Ruello, Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Firenze, Olschki; Strobino, N. and MANTOVA (si veda) on Obligations,” in Musco; Van Der Lecq, N.  on Composite and Divided Sense, Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis, Wallace, Causality and Scientific Explanation, Ann Arbor: University of Michigan. Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Paolo da  Harborne, and Paolo da Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercato). Filosofo italiano. Mercato, Napoli, Campania. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si è laureato a Napoli prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo maestro Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo.   L'intensità con cui Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo poi in testi quali: “Giovanni Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile educatore.”  Innumerevoli sono gli scritti dedicati all'idealismo hegeliano, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni hegeliane,” e “Hegel nel Novecento,” e le traduzioni di opere hegeliane come “La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.”  A queste traduzioni si aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e sociologico.   Ha ricevuto il Premio San Gerolamo.  A N. si deve anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana, come quelle di Emo, Michelstaedter ed Evola.   La sua carriera lo ha visto professore di Storia della filosofia in alcune delle più importanti università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico universitario.  Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il «Giornale Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle», «L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic Studies». Collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e «il Giornale».  Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam («Filosofi italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani («La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione» della Armando Editore.  Gli è stato assegnato, a Palermo, dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da Fallica, il «Premio Nietzsche».  Saggista sempre molto prolifico, ha continuato a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il De persona. L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e molteplicità culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia dell'integralità, Edizioni di Ethica, Forlì.  Collegamenti esterni  «Négri, Antimo», la voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana. Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Ultima modifica 1 anno fa di un utente anonimo Bertrando Spaventa filosofo italiano Michele Federico Sciacca filosofo italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante in Italia nella prima metà del XX secolo Antimo Negri.

 

Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on Pinocchio!” -- Grice: “I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if he uses the extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’. He has a gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify Leopardi’s ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!” Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni ottanta in poi, si dedicò invece allo studio del pensiero politico di Baruch Spinoza, contribuendo, insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua riscoperta teorica. In collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri molto influenti nella Teoria politica contemporanea.  Accanto alla sua attività teorica, ha svolto una intensa attività di militanza politica, come co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua attività politica è stato incarcerato e processato, all'interno del processo 7 aprile, con l'accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d'insurrezione armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire condannato a XII anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato e diritto -- la genesi illuministica della filosofia giuridica e politica” (Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano, Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova, Milani); “Flosofia del diritto” (Bari, Laterza); “Il concetto di partito politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano e il comune” (Milano, Feltrinelli); “Il concetto d’integrazione nella storia di Italia” (Milano, Giuffrè); “Il concetto di stato” (Milano);  “Il capitale e lo stato”, “Della ragionevole ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia Feltrinelli Fischer); Scienze politiche, (Stato e politica), Milano, Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); Partito operaio contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N., “Crisi e organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari e Stato. L’autonomia operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La fabbrica della strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti di Padova, Collettivo editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica dell'economia politica della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema dello stato e sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano, Unicopli-Cuem, “Il dominio e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale,” Milano, Feltrinelli,  “Manifattura, società borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura e la sovra-struttura,” Roma, Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre Grice”]. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio massa all'operaio sociale. sull'operaismo, Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,” Milano, Feltrinelli, Politica di classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi. Milano, Machina Libri, “Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica, “L'anomalia selvaggia: potere e potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, Torino, Einaudi,  Boutang, Diario di un'evasione, Cremona, Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma, Pellicani); “Fabbriche del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico, in "XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta ginestra: l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto per l'operaio sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano, Milano, Sugar); “Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno, Carnago, Sugar, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso, o lo stato postmoderno” (Roma, Manifestolibri);  L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e liberazione comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene: S Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni. Politica e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli,  Europa politica. [Ragioni di una necessità], a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma, Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente, Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni” (Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano, Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero. Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma, Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma, Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews,  Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti della governance” (Verona, Ombre Corte,  Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice: “Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli,  Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine, Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea, Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano, Ponte alle Grazie.  Che l'Europa politica sia necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno determinato l'attuale processo costitutivo: la ricerca della pace fra le nazioni che la compongono, lo spazio economico comu-ne, la comune determinazione culturale, ecc. Ma che l'Europa sia necessaria sembra evidenziarsi con molta forza anche da altre ragioni, non più semplicemente statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma politiche ed attuali. La necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa in forma del mercato globale, cioè dal confronto con il processo di costituzione imperiale che sta realizzandosi.  Nell'impero, essendo impensabile una democrazia assoluta (un uomo uguale un voto); essendo del pari assai dubbia, quando non si tratti di pura mistificazione o illusione, l'immagine di una società civile globale, sarà infatti necessario delimitare uno spazio che consenta l'espressione e la decisione democratiche della molti-tudine, nonché la sua organizzazione politica.  Ora, lo spazio politico europeo (costituito su una continuità culturale lunga e singolare e una dinamica costituzionale specifica)  sembra corrispondere a quella necessaria delimitazione. lo non so se in questo spazio sia possibile pensare un soggetto politico adeguato alle dimensioni dell'impero. Quel che è certo è che fuori da questo spazio, e senza un soggetto adeguato, non c'è più democrazia per l'Europa.  Se queste sono le condizioni nelle quali dobbiamo muoverci,  interroghiamoci qui di seguito.  È possibile costruire questo spazio? E possibile costruire, in questo spazio, un soggetto politico che si confronti agli altri nell'impe-ro? O, meglio, che si confronti con gli altri a proposito dell egemonia imperiale? E possibile una unione politica che ne valza la pena?  A noi non sembra che si possa dare risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle posizioni che oggi sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune di queste posizioni appartengono al dibattito comunitario (1), altre partecipano del dibattito politico sull'Unione (2).Ora le pesizioni che attengono al dibattito comunitario, si pongono fra gli estremi di questa alternativa:  1,1 La Comunità curopes come pura area di mercato e regolazione di questa:  12 la Cawumira euroyea cme Confederazione ti Stati-nazio-  È chiaro che in eninambi questi casi la Comunità europea è disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come una delle enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso l'unione politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività all'interno dell'Impero.  Si obierta tuttavis, da qualche voce, che assumendo la «deter-  minante mititares come pil importante di quelia cconomica si  potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui l'Impero la  destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione, manifesta-  mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi, nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente la determinazione militare è separata, gestita dai singoli  Sti-narione. Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter-  munante militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario  ne o ruelo decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione verrebbe del tutto meno.  Un'altra altemativa si disegna quando si considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico sull'Unione: L'Unione politica europea è da un lato, in questa prospet-tiva, considerata come un Super Stato giuridico-amministrativo  (msomna, un Impera nell Impero);  22 in altra foma l'Unione europea può anche enere immaginata  (come spesso avviene nel diburtito arruale) come una Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata da numerosi  Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro sovrano.  Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale sparia  orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono, queste  ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura buroeritica che produce le istituzioni come con-  seguenza di una dinamica fonzionalista. In 22 | Unione curopea e  consenata a macchinazioni pelitico-giuridiche piuttosto similt a  quelle che reggevano l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione reazionaria del romanticismo.  Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere costituente» di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio» può essere, a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale intera (le Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle istituzioni europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla comunità divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente, difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali, americane, russe, ecc.  In ogni caso, qualora la discussione politica e costituente continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma non ne varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di repressione.  A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa politica che ne valga la pena?  Essa è possibile solo se il progetto dell'Unione e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel mondo.  Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione, lotta, decisione di valori di libertà.  Ci sia permessa una breve parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca, di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali) perché solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente, eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato, nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc., ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di opzio-ni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue, sarà difficile procedere nel dibattito europeo...  Chi ha dunque interesse all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello di impero. Che si propongono come contro-Impero.  Insomma, si tratta di quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono:  uno statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia mobilità per sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la possibilità materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella produzione di ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune dei mezzi di produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti il lavoratore intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro, cioè del cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si vuole dunque la libertà.  C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal nuovo modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella postmodemità, si aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi - infatti, ogni attività è diventata un luogo da quando la localizzazione capitalista della produzione è diventata un non-luogo, da quando la fabbrica for-dista si è dissolta nella società postfordista. E un esodo permanente ed alternativo, dove un proletariato immateriale e precario si dispiega e si scontra, dentro il quadro della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile affidare a questo proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto Europa? Insomma, porlo contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande potenza sovrana, un super-potere capitalisti-co, un blocco di forze conservatrici (verdi o gialle, nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede un Europa di gente intelligente e povera, divertente e mobile, che sconquassa ogni assetto di potere costituito.  Può cominciare attraverso l'Europa una marcia zapatista della forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa delle Nazioni, Europa provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro, cominciassimo a parlare dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell Impero?  Vale la pena di sottolineare che le condizioni qui poste rap presentano un diagramma nella costituzione non solo politica ma biopolitica dell'Europa unita. Dico «biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche universali (della citradinanza, del reddito, della proprietà comune) costituiscono la precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio stesso della libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha investito il politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non può che essere ritenuto fondamentale ed irreversibile.  Per concludere provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire:  un soggetto europeo (e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche.  Il nuovo soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione, nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come contropotere rispetto all'egemo-  nia capitalistica nell'Impero.  Per ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del «potere costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa come «anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la costituzione unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra civile» all'interno dell'Impero.  Al fine di dare realistica base a queste ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione. Questo rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del capitale globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana e nel pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilatera-lismo» americano non è solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo voglio-  no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste alternative e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di trasformazioni radicali. Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e, diventando reale, presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale e quindi possibilità di nuova libertà per le moltitudini.  Ma ritorniamo al centro politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. All'obiezione che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un Europa sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione, possa darsi qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli Stati-nazione),  si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di rottura.  Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una sinistra (nuova) a livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo.  Sulla via della costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo investire il non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva.  All'obiezione che l'Europa è povera, che non ha materie prime né petrolio, che ha una finanza ed una moneta completamente subordinate al mercato mondiale, che non ha la bomba né la capacità di decidere della guerra, ecc..  si deve rispondere che l'Europa è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella depossessione di materie prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella estrema impotenza militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà antica (demotica) che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione biopolitica che, nel rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei poveri e la mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla miseria delle forme economiche e politiche della modernità. Ciò detto, è necessario sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio degli anni 70, l'Europa ha cercato di operare un passaggio istituzionale decisivo, sempre si sono tempestivamente determinate acute situazioni di crisi. Esse hanno avuto origine nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente dove si forma il prezzo di uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e dove dominano i governi più reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può non essere presa in considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver coscienza che costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro che fanno il prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del  Medio Oriente, contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. Per approfondire l'intera argomentazione fin qui condotta e rafforzare le conclusioni (l'Europa politica unita non dovrà essere tanto una nuova figura della sovranità quanto una «macchina da guerra» per l'estensione dei nuovi diritti fondamentali ai soggetti dell'Impero) vale la pena di aggiungere qualche riflessione sulmodello europeo di solidarietà sociale ovvero sul rapporto che si stende, nella tradizione e nell'avvenire, tra il diritto del lavoro e la costituzione europea.  Per trattare di questo tema penso che dovremo, prima di tutto, ricordare quanto sia ambiguo il riferimento ad un modello europeo di solidarietà sociale: un modello che, avendo trovato le sue origini nell'Obrigkeitstaat bismarckiano o nel rozzo sociologismo della III Republique, si è sempre caratterizzato (dal punto di vista giuridico) nella forma della subordinazione, (dal punto di vista economico) nel calcolo del costo di riproduzione della forma lavoro (del salario diffe-rito), (dal punto di vista politico) in funzione della pace sociale e del consolidamento dell'autorità statale - ed è stato spesso tradotto in solidarietà imperialista o bellica... Gli Istituti Nazionali per la Previdenza Sociale hanno linanziato gran parte delle guerre del X.X seco-lo. In esse s'è esaltata la disciplina biopolitica dello Stato-nazione, quella che ben si conclude nel nazional socialismo.  Ciò detto, resta tuttavia da aggiungere che il modello europeo di Welfare ed il diritto del lavoro che gli si incastonava dentro, sono venuti man mano registrando i movimenti antagonisti della forza lavo-  TO.  È sulla base delle lotte dei lavoratori che Welfare e diritto del lavoro si sono man mano, in Europa, emancipati dalle determinazioni corporative, populiste, colonialiste, imperialiste che li avevano percorsi.  È così che siamo arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel quale ci siamo illusi che il modello europeo si fosse liberato dalle sue iniziali condizioni, che dunque Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del modello europeo di solidarietà potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire - la democrazia.  Non è stato così...  A partire dagli anni 70, le conquiste democratiche del Welfare europeo sono state scontrate dal neoliberismo ed i loro effetti spesso neutralizzati. I metodi della repressione hanno annullato forze altrimenti irresistibili e le hanno piegate alla sovradeterminazione del mercato globale, politicamente riconosciuto come potenza autonoma:  D'altra parte l'attività del diritto del lavoro «all'europea» è stata assai disturbata, quando non sia stata colpita nei suoi stessi presupposti. Ché infatti, se il suo progresso era conflittuale, legato alle lotte di un soggetto forza-lavoro (che aveva ottenuto riconoscimento costituzionale), ora questo soggetto (il sindacato) non era stato solo attaccato nella sua figura istituzionale, rappresentativa,ma gli erano state sottratte le condizioni di esistenza, Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il sostrato ontologico (classe operaia) e la figura politica (sindacato) del conflitto industriale non esistono più come attore centrale.  Che cosa significa più, nel postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione) europeo di solidarietà sociale quando (senza insistere sulle differenze ma supponendo omogeneità) le condizioni stesse della continuità non sembrano più darsi?  Che cosa significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte, in condizioni ormai definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità della forza lavoro produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro su scala continentale?  E nella globalizzazione dei mercati, che cosa significa accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione che si dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per decreto un nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un nuovo Welfare: ma come è immaginabile oggi un tale disegno?  Ad accrescere le difficoltà di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema: quello dell'immigrazione.  Nelle condizioni di globalità dei mercati, questo problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della regolazione (giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al contrario, con-sustanziale  sia dal punto di vista dell'economia industriale (disponibi-  lità indefinita e costo limite zero del lavoro)  - sia dal punto di vista delle politiche budgetarie (pensioni-stiche, assistenziali, scolastiche e formative, sociali in genere...)  Sarebbe interessante qui riferirsi a, ed insieme forzare, quella categoria «frontiera» che Balibar - nei suoi ultimissimi scritti - considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E comunque sparare a zero sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su spazi ormai derisori per la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di lavorare...  Di qui altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal problema dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?  E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea)  determinare un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio-  politico e la gerarchizzazione imperiale della forza lavoro?Antonio Negri. Keywords: implicature, potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana, grammatica politica, assemblea, Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Negri," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Neri: l’implicatura conversazionale dell’aporia della realizazione – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “Neri is an interesting philosopher – he speaks of the aporia of the realization, which is intriguing, and considers that ‘objectivism’ started with Galileo, which is realistic!” Professore a Verona. Allievo di Banfi e Paci, rappresenta una delle ultime sintesi della Scuola di Milano, di cui riprende alcuni dei temi portanti: ricerca fenomenologica, analisi storico-politica, studi estetici. Rispetto ai suoi maestri, del cui pensiero è stato uno dei maggiori interpreti, sviluppa un percorso di ricerca originale, caratterizzato da una critica delle ideologie del Novecento e dei loro fallimenti, e da una lettura non dogmatica della storia contemporanea, volta a metterne in luce discontinuità e aporie. Forte di un'indole scettica e fedele al principio dell'epoché fenomenologica, Neri ha ripercorso le vicende della dialettica marxista, focalizzando in particolare la sua attenzione sull'Europa centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta e dissenso che, a partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel contesto storico. I suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e Lukács, Kosík e Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca teoretica e storica che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali monografie, ai saggi su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito conservato presso l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università degli Studi di Milano.  Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia e Milano, Neri ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai lontano dalla fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo umanesimo di stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli stessi anni di dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti della ricerca husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle scienze europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky (della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio, e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica.  Agli anni di studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito, negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga, Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che, in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta, al maestro Banfi.  In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia. In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in generale, contro l'impronta culturale del PCI.  Neri rientra in questa nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano.  Come si evince dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch. Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti, al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali, oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica. Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei particolarismi delle filosofie nazionali.  L'Archivio N. -- è stato creato presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano l'Archivio N. In tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali inediti, che comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni di viaggio, corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista di futuri studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le riflessioni del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte. Attraverso la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in corso di digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di Neri con altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal Pra a Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su alcuni tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione sovietica dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo reale. A ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella società, sul modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte alle scosse della storia.  Saggi: : “La fenomenologia della prassi  (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli, Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente, Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi  Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone, Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano, UNICOPLI,. L.Frigerio e E.  Mazzolani, Iin Sistema Università,  A. Vigorelli, Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein,  F.  Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi. Fondo librario. Grice: Mussolini used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the ‘nazione’ – and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile paziente e bastonato. Grice: “Neri made a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan? Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay on Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way, he gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice: “Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled, bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass – when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when ‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la sensazione, il Galileo di Husserl. Guido Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Nerone: il melodramma di Boito -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Anzio). Filosofo italiano. Anzio, Roma, Lazio. Filosofo epicureo e imperatore romano. Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to Nerone, making it extremely like that Nerone was himself a follower of the doctrines of The Garden. ao ss  TN  Bo ZA    SI gia   SE  er ES  7 VIS    \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud o,  e RICORDI MILANO 1( @ISERI (mpradigeile) POS \  DI Li ‘A DG DI 8 li 7  LALA Ss INI  (EL fn ra SI ;  CS ‘ pi”  x "n ':   lr” t DS Ù Ì  N ? Ò FINE Nine  {UMBERTO PIZZI BULOGNA Via Zamboni Imprimé en Italie BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI AUMENTO COMPRESO LE PERSONE DELLA TRAGEDIA: NERONE  SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA TIGELLINO GOBRIAS DOSITÈO PERSIDE CERINTO IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE LO SCHIAVO AMMONITORE I VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje - Fanciulle Gaditane - Acclamatori - Cavalieri Augustani - Liberti - Fautori di parte frasina - Fautori di parte azzurra Popolo Schiavi Plebe Senatori Una compagnia di Artisti Dionisiaci, Tre decurie di Guardie Germane Eneatori Sacerdoti del Tempio di Simon Mago - Matrone - Classarii - Pretoriani - Cristiani Aurighi della fazione verde - Aurighi della fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI, APPARITORI: Una puella Gaditana L’ Arcigallo Un venditore d’idoli Un venditore di tavole  votive - Un mercante orientale Un flamine - L’auriga vincitore L’ auriga vinto Un lanista Due Mercurii Due Caronti Alcuni Etiopi Viandanti - Lettigarii - Clienti Servi Danzatrici Gaditane Corrieri Mauritani I due Consoli - Littori Preconi Due Tribuni della plebe Legionarii - Galli - Greci Rheti Indiani, Armeni, Egiziani, Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri, Phaiangarii, Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi, Tre  Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori, Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai   % VA  Il  bh  NI  E  fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a  SOR MN LIERE T #1"Ri N. TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI  PAROLE E MUSICA DI BOITO RicoRDI PRIMA MILANO, TEATRO ALLA SCALA  PERSONAGGI  N. Pertile; SIMON MAGO, Journet  E e Galeffi  MORERTA SC del 5 Raisa MERA e, » Bertana  ME UCINO n e e Pinza  BIRBRIAST: Nessi  O i a BERSIDE N. . Sig Mita Vasari  MINT ne, » BERLEMPIERENS e, i Venturini  PRIMO VIANDANTE.Tedeschi  SECONDO VIANDANTE Menni  LO SCHIAVO AMMONITORE Baracchi  MIS SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E CONCERTATORE  TOSCANINI Maestri sostituti: CALUSIO – CLAUSETTI FORNARINI  FRIGERIO - RAGNI - ROSSI - RUFFO VOTTO  Maestro del Coro: VENEZIANI Maestro della Banda: MORRONE  Maestri suggeritori: PETRUCCI e DELEIDE  Coreografo : PRATESI - Prima ballerina: FORNAROLI Direttore della messa in scena: FORZANO  Direttore dell’allestimento scenico: CARAMBA Scene, costumi ed attrezzi su bozzetti di POGLIAGHI  Scenografo: MARCHIORO colla collaborazione di MAGNONI    Primo Violino di spalla: Giro MNastrucci  Primo dei secondi Violini: Odoardo Peretti Prima Viola: Koch  Primo Violoncello: Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi  Primo Flauto; Tassinari Ottavino: ATrevisan  Primo Oboe: Trapani  Corno Inglese: Ghignatti - Primo Clarinetto: Cancellieri  Clarone: Capredoni - Primo Fagotto: Mazzini Paltrinieri  Sarrussofono: Giuseppe Regarbagnati - Primo Corno: Michele Allegri  Prima Tromba: Edriondo Botti  Primo Trombone; UVsberto Montanari  Basso Tuba: Saverio Scorza - Prima Arpa: Giuseppina Sormani  Organo e Pianoforte: Antonino Votto - Celesta: Eduardo Fornarini  Xilofono, Sistro e Batteria: Augusto Bergami Gran Cassa e Piatti: Arancesco Veronesi Timpani: Barilli    ispettori del Palcoscenico: Duma e Cellini  Vice ispettore: Rocchi  Direttori del macchinario: Giovanni e Pericle Ansaldo  Costumi della Sartoria Teatrale Chiappa  Attrezzi della Ditta Aancazi & C. di Sormani Tragella & C. Gioielleria della Ditta Angelo Corbella  Parrucchieri: Biffi e Sartorio  Piume e Fiori della Ditta Virginia Ranzini Istrumenti musicali della Ditta Strumenti Musicali Bottali La è fa 9.41 TNT Hi  PI n RARI T IR  d wa  È Lal  AVALETCAUIT ATE PAIA  RO  i. È un campo situato (per chi va da Roma ad Albano) lungo il lato destro dell'Appia,  alla sesta pietra milliaria. La via segue una linea obliqua fra questo e gli altri  campi che si estendono dall’altro lato. La notte è nuvolosa. La luna pènetra a stento le dense nubi che la nascondono.  Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità è appena diradata da un barlume cinereo  che non projetta ombre ; il campo nereggia più cupo.   Sul lato destro della via, dalla parte di Roma, s’innalza un grande sepolcro che si  prolunga nell’erba; gli si allinea d’accanto, progredendo verso Albano, una tomba  recente su cui sta per estinguersi una lampa funeraria. Tra questa tomba e il milliario lo spazio è libero; poi segue una pietra sepolcrale quadrata e, poco discosto  da questa, un vasto tumulo erboso che porta sul suo vertice le vestigia d’un’ara.  Altre tombe si schierano sulla fronte sinistra della via. Molti rottami d’antichi monumenti sono sparsi intorno al grande sepolcro ed ingombrano anche il breve spa-  zio che lo divide dalla tomba recente.   Fra questi ruderi un uomo, nelle tenebre, sta scavando una fossa. È Simon Mago.  Sul margine della via un altro uomo guarda, immobile come in vedetta, nella direzione d’Albano ; egli porta il cappuccio della lacerna sul capo. È Tigellino. La notte è piena di canti che giungono dalla vasta campagna, dalle lontananze  dell'Appia; frammenti di canzoni portati dal vento, dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA VIA Canto d’amore  Vola col vento,  a SIMON MAGO Torna col vento...  i?  E lui: Passa un viandante che va verso Roma TIGELLINO con una bisaccia a spalle ed un bastone.No. LA GUARDIA DEGL’ACQUEDOTTI SIMON MAGO lontanissima  Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo ancor, là... verso via Latina. SIMON MAGO  Pur ch’ei non l’oda!    TIGELLINO    È profonda la fossa? | SIMON MAGO Profonda. Ma dalla parte d’Albano s'è udito un  urlo di spavento: Tigellino sbalza sul-    la via e incontra Nerone fuggente, ravvolto in una toga funebre e che porta  un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO  ‘ accorrendo al grido  Mio Signor N. ansando di terrore ed accennando dietro di sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO  dopo aver osservato È il tuo delirio.  N. No. La vidi...surse. Cinta di serpi... squassava una face...  Poi la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge, lo fa sedere sulla pietra  sepolcrale che sta fra il milliario ed il  tumulo.    Qui ti posa.  TIGELLINO  Dove lasciasti il corteggio?  N.  A Boville. VOCE FERALE NEL LONTANO N.-Oreste il matricida Ancor più nel lontano risuona il canto  di "prima :  Canto d’amore  Vola col vento,  Torna col vento. Ricominciano le canzoni della notte.  Volano per l’aria le parole d’una stro-  fa amatoria di Petronio Dolce ridente Lalage. Giunge sull’Appia da Roma un’allegra comitiva al lume d’una torcia.  Vanno a passo vivo verso Albano. Risuona una voce con questo  epigramma Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO  sottovoce, come parlando Balza il vento e ne porta le canzoni  Or dai monti, or dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi    Ancor quel grido! TIGELLINO È la canzon d’un ebbro; porgi. Fa per prendere l’urna che N.  stringe fra le braccia.  N.  No.  lo l’urna porterò sino alla méta. N. entra nel campo coll’urna fra   le braccia. Tigellino al suo fianco lo guiderà fra le tenebre, lentamente.  Giunti alla fossa si arrestano. N. Simon. Mago dov'è?    Nerone depone l’urna sul suolo, presso  la fossa. SIMON MAGO  che non s’è mosso dal campo Qui supplicante  I Mani d’Agrippina. VOCI LONTANE  trasfondeva col bacio il iabro al  [labro...  l’anima errante progenie nova dal ciel...  . ave, anima. Una voce lugubre si sparge nella not-  te; s'odono queste parole: Voce dall'Oriente!  Voce dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso d’una  atellana: Torna Onesimo dai campi...  e dal grido ferale:  N.-Oreste il matricida N. subitamente, atterrito  AN! tu mi salva!  Lava il mio matricidio! Orrenda vita  Vivo, pe’ gioghi di Campania in fuga,  Meco traendo il delirio, le Eumenidi  Flagellatrici e lo spettro materno! SIMON MAGO Dagli insepolti corpi emanan larve.  Pronta è l’inferie. TIGELLINO  Finchè il rito dura,  Vigilerò. i  Poi s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato, staccandolo da  Nerone, sommessamente gli dice :  Spingilo a Roma, incìta  L’audacia in lui; s’ei teme siam perduti.  Ritorna sulla via Appia e s’apposta presso la colonna milliaria. N.   prono sulla fossa ed immobile, incomincia come chi proferisce parole  preparate con arte:    Queste ad un lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi dove stende Roma sue tombe;  Sacro sempre fu ridonare agli estinti la patria.  S’inginocchia.    Ecco, mi prostro, m’atterro, m’accuso.   Se dei defunti lo spirto penètri   Nell’alme nostre, il mio contempla, madre,  Interno orror. quasi senza suono, inorridito e coprendosi il volto colle mani    lo son l’ultimo vivo  Di tua tragica stirpe, in me il Destino  Tutte aduna sue forze e le consuma. M’invade il Nume antico! È l’opra mia  L’opra del Fato! ergendosi fieramente    E ben dicea quel grido:  Io sono Oreste! PSA 0) Ho. d, PRI SIMON MAGO    E tua Tauride. N. intuendo con gioja il pensiero di  Simon Mago  ..è Roma!  Passa una famiglia di gladiatori; la  precede il lanista, riconoscibile alla  lunga ferula che impugna; gli sta a fianco uno schiavo con una lanterna. TIGELLINO Vanno silenziosi verso Roma.  dall’Appia, sommessamente ma energico  Zitti! Vien gente. sottovoce, ma concitato    Presto. N.  a Simon Mago, con ansia  T'affretta. Si sotterri l’urna. SIMON MAGO A te. N. esita ad afferrare l’urna. Paventi? N.  No. SIMON MAGO    Presto.    N.  angoscioso  M’ajuta.  Simon Mago lo ajuta a calar l’ urna  nella fossa. grescreazbiapiz indenni  DO SIMON MAGO    N.  Più profondo. Più profondo ancora.  Simon Mago comprime l’urna nella  buca; poi, con la vanga la copre di  terra finchè la fossa è ricolma. N. a Simon Mago È fatto?    SIMON MAGO  È fatto.    N. Nascondi la vanga.  Simon Mago va a nascondere la vanga  fra i ruderi, poi ritorna, prende dal-  l’acerra alcuni grani d’incenso, li spar-  ge sull’ara thuraria, immerge l’aspersorio nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende. SIMON MAGO copre la testa e il viso di N. col  velo, insino al petto.    Ti copra l’atro vel. N. Ajuta! Ajuta  L’anima mia!    SIMON MAGO tracciando con l’aspersorio dei segni  arcani nell’aria  Redimo te! Ti prostra.  Amen rispondi.  N. tutto prosteso, toccando con la fronte  la terra, ripete:    Amen. Dalla via Latina giungono col vento gli antichi anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide ciglia lo stral  che riapre l’antica ferita d’amor. Passano sull’Appia due giovani viandanti; quello che canta poggia il braccio sulle spalle dell’aliro. Vanno verso Roma.  Ancora dalla via Latina s’odono gli  anapesti:    ...ed io fremo siccome l’ardente corsier  che ritorna alle gare del Circo. ì  H  ì  s  dI  ì i i  fl  È  I ANI IOTTZION LE  SIMON MAGO  Ti rialza.  Lo ajuta a sollevare il capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso.  Spargi i libami.  La luna si fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a porgere a Nerone  la tazza libatoria.  N.    h I    E sangue?    SIMON MAGO  È sangue; innaffiane la fossa,  E nel versar torci il volto.  N.   Ho paura.  La luna s’è rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita a versare    il sangue sulla fossa.  SIMON MAGO Versa. Coraggio N.    inclina la tazza, gira il capo e, attraverso il velo che lo copre, scorge  dietro di sè, fra il gran sepolcro e la tomba, una figura spettrale sorta  da sotterra, che innalza una face ardente ed ha il collo avviluppato da serpi come un’Erinni. A quella vista egli balza în piedi inorridito    e corre a ripararsi dietro il tumulo, gettando un grido: Orror! SIMON MAGO  (NANO  Dopo un attimo di sorpresa va a prosternarsi ai piedi dell'apparizione.  TIGELLINO  che ha udito le grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama: D’onde uscì ? UN VIANDANTE  Qual grido?  UN ALTRO VIANDANTE  Olà! chi grida? TIG ELLINO  Via di qua! IL PRIMO VIANDANTE  Chi è costui ?  IL SECONDO VIANDANTE  Chi è costui?  IL PRIMO VIANDANTE  È Tigellino. N.  come attratto da un fascino verso quella figura ferale che lo guarda:    A sè m'attira. TIGELLINO    afferra Nerone al braccio sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del  tumulo. Vieni Il velo, che copre il capo di N., cade. Appena il volto di N..  si scopre,  L’ ERINNI  drizza il braccio verso di lui e con un grido irruente lo nomina: N. N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo per inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti   fra le tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im-   pietrita, col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati  e fissi sul tuinulo da dove è scomparso N.. La campagna è ancora immersa nelle tenebre; solo la face dell’Erinni  sparge un circuito di luce.  SIMON MAGO sempre genuflesso, a capo chino, osserva celatamente, girando in basso gli sguardi, se il campo e la via sono rimasti deserti; accerta-tosene, si rialza, afferra ai braccio quella figura atteggiata a stupore  catalettico e le dice, calmo: Sei colta. ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA)  senza scuotersi, con voce incolore, come irasognata    Chi ama la morte  Toccar mi può. SIMON MAGO abbandonando il braccio d’Asteria, ma badando sempre ad impedirle  la via  Non sperar ch’io paventi.  L’idre al tuo collo attorte  O son morte o morenti. ASTERIA appoggia la face al sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi  e con gesto lento di minaccia risponde:  Sperder potrei la malìa che le assonna  E avventartele.  Simon Mago prende la face e la solleva per rischiarare la persona    d’Asteria. Asteria veste una specie di kalasiris egizia, a tinte fosche;  ha le braccia nude, i capelli nerissimi sparsi in molte trecce sottiti    SIMON MAGO    Donna  Strana ed audace, avernalmente bella,  Tu sembri al raggio di questa facella  Medusa, Ecate, Sfinge,  Fumenide o dimòne.  Chi sei? Chi cerchi? Qual forza ti spinge ?  Perchè insegui N.? ASTERIA    È il mio Nume e lo adoro! A notte cupa,  Quando negli antri del funereo suolo  Vagolo al pari di piagata lupa  Ululando il mio duolo,  lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel  Che popola di spettri le tenèbre,  Che scuote sulle plebi infami ed ebre  Il sublime flagel.  il mio Nume e lo adoro.  Sotto un vel ora apparve a me davante. Poi sparve là. Con un impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO trattenendola a forza, l’arresta di colpo.  Ferma! o il tuo Dio ti sfugge. ASTERIA  dibattendosi dolorosamente fra le mani di Simon Mago  Vo’ seguirlo.... pietà! L’orror m’attira  Come un amante.... e nell’estasi vivo  De’ violenti sogni.... ebbra di pianto.  E son dell’idre incanto  E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge  E il petto mi rinserra  E stringe.... e lambe....  bduerra.ra  E nell’amplesso della viva spira  Sento ancora quel Dio che mi martira SIMON MAGO  Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA  Sulle rive  D’Anxur, tre notti son.    SIMON MAGO    Ed ei nel viso  [ha&scorta”? ASTERIA    Oh! come mi guardava fiso !  Ma il suo corsier impaurito il trasse  Lontan, fuggendo, al lume della luna.  Rimane ancora un poco assorta in ciò che descrisse.  Ma tu chi sei che dell’anime lasse  Tenti il facil segreto e il facil pianto? SIMON MAGO Son tal che rialzar può il volo infranto  Del sogno tuo. ASTERIA  Tu SIMON MAGO  Sì. Nessun mai sappia  Chi sei, nè ciò ch'io dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO  raccoglie l’acerra. S’ asconda  Quest’ acerra. ASTERIA  indica a Simon Mago il posto da dov’essa è apparsa: Qui.  SIMON MAGO  Dove? Asteria prende la face e conduce Simon Mago fra le due tombe ove i  rottami nascondono un forame del suolo da cui si discende in una  cripta.  ASTERIA Qui, sotterra, E un antro oscuro d’ avelli cristiani   Che si riapre dietro a quei delùbri.  Dicendo queste ultime parole accenna ad una località oltre il tumulo,  verso Albano. Simon Mago depone l’acerra presso l'apertura della  cripta, poi va a raccogliere l’ara thuraria, il velo nero e l’idria in cui  pone la tazza c l’aspersorio e ritorna là ove discende; lascia cadere   gli oggetti nel forame della cripta, salvo l’acerra e il velo. SIMON MAGO    Dammi la face.    Asteria porge la face a Simon Mago che sta per discendere nel sot-  terraneo. SIMON MAGO Qui sarai domani  Col sol morente.    Scende due gradini e s’arresta.  Ascondi quei colùbri.    Così dicendo porge il velo nero ad Asteria che lo prende e lo bacia  e se ne avvolge il collo e il petto. Simon Mago, coll'acerra e la face,  è sceso nella cripta fino alla cintola. S’arresta ancora una volta per  dire ad Asteria:  Ma pensa al fato che invochi su te. Bada! il tuo Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor che non uccide  Amor non è!    E s’abbandona sulla tomba che le sta dietro; quivi, giacente, rimane.  Simon Mago scende tre gradini della ‘cripta con la face in pugno e  scompare sotterra.    Incominciano a diffondersi le prime trasparenze dell’alba. Il cielo si  rasserena. La profonda quiete dell’ora s’estende su tutta la campagna  romana. Una donna in bianca stola, Rubria, viene dalla parte di Roma, s’arre-   sta davanti alla tomba recente, estrae un’ampolla e la vuota nella   lampa funeraria; il lumignolo si ravviva e riarde. La donna s’inginocchia, inclina il capo sulla tomba, congiunge le mani e, nell’alto  \ silenzio che la circonda, prega così: RUBRIA  Padre nostro che sei ne’ cieli, sia  Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno alla tua gente pia,  Sia fatto il tuo voler in terra, come   Nell’ Empiro immortale.   li nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu ne perdona. Fa ch'io riveda quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA    che giace sulla stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole  come un sospiro    O soave preghiera! RUBRIA  si alza, guarda dalla parte d’onde viene il sospiro e dice: Anima che sospiri, sorgi e spera. ASTERIA  lentamente sorgendo O divine parole!    RUBRIA  appressandosi ad Asteria colle mani sporte e offrendole fiori Spargiam insiem le rose e le viole  Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT    ASTERIA  Il dono pio  Porgi. E prende, con movenze estatiche da sogno, i fiori e ne cosparge la  tontba, insieme a Rubria, e le zolle d’intorno; ma, giunta all’ultimo  fiore, esita, s’arresta, lotta un istante contro un impulso interno,  poi dice:  No.... no.... stuggir devo gl'incanti  Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio !  E fugge impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla  tomba a pregare. Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la vede,  s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA  solleva il capo, volge il viso, lo vede e lo nomina:  ‘ Fanuél!  FANUÈEL Non t’alzar. Il nostro addio  Sia questa prece che sale al Signore  Fra i bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare con intenso fervore. Fanuèl continua a  guardarla fissamente. RUBRIA  levando gli occhi pieni di lagrime al cielo  In te sperai! FANUEL con voce commossa    Piangi ? Perchè ?  RUBRIA  Ho un peccato nel core. FANUEL  Lust?  RUBRIA  Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai?  FANUÈL  Seguo mia stella verso ignoti porti.  guardandola fiso negli occhi  Confessa il tuo peccato.  RUBRIA    Perdonar mi saprai se tutta dico  La mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere, s’avvede che l'apertura del sot-  terraneo si rischiara e che un uomo, con una face in mano, viene  salendo lentamente dalla cripta.    FANUÈL  sottovoce, a Rubria, indicando il posto Un agguato!  V’è un uom fra i nostri morti. Fa qualche passo nel campo per ravvisario.  (E Simon di Sebàste. RUBRIA  tutta sgomenta e a bassa voce  Il gran Nemico! FANUÈL  Corri dai nostri, va, narra gli avelli  Spiati. x  RUBRIA  guardandolo con ansia  btu  ‘ FANUEL Poichè un periglio incombe  lo resto coi fratelli.)    Rubria si vela il viso e s’avvia rapidamente dalla parte di Roma. La luce, mite ancora e senza raggi, a grado a grado discopre le cose   remote, gli edifici sparsi qua e là nel fondo della campagna, gli archi   del doppio acquedotto dell’aqua tepula e Marcia, qualche fastigio  dei monumenti sepolcrali della via Latina.   Molto lontano, forse dall’ottavo milliario, s’odono squillare, nel puro silenzio dell’alba, alcuni appelli di trombe.   Simon Mago, senza accorgersi d’essere osservato, s'è messo in ascolto,   si dirige verso il tumulo, lo sale insino alla cima e guarda attenta-  mente dal lato donde giungono gli squilli. FANUÈL    che ha seguîto collo sguardo ogni passo di Simon Mago, s’inoltra nel  campo e lo chiama:  Simon. SIMON MAGO  dal tumulo, volgendosi    Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio dall’ alto  Di queste tombe!  Vieni e vedi.  Fanuèl. esita sorpreso, poi sale anch’ esso sul tumulo ov’ è Simon  Mago. Le trombe continuano a squillare. SIMON MAGO S' avanza una gran nube  Di turbe. Echeggian trionfali tube.  È il matricida, ei vien col suo corteo  D' istrioni e d’ Eumenidi all’ assalto  Del mondo reo,  Poi, con un gesto largo che abbraccia tutto l’orizzonte :  Pensa: i Reami, i popoli, le. Glorie,  Le corone, gli scettri, le Vittorie,  Tutti i raggi di Roma e di Nerone  Non son che luci moribonde e torbe  D’ innanzi al sogno mio, d’innanzi a te:  Sui sette colli un Tempio (o Visione !),  Un Tempio eterno che soggioghi l Orbe,  MinESSO l’altare ‘tu, Profeta. e’ Re.  . Tutto l'incenso che 1’ etere assorbe  Vapora, immensa nuvola, al tuo piè!    Guarda quaggiù. Pel sangue che l’inonda  L’arca d’oro di Cesare sprofonda,  Furibonda ruìna e precipizio.   Plebi nefande confuse nel vizio   Plaudono a Roma che canta e che crolla.  Tremano tutti: Cesare, la folla,   Le coorti. Fischiò dagli angiporti   Già il greculo rubel. Cadono i morti   Nel Circo e cadon nel triclinio i vivi   E i Numi in ciel! Ma tu su quei captivi  Del fango e della porpora distendi   Le tue mani, la tua virtù mi vendi;  Due Sovraumani vedrà il mondo allor!  Vendi il miracolo, t’ offro dell’ or. FANUÈL  scende dal tumulo e terribilmente esclama: Anàtema .su te! Maledizione!  L’oro tuo piombi teco in perdizione!    saran to” di è ide    SIMON MAGO    L’ira tua scagli invan contro il mio scherno,  Povero nunziator d’ un Regno eterno  Senz’ oro e senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e forte  Or su te confermi il ciel:  colla massima veemenza    lo t'estirpo da Israel!    SIMON MAGO  Fra noi due c’è guerra a morte! Si sfidano collo sguardo come due fieri nemici prendendo due vie  opposte. Fanuèl ritorna sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon  Mago scende dal tumulo e s’allontana dalla parte di Albano.    N. e Tigellino ritornano ‘da un sentiero dei campi e s’arrestano  al tumulo. La toga di Nerone, tutta scomposta, lascia vedere una mi-  rabile tunica oloserica tinta di porpora jacintina e sparsa di palme  d’oro. N. porta al braccio sinistro un’armilla di pelle di serpe  chiusa da una borchia di gemme. Ha, come Tigellino, un focale di  seta annodato intorno al collo, sul petto una collana d’ambra mista a  molti amuleti: dalla cintola gli pende un largo smeraldo ovale attac-  i cato ad una catenella di perle. N.  Nessun ci segue?    TIGELLINO  osserva il sentiero donde sono venuti.    No. Sosta il corteo  Lungo i campi di Persio. N. guarda paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria. TIGELLINO  Ebbene ? Sparve.  N. sempre cogli occhi rivolti al sepolcro, cupamente    S’ergea fra Roma e me!  TIGELLINO  Andiam. Che guardi ?  A. Oli ren N. volge gli sguardi inquieti sul posto dove ha sotterrato l’urna ed  È esclama atterrito:    Si scorge il labbro della fossa!  Tigellino va a calpestare quelle zolle per disperdere le tracce del    seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla parte di Roma dei  clamori lontani. TIGELLINO  prendendo per mano Nerone  Andiamo.  N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione  TIGELLINO  Fuggir? Dove?    N. Non so.  Dove migra il cantor trova una patria  E sola gloria è 1° Arte!  TIGELLINO E di che temi?  Crede il Senato al tuo messaggio, crede  Colta Agrippina ordendo la tua morte,  Poi da sè stessa uccisa.  N. Alla menzogna  Fingon dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova. N. Se rivarco le mura a chi mi volgo? Al Senato? alla plebe?  TIGELLINO    che da qualche istante porge l'orecchio alle grida che s’avvicinano, corre sul tumulo, guarda verso Roma e  risponde: E luna e l’altro  Per te dall’ Urbe accorrono. N. atterrito e con sùbita ira Qual folgore  Sparse a Roma il clamor del mio  [ritorno? TIGELLINO  arditamente dal tumulo  lo.  N.  con maggior ira e minaccia  Tu, ribaldo? Violenza porti  Sui dubbii miei?  TIGELLINO  Si. Per salvarti. Mira! Si slega dal collo îl focale di seta rossa  e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge:  A questo cenno il corteo s’ incammina.  Mentre Tigellino sventola ancora îl focale, s’ode squillare non lontano una   chiamata di bùccine come per un esercito in marcia. Dalla via di Roma i  clamori aumentano. TIGELLINO  scendendo dal tumulo  Ecco i corrieri Mauritani. Mira! N. Da ogni parte m’assalgono! TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE  che si appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il  [clamor,  ALTRE VOCI  Ecco i Numidici corsieri.. Gioja!    Il Popolo irrompe in scena, restando  pur sempre sull’Appia e correndo verso Albano.  ALTRE ANCORA  Ei viene! ei viene! egli è là! egli  [è salvo!  Corri! s'ode il clamor! ei viene! è là!  Tre Precursori Mori, a cavallo, passano di galoppo sull’ Appia, risplendenti .  d’armille e di falère.    Ser IOGE    N. invaso da terrore si rannicchia fra il  gran sepolcro e i ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO  avvicinandosi a N erone Ecco le schiere.  con grande concitazione  Se indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le tombe Ah! dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il cappuccio della   lacerna sugli occhi e s’avvicina alla   via, ripartendo la sua vigilanza ora  sul corteo, ora su N. POPOLO  È salvo! Gioja!mALTRE VOCI  Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI  Largo, la via sgombrate POPOLO  Avanti, olà! ALTRI  Corri! là! Corri! là! Vengono gli Eneatori colle loro squillanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI  Udite! Udite! Segue un vasto carro tratto da cavalli,  pomposamente ornato, dove stanno ag-  gruppate, gittando fiori e cantando, le  Ambubaje cinte il capo di mitre siriache. Le fanciulle Gaditane seguono la  teoria del corteo danzando e gettando  fiori. Portano incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE  Apollo torna. Nubi di fior volino ai zeffiri, |’ lri  [baleni nell’ etere.  Apollo torna, e con esso  Tutto un esercito in danza.  Il corteo s’arresta fra fluttuazioni cou-  trarie. POPOLO Avanti! Avanti, olà!  Apollo torna.  Avanti! GOBRIAS  Torna Onesimo dai campi. POPOLO Largo alle schiere, largo!  Gioja! Gioja! TIGELLINO L’exaforo s’appressa, ivi ti crede  Il popolo clamante.  Odi le grida, scuotiti. PRETORIANI  Largo! Largo! Sgombrate !    Si ristabilisce l’ordine di marcia del  corteo. AMBUBAJE  AI colle! al collel  AI colle! La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO Fermi, olà! ALTRI  Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE  Largo Largo al corteo !  Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augustani! Giunge l’exaforo. La via sgombrate!  ll corteo si rimette în marcia. Preceduto dalle fanciulle Gaditane, passa un  gruppo di Phalangarii. Poriano sulle  spalle un fèrcolo su cui si innalza una    statua di rame, rappresentante una  Amazzone. TUTTI Apollo GOBRIAS  L’orco già da’ piè mi tira.  Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE  Eilwieny  E giunto là!  Avanti! Gioja! nia e    N. Mi lascia. TIGELLINO L’eneator t'annuncia. N. Ecco, rinasco  Libero e forte. Andiam! DOSITÈO É là! B là! S’appressa!  Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS  Fi torna, è salvo il Dio del Circo!  PLEBE È 1a!  È salvo il Dio dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta   l’ordine di marcia del corieo. Passa   una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi,   d’Indiani, di Greci, d’Egiziani. Passa-   no alcune schiere di soldati ausiliarii   coi braconi alla barbara e passano dei  Rheti e dei Galli. GOBRIAS  Roscio risorto Novello Turpione! DOSITÈO  Tu snidi il Nilo, fendi l’Istmo, instauri  La terra e il mar. GOBRIAS  Trionfator d’ Armenia! POPOLO  Trionfator Eccelso Bello Forte Silenzio! È sacro il coro.  Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E AUGUSTANI    Ave, Nerone, voce di Ciel,   Beata Roma che t’ode!   Canta, Apollo,   Canta l’ode d’amor non prima udita  [dal mondo! TUTTI Ave, N.! Canta lode d’amor! TIGELLINO Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta.  TIGELLINO  Or su.  N. fa per avviarsi ardito verso l’Appia,  s’accorge di passare sulle zolle dov'è  sepolta l’urna e indietreggia. Ah! dove passo TIGELLINO  Corri dritto alla mèta.    N. Cantano i versi miei. Passano tre decurie di Guardie Germaniche.Fra le file dei soldati circolano parecchie Ambubaje 0 camminano  appajate ai soldati giojosamente. Frattanto si avanza un carro, tirato a mano da quattro schiavi, dove sono accatastati degli attrezzi teatrali. Dietro  al carro e d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che indossano le loro vesti teatrali. DIONISIACI L’ebra Mimàllone già diè fiato alla  [Bacchica tromba,    Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi ardenti Evion gridano ed Evion Peco  [remota ripete. TUTH  Evion! Evion! Evion! Evion!    Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I littori che lo precedono,   coi fasci laureati, respingono la folla. L’exaforo è portato da sei schiavi Etiopi, una corona di giovinetti asiatici lo circonda e una torma di  Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI E DIONISIACI Ave, N., tua lieta stella splende. TIGELLINO    spinge N. verso la folla plaudente, poi corre sull’Appia e comanda ai littori: V’arrestate. VOCI  Chi è là? CATE BELEN e) ANTI  GOBRIAS Apri il velario.ALCUNE VOCI  Chi è là? ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA  È Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo!  N.  în tunica di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del sole  No! Fortuna in fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla folla. TUTTI    Evion! Evion! Ah! Gioja! Gioja!  Almo Sol! Alma Roma! Ave, N.!  i giovinetti Asiatici schiudono le cortine della lettiga, mentre d’intorno a N. piovono fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande,  fra le grida e gli squilli del trionfo.    Tutta la scena è irradiata dal sole.    REA REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III IDA LT ANIRI DRE IRR SNNTI RIIATI o BIT ELI MED PRI ITLAI EN EDITE TEA TIRIZETI AI AT MIO DLE MITI INTEL DINT TTI ANTI TAL on:    tre n ct    I AT i PUT e    i 1 dr ale ì } # 4 4  x È Metz 1 A TT) 4 # à Meri LE:  a =» iL i IR ii Si Mie f i rr 1 i ZA  i è I i, Pal p # Ti \ G  / 7 La : PR”  4 Tr 9 PORGILOR i fi È  y "I i È i \ L'A Ma LA Mc ter DAS  4 DI în Las a  sani 1 LA:  ai ea RARA 4 Pi i | ta ’ La È { 9  a } E) i ì » = ERO hd  ‘ LEGIONE i un v  î : i P ; i ue veti al  METIS PORTEREMO ORE GIORIO RO TORO E O  , mV» Pag ì È e PI ba ‘ I bia”, F Papi A vr.  meri Ce 4 A Ù  ui di E ll ; dirà a  È ; veli 4 k RL Fo A Het. #3) IT è VO, DA  i va i | PESSOA VT LA  i Me TI ant i A |  è el b<) - ; a” YA ada  Pi , , î # = . ue. ; i PI 4 bi}    TA ee Dart: AR e  i; i : i POT Si . Ca I Ci i Cva PR Dia , e x : I c ci phi ì  ù Ba Pi % i (0 hi 59  ‘9 4 Mr, i MRI né: ME n vt di:  ì Ù PI pad Pa LE Ù I Ti  h ì Cp I AP OI Uri e SR (ia i PRON  È n *A#C ‘ cia NIIA tia UA E 3 À i Mt  Da ° N pio 14' TC + ’ di Dr4 al a; e dti Da f Di mat ;  | SERVO LE AR AM e hg  IAT Pia y ra #74 RI : n) î ( i j INT di  hi ; ; |  È ; sd AAT Pan asa Det TA IR USE Me dea  PI i PO 4 x nà OI TIRO RT ETERO VA OE RTOTATO RO 18-00  i ì POINT i e fi A » 24 é ] LE  i î -  i ' U s [ A  e \ i P  È  i 4 pay:  Ù ; , dA me vi us  d abi rn a Lé, EN  q di A NOM Ds er:  PR    el Lia ni Must e LI  Ù ì 1°  Ni x  CAT ì  Vi  Li Ti  : i  , ri ri Ù  Ì ì N )  x  L) Ve,  \ TREIA  ì  4 ì  È Î  t]  F)  %  VIQUOE MI;  a  î  Fi ju  : )  0 i)  1} il  VESTE  PI  } (N  ” ì  ;Î  u) P)  \l  )  i  i bei  È, ?  TARA, i Gi  i | i  4 e’»  "A    Eri aa ei Fa: i  I TORO OOO è DI  A CA ix eu 7g de  te PNRA, D  MENTA: 2. LI Pe, OA \ RI j at [on, ; là Pai ar RE ; sla; LE NUORA Ei  ] a, MAS su PARA  2  1°  ti A   va   RAI AK  Dpr)    Li {VI SI BRIT ATTI ABELE LE SAC NENTTALI I TIVI GI BPIREA TATA TIA ILE VE IDZ ANIA POI E III IE PERE SOTTO PDT E PATATE ALI LE BI 17 INC MERITA DL VITARA  FIA TIAL IATA MANI ATOIO DE IABISIETMA MIE MRI NIC DOO II VR TAIRIDI EI VETTO ZITTI PODICTI ESTATE PREIS IC IAA  ALSEZIONE CPI VT VALE Gio)  |  PI i ESITA TL II RATA, OLA DARNE CARINZIA TAV]  TRISEA NT PRI D arde IERLELIEVI SRI RIITTOTINE AMRITA    TA    ; sea? ° di  VT N},  ì, È  | A “i Ì “n e  db ANI  \ PG K  SI d ra  Ce Beta»  i ia Ì : NA ri f,  \ Ù parta  Ùi    SAVE, "a a L a a  COVE ON TT Y PR = MANI  Sa date  ae ka | p' Ln è  ) % di Pd Ul VA i Tee conse  E) arr un È Mirri, erre Dan  E $$ de alt  Il bat” è  i vas:  i fai  Rea PETE condi d; tI VP Ù  ci SESIZ: Dre rana “ o  repo nes ton oe erirzomee ERA <A Mirra 7  d SARI    CIRIE PI DAPIIA PEN ERI IENA EIBTATE DATRONEI ILVTI SVSTE GITE DELITTI RITI: sviene ETTER SPINTE AREACIRI EL BIEIIVTICA VARI    vi È    nica  È un tempio sotterraneo; visto nel senso longitudinale appare diviso in due parti.  Un'ampia cortina, tesa fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco trasversale,  separa il sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro misteri, dalla ce//a ove pregano i fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni classe e d’ogni paese: Matrone adorne di ric-  chissime vesti, portanti in capo una preziosa ?24%24/ od altre acconciature sfarzose;  schiavi in rozza tunica, e, fra questi, alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei  fuggitivarii; qualche liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi artificiali,  gli sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni fazione. Di fianco all’ ingresso  un mercante d’idoli ed un venditore di tavole votive spacciano la loro merce. Un  tempiere sta presso al vassojo delle offerte. DITE DNTAZI EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano D’un tratto la cortina si spalanca e si scopre agli occhi dei fedeli il sacrario. Tutti  coloro che stanno nella cella s'inginocchiano. Simon Mago, in manto e tiara d’argento,  col petto scintillante di gemme, sta sulla gradinata dell’altare e fra le mani, coperte  d’un drappo prezioso, tiene alto levato un calice d’oro. Un raggio fulgidissimo  scende dalla volta del tempio e illumina tutta la persona del Taumaturgo. Due  sacerdoti situati più basso sostengono, sotto il calice, un bacino d’oro. Altri otto  sacerdoti sono scaglionati sugli altri gradini fra le statue policrome, e la loro immobilità è tale che si confondono con queste. Quattro fiabelliferi ergono dietro il Mago  i loro flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi reggono, colle braccia alzate al disopra  del capo, due urne d’oro da cui vaporano degli aromati fumanti. Un altro innalza  un vaso di bronzo su cui arde una fiammella turchina, un altro tiene aperto davanti  al petto un dittico dove sono tracciati dei simboli. Ai piedi della gradinata stanno schierati alcuni giovanetti con delle grandi arpe e  delle cetre e dei sistri. Presso i pilastri dell'arco sono appostati due tempieri, e nel  centro dell’arcata Gobrias. (giovane discepolo di Simon Mago) e Dositèo, vecchio  sacerdote, stanno rivolti verso la folla. Nella cella i devoti guardano, in atto d’ansiosa aspettazione, il calice raggiante.  D’un tratto un largo fiotto di sangue trabocca spumeggiando dal calice e cade nel  bacino sottoposto. Nello stesso momento sorge dal braciere ardente una densa colonna  di fumo che invade il sacrario e nasconde Simon Mago alla vista dei credenti. La  cortina si chiude; Dositèo e Gobrias sono rimasti al di là della cortina, sul limitare  della cella. SIINO ZARA SENTE DITTE AI    SPIRI    TREIA FIIOZIIUSAI DIRPTI SAOIITT RI ERENIITIA È  ielialieo e en i PARTA  IATA FINTA AADHRED ERO GMAT IMITA TOMICA VENTI LITI ZIZAIE DAL LEDA NI LATERIZI PE TARGA ZE RAISI ALITO ANA A TMNTRS IA A PIVA CELIO DRITTO TETI PIT AA ID LS ae 17 PrO {EDILI IDRICA IEEE I SORIA II TIA DITA terreni:    0 IRR DIGO IE III NILE DD DS TRE T TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS AA TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO)    SIMON MAGO    a Gobrias, mentre î fedeli continuano  a cantare il loro salmo. Odi il fedel gregge mugghiar  L’incomprensibil càbbala al ciel. GOBRIAS colla tazza în mano e con piglio ilare  appressandosi a Sîimon Mago Vedi il festin sacro brillar! Sul lettisternio profuso è il vin!  Tempra il falernio succo la neve;  Voglio al divin scifo libar. Corre al desco ove coglie una tazza già  piena e poi ritorna nel gruppo. Dositèo  lo segue e lo imita.    PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI EMPATIA TT R    IRE VAT PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI (NELLA CELLA)  | I FEDELI inginocchiati  Stupor Portento GOBRIAS e DOSITÈO  | È compiuto il Mister. I FEDELI alzandosi disordinatamente  Miracolo Simon al ciel volò GOBRIAS i Preci ed offerte. Iltempiere girafra i fedeli con un piat-  ! to per raccogliere le offerte. ALCUNI FEDELI  Proùrche, Bythos, Sigeh, Logos, [ Anthropos, Zoè Noùs Ecclesia, Eccelsa Og-[doade; Gobrias entra nel sacrario seguito da  Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI FEDELI Profondo Abisso, imperscrutata    [origine  i Degli Enti primi e immenso mar    [degli Esseri;  TUTTII    Noi t'adoriamo. 2a reo anti lar FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT SCA TETI  i  FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI INDIZI IE ETA TMTIRET RSI    Ma pria dal vergine labro si deve un Dio propizio la prima asper-  [gine con comica ipocrisia Pio sacrifizio che il suolo irrora Inclina leggermente il labro della taz-  za verso terra în atto di burlesca devozione e sparge qualche   poi ripiglia con Dositèo e Cerinto: occia di vino, Ma poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure beve dietro l’altar.  Tracanna tutto il vino d’un fiato. SIMON MAGO  Zitto! GOBRIAS Siam ilari, si. beva!  Ribeve, DOSITÈO e CERINTO Zitto SIMON MAGO  Zitto GOBRIAS  S'esilari l’alma! Si beva! SIMON MAGO  S'ode ancor l’inno. cortina. Gobrias è corso a spiare aitraverso la |SIMON MAGO  a Gobrias  Che tenti?    GOBRIAS RATORI MOIS NET ZITTA TEA O  Esploro, II ALTI GADGET TILT ELLA IVI su se ALCUNI FEDELI Per te preghiam, per te che gemi  [e sanguini   Nell’ombra eterna, agitabonda  [Prunikos ALCUNI FEDELI  In te speriam, in te, Divin Paràklito,  Disceso in terra col celeste Pneuma.  TUTTI In te speriamo. ALCUNI FEDELI In te crediam, nel tuo Mister, nel  [calice Cruento che in tua man fervendo  [imporpora. TUTTI    In te crediamo. FAI ISIONA TA LITRI MOTI DI IEEE TI ISLA NI NITTI RIA III ER i LATI ATINTATZ TA DEDICATI VA DIL TRITATI RATES ATI APREA TIVA DCI IPER LIDIA TAL ITOT DATATI ELI ORI DIARI STORIE NETTI rrà    GOBRIAS | Alcuni fedeli, nella cella, appendono   ; degli ex-voto alle ginocchia dell’idolo, SME FRANE altri depongono delle monete nel piat-   to delle offerte che sarà portato in giro   dal tempiere. Un vecchio col capo co-   perto da un palliolum che gli ripara   anche le spalle, e sorretto dauno schiavo, sale sul basamento dell’idolo. Guarda! Essi appendono votive  [tavole.  S’ode un tintinno d’argento e d’oro. SIMON MAGO Favole attendono, vendiam lor favole.    GOBRIAS    Presso la statua, sul plinto sacro  Del Nume un vecchio parla. I   RIZZI METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA TI SIMON MAGO IL TEMPIERE  Che chiede ? | Date le offerte.  rase nes    Miane i SRD GOBRIAS    Parla all'orecchio del simulacro. SIMON MAGO ALCUNI FEDELI  Oh! quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato Nume il bronzo o l’è-  Paura e speme e il Tempio impera. [bure Per te cammina, profetizza e palpita.    GOBRIAS e CERINTO    Cingiam la chioma coll’eliocriso. SIMON MAGO Nostro è chi teme, nostro è chi spera. | DEI  i Tutti al miracolo che li conquide Noi t'adoriamo  i. Drizzano i volti, l’animo e il canto. |   Pregate, stolti! Pregate! Intanto  L’àugure ride dietro l’altar. SIR TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI DEI ELIAA Gobrias beve presso il lettisternio. GOBRIAS e DOSITÈO  alternatamente No, senza riso non posson gli àuguri  Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi corre al desco e  s’incorona comicamente brillo con una  ghirlanda di fiori gialli. CERINTO  a Gobrias Ah! Ah! AN! Bevi  SIMON MAGO ALCUNI FEDELI No, no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo!  Pronto a celiar. ! GOBRIAS Vo’ ber! Mio dritto quest'è Vo’ ber!  interrompendosi CERINTO  No, non déi ber! I SACERDOTI  Zitto laggiù! Zitto! Lo scempio cessiam! GOBRIAS Mio dritto Quest’ è.  ALCUNI FEDELI  Mo MAGO i Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos, Zoè, Noùs, Ecclesia, eccelsa Og-  [doade: SIMON MAGO  I SACERDOTI  Zitto Un gruppo di sacerdoti circonda Go- | TUTTI  i brias, tentando strappargli la tazza di mano; egli colle braccia alteladifende. Noi t'adoriamo Cerinto, Simon Mago e Dositèo non | È  | fanno parte del gruppo che assedia\ Il salmo nella cella è cessato; ritorna Gobrias. la calma anche nel sacrario.  | AUF IESE CARS MSA IMI DS LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO RAZOR RIO IAS PINZA F AVA RAO E    PINI A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA    CRI To ce een eee    Li  e ee ene ai arri) VIII SALZA    È  PO i  LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI ZIA AIIEIIZZ IA LEDA TIA EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg    SIMON MAGO   a Gobrias   Non cantan più. Tu scaccia quelle genti   Pria che giunga N..  Gobrias corre allegramente verso la cortina che divide la cella. A Dosîtèo   Spegni le faci. Arda il sulfureo cero. A Cerinto, indicando il manto e la tiara    Riponi quella spoglia.    GOBRIAS  sul limitare della cella, rivolto alla folla    Ite, credenti, e nel varcar la soglia  Inchinatevi al Genio dell’Impero.  I fedeli si alzano, s’inchinano davanti la statua di N., alcuni vanno a baciare i piedi dell’idolo, altri abbassano il capo davanti la co-  lonna del serpente di bronzo e tutti escono dalla porta a sinistra.  Intanto Dositèo eseguisce gli ordini di Simon Mago: spegne i lumi,  accende un cero che sparge una luce verdastra e lo colloca ai piedi  della gradinata. SIMON MAGO  a Dositèo Dositèo, Precedimi nell’antro ond’io riempio D’oracoli la cella.  Sovra l’altare, iridescente stella,  Scintilli il prisma.  Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a spiare dalla porta del  fondo.  Ai citaredi ed ai sistrati  E voi dall’ipogeo   Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti costoro escono dalla porta bassa dell’antrum. GOBRIAS  accorrendo nel sacrario  Giunge N. Simon Mago sale l’altare mentre Gobrias vuota un simpulum di vino.  Gobrias ripone il simpulum nel recipiente del vino e sale a salti la  gradinata. RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E TRIED DTA LINZ MIE € RATE, SID RITI  SIMON MAGO Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio segreto e indica a Gobrias il nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del bronzo romba  Smuovi quel fulcro e tutto si sprofondi  L’altar nella sua tomba. Gobrias penetra nel nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio segreto  su Gobrias, poi ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum. Ritorna  subito dopo tenendo Asteria per mano. La porta laterale della cella si  spalanca e discopre un'ala sontuosa ove si scorgono N., Tigellino,  Terpnos, e dietro d’essi alcuni Pretoriani e una decuria di Guardie  Germane. N. e Terpnos entrano nella cella, la cui porta subito si richiude.  SIMON MAGO  ad Asteria  Su quell’altar tu déi salir.  ASTERIA  Travolta Son ne’ misteri tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO N. qui t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA  Oh, sogno mio supremo! Oh, so- NERONE  [gno mio! accompagnato sulla cetra da Terpnos,  i canta:  Un supplicante attende e prega  SIMON MAGO Che il sacro vel per lui si schiuda.  Lo ascolta! Ei già t'implora. ASTERIA Ma sull’altar perchè  Tu aderger vuoi queste membra  [mortali? SIMON MAGO salendo la gradinata e conducendo a  forza Asteria riluttante insino all’altare Non indagar. Sali al tuo sogno! Sali!  ASTERIA  Pietà  SIMON MAGO Sali con me! Sali con me! ASTERIA  Fi m’ha nomata! SIMON MAGO  sottovoce    Egli la Dea ti crede  Che sulla notte e sui terrori ha  [ regno.  Bada a te! Se ti sfugge solo un  [segno  Di tua mortalità, se scosti il piede  Da quest’ara e dal raggio che t’indìa,  Tutto crolla.  PRAIA II ATEI RTRT NATIA LIE TODI LONTANE TEA III BISTLIO LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI N. Placata alfin Ramnusia, in terra,  i Indulga; arrida Asteria in ciel. N., con un gesto appena accen-  i nato, congeda Terpnos che esce tosto  ‘dalla porta d’onde è entrato. N. rimane ginocchioni ad aspettare a capo chino, toccando amuleti appesi al  petto e applicandoli alla fronte.    ASTERIA    Mi danni alla tortura ! SIMON MAGO dopo aver cercato con un gesto di far tacere Asteria, le chiude colla  palma la bocca. Nell’antro ov’ io m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia,  Ravviva in lui la speme o la paura   E tuo schiavo sarà chi ha schiavo il mondo. Simon Mago scende. Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata dalle  parole di Simon Mago, appoggiata all’ara, immobile. !  |  I}  î  ge  frenate rs  È DIPANA N DIZIA IE INIT ATA R TIRI I SILE NI LIDI MEDE RATE PERITI NETTI SITAFINIDI DI UTO RATIO ATER II TO LIMO TNTIZI ATER IRITRN IR DI LITI DIRI LATITANTE TL 2  Simon Mago schiude un poco la cortina e passa nella cella. Non ri-  mane altra luce che quella del cero e del braciere ardente; anche la  fiamma dell’ara è spenta. SIMON MAGO  a N., dopo socchiusa la cortina T'è concesso varcar l’occulta soglia. N. s’incammina, arriva sino al limite del sacrario e fa per entrare, ma Simon Mago lo arresta. SIMON MAGO  affrettatamente Erri. Col destro pie’ N. s’arresta sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora  la soglia. T'inchina.  N. s’inchina. Passa.  N. varca la soglia. SIMON MAGO Gli sguardi abbassa.  Il tetro ammanto spoglia. N., a capo chino, eseguisce tutti i comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce, tenendolo per mano, davanti allo specchio  magîco. La fioca luce del sacrario non arriva a illuminare Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in cui rifrange  Sua luce astrale l’infinito Abisso.   Solo uno sguardo intensamente fisso  Giunge a discerner la spirtal falange.  Qui la vedrai, se tieni gli occhi intenti,  In quel baglior di porpora e d’elettro. Poscia, indicando lo scudo appeso accanto allo specchio e la mazza  di ferro, soggiunge:    E se uno spettro appar che ti spaventi,  Batti quel bronzo e sparirà lo spettro. Abbandona Nerone, solo, davanti allo specchio magico ed esce dalla  porta dell’antrum. ZEN } Un raggio iridescente scende dalla volta del Tempio e illumina Aste-  ria la cui immagine si riflette nello specchio. A  N.  Ah! sparisci!  Atterrito impugna il maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo,  ma subito s’arresta. No No. Sei del miraglio  L’illusion. i  Avvicina lo smeraldo all'occhio.  Ma ben ti raffiguro. Strano mister. Par specchiato sembiante. S’avvicina, con intensa curiosità, allo specchio e lo tocca; abbandona  i lo smeraldo.  Ah! qual pallor sul suo volto.... e sul mio! Vediam.  Si volge e vede Asteria sull’altare.  Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto a quello dello specchio e si  copre gli occhi colle mani. Non m’accecar!  Porta la mano destra alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare  d’alzare gli sguardi, si avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo  gradino. Tremenda  Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri  Tu promettesti pace a un matricida.  La stessa grazia imploro; inginocchiato su d’un ginocchio solo al par d’Oreste  Io non senza cagion la madre uccisi.  Dal suo spettro mi salva !  Ripiomba col volto sulla gradinata dell’altare.ASTERIA  sempre immota, fissandolo, con un accento languido di sogno Sorgi e spera.  N. sollevando la testa e gli occhi a poco a poco insino ad Asteria Oh! come viene a errar presso il mio core  La voce tua! Al par d’un bronzo echèo  Risponde il core.  Sorge lentamente e, guardando Asteria, si toglie dal collo il monile  di smeraldi; mentr'egli compie quest’atto, Asteria con eguale lentezza:  e cogli occhi fissi su Nerone si toglie dal collo le serpi avvolte e le  lascia cadere nella cista mystica che le sta d’accanto. PON ET NETTA MOVE IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI VITTI RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I TANARRE    DETTATI ATTI AES INIT ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET MA NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT PATRIA  N. Tu dal sen disnodi  La vivente lorica, io surgo e getto  L’offerta ai piedi tuoi. Getta la collana di smeraldi sul tripode dell’altare, alla portato deîla  iano d’Asteria. Poi, seguendo con lo sguardo le movenze d’Asteria.  prosegue: Ecco; la Dea si china.  Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella  Fra i lividi smeraldi Scendi Scendi Sul sognator de’ prodigiosi imeni Come sciolta dal ciel cade una stella  Scendi vèér me, Selène! Ecate! Asteria |!  Vago Eòne lunar! Magica Iddia  Dai mille nomi, scendi! Ognun di quelli  Sarà un nome d’amor !   Ma immota resti,   Dea degli alti silenzi, al par dell’astro  D’onde tu migri nell’ore incantate.  No... nel tuo cor sangue umano non pulsa  Ma il freddo icore de’ Celesti. Guarda lo... rapito dal senso, amor spirante,  T'imploro S'è gettato sui gradini dell’altare sempre cogli occhi fissi in Asteria  e colle braccia tese verso di lei. Essa rimane immobile presso all’ara,  colla testa arrovesciata; come irrigidita dall’estasi. Oh! duolo! Una Immortal tu sei !  Donna ti voglio e anelante nei fremiti  Fieri del bacio! Ah! ch’io. non maledica  La tua Divinità! Già il sacrilegio  Portai su Vesta, allor che a forza avvinsi  Rubria, vergine sacra, a pie’ dell’ara Asteria si lascia sfuggire un breve grido. Nerone s'è rialzato €  prosegue: Ma delitto più nuovo e assai più forte  Consumerò Si slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per afferrare Asteria. Scoppia  un fragore spaventoso come di bronzo terribilmente percosso e s'ode  dalla bocca spalancata del mostro che sorge dalla pareie dell’antru, FISICI: LA VOCE DELL’ORACOLO  N.-Oreste! N.  Asteria ! È Nello stesso tempo s'è spento il raggio che illuminava Asteria. Il sa;  crario ripiomba nell'oscurità.  N. ricade come fulminato sulla gradinata. Asteria, lentament$  scende qualche gradino, s’avvicina a N., chinandosi a poco a  poco, gli si rannicchia d’accosto, mezzo prostrata, mezzo seduta; î  due corpi si toccano. I loro volti riverberano, fra le tenebre, la livida  luce del cero e il riflesso della bragia. ASTERIA | N.. — i  come sognando | lentamente fra le parole di Asteria    i Passa una bieca ora di febbre... un    Cieca la salma nell’orror ripiomba... | [sogno...  6) ? 19  L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo) | Sento..nell’aura cieca..in fondo  i i SI [all’ebbre  a le larve SA non | Parvenze il lento incubo nero.  orbe....m’invade il ciel... | [Oscilla: Al par delle spiranti anime il cero.i Lungo l’altar bagliori erranti volano. LA VOCE DELL’ORACOLO  N., fuggi ! N. Mugola un tetro suono entro il sacrario.  L’aura s'annugola ed ulula il tuono. Ma tu il nefario orror distruggi, Asteria;  Fida guardia tu se LA VOCE DELL’ORACOLO  N., fuggi N. senza sgomento, ad Asteria, con lentezza estatica  L’oracol grida invan su me, non temo.  sorridendo sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando   Sotto i tuoi piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio  Blando... lento... che muor col sogno e bea  L’alma e dissonna il senso O Amore BEI BRASIOA ZI FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI PARTI IM I RATEALE DORIA TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN VLAN TTT VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO ETICI CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA  Oh! Amor!  Si baciano. LA VOCE DELL’ ORACOLO  sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP  PR ESSERE Fuggi, N.!  N.  balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente    Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare. POF DI DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO    ENTETANZA ASIA TATA Fuggi, N.!  N., in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI ITA Prcietruee N. sottovoce, origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’ ORACOLO Fuggi,  N.! N.  scendendo dalla gradinata, rivolto verso l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra il cero e corre a cacciarlo violentemente, dalla parte della  fiamma, nella bocca dell’Oracolo.  DOSITEO  Aìta! i: N. ridendo È colto! Dietro la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con-  fondeva cogli altri marmi, traspare un grande chiarore.  PIMOPI LAICO YIIEV A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA ERETTA SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE GRATTTRT EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL  N. par la vampa! Il chiostro insidioso  Crolli! Impugna la mazza di ferro e con un colpo violento spezza la lastra  di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo squarcio della parete si  scorge Dositèo, svenuto sul pavimento dell’antrum, colla barba e le / i vesti în fiamme.  Ah! An! An! È Dositèo che arde! Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e con  grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a  destra. N. corre mella cella, ne spalanca la porta centrale, chiamando:  Pretoriani! Entrano tosto Tigellino, i Pretoriani, la decuria della Guardia Ger-  mana, Terpnos e i servi colle faci. N.  strappando le cortine del sacrario e gridando, invaso da un gajo furore;  Accorrete! Ecco! Mirate!  Squarcia il velo del sacrario.  Squarciato è il vel del Tempio! Ah! AN! si rida!  Non vi sfugga Simon, ei là s’asconde. Indica l’antrum. Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì dallo   squarcio del muro. Terpnos ha deposta una face accanto allo specchio. N. resta solo nel sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano   continua allegramente l’opera di distruzione. Si scaglia per primo  contro l’idolo-automa. N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco! Vediam che n’esce! Vediam, vediam!  E con un colpo di maglio io decapita e lo atterra. L’idolo cadendo  agita le braccia dinoccolate, si rompe e n’escono i congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena!Intanto Gobrias è uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e   barcollante, contempla con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato, la ruina del sacrario, mentre Nerone atterra  un’altra statua. GOBRIAS  Eh! son briachi (incespica) i Numi! N.  D’onde sbuca costui?  d ; sa wcmerra sana ce iran» — rst Le o  RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE RIESI n fl  s / SIIT TTI ILI IIE O MTERI VITE TL FI  rare FIA DERE MA RE BIDET SR: SAT £   RICE TIT I RR ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS  Da quest’altare, Come il sorcio ridicolo del monte.  NERONE   Ebbrioso compar, tu assai mi piaci; T'ascrivo al mio Teatro. Gobrias s’inchina e scende incespicando.  GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume! Rientrano tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar-  die Germane col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia legate. N.  a Simon Mago, deridendolo  O Gran Verbo di Dio!  al Decurione  Libero ei sia;  Costor dai ceppi han gloria.  a Simon Mago  O Paracleto! Già udii narrar di te che t'ergi a volo  Nell’aria. (ride) Ebben, ah! ah! tu volerai  Nel Circo il dì delle Lucarie. SIMON MAGO  sciolto dai ceppi SÌ. Purchè il sangue Cristian scorra in quel giorno. N. Tutto, purchè tu voli.  al Decurione, indicando Asteria che s’è riavuta:  Decurione!  Questa, degli angui amor, falsarda Erinni,  Incubo dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei serpi! Il Decurione e due Guardie afferrano Asteria.ASTERIA  dibattendosi angosciosamente Invan mi danni  E mentre la trascinano fuori dal Tempio ripete con accento disperato: Non morirò. Ma deh! per grazia, uccidimi!  lo non son che una povera errabonda   Sposa di serpi; alla mia razza il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte.  Liberati da me, perchè, se vivo,   Ti seguirò così, sempre, rapita   Dal volo del tuo turbine, travolta   Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei,  Perchè t’adoro N. Vedremo Al vivario Asteria è trascinata dai Pretoriani e dalle Guardie Germane fuori dal  Tempio. Il coro la insegue minaccioso.  CORO    AI vivario! al vivario! a morte! a morte! N.  piglia la cetra dalle mani di Terpnos, sale sull’altare ed esclama:  Or che 1 Numi son vinti, a me la cetra,  A me laltar! Gobrias prende dalla mensa una corona d’alloro e gliela porge. N. s’incorona. Gobrias, Tigellino, Terpnos, i Pretoriani si schierano  davanti all’altare. lo canto.  S'atteggia come l’Apollo Musagete e incomincia a preludiare.  PEA RA TTT ALT ERRO FIGATA PIENA ZITTI ANTISTANTE VIN SENI TII TTD AA ANTO ARAZZI CITATO AAT TDI LV ATTIENE PILA RENT TIVI TO STANCA CENACOLO AMT ZITTI TRAVE  Le DATE IE SITA RT iL LOZINI LATDLET AITITIIRE AIN A DI E    RARE, e A REC TTD    ina 2 TINTI RIE SOSIO SR  API RL PI STRA ET LIS MIETTA TRAZIONE I a  " È n  i |  ; Ta) Neri  SIGEAN bi pine È  "O    PRA VA bd    Risp sr O pr) NAME "i Lia "IO, o,    = dI  i Ù i si  x *A/K ft  | NUIT MToMe n  L x } a SAL) Ù hi î I, fi  A i ru iù DIVI  { il DA ti,  ' & à  LI 4 p À  h Ò NZ ( NUCS  br AT,  i ing AL AA RIMINI,  ' si  x po da % 9 n DEGLI)  Ù SIIRITIEONE UA; ori pi  i { RISOTTO Do NAVI i  | MUNSTER E TTAGC La VITRO  A hi si E NALI p Ni; VETRI Nu È i MED? Mi toa)  Pa F ‘ À \ RA . Ù a n  = lo } V n a Pag 14 Ti vr : hi  \ ci n i LO Ù i È tI | l  K Y Î Li Li ; î 3 E Lù - vida Wa) quivi Mx  3) A LA Y -  Ù E À Li Lis ni o 19 M bi "i Di) x Vo oa DA VU  : ì i RT TIRO RT TA nn, ARI V  & Li % È n ir” , i aa Ir ay ) %  } ‘ i da fa o “i Ni hi l'aa th la LA | griji £ LC  } : î PA, PrO Pa  RO UO; AI i CA LT  t P Wii: î x î N  FCI : [CNIT   4 71 Fogar É f|  o 1 È nt INCA x i FIRE RSO, L'ARIA Coe i  4 :) = L.A al È i db: (x ad IR  \ 4 = 3 i LINATE, ?  i Ul 4 Un Pip USD -  at 53 pi  bi CoA Mure È  si LA Beba  A di CUR De) 4  i | À 41 J LI  È Ù LA) }  y LI F bei ti  È f x )  } | INA spit  Ù LA ti ì ai Vide) LA) PRATO A) . dj x È  a  L) » 4 LI ® fi co  fi \ 1800 / Dt  4 ì ì Hei) È  i ' é VITO, pil A  AI di RATE 1,  - x LI ki 4 o  n 4 #0 po €  . i i i  i LE 00 } n  ‘ “i x  iu %  x j ie è  pi A È * î  à 3 X ì  | 4  bo) ©  ì od \  ' hi L) N P  1a Il 1) A  . \ n ;  L: ai } U Ì 5 } I?  ) 5 i <#° [|  3 PRani bf MaI  R i a Sy ) Le  - iv 3 DES, idoli bi  ” il  È bi, i Ù  PA 1) 1 "ri pa  o a. Li l Ù  P] > " n 5  (i i  } i t  n  ni  AR hi | /  o x \  Ù ML)  T #  È BO sh Ì di  sil "VOR ;  N "a | \ A è  4 PUN Y di  +" n 7  " ? 3a  î n à fi "RADO agito  La i è n )  ; > x i LI 4  4 alt d {  RITA YO o LAI GAIA pia  vi re |\ RALE, ù 9) Ì i, pl  P, LI LAP  x t pr  A Si ) DIM hi  e » (daga î  + A È i i Miu  { WI Y î ,  ‘ È Ù mi A PI vi  I i ®  do Lei È A è MO * " Ne gii Tute  ; VA Lì Ù 1) Di Ù)  ESESA  4 4 IRTONINNIOA i i  : È VA ni  \ È. t1 x  De \ dI Mi x “ va  a Ù at),  ti hi Fi L) 1) è TA LI È i RE ì hi PIT, N  si $ Ti PI pà ti É ne: AO PT  î ' DIFF AMeTT,) i \ snn ; Mg”  i l 3 A di i) AI) Fo ni PRA E, |  i Si Hb RUTTO Sarai ey ronernt pala nre, rat ai rt: pi 1g  SI ' LA y, - té Pi Ca  SILA ) o na i RA: ALI i 44 Ò  (4 LAN ( IRSA PIL] GRITTI  i i i ig Hut [eLt 1%  f U PARA | y i I  i A, » =    vec saio    cen L’orto dove s’adunano i Cristiani, nel suburbio di Roma, è illuminato dagli ultimi  riflessi del tramonto. A sinistra v'è un casolare con un vasto pergolato sostenuto  da quattro colonne. A destra v’è una fonte rustica sul cui margine di pietra è  deposta una ciotola e un’idria. Poco discosto v’è un sedile di rozzo legno. Dietro  alla fonte, e d’intorno, le zolle fiorite formano una leggera prominenza. Nel fondo  s'estende un uliveto. Sotto la pergola vi sono due tavole; una di queste ha la  forma d’un sigma lunare e porta i resti d’una cena frugale, l’altra è di quelle che  servono ai coronari per intessere ghirlande ed è piena di fiori e di fronde. Intorno I  a questa tavola stanno sedute parecchie donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato  alcuni Cristiani circondano Fanuèl il quale è appoggiato al margine del fonte.  Un’aura di soave pace è diffusa su questa umile gente e sull’ orto. Un’immensa  attesa riempie le anime. FANUÈL  în atto di chi continua una narrazione udir pronte E vedendo le turbe ad   Salì sul monte, Le benedisse E disse: Beati i mansueti,   Perchè saranno della terra i Re.  LE DONNE CRISTIANE  ripetono sommessamente: Beati i mansueti. FANUÈL Beati quei che piangono, perchè  Saranno lieti. LE DONNE    Beati quei che piangono. FANUÈL Beati quei che vivono in desìo,  Perchè li udrà il Signore. GL’UOMINI  Beati FANUÈL Beati quelli che hanno puro il cuore, perchè vedran la gloria del Signore. PWOASCI  Beati FANUÈEL E beati, fra Vanime fedeli, Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi,  Perchè per essi   È il Reame de’ Cieli. TUTE  Beati! Rubriîa esce dal casolare con una lampa in mano; è seguita da Perside  e da fanciulle che portano in grembo dei fiori sciolti e lì depongono  sulla tavola insieme agli altri. Tutte le donne si radunano intorno ai  fiori. Alcuni uomini vanno accanto alle donne, altri entrano nel caso-  lare, altri si disperdono nell'orto. Fanuèl, appoggiato ad una colonna  della vite, guarda Rubria. Incominciano a spargersi le prime ombre della notte. RUBRIA Vigiliamo. È la sera. Arde la face.  D’intorno ad essa ci aduniamo in pace.  Viene il Signore ma nessun sa quando;  Beati quei che troverà vegliando. Si mette fra le donne ed i fanciulli ad intrecciare ghirlande ed a cantare con essi una canzone. RUBRIA, PERSIDE, LE DONNE    alternatamente   A me i ligustri,  A te l’allor. Tuffiam le industri Mani nei fior. A me il ciclame  E l’asfodel, L'’aulente stame  E il tenue stel. Avrem corimbi D’edera inserti, Corone e nimbi,  Ghirlande e serti. A me il viburno  E l’amaranto. Rigira il canto  Mutando turno. Sua gioja espanda  La cantilena  Viva e serena  Come ghirlanda. OR! date a piene  Mani le rose Vigili spose,  Lo sposo viene. Spogliate i clivi, Le valli e gli orti!  Fiori sui vivi Fiori sui morti Fiori silvani  Gialli e vermigli OR! date gigli  A piene mani!  Casto segreto  D’amor ci leghi. Canti chi è lieto,  Chi è triste preghi Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore!  CISA Fede Amore! Amore! i Speranza!  ci pritaza erica nr    srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE  LIV NE PISA POR TINI ESTATI NOIA  negro ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI LETT IIS CLI IE AMET Li  VITI en = PN LATITTE FRS, IAC IONI CREA PIATTO TODARO LAZ)  IT AETE TA ADEN IMEBIIREI LIE Ra STAI TANTI NLITTE PORA ONT Te ppie LL SIIT FIIEAIOI MIEI OASI METZIZIO EIA DNASIORISI E STIRIA TIZIO EE DO DIE I ITA MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE PL ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo  Pace. ALCUNI CRISTIANI  sommessamente cTsrEATI e en  Risponde il ciel ! (IbEEINDI  chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli alberi dell’uliveto si scorge una figura nera che s’avvicina  lentamente. È Asteria. ALCUNE DONNE  Un fantasima E fuggono tutti, tranne Fanuèl e Rubria. Asteria s’avanza come persona esausta e dolorosa. Giunta sul limite   dell’uliveto s’appoggia al tronco d’un albero, guardando il casolare. Le sue vesti sono lacere, non porta più le serbi intorno al collo; mormora, gemendo, parole interrotte.  ASTERIA Di pace una dolente a lor favella Crudeli ed essi fuggono. RUBRIA  ode i fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la sorregge pietosamente e  la conduce a sedere presso la fonte dicendo: Sorella,  Che hai? tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi!  ASTERIA    vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa. Dolce Nazzarena SÌ tu se’ quella che il mio duol lenivi  Sull’Appia, orando, un dì, nella quiete  Dell’alba T'ho cercata tanto Ho sete. Rubria fa cenno a Fanubl, il quale s’affretta a riempire la ciotola coll’acqua del fonte e gliela porge. A ORTO Co ee vee te en e ee e ea   ASTERIA  sorridendo a Rubria ed estraendo un fiore dal seno  Quest'è un tuo fiore. RUBRIA Bevi. Avvicina la tazza alle labbra dell’assetata. Asteria beve avidamente. Arsa languivi. Mentre Asteria alza le mani per sorreggere la tazza, si vedono le sue  braccia ferite e sanguinanti. Tu spargi sangue ASTERIA  dopo un lungo sorso, senza por mente all’osservazione di Rubria  Oh, il fresco umor dei rivi! sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl;  a Rubria: Ma tu non seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi Per salvarti. Per te mi svincolai  Dall’amplesso dell’idre.  mostrando le cicatrici Ecco i lor baci.  Rubria fa per bendare la ferita di Asteria.  Non m’ajutar. con parola sempre più concitata e ravvivandosi rapidamente    Questi attimi fugaci  Serba per te, te stessa ajuta, fuggi!  alzandosi    Fuggite tutti! sulla vostra traccia  Vien Simon Mago. RUBRIA Spavento |! cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI MALIGNA VAIO NT IISIRTARI PIGRI FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA ITA! III TA LA PVASVDAT: OSCENI sN TT DA TTT TL LT e rene toe O EIA. x a serest PR LATTA x nti creni  SIOE ZIONI DANTE RITA AZ TI DI TATTICA OZ TTEELATIAA CEI ITA IZ RISO PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI IZZO TIZIA INIZIATI SEP AIA  I  Ù  s  |ASTERIA i I I var tenanionIE Distruggi  Ogni altra speme che non sia la fuga.  Tremendo egli è ! Bene udii la minaccia:  Ei vuol sangue cristiano. RUBRIA a Fanubl, atterrita  Il tuo Asteria si è già allontanata dalla parte dell’uliveto. RUBRIA  ad Asteria T'arresta ! ASTERIA  con subita veemenza e come spinta da un impeto invincibile Il riacceso mio dimon mi fuga Scompare tra gli alberi del fondo. RUBRIA    s’avvicina a Fanuèl che è rimasto presso al fonte e la guarda, immobile; dopo un momento d’ansioso silenzio Fanuèl Fanuèl Parla ti desta. ”  Salvati, per pietà! Tu indugi ancora? Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora E dia le vele al vento! L’infinita  Via del vol s'apre a noi, corri alla vita Vieni! mi suscita un Dio quest’alato FANUÈL  fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo un silenzio Non parli più? L’alato impeto muore  AI solo rammentarne?  Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore. SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII REISER LTT.  RUBRIA  interrompendolo    Ed or te ne rammenti FANUÈEL A tutte l’ore  M’è quel tribolo fitto entro la carne Confessa.  RUBRIA No.  Pria fuggiam poi dirò Come potresti or tu quest’affannata  Anima interrogar sì che risponda Sàtana è là nel tenebrore,   Vuol la tua morte FANUÈL  Tutto ignoro di te, tutto, anche il nome.  Quando t’accolsi nella fe’ novella  Non te lo chiesi, ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva  Tu ne abbandoni; l’orma fuggitiva  Ove ten porti? ove? e perchè celarla?  Forse allor corri al tuo peccato ? Parla !  Parla! Consenti alfin (ti pregai tanto)  L’alto abbandon del lagrimato errore !  E un’estasi soave in fondo al pianto GOBRIAS con voce artefatta, nasale, dal timbro bieco dal folto dell’uliveto Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del charisma Cristian ! RUBRIA  inorridita  Sàtana è qui!  Corre disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda intorno, spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl.    L'orto è immerso in una densa penombra.  S’intravvedono nel fondo Simon Mago e Gobrias poveramentie vestiti.  Simon Mago ha il capo coperto da una calàutica î cui lembi sciolti gli   mascherano tutto il viso. S'arrestano là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Va guardingo, attento esplora; guidami per mano. GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e risponde sottovoce Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano. SIMON MAGO Ricomincia il tuo lamento GOBRIAS Ah! Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON MAGO sommessamente e con grande ansia a sempre sottovoce    Fanuèl che non si scuote Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento, cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar DI  st avvicinanando meco. GOBRIAS  con Simon Mago al casolare e gira intorno gli sguardi. Dilaniata strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse Cuore il mio grido e non ti vuoi  Odo un suon di voci arcane, di sin-  [salvar !)  SIMON MAGO {in bruno ammanto. SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a Gobrias e sottovoce  Sigi    mi raffigura,    S'ei mi s'oppone, ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar novella Ed agitar, coi nostri, la congiura  Dell’incendio. Se ajuto qui m'è tolto,  L’ultima audacia disperata è quella.) ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI FOTI TO RL TAN RNA RIO + OR PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT VE UE EIUS LAI RI MD RUBRIA disperatamente, ma convocesommessa Mi guardi e taci? Che pensi? FANUÈL I  amaramente SIMON MAGO Che penso Va quando vedi ch’io mi scopro  È peccato d’amor il volto. RUBRIA D’amore immenso FANUÈL  Questa fu l’ora della grande angoscia S’avvicina, calmo, a Simon Mago, Rubria rimane presso la fonte. FANUÉL ad alta voce Che vuole il cieco SIMON MAGO a Gobrias Parla tu. GOBRIAS a Fanuèl La luce del charisma Cristian.  FANUÈL  terribilmente Così non sia!  Mago Simon, cieco e de’ ciechi Duce! dj   È  Ù \ONTSZE TIIPO LI OPZIONI IONA MUTI ET ATTIMI EDIZ) MSN LINA PIA III NI DTT Me OI III TOO EA TE DALIA DI TITOLI CPT ART DT  î SSN (AS    TEAM EEDE TAI EAZIANTZNGLTT POSTI NI FAZI PORTIERE ITINERE TIE E AITINA NEI AR NZIMECII AI ATI E PETTO BIO I ZI UT AMI    SIDE BIZ SEDI VITE da TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI ME TECA IENA RETTA EPOCA LA Ende SERA ILE STATUE AL SIMON MAGO  atterrito si scopre il volto e si getta ai piedi di Fanuèl. Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è allontanato dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco  dopo n’esce con alcuni Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un  Centurione.  SIMON MAGO  sempre ai piedi di Fanuèl continua Furar tentai ciò che negasti, or prego.  La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi salvar, morte m’attende. Un’opra ch’ogni uman segno trascende  N. m’impone,   Non si sfugge a N.! Dove ch’io mova un Centurion mi spia.  Ma tu, Profeta del novello Eòne,   Tu, coi portenti della tua magìa,   Tu sol mi puoi salvar. FANUÈL  Così non sia!  Si vedono comparire dall’uliveto due decurie di Guardie Germane colloro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati da portatori di fiaccole. SIMON MAGO  rialzandosi di colpo e indicando Fanuèl ai Pretoriani  A voi l’uom.  I CRISTIANI  si slanciano contro Simon Mago, gridando Morte SIMON MAGO  chiedendo ajuto alle guardie  Olà I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone ! PERE e De FANUÈL interponendosi, con un gesto pacato, libera Simon Mago dall’assalto;  poi dice ai Cristiani:  Non resistete al malvagio. L’esempio  Ne diè il Signore. Il Signor sia con voi. Nessun chieda ragione  Se piace a Dio di far possente un empio  Per infrangerlo poi.Simon Mago s’allontana. Fanuèl ripiglia dolcemente Vivete in pace, e in concento soave  D'amore, mani aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave  E l’allegrezza. La giornata è compìta  Pel fratel vostro e il suo carco depone. Voi camminate in novità di vita  Ed in pienezza di Benedizione.  Oscurandosi Quando torna la sera, col mesto incanto delle rimembranze,  Unite anche il mio nome alla preghiera,  Unite anche il mio nome alle speranze.   trattenendo la commozione  V’amai dal dì che il cuor vostro ho raccolto,  Non so quale m’attenda ora crudel Ma so che più non vedrete il mio volto. I CRISTIANI  donne e uomini, gemendo Fanuèl Fanuèl FANUÈL  s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or, fratelli, io tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi. I CRISTIANI  inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl  Amen RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO TINA E SRI IATA ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL  entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con un bacio santo.  Bacia alcuni uomini ed alcune donne.  Seguitemi cantando un lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per darsi in mano alle guardie. RUBRIA  mettendosi davanti a, Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci sulla mia pupilla  La lagrima cocente dell’addio FANUÈL Donna, ho le labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che Rubria rimane in disparte,  lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge: Qui sola resti? RUBRIA  subito, con voce appena sensibile  SÌ.  FANUÈL rivolto ai Cristiani che lo accompagnano  Cantate a Dio!  Le donne hanno raccolti tutti i fiori e li spargono davanti i passi di  Fanuèl, cantando e allontanandosi fra gli alberi dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il fervore dell'anima, spargendo fiori davanti i  passi di Fanuèl Oh date a piene  Mani le rose interrompendosi con un singulto di dolore I CRISTIANI Vigili spose ANSA DITTA IRE FUSTI ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6 SDONSSIOIZG N ISIEZO III ì cinrii ALTARE ERI AZIONA IATA nr    SIONI ASTANTI TIA II TIZIA AMI NL TERA IV ZII II DO RATTAZZI TLT RA RDATAI IZATFNTAI I VORII DTEIA TT AAF    Ln ara e ST GPTDT ELICA VOTATI LN DDT RIT ATI TSI ITINERE o e A È  CREARTI IE IEIRRIA MALARRIIRO E ARTT PONE A MRO II SOI EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE IE E RETE I RT MENA TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE  Spogliate i clivi,  Le valli e gli orti!  Fiori sui vivi! I CRISTIANI  allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A piene mani Casto segreto d’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi. Lieto è chi muore  Nel Dio verace.  Amore Fede Amore LA CANZONE LONTANA Rubria è rimasta sola nell'orto. Il canto s’affievolisce allontanandosi. RUBRIA  dopo aver seguito collo sguardo il  i cammino dì Fanuèl  Sì, per salvarti. Ma il mio sogno  [è infranto.  S’accosta al margine del fonte e bacia  il posto della pietra toccato da lui. Si rialza. Tende l’orecchio verso la canzone cristiana che si sperde sempre più nella lontananza. Un sogno santo un dolce sogno fu  Laggiù, lontan, nella canzon che [muore,  L’odo ancor. RUBRIA  L’odo ancor e canta:  [amore ! Amore. sforzandosi d’afferrare gli ultimi suoni L’odo ancor. dopo un lungo silenzio, angosciosamente  Non l’odo più E cade ginocchioni. Ma RIM AA  7  NI VAIO QAVTI MALLINMA VO: IT RICA OS  NT e tane carl ieri ian ]  a MITA LIETI  }  Ì  i   tino.  19 a 0;  dI  iaia DS x LESLIE TENTA NA LIZ È  STATO LANE SAI LZ ATI  Si vede l'interno dell’oppidum fra i suoi grand’archi centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e quello della f0r/a dompae, a sinistra, che s’apre verso il foro boario. In questo grande atrio ha sua foce un criptoportico che si prolunga nel fondo seguendo la lieve curva della fronte del circo; è chiuso, alla diritta di chi guarda, dal muro delle carceri, e la sua parete a mano manca è popolata di botteghe e di   taverne. Nella stessa parete, leggermente concava, si scorgono i primi gradini d’una scala interna che ascende alle precinzioni più alte.  Presso all’arco che sbocca nel circo si vede internarsi nel muro, di prospetto, il   primo ramo d’una scala che sale al podin. Un’ ampia nicchia, fiantheggiante la forfa pompae, accoglie la famosa scultura  Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in atto d’avvincere Dirce alle corna d’un  . toro inferocito. La viva luce diurna entra dall’arco esterno nell’oppidurm. Ai pilastri degli archi è affisso l’editto dei giuochi. Vortici di folla irrompono da ogni lato. La maggior calca ferve intorno ad una  quadriga; quivi le fazioni del Circo si affrontano levando grida di trionfo e d’ira,  i agitando toghe e cappelli e pezzuole verdi ed azzurre. Parecchi brandiscono degli  stili, altri minacciano colle pugna gli avversarii. L’auriga, che ritorna vittorioso  dalla gara, porta i colori di parte prasiza, ha le redini attorte dietro la schiena e i  cavalli rivolti nella direzione del criptoportico, impugna un coltello per difendersi de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni FELICIA vano cavia nta PO TAZTI  ARE TATE dagl’assalitori. I VERDI  Gloria Vittoria GL’AZZURRI  Morte Morte Infamia I VERDI  . Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GL’AZZURRI Furasti con perfida frode,  Furasti con perfida gara  La palma cruenta! I VERDI Vittoria Vittoria La folla vociferando segue la quadriga e s’interna nel criptoportico. Simon Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione, incontra Gobrias  che viene dall’arena.  GOBRIAS  a Simon Mago, scherzosamente, coll’inflessione particolare di chi  parla ridendo I Verdi han vinto, è salva Roma. SIMON MAGO  sottovoce a Gobrias Ebben GOBRIAS  sottovoce, dopo essersi appressato a Simon Mago, e rapidamente  Siam pronti. La fune incendiaria acoppierà verso il celio. SIMON MAGO sottovoce E chi la scaglia? GOBRIAS Asteria,  SIMON MAGO  con accento di grandz sorpresa Asteria?    GOBRIAS    Sì. Viva la trassi  Dal baratro de’ serpi ed or ti giova. SIMON MAGO M’odia, mi tradirà. TT RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt    ri I i nevi ia ceca mann ast romiiomito nea ra re ORTO PATIRE RR RI II LIONE DINI ONTE IIN  i $  i  GOBRIAS  con accento di chi rassicura    Ama i Cristiani,  Vorrà salvarli e te salva con essi.  SIMON MAGO  dopo un momento di riflessione  Sai l’ordine de’ giuochi? GOBRIAS    indicando l’editto affisso ai pilastri della porta pompae ed avviandosi  a leggerlo    È là, si legge.  Dal fondo del portico sopraggiungono alcuni gladiatori armati per  combattere e disposti în ordine di parata; divisi per coppie, preceduti    da quattro Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal Lanista  e da un servo, entrano nel circo. GOBRIAS 1 gladiatori di Preneste - Passano.  Il supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i veitri e colla morte vera Di femmine Chrestiane. SIMON MAGO  interrompendo A mesi deve. GOBRIAS  continuando la lettura  Laurèolo in croce sbranato dagli orsi. SIMON MAGO  È Fanuèl. Continua.  GOBRIAS  ferminando la lettura  Il volo d’Icaro con un gesto d’addio canzonatorio a Simon Mago Buon ti sia Se ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico. Dal circo giungono grida di Euoè Euoè Euge Euge Macte Macte mentre un’ondata di folla entra correndo dall’esterno nell’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso una lettiga pomposissima  portata da quattro lettigarii. Una puella Gaditana esce dalla taverna  con alcuni suoi corteggiatori e si mette a danzare in mezzo al crocchio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e lieve, al suono  di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un giovanetto, colla  doppia tibia alle labbra, l’accompagna. N. e Tigellino scendono la scala del podio e s’arrestano presso  all’arco del circo. N. Che vuoi dir? TIGELLINO  sommessamente Una congiura. N. Contro me? TIGELLINO Contro Roma. I Sacerdoti  Di Simon Mago, per sottrarlo a morte, pria che la torre ei salga ond’ei dovrìa slanciarsi a volo, incendieranno l’Urbe. La puella Gaditana col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si eclissano nella curva del criptoportico. N. attento ai clamori del circo ed interrompendo Tigellino Taci. Le grida del circo giungono nell’oppidum da varie altezze e distanze,  seguite da risate e da urli, frammiste a squilli di buccine. GRIDA DAL CIRCO Non vuol morir! Pollice verso Ot,    So E  ibiza ea resin det m m m &m & VNDERITE ATTI TERZA RIAITZI SLI MET III NNT PRIA UNE RATE EEN    ALTRE VOCI  Basta! Vogliam le Dirci! MOLTE GRIDA  Uccidi A morte Segue un momento di tregua Tigellino se ne vale per ripigliare il racconto. TIGELLINO  Seguo lor traccia.  N. imperiosamente, interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il tumulto del circo; s’odono a diverse distanze le grida: Age jam Evax Ahè Ahè Euge Eho Eho Vogliam le Dirci TIGELLINO   I Pretoriani chiedono un cenno mio per afferrarli. N. ascoltando le grida del circo ACK VOCI DEL CIRCO No no no Basta TIGELLINO  risolutamente a Nerone, mentre continuano le grida    lo salvo Roma. Da ogni parte del Circo si odono le grida di Basta Le Dirci La Tragedia Basta N.  in uno scoppio di collera Taci! Non odi la plebe che rugge Voglion le Dirci S’aggira concitato verso il criptoportico. Sono entrati dalla taverna  Gobrias, Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro esclama: Olà Presto Alitùro S'affretti la tragedia, Alitùro esce correndo. A  Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E = REIT  FE DIET TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST AT ONTO ET CR ITA AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna    Dal fondo del criptoportico accorrono moltissimi pantomimi colle  maschere sul viso, portando grosse funi. Ad alcune guardie che sopraggiungono: E voi scacciate  Quei gladiatori. Allo spoliario i morti!  Date le Dirci al popolo Affaccendato come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias ed a  Terpnos con grande concitazione Son pronti i tori e le funi e le rocce del Citerone e i veltri e i sagittarii chiamando com forte voce I personaggi d’Anfione e Zeto I due personaggi si presentano Zeto porta una clava e delle funi,  Anfione una cetra. Ecco l’effige del supplizio. Guarda Tebe una Dirce ed io ne uccido cento. Cento aspetti ha la scena In scena ISTRIONI  In scena Tutti s'ingolfano nel criptoportico e scompajono. N. conduce da parte Tigellino e gli dice sommessamente, con calma  ironica: Astuto agrigentino, e non t’avvedi ch’'io già tutto sapea? Guai se all’incendio che m’offre il ciel t'opponi.Ciò ch’io struggo  Risorge. Il mondo è mio! Pria di N. nessun sapea quant’osar può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina lentamente un corteo strano ed atroce. Le donne cristiane, precedute da Fanuèl, vestite come la dirce del marmo rodiano, inghirlandate di verbene, colle mani legate e fra  le mani un tirso od altri emblemi bacchici, camminano fra due file di truci bestiarii che le percuotono a colpi di flagelli se quelle s’arrestano. Seguono alcuni Sagittarii in completo assetto di caccia con archi,  faretre e saette. Una frotta di pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo. Simon Mago ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo insultano mentre egli passa. Frattanto la più sordida plebe del circo s'è riversata nell’oppidum. N., presso la. porta pompae, attende cupidamente il passaggio  delle vittime. i TIRI ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI BILIA RSI NA IRINA PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE LEE: n: IAA III NANI MPIN ID RS ZI ZITTA LIE CIZ ANTI MOMAL TIIA PIACE ELP DZ MERZIA LA DIRTI TRADITA N TDI II ZI EN DEISAIIOP TRI E SEIT III TAG TOTI I SIIT AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E DE Li LA PLEBE Morte Morte SIMON MAGO mostrando Fanuèl alla Plebe  Ecco il capo delia torma Le Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso l’arena. SIMONIACI  Latra i tuoi salmi Abbaja Abbaja LA PLEBE $ | i ! TOGATI Raca  SIMON MAGO Raca Il suo vino è sangue. LA PLEBE  Abbaja A morte FANUÈL  con voce alta e serena Credo in un dio solo ed eterno.I cristiani e le cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl. SIMONIACI E PLEBE Abbaja Abbaja Latra Latra Sulla scala del podio è comparsa una Vestale. Ha il capo coperto dall’insula e il viso nascosto da un velo; ogni suo vestimento è bianco. Un littore co’ fasci abbassati la precede, un flàmine la segue. Giunta  all’ultimo gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano  verso Fanuèl. La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una Vestale ALCUNE VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi Sien salvi SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—Ih È* È*ÉÈI* O*èZIè @-@èEQIà Nei ste  Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI    PIREO REMI II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA TIPI TANA SORIA TTD MADAME DE I LI    PETER AT SIETE    PAD IOE SIT IO APZIOT NTTSIT IA DAR TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT DATA TERE CE e terribile e nelle prime parole un po’ ansimante per ira  Chi là dov’'io mi son osò parlar di clemenza? LA VESTALE  sempre colla mano tesa verso Fanuèl e immobile  Stende Vesta con me la man che riscatta le vite. N. lentamente, studiando ogni parola, mentre guarda a Vestale velata  collo smeraldo Ave, 0 Vergine sacra, scopri il volto, poi giura  (Legge è di Numa) che in questi rei non qui ad arte [t'imbatti.  LA VESTALE  con voce di persona atterrita  Una Vestale a giurar non s’astringe.  N. comuno scoppio di collera  Per Giove! Chi le strappa quel vel? SIMON MAGO Io. Il littore tenta d’interporsi co’ fasci,ma Simon Mago s’è già slanciato  sulla Vestale e le strappa il velo. ALCUNI  Sacrilegio !  FANUÈL  la riconosce, accorre ad essa, discaccia Simon Mago ed esclama:  Sorella! RUBRIA  Fanuè! Sviene fra le braccia di Fanuèl. SIMON MAGO È una cristiana.  Re I ATI OA PRIA RI, de Pa LA PLEBE  È una cristiana,  N.  ravvisandola, la nomina Rubria irridendo Ben tu svieni. SIMON MAGO  Morte LA PLEBE  A Porta Collina! Muoja! N.  Freneticamente Muoja Nel branco delle Dirci!  LA PLEBE  Sì. NERONE con un rapido cenno impone silenzio. Dopo una brevissima sospensio-  ne riprende solenne e tranquillo    Dal capo  L’insula sacra il flàmine le svelga Il Flàmine strappa dal capo di Rubria l’infula e la gitta. Cadan le vesti a brani. FANUÈL Io la difendo. I bestiarii si avventano su Rubria svenuta, le lacerano le vesti. Fanuèl è circondato dai sagittarii. La plebe s’accalca intorno, mentre due bdbestiarii sollevano Rubria sulle teste della folla ruggente e la trasportano nell’arena dove è spinto anche Fanuèl insieme alle Dirci e ai Cristiani che cantano con voce alta e serena. CRISTIANI e CRISTIANE Credo in un Dio solo ed eterno. SE = PRA DE RR ATTRA DI RI PEN TL ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI DET AT SEA, ILS IN  I VIIITUE RI TANTE SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA DE STLTIIIAI ER  LA PLEBE A morte Abbaja abbaja Raca Raca Morte N. con esaltazione Mano alle funi, alle belve, alle donne Tutte un Eroe denudator le abbranchi, Le avvinca nude in groppa al furiale Nembo de tauri, ebbre d’orror, fugate  Dai veltri in caccia, irte di dardi, esangui, Belle, riverse, i grembi al sol, nel raggio del concavo smeraldo agonizzanti.  N. si avvia al podio. Tutti i pantomimi sono entrati nel circo. Scorgendo Simon Mago o  E tu non voli? Ah! AN! La plebe sghignazza. N. indicando Simon Mago a Tigellino e ridendo Dalla torre dell’Oppido sia tosto  Slanciato in ciel. Non voli? Ascendi all’etere,  Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla scaia di legname che sta a sinistra del criptoportico.  GOBRIAS, TIGELLINO, LA PLEBE  I ridendo, a Simon Mago, e beffandolo Vola, La guardia germana, afferrato Simon Mago, lo trascina rapidamente  I  Se sai volar Icaro, vola!  I SIMON MAGO si difende con tutte le sue forze; vede Gobrias e lo chiama in soccorso: Gobrias!  GOBRIAS Va! non temer! prolunga la difesa. mo  Correndo e ridendo s’allontana e scompare nel fondo del portico. DELIO NEVA PETRI SEEM ONE O LIMONI ENELA VD PIET A IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI TRITATA SLIDE SVITARE PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO TIENITI SIMON MAGO  implorando ajuto da Tigellino Mi salva TIGELLINO  rigidamente, ai Pretoriani  Sguainate l’armi SIMON MAGO  al colmo dello spavento Tregua La guardia germanica colle armi in pugno caccia Simon Mago, pungendolo e minacciandolo, sui gradini della torre dell’oppidum. N. Icaro, vola! Vola! Vola al sol! N. ridendo sempre più eccitato, entra nel circo. Nel circo non cessano i clamori: si odono le grida feroci A morte  le Dirci, Vogliamo la Tragedia, Non vuol morir! Pollice verso Ad un tratto s’odono degli urli di spavento che vengono dal fondo del  criptoportico e dalle parti più alte dell’edificio dove s’incomincia a  scorgere qualche cirro di fumo. Le grida di terrore aumentano e s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum e s’ode Gobrias che grida: L’incendio è nelle fornici Altre voci gridano Soccorso! Il circo divampa Salvate le donne Fuggi! Fuggi Di qua No Fermi Ajuto Attraverso le nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che  s’urta, che cade. - Una fiumana di popolo irruente invade il cripto-portico, spinta verso lo sbocco della porta pompae. L’Oppidum non è più che una voragine di fumo. PA LED AZ SEPARATI ZA LIM NITAL TU TOA OL  SETS CRA Matte NOLI ARTDIR ATTI AE IO VITERTE NZIRISTI IL MATTEO II SAINT (ARIA E LEIREIREN LI IT ERI IRE TI GIONI NEREE DIREI ISEE ARI LIO NSAIIA N VT IERI TAI ZA SI PAR IENE ALT MT TRON ITA TRLNGTLAE FASI RZAZII RODA Pe agnaiì NATE fi  MARTI  Dich *  n o iu    09°) La  CAPA | VEL  \ Ti (i    SOTA IO ARAN CAIANO Riga Mt  COMBAT OO‘ hi si Lui OL i ge I pot ia Mati.    n r L\ ai pig nt AIR pa‘ICHARRTTA  dA Pa VV fi , / A Li bea  mi o We, Reit oi ja catia \ varo  i é È ); ld 4 N î  dI EIU MELA RI (A \ Mii 4 Dite a LAND.  ui s i La 5 q } Li i dl } WOOD N NAM MARS di VA ai to  Ò 4 \ x A A LI 1S t  « are A, tb, d % La SITA (RORI  \ ‘ Rf A RA | i \ 4 È 4 Wie I Li  pedi \ o ATI fe YALTA ti } PALI  ì Na ti FOA Md NEO aputtato N  } f i PR, : : A  AMOTITARE (RR ARES 4 I 1) ne o DAT | e  { : \  LUMI, TIAMIZAN A 1, CS NOIA  \ s l È .)  LI  $ D b  OT 1)  TÀ  (RI }  iù Mi  LI a ia  up È,  Pn ’  Î:  Î ti  NT [A  Pi Pal  AREA;  Si; ti vAViba ? \ A a s 1  POTRÀ  TA] Di] i  î Li TINTO    gf” SIORIT MISOLI E GPIZIEIE BITTE PEZZO DL LO ITA EAT NL A CETONA TOT UIL LT petedimenasa stai nn IZ: III È un sotterraneo del circo dove si depongono i morti. La luce riflessa d’una torcia che s’avvicina dirada a poco a poco le tenebre, rischiarando a destra il vano d’una  porta e la rampa d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre giunge dall’alto e ad intervalli uno scroscio come di cataste o di mura che ruinino. Asteria, con una fiaccola in mano, discende la scala; giunta alla soglia del sotterraneo s’arresta per illuminare chi la segue, ASTERIA Scendi. Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme. Cerchiam fra i morti. FANUÈL  Orror di tomba  Emana lo spoliario.  S'ode ancor da quest’antro funerario  La gran vampa che romba. ASTERIA  Cerchiam.    Incomincia ad aggirarsi lentamente guardando a terra lungo la parete  centrale. Al lume della torcia che tiene in mano s’intravvede, là dove  passa, la struttura irregolare del sotterraneo.    Fanuèl va frugando a sua volta nell'ombra lungo la parete di destra. Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA ‘i pe FANUÈL Cadde la prima, ASTERIA  vivamente    Allor qui giace.  Tardi per lei scoppiò da questa face  Il folgore incendiario!    Fanuèl s'imbatte in un corpo, si china, lo tocca, riconosce al tatto  le fasce crurali d’un auriga. Va oltre.  Ecco là dei cadaveri.    Indica un gruppo di morti stesi a terra nell’angolo della parete sini-  stra. Fanuèl accorre e li guarda. FANUÈL Un reziario, due sanniti, un trace.    ASTERIA  atterrita    Simon Mago! FANUÈL  Ove? ASTERIA indicando con ribrezzo, senza accostarsi, iv cadavere di Simon Mago  gittato un po’ più lontano, in un’insenatura del muro Là. FANUÈL  dopo averlo guardato fissamente    Da Dio fu infranto. Abbominato sia. S'avvia verso il centro del sotterraneo. Il suolo è ingombro d'armi gladiatorie. ASTERIA  Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un letto funebre, giacente come una morta, una  donna în veste bianca. FANUÈL  chiamando con voce agitata Accorri. i BZ IiMRANZIAR TINA TIE I A  d  ASTERIA  accorre colia face. È lei? FANUÈL cade in ginocchio, posando la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia! Gieltz, Respira, Vivrà Asteria appoggia la face ad una pietra vicina, poi corre dal lato sinistro del corpo di Rubria per ajutarila. Squarciale i panni Salvala Asteria, mentre Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta.  Cerca le sue ferite, Io l’ho veduta  Sanguinar nuda nel nembo infernale Salvala Cerca cerca sotto il core Là sotto il core la ferì lo strale D'un sagittario. aspettando ansiosamente  Ebben?  ASTERIA guardando la ferita di Rubria attraverso lo squarcio delle vesti Spavento Muore. FANUÈL Muore Non muoja qui non nell’orrore  Di quest’antro Fa per sollevarla e portarla altrove. ASTERIA  opponendosi con impeto La getti nella strage divampa il celio, arde il velabro, è l’odio d’un dio su Roma. Il circo è un mar di brage. Se la tocchi l’uccidi scoppia un fragore terribile sulla volta del sotterraneo. Crolla il podio Asteria ha visto qualche riflesso dell'incendio sulla scala d’onde scese  e la risale correndo e scompare mentre Rubria apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah! FANUÈL tutto chino ‘presso di lei  Non temer, son con te. RUBRIA  trasognata Fanuèl.  Dove son? dove fui? Tu salvo Io viva L’anima mia fuggiva M’offusca un vel Colta da una reminiscenza d’orrore, getta un grido, si sforza di sollevare il capo. FANUÈL con grande dolcezza No. Una mano pia ti ricoperse con la bianca stola. Riposa. Oblia. RUBRIA  Chinar dovrei le mie ginocchia a terra d’innanzi a te. Tenta di sollevarsi, ricade. Son ferita non posso. FANUÈL Rubria RUBRIA  Pietà l’orror mi riafferra Il Mostro il turbin rosso. Viscere e carni Ascondimi M’ajuta!  FANUÈL  inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha perduta! (o  [4  sd  RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I RIINA TOR ILE TI i i  Ì  i  Ki  |  Ì  i 4  i  i  | RUBRIA D’amor io t'amo tanto dopo una breve pausa  Fanuèl morirò?  FANUÈL  seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte PISTE STE SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI  sc Vivrai. RUBRIA  dolcemente SI SI Oh com'è buona e calda la carezza della tua man Bacia la mano di Fanuètl. PRANZI LETI TIT LIA pu PSI IL Più accanto a me più accanto. Così COSÌ.Tu m’insegnasti questa gran dolcezza  Di sorrider nel pianto. M’odi la morte A ogni attimo mi strugge Non pianger, Fanuèl, stringimi forte, Finchè mi stringi, l’anima non sfugge. $r O ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed un silenzio di raccoglimento, soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere  Venìa' coll’ idria del mio tempio... al fonte  Dell’orto santo e dopo le preghiere tornavo all’atrio antico, a piè del monte tentai confonder nella stessa vampa l’ara ardente di Vesta e la pia lampa della vergine saggia. Ecco il peccata. Or tutto è confessato, attendo il tuo perdono. Tutta or mi sai, sorridimi. Monda e beata or sono. ERMETICA A FANUÈL alzandosi e ponendole le mani sulla fronte e baciandola, con soavissimo fervore, Benedizion d’ immenso amore accensa sul capo tuo col mio bacio si posa. I iituitiolititiiceste netti rie ss n ur si n  PRETI LTL DATI IE VIII RUBRIA sottovoce Fanuèl! Fanuèl! Estasi immensa! Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa sul petto di  Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, l’egra mia sposa che sul cor mi giace. RUBRIA  Dimmi, ove siamo? FANUÈL In un asil di pace.  Dormi quieta. RUBRIA con voce sempre più fievole Sento che ascende l’ombra d’un vespero strano. Dammi. Fa degli sforzi per continuare a parlare; non può. FANUÈL Che vuoi? RUBRIA  con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la mano. Narrami ancora, mentre m’addormento, del mar di Tiberiade, tranquilla onda che varca in Galilea. FANUÈL quasi cullandola  Laggiù, fra i giunchi di Genèsareth, oscilla ancor la barca ove pregò Gesù. Raccoglie Rubria sul suo petto. Quella cadenza languida di cuna invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi tranquilla, dormi. Meo: AIUTO SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce Ancòra ancòra. FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna, era quell’ora in cui sorgon gl’incanti. RUBRIA come un soffio, spegnendosi Ancòra ancòra. FANUÈL colle mani giunte e gl’occhi rivolti al cielo Escian le turbe oranti per la lunare aurora. Sente Rubria inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria. Asteria ritorna scendendo velocemente la ripida scala. Fanuèl continua a ricercare la vita sul cadavere di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge, ogni scampo di là n'è tolto. Divampan le torri, crollano gli archi. Vede un uscio sprangato nella parete sinistra. Un lampo di speranza! Si slancia affannosa attraverso gli ingombri del suolo verso la porta d’uscita, leva la spranga, apre. Sei salvo. Ecco una porta. Esce un istante per esplorare; rientra. Libero è il passo sulla soglia d’onde è entrata  Accorri, accorri! FANUÈL sul cadavere di Rubria Morta. Asteria scuote Fanuèl e lo trascina insino all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR  MR ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE  FANUÈL dalla soglia, con un ultimo sguardo Rubria, addio. Scompare dalla porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome ritorna vicino alla morta. ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu? Quella che il mio truce iddio ghermì sull’ara, tu, rispondi, tace. Lo spoliarium incomincia ad essere invaso dal fumo. Dimmi Pardor del suo bacio vorace verso cui tende spasimando il mio, poi, d’un tratto, con immensa pietà martire santa. S'inginocchia, estrae dol seno il fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla morta dicendo: Pace, pace, pace. Si sprofonda una parte della volta. Asteria si salva fuggendo da dove è uscito Fanubl. DEAR er a i Ù detiia Told e ID i DITER) II RIETI EA ia AI PA a I HU LA n  PRI ARENA  QUARERAA LOGO ATSIRONT NO Id  vi NABLAPOTNO DO MUPh il ti  : UA NI  N i,  DA IRRCUn). i  N MLM sti  ci Mg AV  [RRIDIV UR UTA dl Mino, VA patria Ir Uli  Nati x MI Mu iva! VIBO  TIVI HA |î sit MATICOPO ANASROT TAMARA IMGRNNLI “n   I s Tua  Ld r ti  RS N  f Ii  DA 10  LR ITRIONT IR A IRIOVRARI Va; |ang ; \ DON  NT] D) A ONIRI Ù  IUSR (VERSA » Dieta Îl  i i aloni  RUBA N INIT i fi gue Al< Ù {UTI: D) dati. DA) y  LI î ANITA AMARARA ha] in  |glio ti w Mi ii dt Tu hi) anni LIMIULAA  Ti  Lava   NANI  GUAI  CORVI IOLANTÀ    IR00    ba    DI i LE  "RIA N  IRA 4 IA » Hu) 4 RO i MEU xi s/  OAV VR Dal O A  Mi TIC I LITRI  APIÙ Ù% Ù “INA SANT) HU  SEI Le SAR N UE STE  } vi DI a  IT   Ri MA ERCANE Uli a  SRI, DISLI. NNT Monni LI) i i Si  WATAG LL  f  Ti  î) dI  SITI RO Th T ti CR TITO  Mo k  1  LU ) È hl MIGRUAIZZO  Vi Word: ti "ili  Do toi È  dl  0A] NI  MAgLNIOd;  Da    PUO ERA LA]  TAAZAMIT  Mot 4 pl De î  MOCCENTUCIV I dle  i ate PTT, K  He VARI    LIRE) ;)  7107 000! LATO:  AI ATC (4   #0  viti ; mg: pi  PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Lucio Domizio Enobarbo. Sepolto a Colle Pincio presso la tomba di famiglia dei Domizii Ahenobarbi Nerone.

 

Grice e Nesi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono dalle celeste sphere Venere: perche  amore inspiro: dagl’elementi fuoco: perché  d’amore accendo da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché col mio ardore della GRAZIA della salute viso degni – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I once had a fight with Nowell-Smith; he was saying that a philosopher should not be a moralist; I told him that by that token Nesi wasn’t one!” – “De moribus” Figlio di Francesco di Giovanni e di Nera di Giovanni Spinelli, si dedica interamente agli studi filosofici. Strinsge stretti rapporti con i principali umanisti fiorentini dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO (si veda). Influenzato dall'operato di Savonarola, ricopre anche diverse cariche politiche. Altri saggi: “Adulescentuli oratiuncula”; “Orazione del corpo di Cristo”; “Orazione de Eucharestia” “ Orazione sull'umiltà” “Sulla carità”; “De moribus”; “De charitate”; “Oraculum de novo saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Obviously, Nesi is not having Davidson in mind. But Nesi is wrong in identifying GRAZIA with CHARITA, ‘greco vocabull” – this is an etymological blunder. The charities were indeed three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they danced mainly to eroticse Mars, or more frequently Giove and Mars together --. Of course the expression ‘gratia’ is not cognate! – For Davidson, charity is what the Italians refer to ‘carità’, formed out of ‘carus’ – the spelling with ‘ch’ is a French corruption! So to be charitable, in Davidson’s interpretation, is to be kind, caro. Not graceful! --. Grice: “If Davidson doesn’t know his Greek mythology, that’s not my fault --. Instead of his singular principle of charities, I will take the liberty to sub-divide it into three maxims – The first maxim refers to the first charity, Aglae: splendour; thes second maxim refers to the second charity, Eufrosina, mirth; the third maxim refers to the third charity, Talia, cheer. In Kantian format, these counsels of prudence become: be splendorous – or try to make your conversational move one that is splendorous; be merry – or try to make your conversational move one that will carry mirth to your co-conversationalist; and ‘be cheerful’, try to make your conversational move one as if it was spawned by Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi. Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle of charity, Davidson on charity on Grice. Who was the first Englishman to use ‘charity’ as a hermeneutic principle? Butler. Grice speaks of self-love and benevolence. Benevolence – and charity? Grice is not so much concerned with Beneficenza or Malificenza, but with Benevolenza, and Malevolenza – where does charity fit? What was Ciceronian for charity. What is pre-Christian about charity? Charisma, charitas, folk etymological confusion here – caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico conubio” “tre carità”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Nicolao: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Among his pupils are the two sons that Marc’Antonio has with Cleopatra. He writes a biography of Ottaviano, and the two became friends.

 

Grice e Nifo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale ludicra – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sessa). Filosofo italiano. Sessa, Caserta, Campania. Grice: “I like Nifo; first, because he wrote a treatise he called ‘ludicrous rhetoric;’ second, because he tried to refute Pomponazzi against the mortality of the soul – surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa, Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri, ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso, Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia” (la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca, della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro, infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi peritia.”  Furono poi più volte ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et corruptione liber N. philosopho Suessano interprete & expositore”; “Expositiones in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et corruptione interpretationes et commentaria.  G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi Atellani, Sant'Arpino, C.  De Lellis, Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco, I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano, Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno, Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis, Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis,  Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo – echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case, it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation. The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS, HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica” is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for. It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this!  PORTET primum colituere quid  Abri materia:  nomen Co quid verbum: deinde quid eji negatio, quidue effirmatio: atque  enuntiatio or oratio.  MISSIS  ventofis exor-  dijs: breuibus LIZIO quid pertractare vult proponit. Nam rei intentio: et subiectum apud graecos ide  funt: differunta; ratione. Vt enim fubiectum habet rationem finis, intentio nuncupatur, ve vero habet rationem materia: in qua propria infunt accidentia, subiectum, fue materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum, fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes constitutiva, que integrales dicuntur, fünt nomen et verbum. Prima vero et prima-riz pecies sunt affirmatio de negation. Genus autem enuntiationis est oratio. Hanc igitur intentionem proponit, et inquit{ Primum oportet conflituere}hoc eft definire{quid nome & quid verbum,ve integrales par tes enuntiationis, verbum illudf oportet} non dicit necessitatem simpliciter, sed conditione. nam fi de enuntiatione per tractaturus est, opus est ve primo de nomine, deg; verbo percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio, quidue affirmatio? tanquam primaria enuntationis species atque, tertio quid/enuntiatio} quid {& oratio} enuntiatio quidem ve intentio, subiectum, ac materia: oratio vero vt genus fubicâi.  Multa graci, vt Ammonius, Philoponus: & latini, vt  BOEZIO (si veda) et AQUINO (si veda) contendunt. circa feriem verborom: qua, quia ventofa sunt, ad commodumé; non multum accepta, hac fufficiant. Boetius hiclubie-  iedle.  ctum,materiam ac intentionem libri ait efle interpretationem. Nam inscriptio libri ab cius intentioneficri  obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo Priorum. Obij-  ire Dertrum.  ciunt côtra quidem viri clarissimi, qui subtiles perhi-  bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro VOCE ARTICVLATA CVM INTENTIONE QVICQVAM SIGNIFICANDA PROLATA,  vel pro voce articulata prolata ad signiticandum esse vel non esse, primum quidem non. nam tunc effet nimis commune, effet enim compositis et simplicibus commune quoddam. Hoc autem falsum eft, quia hber hic eit de medijs. Nec secundum, quia liberhic non eit de  Secunda põ.  voce, sed de intentione voces. Propter ha enuntia-  Confutatie. tionem in mente fubiectum efle fingunt. Hacpueri. lia funt, nec digna nostra disputatione. Verum fipfi  chuntiationem mentalem subiectum esse fatentur, ad quem de vocali, vel scripta inquirere attinebit? Pro-  enie quid.  pter hac quod graece “ermenia” appellatur, latine sive “enuntiatio,” sive, “interpretatio” dicatur, ide eft. Et de hac eft liber præsens, de mentali quidem ve quod, de vocali vel scripta, vt SIGNVM, de re vero vt caula. Nam veritas in voce est ve SIGNVM, in mente vt subiectum, in re vt in caufi, vt dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici folêt, qua quia facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa facilia fimbrias dilatant,  circa vero ardua et occulta voces fummittunt. Tu vero a nobis contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri poteft.  Sunt quidomigitur ea que in uoce, carum, que IN ANIMA PASSIONVM NOTE. iEt que feribuntur, corum que in noce. Et  рета луна  quemadmodum nec littere omnibus cadem, fie nee noces cedem.  diete scriptura  med nico  De nomine, de di verbo, chuntiatione, ac oratione.  pertractare propofuit, ante tamen quam de his prole- Cản de veche  quatur, quadam communia de vocibus, scripturis, ac  TI ferime  ANIMA PASSIONIBVS intercipit, fed de caufa intercepti  babetsr.  ambigunt expofitores. Herminius necesitatem illus ny-  Canfa Hervnd  modi intercepti fuifleautumat, vt propofita rei com-  modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft. na vtilitatis commodiue narratio prohemij pais est, vt LIZIO. in  Rhetoricis tradit. fumus autem nuncipfo in tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius interpofitz rei  Confa Perply  caulam propter veterum difienfus circa vocum figni-  ry•  ficationes, inquit. nam veterum quida voces, formas, fue IDEAS SIGNIFICARE credidere, alij CONCEPTIONES, alij  SENSVS fenfation esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur  Ariftoteles de nomine deá, verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa impedimenta eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit.  Sed nec hoc itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio.  partem ad quamlibet definita, que difturus eft de no mine & verbo, non impedit. Secundo hac res eit gravis, eltés altioris negocij, tranfcenditg; limina præsentis voluminis, quum de ideis, deá; formis contendat.  Melius igitur cum Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve genus  Expofitie cane  definiendarum rerum colligat. Tum differentiam có-, Fa) Secunda ve fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum ignificent. Tum differentiam difcretiuam,  vidclicet, vt nomen fine vero & falso, enuntiatio, & ora tio cum vero vel falso. Hac enim Arift. animaduertens quedam communia de vocibus, scripturis, ac PASSIONIBVS preaccipit. Affumitigitur quatuor ad pralentem Que LIZIO pertractationem conferentia, res videlicet, conceptiones, voces, atque litteras. Oportet autem primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem propterfi-nem.fiquidem neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo petimus horum quatuor, duo effena-  tura lefe habentia, vt res conceptionesá; duo vero po-  Prima Petitio. fitione, vt voces et littera. Veigitur fcias qua horum  Secunde.  natura fe habeant, quaue politione, ponit praceptum Preceptum,  ciusinodi, e qua aque omnes cadem funt, hac natura se habent, qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefe habent. Huius precepti prima pars co patet,  a natura in cunétis niformis est & fimilis. Pofitio vero cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud omnes erdem fist, natura fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient, pofitione habentur.  Arguitigi- Syllogi frang lit  tur, quecung; funtalorum SIGNA VEL NOTE, positionefe  habent. VOCES et scripta SVNT NOTA VEL SIGNA ALIORVM. nam VOCES SVNT NOTÆ CONCEPTIONVM,  cum. Igitur, voces et scripta sunt positione. praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce cuiufmodi  funt nomina & verba-fearum quin anima palsionum notz, & que feribuntur] Svnt NOTÆ SIVE SIGNA: {corú que  in voce} Hec vt minor quali concludit, et inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid graci fen tiất, vim habet lape illativam apud LIZIO. quafi dicat. {Igitur quemadmodum nec littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in verbis gracis non est, sed ex vi constructionis sub audiendum. Secunda igitur pracepti pars perficua, videlicet, ep ea que in voce, & que icribuntur, politione fe habent. Aliter intelligi poteft, vt dicemus.  Queritur verbum illud,  Dulintio:2•  figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait dixiffe igur, quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine deé; verbo per tractandum, nomina et verba voces funt. igitur de vocibus per traêtandum. Graeci omnes verbum illud efle notim executionis, de non illationis, affirmant, quod mihi conuenien-  Secanda dula tius eft. Quarit secundo Ammonius cur primo è vocibus, quamè rebus sermocinari capit. Dicendum de eis primo, tanquamà magis huic libro conueniétibus,  Tertia dubs quicquid Ammonius dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem igitur ca que in voce}& non, {funt quide igitur voces; Itéd cur no dixit litter vti,  REsPanpb  fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg nomen et verbum funt partes orationis. prolatz eft enim oratio  prolata totum quoddam integrale ex nomine &verbo  conftitutum.nomen vero & verbum fcripta partes ora tionis fcripta, & qí partes funt in toto magis quam contra, totum in partibus, nam continet totum partes,  & no econtra. Idcircoinquitffunt quide igitur ea, qua  funt in voce} hoc eft nomé et verbum, que funt in yo ce, hoc elt oratione prolata vt partes fearum que funt IN ANIMA PASSIONVM NOTÆ, &e ea que feribuntur f videli... cet nomen et verbum in scripta oratione {corum quie  Confitatio.  funtin voce.} Sed hac expolitio ridenda eft. Tum pri mo, quia cum ditficultate intelligitur partes eile in toto, elle in enim non competit partibus nill improprie quarto Phylica auscultationis, clt autem loquendum veplures. secundo Topicorum. Tum quia in tam exiguo sermone æquivocaret de eflein. Nam dum dicit  ¿corú qua funti n anima} fumit effein. vna ratione, dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione errant qui volunt esse in capi vt inferius continetur in quo  fuo fuperiori. Nam primo in verbo effe in, acciperetur proprie lecundo vero improprie.  Quare melius effe  in, in vtrog; codem modo accipiendum est. Nam nomen et verbum funtin voce vt in subiecto, vt i res artificialis in re naturali. erit igitur lenfus {funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen & verbum, qua in vo cebarent, vt in materia & fubiecto, NOTE carú PASSIONVM QVÆ IN ANIMA SVNT, etiam ve in materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune Ariftotelem non aquiuocaffe  verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur Arift.  Querte dubi» ait paísionum, pathema enim grace palsio eit, palsio  aurem affectus. modo affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo, quam LIZIO intelligit. Dicendumgtria. videlicet similitudo, CONCEPTIO et PASSIO idem Salstio funt, alia tamen ratione CONCEPTIO enim et intelletio vt intelligédi principium, est ratio: ve veroà reipla de-rivatur, similitudo sive species, vt intellectum ipsum perficit, PASSIO vnde et intelligere et sentire in quodam pati faltem perfective confiftit, ve dicit in his qua de anima. vnde qui verbum graecum naBorar in latinum conüertunt “AFFECTVVM,” nee grieciliant, nec graecam constructionem (entiunt. Quinto quarunt, mul  2uinte duMk  taefiein voce, qua non sunt PASSIONVM NOTE, v gravitas, acuitas, et ACCENTVS [H. P. Grice on STRESS as non-propositional], & id genus. Dicendum propositionem LIZIO indefinite effe legendam, non autem vniversaliter. Sexto petijt. vtrum yt ea, quein vo  Sexta duba.  ce note funt eorum que in anima, ita ca que feribuntur, corum qua in voce. Respondet Alexander go lic,  wleeRGie  & tunclittera est legenda fie{ funt quidem igitur ca qua in vece, earum que in ánima PASSIONVM note, quem-  admodum qua icibuntur, corum qua in voce. Nam  verbum illud sa graecum, quod latine frequentilsi-mein et convertitur. Interdum Alexander vult apud graecos accipi pro nota similitudinis, ve proficut, vel quemadmodum, &id genus. Hec Alexan. diceret.  Huic obijcit Porphyrius. Primo, quia ad simplicem obiedia Pore fenfum nihil addi oportet. Secundo, quia in tam breui flore.  ordine, tamque brevi oratione non est partitio intercidenda. Tertio, fita lehabent que scribuntur ad voces, ve voces ad ea, que in anima, tune ve voces varijs litteris permutantur, fie PASSIONES VARIIS vocibus cua-riabuntur. Mibi videtur cum Alexandro et Alpaxio, Lupi proprie &ita secundo modo exponi potelt, vt LIZIO pro-lequendo de nomine verbog; primo colligat inter voces et scripta convenientias. Secundo INTER RES ET PASSIONES. Voces igitur et scripta conveniunt primo guam-bo sunt ve SIGNA, voces quidem conceptionum, scripta vero vocum. Secundo o vt voces non sunt omnibus ezdem, ita scripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua in anima, PASSIONVM NOTE et qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces et scripta conveniunt in hoc q ambo funt vt NOTE SIVE SIGNA. Ethec ell prima convenientia. Deinde subfcribit secundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus, fieneg; voces exdem. fHac eit secunda convenientia. Dixit autem fin ANIMA} quod graece elt psyche, & non in intellectu, quoniam intellectus etiam ad diuinum refertur, aut pincellectus novas PASSIONES non fufcipit, sed de his in libro nostro de intellectu, et de anima. Ea ergo, qua sunt in voce et ca qua funt in feriptis conteniunt primo e AMBO NOTA AC SIGNA SVNT. Secundo omnibus cadem non sunt.  Tune ad obiedta con-  Defryle fle.  tra Alexandrum. Ad primum dicendum illum simplicem sensum esse potentia et virtute amplum & composituim. Similiter si oratio est brevis, compendio efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum probat ibi no esse in toto similitudinem, sed in parte efe potelt, vt  Alexander fentit.  Quorum tamen be note primo, cedem omnibus pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac similitudines, res iam ecdem.  Debis quidem igiur: dietum ef in his que de Anima, altes vius enim bec sunt negocif.  Capit LIZIO, vt Alexander dicebat, ponere  Cim.j.  differentiam inter ca que positione talia sunt, et ca que natura talia. Ea qua in voce et ca qua scribuntur, positione talia funt. Nune vero qu ANIMA PASSIONES  et resfint natura tales, declarat. Potest autem textus esse pra-milla, et por esse simplex narratio. Siquidem pramif-  f, syllogifnus erit, que eadem apud oes: sunt per naturam talia-natura.n. vt Ammonius inquit, est vniformis semper. PASSIONES ET RES EADEM APVD OMNES. Igitur, natura tales crunt De syllogilmo accepit minorem est  in textu. Si vero est narratio tín, elt tune secunda pars differentia, et inquit. {Quorum ti he nota primo:fune PASSIONES ANIMA oibus eadem: et quorum ha similitudinestres iam eadem } funt. Igitur, PASSIONES ET RES OMNIBVS EADEM. 8e ita tales per naturam. Hac fortaf-fe expositione LIZIO, verba examinádo : argumentum  Herminij contra Alexandrum imbecille est. Noenim  Alexã. vult o apud omnes fint paísiones eademi apud quos voces, ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel par-  2iPeply. tem differentiz secundam perficiat. Animadversione dignum Porphyrium in defendendo Alexandrum: affirmare guca quorum voces apud omnes cadem: 8e  ipsa sunt eadem et hoc generatim tam vniuucis ipsis,  quamaque vocis. Devaio vcis quidem cxipsorum no  minum ratione conflat. De a quiuocis vero, QVONIAM ANIMVS AVDENTIS SEMPER fibi nomen ad significationem debitam, adquamúe A PROFERENTE EMITTITVR [H. P. Grice, UTTERER and REPICPIENT or ADDRESSEE], ac-  Confutatis cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam enim æquivoca propositio esset distinguenda, nam ANIMVS AVSCVLTANTIS SEMPER cam conformiter animo proferentis  Вкуб Нас.  acciperet. Hermenius aliter sermones LIZIO, intelli  Nam VOCES SIGNIFICANT PASSIONES PRIMO ET SECVNDO RES, PASSIONES autem, tantum  Crufidatio. res decernunt. Sed hoc ftare non potest, primo quod  Arittote. dixithac, non igitur lapide efiet hic repetendum. Secundo verbum illud eadem ad quid adderetur? Ellet enim inutile, nifi LIZIO com munepafsioni-  Dubitais: bus et rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune dices ad quid verbum illud {primo jadditurAlexander vuleno mina SIGNIFICARE PASSIONES AC RES, vt nomen iftud homo 8e naturam ipsam hominis existentem, et eius CONCEPTIONEM SIGNIFICET. verum quia nomen num aque primo duo fignificare non poteft, idcirco LIZIO adijcit  ¿primo., Nã ea nomina, qua in voce sunt, PRIMO PASSIONES Cantre Alex.  fones SIGNIFICANT, SECVNDO vero RES. Recentiores obii ciunt nam ordo significationum est iuxta ordinem conceptionum. Sed RES PRIVS INTELLIGITVR, quam cius PASSIO. Igitur, PRIVS voce significatur. Ad hac nomen semper predicatur de sua SIGNIFICATIONE. Nomen illud “homo” non prædicatur DE HOMINIS CONCEPTIONE. Igitur, [cf. Grice, ‘shaggy’ does not mean, ‘what the utterer thinks is shaggy] il-  Difesie Ale lam non significat.  Dici potell pro Alexandro ep nomen in voce primo primitate, vrita dicam, subordinationis PASSIONES PRIMO SIGNIFICABIT. Primitate auré ap-  Tradraiale prebélions, res primo, Quaretextus debet stare. Quo rum tamen ha primo} non autem {primorum.} Nam graecus codex habet protos et non proton. Vbi enim proton legerctur, vt fortalle BOEZIO (si veda) noster habebat in latinum primorum eifet convertendum. Collige igitur inter hzequatuor ordinem: quz leri-  buntur SIGNIFICANT ea que in voce, qua in voce, eas PASSIONES QVA IN ANIMA qua in anima, ea que in re con-  A.D,Th.  fiftunt. Licet non fit ordo effentialis, nam qua feribun tur, et in voce funt, poflunt eque primo PASSIONES SIGNIFICARE, quum cripture pro supplemento vocum sint adinuente. Verum quia res hac ad modum est laboriosa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima. Est autem quemadmodum in anima aliquotiens quidem  intellectus fine vero falsoque , aliquotiens autem iam cuire. celfe est horum alteran incife fie c in noce. Cirea  compositionem enim er dinifionem e/t neritas atque falsitas.  Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit,  vt nomina et verba efle in voce & ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum vt communem habeat differentiam illorum, cú quibus & ora-  tio & enuntiatio ipfa conueniunt. Est enini oratio et enuntiatio in voce et  EX IMPOSITIONE AVT PLACITO SIGNIFICANTES et per eiufmodi genus communemé; différentiam differt à rebus ipfis conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa lignificare fine vero & falfo declarat, vt vide-  licet secundam colligat illorum differentiam, aut, Alexandro placet, ostendit enuntiationem significare cum vero falsoque -- vt per hoc etiam et enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit multipliciter ad formam fyllogifmi reduci, ve facilius res in  telligatur littere syllogilmus non eft aliter formandus,  nifi veiacet.Ideo inquit. Est autem quemadmodumin  Sylingl/was. th  anima aliquotiens quidem intellectus fine vero & fat-  fo, aliquotiens autem cui neceffe eft horum altcrum in-  effe, hoc elt aut verum aut falfum, fic & in voce:hac eft maior. Addit & ipfam minorem dicens, circa compofi  tionem enim & divisioné intellectuales est veritas atque falfitas. Sed circa simplicium intelligentiam, neg; veritas neg; falsitas. Igitur in voce etiam circa compofitionem vel diuifionem crit veritas aut falfitas circa simplicitatem neg; fic neg; fic. Et fic habetur totus syllogismus, per quem habebitur, vt dicemus in textu proximo, gy nomina ipfa & verba ab enútiatione differút.na nomina 8e verba fimplicia funt, & fic crunt fine vero  & fallo, enútiatio compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo. Et ita habentur genus & differentiz nominum & verborum. Quantú vero ad verba graca attinet noc-ma graece, latine est, tum intellectus, cum conceptus, &  gativa. Simplex vt hominis autequi. Et discursivus -- vt  syllogilmus. Modo patet verum vel falsum esse in compositione. Simplicia vero effe abfq; vero & falso. Hac  quo ad verba.  cus fità fimili tín, velà fimili & caufa. Refondet expo  fitor ab Ammonio accipiens hanc manifeftationem ef  Le non tín à fimili, fed etiam à caulà, quam effetusipfe imitatur. Eft enim intellectus caufs, qua vero in voce  effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio non enim vt materia, autforma: quia conceptus nulla-  tenus funt aliquid vocum,nec corum que in vocenec  vt fnis,nam finis vult esse vitimum, vt fecundo aufcul.  shafin  tationis phyfica dicitur. Modo conceptus eft prior et  voce et vocum veritate. Nec vtagens, nam ab co gires  eft veinon eft oratio dicitur vera aut falla, vtab agen-te,vt dicitur in predicamentis. Ideo vt frequenter di-  Selotie proprie  ximus verü & falfum funt in intellectu vt in fubiedo, in voce aut fcriptis, vt in figno, in rebus vt in caula. Vis  igitur arguendi non eit demontratiua, fed dialectica à  fimili tantum. Multa adijci pollunt, que ab expositoribus tum graecis, tum latinis perquire. Hac enim ra- ptim scribimus. Nomina quidem igitur ipsa aut verba consimilia furt fi-ne compositione co divisione intellectui – ut: “homo” vel “album”  wwFajd quando non additur aliquid; nam nondum falum aut стт  eff. Huius autem fignum hoc eft. hircoceruus er enim significat aliquid quidem sed nondum verum aliquid ant falsum,  mifi esse aut non esse addatur aut simpliciter, vel secundum tempus,  Hac litera poteft introduci vno modo vt fit conclu  fio, quomodo expofitor induxit, innilus forfitan verbo illatiuo igitur , Alio modo  poteit inducis vt fit  minor syllogifmi, fub accepti sub syllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in intellectu funt cum vero & falso, intellectus line compofitione & diuilione nec font cum vero nec cum fallo, ex  quo voluit habere hanc conclufionem, in vocefunt quedam cum vero vel falso, quadam non cum ve.. ro aut falso. modo addit minorem dicens, nomina ipsa verba similia funt intellectui, qui elt line compositione et divisione. hoc eft nomina et verba sunt voces fimplices: fubaudi conclusionem. igitur fignificantabiq vero de falso. Illa itaque particula illativa  igitur, addita elt vt notaretur conclulionem contine-  ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens: vthoc nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito, nondum corum, ali-  Sigum,  qued falfum, aut verum eft.  Rem hane Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari. fi aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet  hircoceruus.  Tunc dat oppofitum confequentis di.  cens: fed nondum verum aliquid aut falfum: nifi elle  aut non efle addatur. & hocaut fimpliciter, aut fecundum tempus. Sicigitur patet nomina & verba feor-fum accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo.  Dubitationer. Sed circa verba textus quarunt primo cur vius eft nomine compofito, & non entis, Huius caufe poflunt ef-  Prima confa  feplures: vt è verbis Ammonij excipi poteft. Primo.  quia nomina ciulmodi videntur potifsimum falfitaté significare: propter partium incompofsibilitatem.  Secundo vt innucret nonfolum nomina fimplicia ad  veritatem fignificandam egere verbo, fed etiam noni  Tatia naipfa compofita. Tertio vutur exemplo in filtis, vt  innueret veritarem non folum reperiri in rebus, fed in  Secida duba, his qua funt ab intellectu folo. Secundo quarunt cur  ait compolitionem fignificare cum vero vel falso: & non significare verum vel falsum . Similiter & nomi-na lignificare fine vero & fallo, & non ait nomina non  Significate ch  fignincare verum aut fallum. Dici potelt e difterunt  di fignificare verum, & fignificare cum vero. Nam hoc  nomen verum fignificat verum, vt hoc nomen falfum significat falsum. quia significant fe: non tamen cum vero: quia fuum significatum non significant cum ve-  Tertiedubi, ro, aut fallo : nili addatur verbum. Tertio quarunt  quid LIZIO vult per limpliciter, aut iccudum tem Primarifie pus? Reipondent guidam primo o verbum prafens  interdum dicit efle simpliciter vt fubitantiam, ut cum  dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics elt.  Dixit igitur aut fimpliciter, aut fecundum tempus propter hac. Sed hac expolitio non placet. Nam LIZIO loquitur de esse et non effe generatim vt funt note  extremorum: que abftrahunt ab his. Expofitor aliterait tempus præsens elie simpliciter. Catera ut prateritum ac futurum elle fecundum quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac expofitio forte non valeto quia Confutaie quelibet differêtia temporis eft tempus fecundü quid. Quoniam per aliquid differt ab alijs differentijs. Aliter Ammonius, quod verbum porcitaccipidu-  pliciter. vno modo abfolute, ve eft, fuit, vel erit,alio  Prepria falatie  modo cum aduerbijs temporis: eft nunc, fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur simpliciter. Secundo modo  dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater.  Sed contra hac dubitant nonnulli recentiores. vi-  2wste  detur enim nomen vel verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo, quia AD PLACITVM SIGNIFICANT. Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad significandum idem q deus elt. Sed casu posito illa significat cum ve ro vel falso igitur nomen vipote A.aut a. Secundo hac eft vna copulativa vera, “Omnis homo est risibilis” 8e econtra. Modo hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra significet cú vero vel falso. Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum voluerunt ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo, & confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant. quia concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda pifio enuntiationes. Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, & ita negant a. efle propolitionem. vel verum, aut falfum fignificare vt per verba LIZIO vi-detur, et per rationem:quia funt implicia: qua nunquam cum vero,aut fallo fignificant, nili addatur effe vel son efle.  Sed hac folutio ftare non potelt: quia vbig; LIZIO accepit litteras pro enuntiationibus: vt in  do priorum frequenter. Alij concedunt hos cafus,  quod videlicet. s. vel.a, possunt, fignificare cum vero vel falso: fed dicunt ciulmodi non effe enuntiationes, aut propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per modum complexi. Sed hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio fignificandi ci debetur modus. Quare fi his competit ratio significandi complexa, criam et modus debebitur. Propter hec videtur Refepreprie.  mihi elle dicendum nomina et verba quo ad primam corum impositionem non fignificare nifi incomple-xum,neque cum vero, neque cum falso. Quo vero ad novam impositionem, cum fint AD PLACITVM possunt fignificare cum vero vel falfo, nunguam tamen erunt propolitiones, aut enuntiationes. Propterea non valet. A significat cum verovel fasfo, igitur est propofitio aut enuntiatio. Oportet enim addere in antecedente g significet ex prima impositione, et non ex nova institutione. Etper hac verba LIZIO et Alexandri rationes poflunt moderari.  DE NOMINE:  Quad fit npe  usJrparata  Cum interpoluit communia quedam, e quibus de genus et differétias nominis nancifci pollet, núc de no mineipfo aggreditur.  Sed videtur ordinem cuertif-  se, nam in lbro priorum egit de propofitione antequá  deter-determino, modo ita fe habet nomen ad enuntiatio nem, vt terminus ad propofitionem.  Secuido, do-  Etrina debet ènotiori incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in physica traditur auscultatione, igitur prius ab enuntiatione, que est totum, quam è nomine &e verbo: que funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo prius quam de enuntiatione ipla, cur prius è no-mine? Ad primum quicquid, velint veteres graeci, LIZIO in prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è compolitis procesit. Nune vero compofitorie, ideo  è partibus.  Ad fecundum Esculanus fingit nomen  elleve materiam, verbum verovt formam. fed quia materia precedit formam, ideo è nomine.  Sed hoeftare non potest: quoniam materia non eft fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vt in auscultatione physica di tum eft. Igitur èforma ipsa, et con-  Saunde An sequenter è verbo procedendum esset. Ammonius  ait nomen ipfum fubftantiz modum detinere, verbum  Confilatio.  vero accidentis. Modo substantia efo prior accidente. Necimihi placet hoci quia lubitantia non nifiper cognitionem accidentium cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo effeprius tradandum, quia facilius cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine co-gnolci non poteft. Significat enim esse: quod fine extremis non eft intelligere. At nomen iptüm cum fit absolutum quoddam: intelligi potelt abíque verbo.  Quantum autem ad verba  dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco  ergo et rationabiliter profecto, ve videlicetannotaret  definitionem ciulmod ex diuifione proxime factacol  lectam effe. Hac enim est regula definitionum inue-niendarü, vt Sexto Topicorum traditur. & fecundo po  Iteriorum, vt poft dinifionem fiat partium compofitio. vti conclusio. Qua ratione procefsit hic. Diximus enim voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina pal fonesilliumodi delignent: voces crunt fignificatiur.  Vode genus ipfüm Ariftoteles naCtus eft. Dechiratum eft etiam omne SIGNIFICANS EX POSITIONE ET NON NATVRA  SIGNIFICARE AD PLACITVM. Quod graece est fythece latina FEDVS, PACTVM [– cf. Grice’s High-Way Code, Deutero-Esperanto], INSTITVTIO, AVT PLACITVM. Sed cum  constet nomina significare EX POSITIONE, iu re AD PLACITVM SIGNIFICANT. Rurfum declaratum est nomen significare fine vero et falso: omne autem sic significans est sine tempore significativvm: 8e quius nulla pars se or-  ipum significat. LIZIO itaque hac omnia considerant, per modum consequentis definitionem nominis deduxit. Multa alia hic recentiores addunt, que, quia patent omittimus. Pater  In nomine nim, quod et equiferus: equas ipse nühil  mis se refien ac  erple mibel fio  per se significat, quemadmodum in hac oratione, equus  Eficant.  e Jerus.  Erat vitima definitionis pars, e nulla nominis particula seorfum separata aliquid significet nunc illam exponit. Et maniseltat hanc vitimam definitionis particulam in nominibus compositis. in quibus, vt inquit  Ammonius, minus videtur, vt quasi syllogizet è maiori ad minus. Nam in hoc nomine, quod est equiferus, pars hac “ferus”, aut equus feorfum nihil fignificat: quemadmodum in hac oratione: “Eqvvs sft ferus”,  aut eqvvs ferus.  Quantum ad graeca verba attinet, verbum equiferus graece elt “calippus”, à “calos”, quod latina est “bonus,” et “hippus”, ‘equus’, sed quia minus sonat “equibonus”, ve-equiferus, BOEZIO et alii tranftulerunt “equiferus”, Et vbi  BOEZIO (si veda) transulit “ferus” ipsüm nihil per se significat.  Graece legitur “equus”, sed non refert. Amplius verbum illud quemadmodum in hac oratione “equus ferus”: potest legi cum verbo, sic: “Eqvvs eft ferus” et abíq; verbo: “Eqvvs ferus.” Solum enim vült habere quod pars nominis et si significet feorfuminon ita significat, sicut quan do crat in oratione. In capit autem particulam definitionis vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac particula eft vt caterarum finis, e omnibus principalior. Modo finis est intentione primus, de ctiam cognitione.  Verum non quemadmodum in simplicibus nominibus, fie fe habet etiam incompositis. In illis enim millo modo  Neminir coi +  liet part frar  pars est significativa, in bis nero unt quidem, sed mullius separata sut in eo nomine, quod est “eqviferus”, particula “fervs.” Sed dices igirur nomina simplicia et nomina com-  Cảm. 8.  posita non differunt. Ideo respondet, quod differunt. Quia in simplicibus nominibus pars nullo modocit significativa neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam: at in compositis videtur quidem ali  hil feorfum significat. Quantum ad graecam litteram attinet verbum illud vuir, graece est vouleta. Melius tamen, vt mihi videtur, sonat apparet, aut videtur. nam nomina composita, ex quo imposita sunt a conceptione composita, videtur quod illorum partes seorfum aliquid significent. Nomina vero implicia, cum instituta sint à conceptione simplici, partes corum feor-fum nec significant, nec significare videntur.  Ex  his poteit syllogilmus fsc componi. nullius nomini simplicis nulius nominis compositi pars significatie- separata: omne nomen aut simplex, aut compositum: igitur nullius nominis pars significat separata. Minor fupponitur. Prima pars maioris et secunda declarate funt in textu.  Sed querit vtrum alicuius nominis pars significet separata? Et videtur quod sic. Quia cuiuslibet com. nis separata fie pofiti ex pluribus nominibus pars significat separa-  дерест.  ta. Sed aliqua nomina componuntur ex pluribus nominibus vt “eqvifervs,” de id genus. Omnesad quæstionem et graeci et latini conveniunt partes nominis comparari posse ad totius compositi intellectum, aut in ter fe. Primo modo nulla significat separata, nif in oratione homo est bonus. Seorfum enim illud idem partes ha significant, quod in oratione tota significabant.  Et hoc modo intelligit LIZIO. Nam licet “eqvvs” et “ferus” forfum aliquid significet, no ntamen ad intellecum totius. Propterea inquit Ammonius, nullum nomen componi pluribus è nominibus, quatenus nomina sunt, sed quatenus tranfeunt in vim syllabarum. “Eqvvs” enim et “ferus” in hoc nomine “eqvifervs,” syllabarum vices detinent. Averroes autem in paraphrafehu solsin AuT-jusloci vtitur alijs verbis, quéd partes nominis nunquam per se significant separata, sed per accidens: quod est dicere: non quatenus sunt partes nominis,  sed quatenus scorsvm sunt, transeunt in 'vim non  num. At in oratione partes feorfum idem significant, quod in oratione, quia vtrobique quatenus nomina funt.  Xamine fint  Ad placition uero: quoniam mullum nomen eft fus natue  Pady fo,ud ra ann ed eun fo significantnang or illieratifoni, ue  qui ferarum: quorum tamen nullum eit nomen.  Nune tertiam explanat definitionis partem. Nam primam, quod nomen fit vox et significativa ex his, que communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam  vero, quod finetempore ex definitione verbideclara-  bit. reftat igitur vt tertiam exponat.  Quantum vero ad graeca verba attinct, animaduerte, quod. verbum verbotransferendo littera LIZIO eft, SECVNDVM PLACITVM vero: quoniam natura nominum nihil elt, fed cum fit NOTA, nota cnim graece eft SYMBOLVM, latine etiam SIGNVM. Sed cum hac litera ad verbum translata minimefonet, ideo tranftuli AD PLACITVM vero: quoniam nullum nomen eit lua A NATVRA SIGNVM, sed cum sit EX INSTITVTO. Hoc enim differt &à rebus, de AB ANIME PASSIONIBVS, vt diximus. Et quod natura fignificans non sit nomen exemplo à fonisani-malium perluadet, de inquit. Significant nanque fua  natura et illiterati font, ve qui FERARVM: quorum ta-men proprer significationem, quam habent naturat lem y nullum est nomen. Igitur, NOMEN AB INSTITVTO SIGNVM ESSE DEBET: 8 hae ratio valet, fue fit locus à  findliun/ contrario, fiue fit locus è simil, sive aliter.  Animinomme son maduerte quod animalium tom dicuntur “agrammatoi”, hoc elt “illiterate.” Quoniam scribi non possunt: de A NATVRA SIGNIFICANT. Quia codem modo est in omnibus animalibus. Habet enim a natura animal ipsum per fuz vocis sonum SIGNIFICARE AFFECTVM [Cf. Grice on Darwin, The expression of emotion in man and animals]. Quare propter duo ciufmodifoninomen eifenon pofiunt. rum quia illiterati, tum quia è natura. Recte igitur diêtum est ad placitum.  Mouent qualtionem ex Alexandro talem. verba sunt voces, voces sunt nomina; igitur, verba funt nomina, conclufso falsa: & non pro maiori, igitur pro minori. Respondet Ammonius, quod nomen et verbum sunt voces secundum materiam, vt archa est lignum fecundum materiam. Materia enim nominis et verbià natura est, vz VOX. Forma autem nominis ab arte atque institutione, ve archa . quo quidem ad materiam a natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen quo ad materiam est res naturalis, quo ad formam est res ab ar-teevtigitur non valet, hgnum est à natura, ianua est lignum; igitur, ianua est à natura. Obijcit autem huie Ammonius: quoniam si nomen est ab insttitutione, de non a natura: tunc SIGNVM aptius in nominis definitione caderet quam vox.  Respondet ipse hoc  esse factum: quia in definitione accidentis in concreto debet poni subicectum loco generis, et accidens pro differentia. At cum nomen accidens sit voci, ideo di citur nomen est vox Sed hzc repontio nen mihi placet. Primo, quia li nomen esset forma artificialis, tunc esset quid additum voci. Hoc autem falsum elt. Nam aut erit substantia, aut accidens i non substantia vt patet. si accidens: non absolutum, ve patet. nec relativvm: quia tunc esset relatio realis. nam fundamentum reale est ve vox ‹ terminus realis vt RES SIGNIFICATA. Amplius nomen videtur absttractum. igitur in definitione debet cadere subiectum in obliquo.  Selatio apris, Videtur igitur mihi nomen ipsum nihil aliud esseni-li VOCEM ARTICVLATAM CVM INTENTIONE SIGNIFICANDI ALIQVID PROLATA [H. P. Grice: “He uttered x thereby intenind to mean that p”]. Vt enim vrina est SIGNVM SANITATIS nullo addito sibi: sed quatenus ab intellectu efficitur SIGNVM SANITATIS. Sic vox est nomen nullo addito. Sed quatenus ab intellectu instituitur AD SIGNIFICANDVM. Sin-dapfus enim non nomen est. Sed si AD SIGNIFICANDVM INSTITUITVR: fiet NOTA SIVE SIGNVM: qua ratione nomen fet vt BOEZIO (si veda) inquit, &e hoc inquit LIZIO cum ait: quoniam naturaliter nomen mhil est: fedi quando fit NOTA, et ita nomen est vox fecundum materiam et formam sic instituta vel sgnums  Tunc ad argumentum Alexandri dicerem ibi elie deceptionem propter accidens: vt non sequitur homo est animal, animal cit dictio. Igitur, homo est dictio. Aut non fequitar. homo est animal, animal est genus. Igitur, homo est  genus. Variatur enim veforticola fentuntlippositio. Nam, in prima, “animal” supponit formaliter, in fecunda materialiter cideo non valet.. Sed dubitát graci.  nam LIZIO ait nominum naturaliter nihil efle . hoc eit nominum significatio non est naturalis. ACCADEMIA vero et Soctates in CRATILO volunt nomina e natura ipsa esse. Etita ifti font contranj: quod apud graecos habeturre motum.  Circa hane dubitationem quidam, vt Ammonius  Pelitiones.  Narrat, voluerunt nomina esse simpliciter de omnino  ab institutione: et nullatcnus e natura, cuius opinionis fuerunt Hermogenes: e discretus Diodorus.  Alay diserunt nomina elle simpliciter A NATVRA, quatenus sunt rerum naturales SIMILITVDINES. Cuius positionis fuerunt CRATILO haredeus: atque Heraclitus  ephesius.  Ammonius voluit nomina ipsa esse naturalia quantim ad etymologiam . nam omne nomen  vult esse impositum è proprietate repertainre. vt lapis quasi pedemledens: et petra quasi pedetrita.  Quantum vero ad significationem ipsam ab institutione sunt, Et ficinter hos duos confultat.  Et si dicitur viam rem naturalem plura nomina habere.  Respondet, quia à diversis proprietatibus nomina  diversa nancilcitur.  Sed pacchorum hoc ftarenon  potest. Primo, quia tunc nullum esset æquivocum à calui, nam omne nomen significaret a proprietate rei, et ficcanis esset analogum, et non æquivocum casu.  Secundo vtin natura accidunt casus, quorum nulla causa potett darinili per accidens, ita et in arte. de per consequens possunt dari nominaà calu, nullaque rerum proprietate.  Er videtur hac sententia LIZIO ani primo elenchorum voi inquit. nomina quidem finita funt, &e ora tionum multitudo, res autem numero infinita: necef-  fe cit igitur plura eandem orationem & vnum nomen fignificare.  Propter quod mihi videtur elie dicen-  Solitie proprie  dum in vniuocis & fpeciebus nomina effe omniaim- polita fint, «*  quineca nen 2  mologia: licer in multis illa nos lateat. In aquiuocis vero et fingularibus nomina effe cafu affero. Vnde BOEZIO (si veda) in pradicamentis. commento primo. inquit. æquivocorum alia sunt casa, alia consilio: casu ve  Alexander Priami filius : e Alexander magnus. Augustinus Aurelius: e Auguitinus Niphus [“His favourite example was his self!” – H. P. Grice]. Casus enim id egitvt idem trilque nomen imponcretur. Du-  fint in mente,  bitant forticole : vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per LIZIO definitionem. namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala parte eft quod nomen prima & fecunda, vt di-cunt, intentionis est in mente. Amplius in mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine & verbo. Igitur in mente funt nomina& verba.  al mio fal cendum apud Boetium in pradicamentis, capite de  fubftantia. in mentenon elle orationem, & per consequens nec enuntiationem. Id autem, cui fubordi-  natur oratio fiue enuntiatio graceefologus, latine in-  terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt  - exologus : hoc eit exterior ratio. Apud enim graecos logus est communis rationi et orationi. Apud nos vero interior ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero oratio. Tunc dico in mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba, fed bene conceptiones compositas et simplices. Compositas quidem quibus orationes fiue enun  tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus nomina & verba: & ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed fignificationes, quibus  Nullum oft no  hacfubordinantur.  Ad argumenta in contrarium  fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut secunda impositionis. Onine enim nonien cit ab impositione. Ad secundum patet folutio in mente  eitratio, in voce oratio fue enuntiatio, qua ratio-  nilubordinatur.  Ipfion vero non bomo, non nomenet, , fed nel neque  Nenfe onbi  nomen pofitum ift, quo ipfum appellare opertet. Nes  в finE не  que enim e/t oratio, neque negatio, fed nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter in quolibet eft, co co quod  +/, c co guod non eft.  Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, & id genus, Catonis & id genus ef-  fentnomina. Nam his competit definitio data.  Refpondet LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus.  nominum: & lic definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-  Accipit igitur duo - primum quod non homo & catera id genus non funt nomina.  Secundo  quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum ,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft fecundum.  Hec perordinem declarat, et primo quod nonfit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con -  uenire. cum oratione propter complexionem : & cum negatione propter particulam negativam. ideo probans secundum inquit. Neque enim eft oratio,  seque negatio. Deinde probat primum: & fingit il-  li nomen, quo nunc appellari liceat & inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum:  quia vt dicit, & quod eft, & quod non eit in oratio-ne rerum fine difcrimine vllo lignificat: 8 hocinquit.  Quoniam fimiliter in quolibet eit, & co quod elt: o co quod non et. Hircocervvs enim non homo est, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aorilton: quod latine non eft infinitum. Nomina cim graeca fune diuersa. Graeci enim infinitum dicunt apeiron. Ambiguum quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen est vox. In mente autem nulla est vox. Pro ala parte est quod nomen prima et fecunda, vt dicunt, intentionis est in mente. Amplius in mente est enuntiatio, fed omnis enuntiatio constat ex nomine et verbo. Igitur, in mente sunt nomina et verba.  al mio fal cendum apud BOEZIO (si veda) in pradicamentis, capite de  subftantia. in mentenon elle orationem, et per consquens nec enuntiationem. Id autem, cui subordinatur oratio sive enuntiatio graece “esologus”, latine INTERIOR RATIO appellatur. Enuntiatio vero ipsa graece est “exologus,” hoc eit: EXTERIOR RATIO. Apud enim graecos “logus” est communis rationi et orationi. Apud nos vero INTERIOR RATIO vno nomine vocatur vt ratio, EXTERIOR RATIO vero oratio. Tunc dico in mente nec esse enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba -- sed bene CONCEPTIONES compositas et simplices. Compotitas quidem quibus orationes sive enuntiationes ipse subordinantur, simplices vero quibus nomina et verba: et ita concedo in mente non esse nomina neque verba – SED SIGNIFICATIONES, quibus  Nullum oft no  hac subordinantur.  Ad argumenta in contrarium  fecie, fa patet solutio i nellam enim est nomen prima aut secunda intentionis, licet sit nomen prima aut secunda impolisionis. Onine enim nomen cit ab impositione. Ad secundum patet solutio in mente  eit ratio, in voce oratio sive enuntiatio, qua rationi subordinatur.  Ipfion vero non bomo, non nomenet, sed nel neque  Nenfe onbi  nomen positum ift, quo ipsum appellare opertet.  Nes  в finE не  que enim e/t oratio, neque negatio, sed nomen nocetur ambiguum. O goniam similiter in quolibet eft, co co quod  +/, c co guod non eft.  Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, & id genus, Catonis & id genus essent nomina [FLATVS VOCIS]. Nam his competit definition data.  Respondet LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus.  nominum: & lic definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-  Accipit igitur duo - primum quod non homo & catera id genus non funt nomina.  Secundo  quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. & hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum ,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc est secundum.  Hec perordinem declarat, et primo quod non fit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con -  uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter particulam negatiuam. ideo probans fecundum inquit. Neque enim est oratio,  seque negatio. Deinde probat primum: et fingit illi nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum:  quia vt dicit, & quod est, et quod non eit in oratione rerum fine difcrimine vllo significat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, & co quod elt: o co quod non et. HIRCOCERVVS enim non homo eft, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aoriston: quod latine non est infinitum. Nomina cim graeca fune diversa. Graaci enim “infinitum” dicunt “apeiron”. Ambiguum quod indifferens est ac innominatum aori-guum propter quandam indifferentiam ad id quod  eft & ad id quod non eft: et per hoc differtà nomine communi i quod licet fit indifferens, non nisi is que funt fub eo indifferens eft.  Differt tamen  aoriftatio tranfcendentis ab aoriltatione termini predicamentalis: quia acriftatio tranfcendens eft fecundum quid illa pradicamentalis fimpliciter, vt  didum eft.  Echa dubitatio.  Querunt ctiam, vtrum enuntiatio pofsit aoriftari? Iamblicus Platonicus orationem fiue enuntiationem aoriftari polle contendit propter aorilta-  tionem fubieti aut predicati fue nominis aut ver-  Viram aratio  bi, motus fortalle, quia quod parti contingit inef-  valea infni fe, toti quoque accidit: ve quinto Physicorum hafari.  betur, vbi enim capiti crifpitudo inest, et homini  inesse necesse eft.  Confatatio,  Sed hoc fare non poteft. ait enim neque enim oratio neque negatio eft: sed omnis finita. Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e vetbum aoriftari afferit, nullbi tamen orationem. Balutio sprie. Tenendum igitur nullam orationemi nollamque cnuntiationem aoriftari posse. Tuno ad rationem pro iamblico dico quod omne quod parti inest ne-  Oratienen pir cefle est toti inesse. Non tamen quicquid partem infuir. de nomina, necesse eft totum ipsum denominare:  nam albedo dentes denominat athiopis,  nequa-  quam athiopem. Dubitant & ad huc forticola: quia videtur nomen ambiguum esse nomen: quia  valet est nomen ambiguum tigitur nomen ab inferiori ad suum superius.  Respondendum non valere: ficut non valct, est homo mortuus: igitur homo . itemque nec valet,  eft albus dentes: igitur albus.  Non enim argui -  tur ab inferiori ad fuperius, sed a secundum quid  ad fimpliciter.  olioul cafir  a nomicie rine  Ipsum nero “Philonis”, aut “Philoni”, co catera id genus non minima fant, sed nominis casus. ratio autem cius in  alits  quidem est cadem, quancuam differunt.  Nam est, aut fuit, aut crit addideris, neque verum neque falsum est. nomen uero ipsum  semper,  “Philonis” est, aut non est, non dum verum aut falsum dices. Quidam, vt PORTICO, casus esse nomina, et rectum  esse casum concedunt.  Rectum quidem casum,  quia e mente ipsà cadit: et ab ipso cateri casus. obliqua vero nomina, quoniam voces sunt SIGNIFICATI un AD PLACITVM sine tempore. Excludit igitur casus ipsos è nominis ratione, et inquit, ipsum vero “Philonis” aut “Philoni” NON NOMINA SVN: sed nominis casus – H. P. Grice: “Ryle – with his ‘Fido’-Fido theory of meaning – woud agree! -- Addir tamen convenientiam inter casus et nomina, et differentiam: et inquit, ratio quidem cius,  hoc est nominis: qua pauloante generatim AD-SIGNATA est, in aljs quidem eadem est: quasi dicat,  quod ratio generalis nomini , qua proxime AD-SIGNATA est, vna eit nomini ipsi, atque casibus quan-quam differant. nam cum ipsis casibus est, aut fuit sut crit addideris, neque verum neque falsum eit, nomini vero ipsi, cum supple addideris, semper verum aut falfum dices. ve “Philonis” ipf est, aut non est cum addes, nondum enim verum aut falsüm dices. Nomen igitur et casus nominum conveniunt  in ratione nominis generali, differunt autem et quoniam nomen addieum verbo cit., semper reddit orationem aut veram aut falsam.  Ex his vult habere Definitie LIZIO, hanc esse nominis definitionem. nomen est pajada. VOX SIGNIFICATIVA AD PLACITVM, cuius nulla pars significat separata, determinata, atque recta: per hanc rationem habetur tota nominis essentia. Per hac patet solutio ad rationem PORTICO. licet enim rectus cadatè mente, non propter hoe dicitur casus. dicetur enim etiam verbum habere casus: sed id dicitur casus, qui ab alio cadit per inflexionem, vt BOEZIO (si veda) et Ammonius addüt. Curvero vsus Dubiationes est verbo substantivo, curúc generalem pramifit nominis rationem, Ammonius, è quo expofitor no- Iter accepit, facile declarat: nam substantivo vius est, quia cum cateris verbis cafus faciunt nonnunquam orationes veras. Pramilit vero rationem generalem, quia doarina incipit ab vniversaliori, adiecit specialiorem, vt generalem compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphrase buius capituli velle videtur quod tam nomina ambigua, qua vocat infinita, quam cafus nominum, sint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne autem diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver bis Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina absoluta, nam propter excellentiam videtur rectum nomen: et determinatum nomen esse nomina: quia videlicet in illis nominis ratio praftantius faluatur: & ita vule hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum nomen profertur de potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, & substantia est ens: verum ens absolute intelligitur principaliter de substantia. Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis & determinatis fiue finitis, licet communiter de verifque dicatur. Multa captiunculatoreshiefa-bulantur, qua cum puerilia sint, pratereunda elle diludico.  Multa quoque de nominis dittinatione Ammonius addit: que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis relinquantur. Hac de nomine. Ratio uero est vox significativa, cuius partium alis qua separata significatina est, ut dicio: sed non ut affirmatio, uelati “homo” significat quidem aliquid, non autem quoniam fie, aut non fit: sed crit affirmatio aut negatio fi quicquam fibi adideris ana vero hominis fllaba mullatenus significat, non enim in hac dictione “sorex”, “rex” significat sed tantum nunc vox est:i n compositis vero signifiacat aliquid sed ut diximus non pro fc.  Сет.  Illud, vt diximus, quod principal hic perquiritur, elt enuntiatio: huius partes et materia nomen, videlicet. et verbum declarata sunt, pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declarator cur vero, vt Ammonius dubitat, non co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas licebatur, dictum est. Anima ducrtendumigitur, gno  mini et verbo et ofoni cóia sunt vox, SIGNIFICARE, ET NON PER NATVRAM, SED AD PLACITVM, vtrum vero catera particula, vt fine t pe, vel cum tpe, an rete et determinate fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt aut oño ab vtroque: qm illius pars significativa est ve dictio, nois vero de verbi non nili per accis, vt diximus,  in definitione praterijt an A NATVRA SIT ofo ipsa SIGNIFICATIVA, an AD PLACITVM, quia de hoc erit poftea difputatio. Apponit ait illa duo vt q fit vos & fignificativa, vt habeat genus. proximum,adiecit cuius pars fignificat vt dictio, &c nó vt afirmatio vthabeat differentiam: qua differt è nomine et verbo.  Prime dubs.  Sed ad intellm huius definitionis dubitemus de lin-  An oratio fit gulis. Et primo, vtrum ofo fit vox: et videtur o nó: ofo  Refonio fer non est una vox sigitur non est vox. Antecedens arguitur: oratio eit muita voces – MVLTA VOCES NON SVNT UNA VOX; sigitur; oratio non est una vox. Rident forticula concedédo e oratio elt multa uoces, de ulterius p plu res sive multe voces sunt vox fuc una sola uox, quem admodum plures hoies sunt unus solus hó, et oita fit probant: quoniamhac vox est una sola vox, et illa vox est una sola vox. Igitur hac vox, et illa vox sunt una sola vox. Sed hac vox et illa vox sunt plures voces. Igitur, plures voces sunt una sola vox: et fie concedút plu res voces esse unam solam vocem divisive, utd iêum elt. Sed dices contra hos, quia li plures voces sunt una sola vox, igitur per conversionem in parte una sola vox esset plures voces. Amplius plures voces non sunt hae una sola vox, nec illa una sola vox; igitur, nulla una sola vox: et per consequens plures voces non sunt vna sola  Definio, vox.. Respondêt forticola et defendunt partem fuam 9 pradicatum illius propositionis, plures voces sunt vna sola vox, confunditur propter vim copulationis, qua includitur in verbo illo plures. Refoluitur. n. plares lie, et illa 8e illa, vt diximus, mo nota copulationis habetvim confundendi, dita negant conversionem, quia variatur suppofitio. In prima illa particula “vox” supponit confufe; in secunda determinate. Et si dicatur quomodo convertitur, quare ipsos, quia est extra propositum. Ad fedam dicunt, eplares voces nulla vna sola vox sunt, qí nec illa nec hae. cum quo ti flatg plures voces fint vna sola vox, qí in hac, iste terminus “vox” stat confusetín, in illa determinate aut diferete: pP quod ha non contradicunt plures voces sunt vna fola vox, et plures voces nulla vna sola vox sunt, cum termini non codem modo supponant. Quanquam hac fint  acute dicta, et non possantim probari, fcasno esse LIZIO di (ta, nec necellaria, nec in talibus captiun-colis debemus detineri. Multi. n. vt logicam feruêtad vaguem amittunt philosophiam, et mora in his impe-dit hominem feire veritatem. LIZIO igitur dicerent op oratio est vna vox vnitate verbi, de ficpôt dici plures voces simplices, na vero composita ex ilis proprer vnitatem verbi. Aliqui dubitant fecundo cur di . Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium aliquid significant Contra The. separatim, et non dixit cuius pars aliqua signiticat separata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia graecorú verborum In graaca .n. ;ingua pars, que graece “meros” dicitur, neutri est generis, ideo ad nos debetvenire, cuius partium aliqua separata significat s &rita poderatio expositoris frivola est, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie dubi. Afpafius contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit definitum, cui non competit definitio. Na hypothetica est oratio, 8e tó partes cius significant, vt orationes. Ridet Porphyrius hic esse diffinitam solam orationem simplicem, co quia prior in omnibus reperitur: cui relponfioni etiam Alpafium confentire ferüt.  Obijcit huic, vt mihi videtur, BOEZIO (si veda): on definitum  non debetelle in plusquam dehnitio, Igitur cum oratio  sit communis simplici et compolita: dehnitio etiam di cit esse communis. Sed hac rônon cogit: dicerent. n.  gy licetortio quatenus oratio sit cois simplici et composite, ta quatenus hic defcibitur non converit nisi  simplici perle, quia cotrafte et no coiter hic defcribit. Miliusigif contradico eis: quia LIZIO poftea diuidet  oionem in enuntiativa, et non enuntiativa, et enuntiati  uam rurfus diuidet per simplicem et compositam: et nullibi iam ipsam compositam definit alia definitione, igi tur vult cam effehic definitam. Secundo oño comper  sinato  tit vniuoca, simplici, et composita: igitur debet dari vna definitio communis vniuoca, et nullibi dedit llamsigi  turefiet mancus. Alex, vero & Ammonius refpondét  Refienfie.s.  p hac definitio eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt oratio compolita haber partes que lignificant, vt dictio. Huic opponuntalij ve Philoponus et Syrianus, quia Arift.ait vt ditio:& non vtalfirmatio.mo ofo compofita habet partes qua fignificantut affirmatio:et ita male adiecifiet, et non ut affirmatio. Alij  foluunt o dietum philofophi debet intelligi luppiendo fic, ut dictio neceffario, & no necellario ut affirmatio, et sic competit omnibus. Ego aut dico pace tantorum fe/priepre dixerim o LIZIO dixit ut dictio: qin licet partes oratio-nis compofita fint orationes, th non ut orationes, fed ut dictiones lignificant feparata: &c hocfatis. Dubitát Quarte dubie quarto, curadiecit ut dictio & non ut aftirmatio, fatis  chim fuifet dicere ut diêtio, nunquam enim dictio elt  afirmatio. Repondent quidamiquia LIZIO folitus est  nonnunquam dictionem pro affirmatione accipere:  ne igitur ufus impediat, fuppleuit & non ut aftirmatio: et SIGNANTER ait, & non ur affirmatio, quia negatio addit ad affirmationem, propterca fi non ut affirmatio  fatis habetur etiam ep nec ut negatio. Hac refponlio  fic dia, f el alicuius expolitoris graeci, tacco, gán ipli yerbaverba LIZIO melius intelligút, et verecundú est pugnare contra graecos de verbis gracis. Hoeti non tace-  botg vbig; LIZIO di diftione vocat - gracce phafim vocat:affirmationé vero cataphafim. Sin aliter no me mini me legitie, no ti nego cataphalim compon ex ca-  Nie apria ta & phalis. Ideo dico et fuppleuit nó vt aftirmatio, ad  DE-NOTANDUM partes orationis vt dixi posse significare vt af-firmatio: sed LIZIO, vult no licintelligere led quatenus  habent vim dictionis. Hoc. n. fuppleuit propter orationes compositas: cuius partes funt affirmationes: sed non vr affirmationes: sed vt dictiones significant. Viti mo quarit Philoponus: vtrú hc definitio competat solum orationi perfetta? Ridito foli perfeta hec competitiqí partes non dicuntur nifi in relatione ad totú: totum aût et perfectú ide: & cú oratio hie definiatur in relatione ad partes, videf rationabiliterhie dehnin  vt perfecta.  Sed contra obijcit BOEZIO primo: quia  omne comositü haber partes, cum aúttam pertecta g impertecta habeat partes:rationabiliter qualibet crit  totú et perfecti. Secundo tune partes orationis & cu  iufg compositi no essent partes nifi in sine compositionis: quia tunc folum compofitum dicitur effe copofitú. Mihi videf orationes ha non militent: quia nó dicit aliquid cópolitum, nili propter forma et materia, cum orationi imperfetta defit aut forma aut materia, aliter effet pfecta, rationabiliter no dicit compolitú nec totum: Tunc ad rationes dico: ep oratio imperfecta no eft totum, qui vel caret verbo fimpliciter vel verbo principali: 8 p consequens caret forma: 8e ficnec eit  compositum nec totá, fed quada, vocum multitudo. Ad secundum dico, partés non sunt partes nisi pofti est ipsum tot,ante enim dicunt partes in potétia mlngitur  intellectus altu componat subiectum et pradicatim cum verbo. nô erit adtu totü: & ficnce actu partes, et fic concedo id ad quod deducit, Melius igit cótra illos poteft obijci, gin ftatim oratione hic definitam fubdiuidit perfectam et imperfecta: qui rem incogrue egillet, nifi  Definitio ena»  vtrig; hãc definitioné elle coem voluiflet. Colligeigi  innis abfoluta tur definitioné oratio vero est VOX SIGNIFICATIVA, cuius  partiú aliqua fignificativa eft feparata: vt di tio, &e non staffirmatio: hoc eft significatione simplici, non compolita, aut similia. Ori aût aliquid significare vt pars pot esse dupliciters aur pars copofita, ve in hypotheti-cataut ve syllaba, vt in voce composita, idco duo facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars co polita, videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec vel syllaba. De primo inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut non est, sed erit affirmatio aut negatio si sibi quici addideris, hoc  eit verbu solu. Et ficper exemplu patet prima pars. Deinde declarat secunda, & inquit.vna verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod probat p exemplú et locú à maiori: et inquit. No.n.in hac diétione “forex”, “rex” significat, sed tín vox eit sola, no habens vim significan-  Cotra, tu dices: quia in compositis ve in “hircoceru” sgnificat pars. Ridet in compostis noibus significat aliquid ipsa pars feorium, sed, vt diximus, non pro se ad intellectum totius, cuius erat pars. Sicigif patet ou pars orationis nec significat vt pars compolita, nec vt syllaba Oratio igitur eft vox significativa cuius partiú propin quarú aliqua est significativa separata per se quidem vt dictio, non autem semper vt affirmatio vel negatio. Ордір пра од. Et auten oratio onnis significat ina quidem, non tamen ut inferanientam, sed quem ad miodom dictum est secundum imturaxin  institutionem.  Syllogizabat ACADEMIA in co libro, qui CRATILO inferibi Cámag. tur, ofoné esse NATVRA, ET NON INSTITVTIONE sic. oro est instrumentum virtutis interptativa naturaliter nobis ine-  xiltétis. Per ipsam.n. SIGNIFICAMVS – “We, the utterers” (Grice) -- aia affectiones, ceu Pitevais, per instrumentum. omne aüt instrumentum virtutis naturalis eft natura: veluti virtutis viGuz oculi, auditiua au res:& eid genus. igif ofo NATVRA, SED NON INSTITUTIONE est -- hic erat ACCADEMIA fyllogifmus. Huicridet LIZIO et consentit maiori. negat tá minore.nam virtutis interpreta  tiug primü inftrumentú et proprium est pulmo, guttur,  dentes, lingua, et id genus: qua NATVRALIA sunt. ofo vero est effectus illius virtutis mediamtibus illis instrumétis et ita minor falsa est. Inquit. Eft aút ofo ois significati-  ua quidé, non tamen ve instrumentú, sed quéadmodá di etü eft )fm institutione, et ita ACADEMIA minor falsa est.  Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult  BOEZIO (si veda) esse pofitú pro natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú inftrumeta fm naturam ipfari artiú cófiltere ponebat: et ita erit sensus o ofo significat no ve instrumentum. hoc est naturo Jed/vt diatü eft in capitulo de nome) fm synthecen, hoc eft Pm inititutione,  Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait LIZIO organon no pro natura pofuit, sed pro inftrumen to:quia perhoc(vt Ammonius & Alex.aiunt) LIZIO minorem ACADEMIA negareintendit. Sed adhucfo lutio LIZIO non videtur tuta. ACADEMIA n.quidam  Hermippus & Numenius obijciút.na idem videtur de effectu. Oratio.n. effectus eft virtutis naturalis per in oratio ipfa natura crit. Secundo, ofo est inftrumentú intellectus, qui eft virtus naturalis. nam intelleêtus ora  tionefignificat, syllogismo, qui ofo elt, ratiocinatur:  definitione, que rurfus oratio eft, definir.Sed vefupra.  omne virtutis naturalis in trumenté eft natura. igitur  oro natura erit, non aut inititutione. Ad hac Ammonius tolutioneinnuit o quéadmodú in tripudio motus ipsea natura est, modificatio illius (vtita dicã) ab inflitutione et artificio, ita in oratione voces sive soni natura sunt, modificationes vero institutione : et ita quatenus voces sive soni ofones natura sunt, quatenus  tales voces institutione formanf.  Tuncad rationépri  mam maior falsa est. poteft enim aliquis esse effettus virtutis naturalis per instrumenta naturalia ve tripudia  et esse institutione. Ad secundum ait Ammonius (p intellectus non cit natura: quonia nullius corporisaCus  est: sed quasi SVPRA NATVRA et sic nihil prohibet virtutis SVPRA NATVRAM esse eflectú institutione.  Sedhzcre-  fponfio ftare non pot: quia faltem intellectus est virtus naturalis: distinguendo NATVRALE CONTRA ARTEM. Igitur effectus suus debet esse naturalis -- vt distinguitur contra Artem. Propterea dicendum o artificialium principivm imsoltio peria mediarú eil  VOLVNTAS. He enim est immediata causa institutionum et propterea gg concurrant intellectus  et naturalia intrumenta virtutis interpretatiuz, quia  tamen ola subiacent VOLVNTATI, ideo inslitutione sunt ET NON NATVRA et hoc nefcivit explicare Ammonius, licet forte hoc voluerit balbutiri. Alexander aphrodifius  R5 Ales.  enititur probare orationem esse institutione: quia cuius qualibet pars est insttitutione, totum institutione oft, sed orationis partes vt nomen et verbum institutione sunt: igie tota oratio. Hac ratio pace sua petere videtur, quia Plato & Socra in lib. CRATILO volvere etiam nomina et verba NATVRALITER SIGNIFICARE. Amplius similis qualtio est de nome et verbo: qn ipsa sint effectus virtu  Ri melier.  tis NATVRALIS instrumenta naturalia.  Ideo melius a SIGNO idé probari pót: que apud diverfos sunt diuería institutione esse vident. id. n. QVOD NATVRALE EST SEMPER EST VNIFORME sed orones apud DIVERSAS LINGVAS diuer-fie spectantur, gaide SIGNIFICENT, itur NON NATVRA, sed  Dubitationes  institutione sunt: et hac est sua mel forratio.  Sed circa hac recentiores ambigunt, trú nomen, quod SIGNIFICAT ALIQVID, SI IMPONATVR DE NOVO AD SIGNIFICANDUM ALIUD, remaneat IDEM NOMEN, verbi causa, ifud nomen “homo” significat Socratem et Platonem, verum si ponatur AD SIGNIFICANDUM IDEM QVOD “EQVVS” remaneat IDEM nomen. Secunda dubitatio, vtrum oratio, que de no no imponitur AD SIGNIFICANDO ALIVD primo significabat, vt hc oratio, “homo eit animal” -- dato  prina rideat non nulli recentiorum g nomen impositum de novo ALITER AD SIGNIFICANDVM et significabat NON EST IDEM NOMEN. Hoc probant exemplo: quia sicut ex variatione forma artificialis resultat alia arg; alia res artificialis, ita ex variatione fignification resultabút  Confutatis.  alia atg; alia nomina. Sed hac positio stare non pót. Prima quia ad variationem cius quod de foris de per accidens accedit nihil debet variari: sed nomen et verbum SIGNIFICANT EX VOLVNTATEM,ita go significatio deforis accidit nomini et verbo, igitur nomen per illius variationem non variabitur.  Amplius li ad variationé signification varientur nomina, ad convenientia erit eadem. Igitur “homo” et “anthropus” erunt vnum nomen:  Selatio pra quod nemo dixit. Ideo dicendum, ey nullatenus varia-pris  tur nomen: licet varietur significatio cum illa fit accidens ipsi nomini. Pót tamen dici variatum extrinicce, qué-ad modum colúna sit dextra vel finiitra ipso animali va riato. nec valet: significatio formalis variatur, igif nomen, quia illa est fibi extrinseca, sicut colúna dextreitas. Ad rationem dico e variata forma artificialis in. trinfece variatur res artificialis: modo non sic est in nominibus. Ad secundam midentidem o oratio de novo imposita, significandum non complexum, vim habet dictionis. Hoc absolute dictum est falsum – QVIA VOLO “HOMO” SIGNIFICET MIHI equi bos animal, et facio hanc propositionem: “Homo est bos” -- patet o qualibet dictio et pars significat ve dictio, igif tota non significar ve di  Etio. Amplius hac oratio de nouofic significans est oratios igitur partes cius significát ve ditiones per deffinitionem datam. Propterea dico quod oratio pôt imponi ad significandum aliquod complexum de non o dupliciter. Vno modo ponendo o partes significent, ex quarum significatione resultet significatio totius, hoc modo significat vt oratio, ve argumenta cogunt. alio modo ponendo q oratio significet, primo illud complexum de novo nihil de partibus afteredo, hoc eit non p hoc e significatio cius resultet ex significatione nova partium. Et hoc modo bene dicunt g› significat vt dictio, quoniam sua significatio non resultat ex significatione partium: quo in casu non erit oratio, licet partes lint noia: nec propositio, licet significet complexum, sed dictio erit tín, de hac re supra disputatum eit.  Everationibus  Enuntiativa vero non omnis, sed illa, in qua verum aut falsum est, non ait in omnibus el:ucluti deprecativa oratio quidem e/ft, fed neg, neraneg; falsa cetere quide igitur relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis consideratio attinet: enuntiativa vero presentis contemplationis ed.  Divisio enuntiationis, vt BOEZIO est autor, hac ra-  Cim ao.  tione sit fumpta oratione pro genere, ofonum alia im períecta, vt – “Plato in Lycio,” Alia vero pfecta - perfeita  vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enuntiatiuv, alia  non enuntiativa qua e; diuisio, ideo p alterum membrum  negativum dat, oi subdividentibus mêbris genus cõe nomen non haber.nó enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve adfit letitia bacchus dator. Alia imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis imperijs. Enuntiativa  Faree mane  vero elt vt dies eft:dies no elt. No countiativari vero fie.  {pecies expofitor reducit adtres. on illa quinqueor-  dinata lunt ve vnus ex intellectu alterius dirigaf:quod quidem in tribus sit modis. Primo adattédendü men te, et ad hoc oratio deferuit vocativa. Secundo ad re-fondendum voce, et ad hoc facit interrogativa. Tertio ad exequédum opere, quod etiá trifaria fit, aut pex prefsionem defiderij, et ad hoc facit optativa, vel refpa  Etu superioris, et ad hoc facit depcativa: autrelpediu inferioris, et ad hoc facit imperativa. Siquis aut vellet poffet reducere etia has ad bimêbré, qua res cú non multum côferat, fit hoc fatis. LIZIO.itaq; mirabile brevitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit fere infimul. orationem dividit, enunciativa definit: intentioné ad  spēm altringit. Dividés ofonem ait. enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú aliá elle enuntiatiui, alia non enuntiativa. Deinde innuens definitioné inquit.  sed illa in qua verum vel falsum est. eft igit ENVNTIATIO ORATIO IN QVA VEL VERVM VEL FALSVM EST. Ve vero clarior esset hac definitio subscribit differentia, qua differtà ca teris. Qua in definitione posita est, et inquit. non aútin cibus est veri, videlicet vel falsum, veluti depracativa oratio et cretera id genus oro quidé est, sed neqi VERA, nco; falsa. Deinde abijciés à consideratione piti orationes nó enuntiatiuas aftringit intentione in fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: et de cólipfa oratione locutus est. Et inquit. catera quidé igitur relinquantur, ná ad ORATORIA SIVE RHETORICA, aut poesim sive poeticam magis illarum confideratio attinet. Enuntia-tia vero pátis contemplationis est, qua {pés est ofonis potionhuius vero species sunt affirmatio et negatio. Hac igitur sunt que LIZIO breuibus cóplexus eft. Quantum vero ad verba graeca attinet verum vel falsum C falsum in enuntiatione sunt, in intellectu, atque: rebus. Inre film,  bus quidem vt in causa, gn ab eo quod res eft vel non  est enuntiatio sit aut vera aut falsa. Inintellectu vero, quia intellectus subie tú oium verorum, et ita in intellectu sunt vti in subiecto. In ENUNTIATIONE VERO IPSA SVNT IN SIGNO, ceu SANITAS IN VRINA. Sed lupradictis emer gút dubitationes. Prima, videf o LIZIO male definierit enuntiationé per verum vel falsum: qi verum vel falsum aur sunt dfia, aut propria siquidé propria non erit bona  definitio. si dria, tunc contituit ipés: 8cita p suas spés definisset. Secunda cur solum de enuntiatione est consideratio. Logica.n. est (cia cois, igit de oibus. T'ertia de propositione tra @af in lib. priori, et in lib. polteriori. git non hic de enuntiatione: cuidem fint. Ad primá rádet Ammonius, g enútiationé signanter definit p verum vel falsum: quia lunt fines clus: et definitio dat p finé multotiens. totiens. Vel dici pot, g sunt ve propria, qua ponuntur loco differentiz, qua nobis latet, etiam si sint differentia et constituunt /pês genus definiri per pés tieri potest,  vt dicit Alexandrus quando vel differentia latent: aut ge-nusnon sit penitus vnivocum. Ad secundam ridet  Theophraltus philosophus o omnis oratio aut instituta ordinatad; est ad auscultatione auditionege: aut res ipsas. si ad auscultationes ato; auditiones, sic pertinet ad rhetorem atque poetam, vt ACCADEMIA ofidit in phedro. et Socrates plilebo. Si vero ad res, fie enuntiatio inflita ta est ad librum posteriorú et ad feiam: et ita crit propria huic considerationi. Ad tertiá dici pot, enuntiatio differta propositionesm propolitio ordinatur  ad syllogismus, et quatenus ordinaé ad syliogismum dicitur propositio, qua si ordinaf ad demonsirationem,  ca. sed si ad syllogilmum limpir vocat propositio absolute. Enuntiatio vero dicit quatenus subordinat intelleêtui p voces exprimentis de rebus verum falsumume. Et ita diffèrunt quia enuntiatio est extra menté ti in voce aut scripto: propositio extra et intra menté, Enuntiatio etia dici pot propositio, et conclulso, et problema: problema in dialectico syllogilmo, conclusio in demonstratione, itêá; dici põt qualtio: et id genus: propositio non nili premissa. Hac ti latius explicabuntur in libro priorum et pofteriorú Quarút rurlus forticola, an eiusmodi propositiones, tonat, corufcat, lego et id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere, ego lego,  ego Augustinus scribo, et dicere lego ,icnbo. Ad primam rident non nulli forticole quilliulmodi propositiones, nec sunt orationes, nec enuntiationes: benetn sunt complexa quedam in virtute. Moventur aurem argumento pillarú vna pars vipote SUBIECTI EST IN MENTE – videlicet: “ego.” [Grice: “Those Latins dropped pronouns!”] Alia vero in voce, vipote pradicatá. enutatio at de ois ofo est penitus in voce vel scripto  et c ita ciusmodi esse non possint orones vel enttiatio-  Cofittiones. Sed ifti delirt penitus. Nã ciufmodi funt in voce aut feripto: et in eis eft verum vel falfum: igitur enuntiationes.Hac.n.fuit LIZIO definitio. Neccon-  perfe pres tra cos alter arguo: sünt. n.hac defe derifibilia. Anima duerte igit g› ciulmodi sunt enuntiationes, qui verba sunt subiectum et predicatum et copula, in ilta distione lego -- aut ambulas: est subiectum vi prima vel secunda:  pfone verbi, qua sua natura illá importat. Est pradica-  qua sunt pronomina et prima et SECUNDA PERSONA, deno tatur affectio aliqua sive pracilio quadá, verbi causa  cum dicit ego Augustinus Scribo, denotatur qua  -- ut solus scribo, aut nullus ita bene scribit. Et tunc iuxta hanc re  bit. Tenet captiúcula per regulá. Secunda, non valet: “Ego, Augustinus, curro” -- igié ego sum. Ef.n. antecedens verum vi ego solus curreré: consequens vero falsums  sit deus ego sum qui sumqi alia a deo vel non sunt,  vel nonita bene. Bene tamen concedent hasfum, es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE in pueriles fabulas. Hac. n. rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu esaut in his volunt effe intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit aliqua cnuntia-tio pfeêta, et non cum subieto. Si vero volunt esse subie- Ea intelligenda. sed intellectus pót explicare voce om ne quod concipit: et non aliter pót, ( dicendo: “ego sum: vel tu es,” igitur “es” æquivalet “sum.” Et ego sum : es et tu es. Secundo, tunc hec esset nugatoria tin deus est: tín ego scribo: et id genus, Propterca vide mihi lilliulmo-di ofones non differre quantum ad rem: sed solum qua ad  vium thetoricum atque: ornatum. quo. n. Ad veritatem  idem est dicere “tu es,” et es, “ego scribo,” et scribo. Ad dunttamen rhetores pronomina ipsà prima et secunda persona nónung emphaticos: veluti illud Maro-nis: Me ne incapto desistere viêta? fub illo pronomine, “me,” intellexit reginam deorum, et fororé, et Iovis coniugem. Similiter Cicero. Ego omni officio ac potius pietate erga te catenis satisfacio. sub illo pronomie, “ego”: feillum talem qui cum Ientulo familiarissime vixit, et qui tot beneficia ab eo acceperat intellexit. Addunt igitur rhetores eiusmodi ad amplitudinem licet quoad  propositionum veritatem, quam logicus considerat,  nulla sit differentia – cf. G. N. Leech on H. P. Grice as proposing a CONVERSATIONAL RHETORIC – not a conversational DIALETTICA. Et hoc modo intelligendum est illud Prisciani grammatici. Hae fatis. Et autem una prima oratio enuntiativa, affirmatio, dea  Enuncidiona  inceps negatio: cater e ucro omnes coniuncione sunt und. aliu est voafim  alie con.  Necesse et autem omnem orationem enuntiativam esse ex  alia vere cum  verbo, dut casu verbi quando o hominis ratio nif refm pes ee.: “est”, aut “fuit”, aut “erit,” aut tale aliquid adyciatur nequag oras  per afpr.  tio crantistina si Qgaobren an quoddam se or nonmul  ta “animal, resibile, bipes”? Neque enim quis propinque di»  Pie: Mete.  C- Mar.  cuntur: una crit. Erit alterius boc trafare negoay. Coniucniunt expositores et graeci et latini, g› definitá  Сетьат enuntiatione nunc dinidat LIZIO: et volút gi LIZIO brevibus duas divisiones enuntiationis explicet: quarum vna est o enuntiationum quedam est vna simplex, quedam vna coniunctione. Qua expositor eo approbarge etiam in rebus aliquid est vnvm simplex -- vt indivisibile, aut continuum, alteri colligatione, aut compositione, aut ordine, Secunda vero vt expositor ait subdivisio est enuntiationis vniusin affirmatione et negationem. Vnderecétiores volunt divisiones esse huismodi enuntiationum quadam est cathegorica, quadam hypothetica sive CONDICIONALIS. Cathegoricarum alia est affirmativa, alia negativa. Mouct BOEZIO dubitatione /vtri id quod ait prima ad affirmationé referaf, vt lit posterior negatio, An id quodait prima ad simplicem retulerit orationem: vt secunda sit que ex ofonibus iungif. Hac BOEZIO quæstio resolvit in tres. Prima verum divisio enuntiationis p vna et coniunctione vna sit prior divisione p affirmationem et negationem. Secunda vervm affirmatio sit prior negatione. Tertia vtrvm simplex sit prior coniuncta. Ridet Andivltemi expositor, è quo accepcrút recétiores: g prima divisio.  ciatie in visena  enuntiationis sit per cathegoricam sive vna simplice et hy [ne vnom fit gri] potheticam CONDICIONALEM sive coniunctione vnam. Huius ratio ab expositore colligit, quia prima entis divisio est per vnvm et multa Igiê prima enuntiationis divisio esse debet similiter. Alia vero divisio est potius subdivisio enuntiationis simplicis. Sed pace horum dixerim hoc stare non pot, gi eriá hypothetica o CONDICIONALIS siue coniunctione vna est affirmatiua vel negatiua. I giê no divisio secunda sive sub-divisio alerius uel. P erit, guat fit per firm tiun et negationem. Secundo errant recentiores qi volunt hanc divisionem esse per cathegorica et hypothetica sive CONDICIONALIS: qi tune sola condicionalis esset coniunctione vna. Am  mo.n. et BOEZIO volunt hypotheticam no esse nili duobus modis s aut condicionalem, aut disiunctivam qua ét species conditionalis est vt dicemus. Vñ et grace hypothelis conditio cit. Igit hypothetica condicionalis est tm. Ideo dicendum ad primão hac dua divisiones  enuntiationis aquales conertibiles cú ipsa sunt. Vt.n.  ens dividitur per vú et multa: 8e per adiú Se potentia et  id genus. Qu oe ens aut est vnum, aut multa. Similr o€ ens aut actu aut potentia. Sicois cúciatio aut vina simplex aut coniuncta. Et ois etiam aut affirmativa aut negativa. Etita equales sunt divisiones euimodito non vna sub-divisio alterius. Dico secundo hac diviso p vnam et coniunctione voi no est divisio per cathegoricam et hypothetica sive CONDICIONALIS, Nô.n.vt BOEZIO et Ammo, aiút:  cathegoricum opponi hypothetico: sed coniunctione  vni. Eit aut coniunctio non vno ma: sed interdi copulatione, interdüt pe, interdum leco, et id genus. Ha.n.  sunt coniunctione vnz, pn sol exoritur, diescit: quia  coniunguntur coninctione tpis He hmilr, vbi tu disputas, Socrates iacet, et aliz eiusmodi. Que ti non sunt  hypothetica. Recte igitur LIZIO verbo côiori vtens,  dicit catera vero oes coniunctione fune vna: et non di-  ateet secteasoes se apoiteacas Ad ed am sepondet  Animo.g affirmatio solum ex parte vocis sit prior  Additie expo negatione quia est simplicior. Nam negativa enuntiatio affirmatiua addit particulam negativa. Expolitor aûradiecit duas alias rones, et affirmatio sit prior ex parte intellectus, om affirmatiua significat compositionem intellectus, negativa slignificat divisione. mỡ compositio est prior divisione, cum non sit divisio nisi compositori. Sed o ex parte rei: qi affirmatio significat esse, negatio non esse modo cile et vir habitus na-  esfuttio addi turali prior est PRIVATIONE (cf. Grice, “Negation and privation”). Sed hac additiono placet  Prima quidem non: om a pari diuto elet pior compositione gi non cit compositio nisi divisiorum. Am plus vt diot Ammo, affirmatio et negatio quo ad compositione et vitatem non difterurit: qu veragi eli composta ex verbo de noie. Lacetilla dicatur divisio reri.  Secunda vero minime sgi PRIVATIO  naturatr pracedic  habitü, vt de in Predacamentis Prius. nicatulus cocus  elta viders, et ita fatis citrelponio Amo.( BOEZIO Simplee  stiam approbat. Ad tertiai rádet BOEZIO gi enúcia-  enantiatie fie  tio smplex eit naturatlis/ At coniuncta pon sit vna  nili pofitióne & quali ab extrinieco. Sed quod elbra-turale prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé  tiationis limpiscis voitas eltà natura, etiá ipla crita na  tura.eadem.n.ratio.eft entis,&evnius:proponitionis&  voius: ve di in elenchis. Sed Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compositione agitur, simplex enunciatio prior sit, via vero anayitica hoc sit resolutoria composita sit priortim  plici. sed qi LIZIO inilto lib.eltinuentiuus, iurelim  Litera exp.  plicem praponit. Inquit igitur, est aut vna prima oratio enuntiatiua affirmatio et midens ad particuli, prima (ubicribit, deinceps negatio: gaipla negatio voce posterior est. Ad particulam illam vna, midens aitalia vero coniunctione sunt vna. ve hypothetica &id ge-  Duli Mexi, nus. Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum divisio enuntiationis per affirmationem et negationem sit generis in species. Secunda est dubitatio Ammonij:  Scle tran  vtrum hec sive enunciatio fue propositio fol existente super terram dies est, sit simplex, aut coniunctione vna. espondet Alexander qudiuisio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non ellet generis in species: qinin genere non eltordo, in enunciatione elt  ordo. Refpondet Ammonius, et BOEZIO, et expositor o bene vna porest esse altera prior comparatione facta inter fe vt in numeris patet. Sed comparatione adter-  tin: vt poread coc genus nullus est ordogi aqualter  funt orones veri vel falli participes, qua eit definitio enuntiationis et hec responsio potelt stare, Scias tá q BOEZIO et Ammonius inter afiarmationem et negationem nullum alium volüt ordinem, nili prolationis et vocum. Expolitoralios affert, quos deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Secundam dici por quod illa elt coniunctione vna: ablatiuus absolutus resoluitur per coniunctionem alig, vt dicunt grammatici. Hee de divisionibus colliguné. Expõ secunda  Deinde vt Ammonius et BOEZIO introducút. LIZIO, vo- partisprime lens disputare de affirmatione et negatione: que sunt species enunciationis. pramititquoddam vulead fer monem de illis, videlicet, pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, presentis t pistaut casu verbi: q' est preteriti aut futuri. Tacuit verbum infinitum, ve ait Ammo. Tum quia principaliter de afhrmatione loquetur: tum vel maxime, quia coordinatur cum negativo. haber. hictim co fere cádem vim. Sed dubitat Ammo. curpreteriit nomen. pót.n.imo constat enunciatio ex nomine de RECTO, vt fol oritur: et cafu cius, yt me tedet scribere. Respondet primo hoc esse pratermilium: ga potett esse enuntiatio, de non ex noie vel casu nois: vt: “Kire tum nihil est”: vbi verbum est subiectum. Nulla ri enunciatio elle põe line verbo, aut verbi casu. Hec responsio non valet: em vérba illa in enuntiatione nomina funt. Propterea Porphyrius philofophus, qué BOEZIO (equit, volie prater mififeipfum nomen: quía verbum est principalior pars, cum sit pars formalis, quafito-tius enuntiationis compositiva. Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o est verbum nomen mancilcitur. dicitur. n. cathegorica, hoceit PREDICATIVA. Hac eit Exp5  propria.  vna exposítio, qua stare pór.Mihi tá videtur o LIZIO refondeat quattioni tacite, dixit. n. efic enuntiationú alteram limplicé, alteram coniunctione vnam. Lo quis abifciet. ois enunciatio coltat,ex verbo, verbü aut im portar compositionem, j fine extremis non efintelligere. Igitur ois enuntiatio di composita. Cuirídet q ois enútiatio eft composita ex nomine e verbo. Sed di simplex quia non ex pluribus enuntiationibus constat. Veluti  hacfi solesoritr, dies efliqua pluribus conltatoronibus.Et tunc continucilitera fic: licet enuntiationú fitédam fimplex, necefle efi tá oem oroné enunciatiua  esse ex verbo, aut casu verbigitur de simplex simplicitate opposita compositioni ex pluribus enunciationibus. Et hac est expórectior. Primo, ga illa particula Apprebatio ex ADVERSATIVA (ait) poni non tolet sic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas tollendas. Sedo, quia interpositio fuif-  fetnimis casualis et nopetinens. Tacuic aut nomen:  dú à maion liciga fiqua oro cét enunciativa line verbo maxime ellet definitio. Mo ingt, on et hois to, nitripm “est”, aut “fui”, auv “erit” :aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enunciativa sit. Igié ois enunciativa ofo ex verbo constare debet. Sed qni de definitione locutuselt, et qualtio  de vitate cius elt alterius negocij, ideo se excufat, interponit tamen consutationé cuiufda falf ráfionis. Di  cebant enim quiddam, ep definitio est vna, quia partes propinquius iacent. Inquit. quamobre vnum fit et non  multa “animal, ressibile, bipes.” Interponit solutionem falsam: et inquit, negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Tunc redit ad excusationem, quali dicés, quare  Natabile.  vnvm sit definitio erit alterius hoc tractar negocij. Aiadverfione dignum, vt declarat BOEZIO et Ammonius ad vnitatem definitionis elle necessaria partiú propinqui tatem, quia bi partes longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit credat hanc elle cau fam vera, remouit illa &e tranfmilerit nos ad septimum et octavum meta.  Etlicet de vnitate definitionis LIZIO.  Dubitatio.  Rifie T bre.  tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant expositores graeci que eit causa vnitatis definitionis Ridet Theophratus in libro de affirmatione et negatione, e definitio est una ratione fubicati: quod definit. Secundo propter partium proximam constitutionem. Obij-ciunt contra Theophrast, quia tunc definitio no esset vna per se, qín ellet vna ratione fubie ti, et ita ratione extrinseca Secundo, quia tuc oia accidentia essent, vnvm essentialiter, quia funtin vno subiecto, vel faltéca, qua  effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas causas. Prima elt partiú vicinitas. Secunda vero est, quia in re est aliquid loco materia, aliquid loco forma. et cum  inter hac nihil medvet, rationabiliter faciunt definitionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in, g-mera. com.4a. dehnitio vno modo potest fumi vtinfirmenum, quo intellectus inducitur ad intelligendas essentias rerum, de cú instrumentum fumat vnitatem afine. Finis aut est definiti essentia, iure ab vitate definiti definitio crit vna. Et sic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt etipfarei eilentia, que cum refultet ex vitima diffe-  rentia sive vitima forma, que cil vtmusaCtus, ficbe-  Dubitatin The  ne Ammonius ait. Sed le res non est hic tractanda, vi bene LIZIO. Dubitatetia Themitius primo posse. quia videtur a definitio sit enuntiatio, quia est species ponis immediatz, vt ait LIZIO hic autem vult  non esse enuntiationem. Hanc qualtionem multi fol uere enituntur, quosin pripo polte confutamus, nunc  vero Philoponi expositione afferimus, g› definitio pa-test colderari vt premilla, et e sic eit propositio et enuntiatio, vt LIZIO vultibi. Alo modo vt terminus, et lic loquitur LIZIO hic iquia vt sic non est ENUNTIATIVA ORATIO, sed terminus vt dicit.  Elait una ORATIO ENUNTIATIVA, dutes que unm SIGNIFICAT aut es que coniunione est uns. Plures vero esse que plu a co non un significat. Aut ee que sine coniuntione sunt.  Cim. as.  Expositores fere ois volunt LIZIO divisionem pre-politam nunc exponere, quod, vt mihi videtur, stare non potest Addit-n, mónulla mébra que non pdiuilit  Primarupt.  Confutatin,  Ideo LIZIO divisione enuntiationis rurfus núc alio modo ordit, qua hac forma reducit. Enuntiationú, alia est vna. Alia plures, yna bifaria dicit, hac quidem simpliciter,illa vero Fm quid vr dicemus. Plures rurfus biari:  en quide plures, ga piura et no vnvm SIGNIFICAT, ille plures, ga line coniunctione multe sunt. Huius secunda divisionis prima pars prima parti prima divilionis ad-  Prime duba. versat. Secunda vero pars ciude, secunda illius modi. Referfie Ambigút que diviso sit hac? Ridet et lane fapide gpeltdiuifioziquinoci infigaificata/ve i hodiniderdt  in verum, et e marmore, nã lola enuntiatio vna est enuntiatio, plures vero fune vna platione, et METAPHORICA (“You’re the cream in my coffee”). Secundo dubitant quid LIZIO, velit p enuntiationem vnam limpir, et vnam fm qd: quid g; p plures imptir:  Secunda dabi.  et plures fm quid. Ad hac BOEZIO et Ammo cocorditer rident: et volut eo vnitas et multitudo referan ad enú Referacãs.  tiationis signantiam. Simplicitas vero et compo ad voces. Ex his fiunt lex coniugationes: quarum dua sunt impossibiles, quatuor possibiles: vt figura declarat. Eninciations coniugationes fer: quatuor possibiles,  o due impossibiles. Vna Polis Simplex sgod Lmpof  Impossibilis  Polis  Composita Polis Plures Erita vna simplex est, felt vna fimpir, vt ho eft ro- nale. cit. o. na quo ad lignantiam.Simplex vero quo ad voces vna vero composita eit vna Pm gd, vt lifol vritur – ut: “Dies est.” “Socrates disputat et Plato legit” e id genus. Hec. n. de vna fm gd, quia colutione vna. Plures etia bifaria  funt: plures composita contra primum membrum, vt g incon-lucta sunt tales, vt: “Socrates legit,” “Plato disputat.” LIZIO mo uef. sunt. n. plures et composite fm voces. Plures vero simplices – ut: “Canis latrat.” cit quide plures signatu, vocibus vero slimplex. Simil mo hoc: “AIACE pugnavit cum ETTORE.  Multin. fuere Aiaces. Hec quo opponit ad fam membrum. Sed huic obiicit expositor. Frimo, quia p defunitione: qua interponit vi distinguere inter oratione, 9  significat vni, & gelt voa coniunctione. Secuco, quia  supra dixit, gp est vnvm quoddam et non multa aial grefsibile BIPES: quod vero est coniunctione vnvm o est vnvm, et non multa, sed eit vnvm ex multis. Sed ifterones frivole sunt.  Prima qdem, ga non difigit inter vna, et coniunctione vna: sed inter vna simplice, g tubintellexit in primo membro, et vna coniuctione. Adicam dico upenes aliud  accipif vaitas enuntiationis et definitionis hic et ibi. Qía hic fumit vnitas a significatum multitudo etia. Ibi aliter  vdisimus. Terio dubitantois – “Homo vel equus currit” -- est vna fimplex, aut vna composita. Similt Plato athenielslapiés academic est in lycio LIZIO LYCIO r est vna simplex, vel  vna composita. Silr ois – “Homo lieft bos mugit, et Socrates et Plato disputant” sunt ne vna simplices ? an vna composi-tel Quiced velnt BOEZIO, Porphyrius, Ammonius: et ali. dico g glibet harum est vna simplex. Nã verbum  elt vnu, a quio lumit vnitas enuntiandi. Prima gdem vna  de subiecto disiuncto, iccúda una de subiecto composito.  Tertia vna de SUBIECTO CONDICIONATO. Quarta vero vna de subiecto copulato, et ita qualibet est vna simplex. Quantum vero ad verba attinet adiccit et no vnü quali dicat propositio sine enuntiatio est vna simplex,  de plures plures qua fignificane plura, et non vnum.  Q in vt Ammonius inquit, sunt enuntiationes plures de aliquo vniversali, vt aial g “Ressibile bipes est homo.” Potest enim resolvi hac in plures, sed quia continent sub aiali, sunt vna. Propterea ait. 8e no vaú pp tales enuntiationes. Aut dici potvt Porphyrius philosophus ait hoc esse di tú ad differentia enuntiation, qua fumüt definitione pro subieêto, aut pro pradicato. Na videntur multa significare: sed in re vera vnum significant.  Esenciatio fi  Nomen quidem igitur aut verbum didio sit solum. Cum non contingat utis, qui voce aliquid significet, fie dicat, ut cauntier: fue INTERROGANTE ALIQUO, sive non, sed ipse profert. Videtur o LIZIO inferat ve per particulam illariua defignar. Videtur vero gy dubitatione excludat, vé per  Icriem verborum haberi pot. Est.n.dubitatio talis, quia  dictum et enuntiationem esse nã ab vnitate significatus, sed nomen aut verbum vaú significat. Igitur enuntiatio vna erit nomen vnum, aut verbum vnum. Solvit de volt ‹pis, qui profert nomen aut verbum vnum,  vum dicit, et is etiam qui protert enuntiationem vna,  vuû dicitil ed non eodem modo. Nã dicens nomen vel verbum, dicit nú prolatite, et non enuntiative, at is qui  enuntiatione vá dicit, vnvm dicit enuntiatiue. quatenus enuntiat voú de vno, aut remouet vnú ab vno. Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbum dictio fitlo-  ในกระcu non contingat vtis qui VOCE aliquid signiticat  sic dicat vt enuntict, sed contingit ve sic dicat vt profe rat tifadiecit fue interrogante aliquo, fue non inter-  rogante aliquo,g qui aliquid nomine aut verbo fi-  gnificat poteft dicere vt enuntict aliquo interrogan-  te, vt fiquis petat quis hodie venenum bibit, & refpon deatur Socrates. Patet e is qui dixit Socrates: enuntia uit: 8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi autem nulla pretuisset interrogatio, dicens Socrates em, NON enuntia uit, sed protulit ditaxat. Igitur enuntiatio differtà verbo hue noie: gi enuntiationem SIGNIFICAT viium de vno enuntiative, live precedat, liue non precedat interrogatio. At nomen vel verbú pót enuntiare nú de vno solum precedente interrogatione. Propterca air cum non contingat vis qui voce aliquid SIGNIFICAT, sic di.  cat vt enuntict, line interrogate aliquo, fite nullo, hoc  est vt enuntict in omni casu. ham non nisi vbi prace-filet interrogatio, sed ipse ita dicit ve in omni casu PROFERAT nû. Er lie differt enuntiatio a verbo et nomine, Harum vero hee quidem est simplex enuntiatio, sclut que  Tutto imples, aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo enuntiat, illa vero ex his composita: acluti ca oratio quedam que (ane componitur. Ammonius vule vt LIZIO sub-dividat eas enuntiationes, quas dicimus aut INTERROGANTE aliquo, aut quas volumes dicere per nos ipsos. Sed hoc est repcte-reidem pluries: quod non conucnit LIZIO. Melius igitur divisionis pradicte membra exponit per exempla. Er inquit, harum vero hac quide est simplex enuntiiatio, velut per exempla ca, que aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo subaudi enuntiat. Hoc est ve affirmatio – “Socrates est academicus,” aut negation – ut: “Socrates non est timidus.” Illa vero cit qua ex his componitur, quod trifariam ft, vt Ammonius ait, videlicer, aut ex ambabus affirmationibus,aut ambabus negationibus, ved ex alter afirmatione, altra negatione. Cuius exemplum fabdit,  & cinquiti veluti es oratio quizdam, qua  fane componitur, fupple ex duabus affirmationibus – ut: “AIACE pugnavit et ULISSE fürit.” Ex duabos negationibus – ut: “Plato non est crudelis: et Socrates non est avarus.” Aut ex vna affirmatione, 8e altera negatione, vt: “PLATONE eit in lycio LYCIO LIZIO et Socrates non in academia.” Et ita per exempla paret divilso et membra divisionis.  Est autem simplex enuntiatio vox que SIGNIFICAT aliquid Iniciato quid  «/Je de aliquo, aut non esse, modo quo tempora distinguitur.  Alexander aphrodifius exponit LIZIO nunc  Cin 35-  definire simplicem enuntiationem, qua ait definifle species. Argumento,  enuntiatio no genus cit illari, sed veluti æquivocum quodda. Hac Aspalius ratione hac confirmat: quia eo modo hic LIZIO enuntiationem definit, quo primo priorum descripsit propositionem: ed illic sic propositionem descriplit, propositio est oratio affirmativa vel negativa alicuius de aliquo, aut alicuius ab aliquot igitur de timiliter enuntiationem describere debet. Obijcit autem Ammonius, vt fumit expositor, quia statim LIZIO definiens affirmationem et negationem ponit enuntiationem, et non vt differentia migitur vt genus. Et ita non æquivocum, sed genus erit illarum, et per consequens non definiendum per species. Porphyrius philosophus cum Alexandro volens LIZIO definire enuntiationem simplicem, ait non per species dehnifle, sed per virtutes affirmationis de negationis, efie enim &e non, elle non sunt pecies enuntiationis, sed virtutes affirmationis et negationis. Sed obijcit expositor, quoniam sicut in definitione generis non debent poni species. Ita neg; ea qua sunt propria specierum: MODO SIGNIFICARE esse, proprium est affirmationi, SIGNIFICARE non esse negationi. Igitur non debent poni in definitione generis. BOEZIO autem quafihac miscens vult LIZIO Espibe. lemfimul dividere enuntiationem simplicem, &e definire, vt intelligenti pateti& longis verbis exponit.  Sed hoc expositor refellit, quia si enuntiatio simul definiretur et divideretur, cum mon videatur definiri nifiatt per species, aut per virtutes specierum, necessario cum dicere oportebit vel vt Alexander, vel vt Porphyrius. Com Ammonio vero expositor sentit, &enos  quod; sentimus, videlicet, gi LIZIO enuntiatione simplicem in duas differentias dividit, vt inde definitiones pécicrum näcifcatur. Et inquiteft autem simplex enunrtiatio, lupple omnis, aur que SIGNIFICAT aliquid esse de aliquo, quod ad affirmationem atunet, aut que SIGNIFICAT aliquid non esse de aliquo, quod ad negatione nde ne intelligatur solum de prasenti tempore, sub-scribit modo quo tempora distinguuntur, quasi dicat;  etiam in aljs verbi temporibus.  Hac vero divisio vt  expositor sentit non est enuntiationis in species, sed in differentiaa specificas, non enim ait quod enuntiatio est affirmatio vel negatio, sed VOX SIGNIFICATIVA cius quod est esse, qua est dificrentia affirmationis specifica, vel eius quod est non esse, que tangitur differentia specifica negationis. Propter hac ex his differentiis subscribet specierum descriptiones.  Hac  est optima expositio. Verum illa Alexandri non est de-rifibilis? Propterea primo debes scire Alexandrum voluisse enuntiationem, non esse simpliciter æquivocum sed ANALOGVM, quasi analogia genus dicitur  analogum speciebus Septimo physica auscultationis.  Hac enim analogia perfecti ad imperfectum rationi generis non repugnat. Viterius animaduertendum enuntiationem posse bifariam definiti a prioris, et e sic in pracedentibns definit LIZIO nullas in eius definitione addendo species: aut a posteriori. Et hoc dupliciter vel per ea que intellectui competunt: et ita per species acceptas a vero e falso, superius descripsit, aut per ea que rebus conveniunt, et e ita describit hic icú di cit enuntiatio simplex VOX EST QUA SIGNIFICAT ALIQUID DE ALIQUO ESSE, VEL NON ESSE. Vox enim loco generis accipitur. SIGNIFICANS esse vel non esse loco differentir a posteriori accepta Et hac elt mens Alexandri: que mulcum confsnat littera. Tunc ad argumentum contra Alexandrum patet solutio. Non enim negat enuntiationem esse genus: sed ait esse analogum etiam.  Per hac patetrefponfio ad illud contra Porphyriú.  Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no quidé in definitione propter quid, sed in definitione quia: et a posteriori.  Similiter ad illud contra BOEZIO, simul.n. definit vt notat illud genus vox et dividit ve notat differentia accepta à virtutibus, hoc  De bypatbetis  est propriis specierum. Credunt forticola LIZIO-  củ.  lem per simplice intelligere categoricam, et per com  Prima pofiria.  ciatio sit cathegorica, vel bye  que in, gua a pluril categorias confans con.-  etetica.  sunctione vna eit: de quonia plures categorica, possunt coniungi pluribus modis, {queda enim per nota causa, vt quia Socrates bibit venenum, fuit fortis: Aliz  moritur, fepelitur. Et possunt etiam coniung: plures categorica innumeris fere modis; Ideo hypothetice secundum iltos funt fera innumera. Quare ois enuntiatio, qua expliribus conflatenutiationibus el hypothetica. Et sic inductio, exemplum, et enthymema: atgi syllogilmus: et caetera id genus cum sint enuntiationes coniunte per notam illationis, omnes sunt hypothetica. Alij ponun thypotheticarum, fex species sive modos -- vt conditionialem, copulatiua, disiunctiua. Tertia põ.  causalé, temporalem; demú et locale. Sorticole côiter aiunt TRES esse species vt: CO-ORDINANS: copulativam (p e q), disiunctivam (p o q) et SUB-ORDINANS: conditionalem: (si p, q). Nam cateras ad has reduci contendút. Theophrastus vero et Eudemus volunt hypotheticam oêm esse conditionalem et nullá alia nisi conditionalem. Huic BOEZIO assentit in primo Topicorum suorum vbi air CONDICIONALES PROPOSITIONES esse, quas graeci hypotheticas (SUPPOSITIO – suppositiva -- vocant. Amplius in libro de syllogismis hypotheticis ait CONDICIONALEM ENUNTIATIONE fortiri speciem et nomen ab hypothesi graece, latine CONDICIO sive SUPPOSITIO. R urfus LIZIO in libro priorum vult ex hypotheticis enuntiationibus costitui syllogismos hypotheticos. Constat autem per ipsum non nisi ex CONDICIONALIBVS. CONDICIONALIVM vero graci duas tradunt species altera eltquam continua vocat.  Velifol exoritur: dies est super nos. Altera est: qua disontinua nuncupant, ve: “vel tu es, vel tu non es.” Oua CONDICIONALIS discontinua appellatur, quia posita CONDICIONE ep non sis, sequitur te non esse, cumitag; nihil ponat inesse, CONDICIONALIS eriticum inter partes difun  Al formi que  Etio signetur discontinua appellatur. Haceit mês om  Riends,  nnium graecorum et BOEZIO) vbi gi. Qua ratione sit ve hypothetica 6t lpés enutiationis coniunta. Nec cathegorica dividit contra hypotheticam sive CONDICIONALEM sed potius cotra conjuntam. Consequenter videridá de pebus condiciona: De peba con discontinue. Et dicendum vt Ammonius e BOEZIO fen tiunt péspofie enumerari aut penes qualitaté cathegoricarum è quibus constat, aut penes forma, que habetur ex vi notz CONDICIONIS. Si penes qualitate partium: tunc sunt quatuor species. Prima ex categoricis AMBABVS AFFIRMATIVIS: vel – ut: “SI sol lucet, dies est.” Secunda ex ambabus negativis –vt: “SI non est animal, non est homo.” Tertia ex prima affirmativa, et secunda negativa – vt: “SI dies est, nox non est.” Quarta ex prima negativa et secunda afirmatiua -- vt: “SI dies non est, nox est  pecies colligantur ex nota CONDICIONIS/ {Ouonihac nota si potest trifariam fumi. aut pure CONDICIONALITER – vt: “SI habere homeri, suderé: Aut permissiva, vofiad me veneris, mille basia dabot aut illative – vt: “SI dies est, sol lucet harum trium tertia est in viu graecorum: et proprie CONDICIONALIS continua.  Consequenter quaramus penes quid atrenditur affirmatio vel negatio CONDICIONALIS continua. Respondent recentiores o nota CONDICIONIS est tanqui FORMA CONDICIONALIS: quoniam e forma qualitas profici fcif sicut è materia ipsa quantitastiure ea dicitur negativa, cuius CONDICIONIS nota negatur. Contra vero aftirmativa, cuius CONDICIONIS nota affirmatur. Qua ratione fievequalibetharum sit negatiua: non SI dies est,  sol lucet. Itemá; non dies est, SI sol lucet. Rurfus, dies est: non filo lucet. In his .n.oibus semper CONDICIONIS nota negatur. BOEZIO vero in de hypotheticis PiBu.  affirmatione vel negatione naciscitur ex qualitate consequentis. Vult enim CONDICIONALE esse negativus etiam si solum consequens negatur. Hac enim est negativa.  ficit. a. non el. s. Hac affirmativa. f nonel. A. c. s.  Hac positio persuaderi pot, qín vis tota hypothetica est in illatione consequentis. Hypothetica enim nihil po nit inesse, sed solum afferit illationem. Igitur negatio debet esse supra consequens, vbi vis illationis habetur. Sed dices quales crunt ha, non SI DIES EST, sol est or tus. et soleftortus SI DIES EST. Videtur mihi ep etia  Dulltitie.  ciulimodi sunt negativg gm in omnnibus ijs vis negationis [Contra BOEZIO] exercetur supra consequente ipso. Et pro tanto sunt negative pro quanto consequens negatur. Non per hoc quia CONDICIONIS nota negatur, sed quia consequens negatur lequi ex ANTE-CEDENTE. Quare apud BOEZIO potest CONDICIONALIS esse negativa trifariam, aut per CONDICIONIS negationem, aut per negationis prepositione: aut per negationem consequentis. Et de quantitate  agamus Sorticola tenent CONDICIONALE continua nullius esse quantitatis , gri quantitas est CONDICIO subiectei. Modo illa non est ex subiecto et pradicato, quare crit ois non quanta. Probabiliter teneri potest omnem  CONDICIONALEM continuam esse quanta Ex hoc a quantitate consequentis.Vocat coim LIZIO syllogilmorum hos vniversales, hos particulares. et hoc a quantitate conclusionis. Igitur cum CONDICIONALIS continua sit vt enthymema potest dici quanta ab cius consequentis quantitate. E tita hac vniversalis, cuius consequens est vniversale, illa particularis simili ratione. Hac quidem erit vniversalis, fi ois homo currit. ois homo mo-  roes feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule aliquam conditionalem effe veram, cuius an tecedens & confequens funt imposibilia: aliquã effe fallam, cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria. Etita renet conditionalem diuidi per verum & falfum.  Pro hac politione arguút recétiores, cotradictoria  diuidunt omnem enuntiatione fm verum et falium.  vt dicit LIZIO primo priorum: sed conditionalis continua habet contraditorium quia poteft negari et affirmari Igitur est vera vel falsa. Secundo cuiufli-bet côtraditorij altera pars eft vera et e altera falla. Hec funt contradictoria, SI dies est, sol lucet. Etnon SI dies est, sol lucet. Igitur altera vera et altera falla. Et e gdguid dicatur, equitur conditionalem esse veram ve lfalsam c  Confitatio.  Sed hac positio stare non potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit vel no eit, oratio dicitur vera aut falsa. Sed hypothetica nibil ponit in eile, aut in non esse. Igitur non poteft dici vera vel falsa.  Propria ph.  Propter hac videtur mihi faluo meliori iudicio quod nulla hypothetica debet dici vera vel falsa, sed bene necessaria vel contingens, quam quidam vocant bonam aut mala. Reêtius necessariam aut contingente, sive  impossibilem. Et hac est intentio Boeuj vbigi-  Tune ad rationes dico. Ad primum, e contradiêto  riu in hypotheticis non cadem ratione accipit veluti in  Simplicibus, na in simphcibus deltruit veritate vel falsitaté, hoc est id quod est in re, vel quod non est in re. In hypotheticis vero destruit necesitatem vel impolsibilitatem illationis. Etita contradicere est fere ÆQVI-voce. Tuncad formam dico, g› contraditoria dividunt verum et falsum in cathegoricis, in hypotheticis necessaria aut impossibile. Et hoc satis. Similiter ad secundam. contraditoriorü enim de necesitate alterum est verum, alterum falsum in cathegoricist in hypotheticis vero alterum necessarium, alterum impoisibile, vel  cotingens, hoc est non necessarium.  Et de conditionali discontinua agamus, quag; disjuntiva dicif. Et primo dicamus o qualibet pars disiunctiva potesse consequens, ve dicédo: “Tu es, vel tu non es.” Quamqua BOEZIO veatur vig; DVABVS disjuncttionis notis, ve “Vel tu es, vel tu non es.” Et hoc ve notetur nihil poni inesse, nec in prima nec in secunda [but cf. Grice on the metier of ‘or’ as providing pis aller answer to a scenario where alternates are equally topically apt and held to be liable to being truth.] Dico igitur o quelibet potest esse consequens. Nam: “Vel movetur VEL quiescit” -- pot habere consequens altera indifferenter, quia SI non movetur  De fimuis quiescit; et SI non quiescit, mouetur. Tunc dicendum  e disiunctiva solum est negativa vel affirmatiua per negationem propositam. Causa est, quia quicquid reneatur pro consequente, intelligetur negatum, quod non est  De quantite, ita in ipsa conditionali continua. Secundo dico aliqua est vniversalis, et aliqua particularis. Sed non à quititate alterius enuntiationis sed quoties amba sunt eiusdem quantitatis. Causa elst, quia quelibet pot elie  consequens, vigitur tenuetur quantitas consequentis,  Dabitatis. oportet ambas esse ciulde rationis  Sed dies velom.  ne.n. est: vel quoddam. a. esse quanta est ista. Dici potelt go hac est alcuius quantitatis in se, quonia ilius cuius quantitatis est ab ea cathegorica, que fumetur pro consequente: Actu vero est disiunctiva vniversalis, de disiunctiva Etiuz particularis. Nechae contradicunt. Pontenim vna  met disiunctiva esse vniversalis et particularis hac ratione, videlicet, disiunctiva vniuvríalis, et disiunctiva ctia particularis. De sariste.  De veritate vero et falsitate ita sentienda, veluti de conditionali continua. Cum.n. disiunctiva sit conditionalis, et conditionalis nihil ponat inesse, in re nulla erit vera, 8e nulla falsa, sed qualibet disiunctiva erit aut necessaria AVT impossibilis, sive possibilis SIVE contingens. Et de æquipollentijs negatiavrum dicamus. Et  quamquam recentiores mula dica, mihi videur, e negatio praposita toti coditionali AVT nota conditionis, AVT consequenti, facit æquipollere copulative coltitut ex antecedente conditionalis et opposito consequentis verbi causa, si homo est animal eft. Siquis praponens negationem dixerit non si homo cit animal est. Hanc VULT SIGNIFICARE: homo est et non est animal. Similiter hac, non si dies est, sol lucet, æquipollet huie, et e dies est: et sol non lucet. Huius causa est, ga conditio non ponit inesse, copulatio vero ponit, quare cum particula negativa neget conditionem, ponit copulationem, et cum neget consequens, vi est vis omnis, ponet etiam oppositum consequentis. Simil ratione: “non vel mouetur vel quiescit,” æquipollet copulativa conslitutz ex oppositis ambarum cathegoricari, videlicer, et non mouetur, et e non quiescit. Causa vero quare negatio preposite disiunctiva facit æquipollere vel ponit copulationem, ele quia copulatio ponit inesse. Verum ponit contradictorium ambarum partium, quia in discontinua qualibet pars potesse consequens, ideo cuiuslibet partis oppositum debet ponere. In continua vero eit consequens determinatem ideo ponit solum oppositum consequentis. Hac de liypotheticis ad mentem grecorum expositorim volui dixille. Nam ab LIZIO pauca habemus. Sorticola vero, cum studiorum fuorum finis sit ostentatio, non esse, muita dicunt in confusione veritatis, que pretereun da funticum in illis non sit felicitas, neqad falicitaté  praparent De enuntiationibus vero coniun Ctis grure  gula funt in numerg, non cit núc prefens per tractatio, verum si ocium dabitur, ad importunitates forticola-  rumatg: captiunculatorum interdum occurremus: ac  quid peripatetice ficientiendun circa corum captine  culas et cauillos exponemus.  Nunc vero de his lit di  Ctum intantum. Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra, intellectus, animo intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus activus, intellectus agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis, what is so ludicrious about dialectis?– Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”, Grice, “Dreaming” – Malcolm, “Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Nigidio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of Cicerone. He enjoys a great reputation for learning. However, he is on the wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare, and Cesare sends him into exile. He is particularly interested in Pythagoreanism and is a leading figure in its revival in Rome. He specialises in the mystical side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. Publio Nigidio Figulo. Grice e Figulo – Roma – Filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Publio Nigidio Figulo e una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina. Nella guerra civile, si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo vive in esilio. Nella vita politica Occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di cultura. Cicerone afferma che fa risorgere le credenze della setta di Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente era riapparso come Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di Cicerone su lui si limita al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che permise ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane, etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: "Commentarii grammatici," di almeno 29 libri; "De gestu" -- una monografia retorica."De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera simile di Varrone, che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche. E dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e astrologici; "De extis," si diffonde sull'arte augurale etrusca."Augurium privatum" in almeno 2 libri. È dubbia l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni.  Uno scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri.  Si cita di lui il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De hominum natura". È probabile abbia composto un "De terris" che sembra fosse un’opera di geografia astrologica.  La "Sphaera" di lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera graecanica (descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una "sphaera barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri popoli. Probabilmente conteneva predizioni astrologiche.  Le tendenze mistiche, religiose e superstiziose che dominano in lui dovevano conservarsi in tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo. Nigidio

 

Grice e Ninone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua causa -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. One of the leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. He claims that the Pythagoreans are elitist and anti-democratic. He also claims to have a knowledge of their secret teachings and published it in an essay. However, according to Giamblico, N. Knows nothing of what the sect teaches and his essay is ‘a work of pure invention.’

 

Grice e Nisio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia molisena -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bojano). Filosofo italiano. Samnium, Bojano, Campobasso, Molise. A pupil of Panezio. Nisio.

 

Grice e Nizolio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescello).   Filosofo italiano. Brescello, Reggio Emilia, Emilia Romagna. Grice: “I read Nizolio and it’s like reading myself!” – Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico Observationes in M. Tullium CICERONE, Brescia, il Thesaurus CICERONE, Venezia, Facciolati, e il lexicon CICERONE, Venezia, Facciolati. Ha una lunga polemica con MAIORAGIO per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata con la Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'antapologia e si conclude con i De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, Parma, scritto contro gli scholastici, che interessarono Leibniz al punto che questi li fa ristampare premettendogli il titolo Anti-barbarus Philosophicus, sive philosophia scholasticorum impugnata, con una prefazione ed una lettera a Thomasius sulla dottrina del LIZIO, Francofurti, Roma, Bocca. E chiamato da Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle critiche di Ramo alla logica dei lizii, anche per lui occorre sostituire all'astrattezza di quella logica un pensiero che sia concretamente legato al reale, e a questo scopo la strada maestra sta nel ritrovare i processi del pensiero direttamente nella struttura grammaticale dell’italiano. Individua cinque principi per fare della buona filosofia. Il primo principio generale della verità e della buona filosofia consiste nella conoscenza della lingua romana, in cui sono espressi quei saggi filosofici. Il secondo principio è la conoscenza di quei precetti che si trovano nella grammatica e nella retorica di CICERONE, sostituendo la grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o filosofia speculativa, dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di ricercare il vero, senza occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente delle cose trattate. Il terzo principio consiste nell’interpretare il filosofo antico come CATONE IL CENSORE, o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di comprendere il modo con il quale il popolo romano si esprime, essendoci verità in quella schiettezza – Grice: ‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto principio generale del vero è il libero, e la vera licenza delle opinioni e del giudizio su qualunque argomento, in contro ogni domma, come richiede il vero e il naturale. Non devono essere dunque CICERONE o ANTONINO  nostril maestri, ma i cinque sensi, l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e l'esperienza delle cose.  Il quinto principio afferma che, oltre a esporre ogni tesi con la chiarezza della lingua comune – l’italiano volgare, senza introdurre nel discorso oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous [sic], avoid unnecessary prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare problemi che non hanno realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di oggettività sono la idea platonica e la tesi del reale dell’universalie. Infatti, il reale è costituito soltanto da singoli individui e questi devono essere indagati non attraverso la loro natura propria e privata, ma attraverso la loro comune e continua successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia togliendo da una singola realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso fosse reale, ma comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale. L'universale è una vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione di ogni singolare di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza astrazione intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che comprende il singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con un'operazione dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai passare dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire alla dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in rilievo i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica efficace e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, Testi umanistici su la retorica; Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano, Bocca  N. in CICERONE observationes Caelii Secundi Curionis labore et industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae. Ejusdem libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam CICERONE consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus et auctus; Dizionario biografico degl’italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano, Cosmo, Battistella, umanista e filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento scientifico moderno, Como, Meroni, Rossi,  La celebrazione della rettorica e la polemica anti-metafisica del De Principiis in La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Banfi, Milano, Bocca; Fink, Logica aristotelica Universale Idea. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Calogero, Dizionario di filosofia. Grice: “I was slightly disappointed when I got hold of Nizolio’s overadvertised masterpiece, the “Lexicon Ciceronianum;” while Urmson liked it, I found it more to be a common-or-garden dictionary. I did not care for philosophical concepts, seeing that he starts wih “A”, ‘the first letter of the alphabet,’ as N. defines it. So, I went straight to the third tome – heavy as they are, and reprinted in London for use at public schools –‘adolescens’ – to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As for his advice as to deal with the longitudinal unity of philosophy and his rhetorical, ‘Plato is my friend but a better friend is truth,’ I can’t believe it coming from one who dedicated his life to TRACE every little ‘idiom’ (slogans as the London edition has it) uttered by Cicero! While I would expect praise against the barbarian scholastic from Roger Bacon, it sounds hypocritical coming from Leibniz. By N.’s standard, Leibniz was a barbarian his self. The scholastics actually saved the books from the flames of the Longobards and the Eastern Goths (earlier on) Roma, Contr. RuJ. Romain montibus posita, et convalUbus, ccenacolis sublata atque suspensa. de Div. Certahant, Urbem  Romam  Uemamne  vocdrent, Post  led. in  Sen. Roma arx omnium terrarum. De Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu constituta. de Onu. Roma domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum imperii et gloris. Roma luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div. Bmoul sexennioj post Veios captos a GaUis capta. Rome et reges augnres, et postea privati eodem sacerdotio prsediti, lem pub. Regionum autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate libertas, tam infinita hominum centia. Redu Romam Fonteu cansa. Idns Qu. de Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam conditam 01 vmpiadis sestss anno tertio. Romani. Pro Leg.Man. Romani præter ctiteras gentes laudis et gloriæ avidi. Romani cives facti siculi lege Antoni L. Fara. Romani veteres atque urbau sales. Tus. Romani serius quam GffKci poeticam acceperant Di.  Romaia nihU in bello sineextis agebant nihU d<»B& sine auspiciis. Off. Romani toscoianos, equos, volscos, sabinos, Hemicos, victoria parta non modo conservarunt, sed etiaro in ciritatem acceperant Pro Mur. Romani tempora voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc. Tus. Romani omnia aut invenerant per se sapientius, quam Greciaut accepta ab illis fcicerant meliora. Div. Romani omnibut rebus agendis, quod bonnm, faustum, felix, fortunamque esset prefabantur. Pro Cnc. Romani eos vendere solebant, qui mUites facti non essent de Ora. Romani minos qoam liitm Utteris studebant Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis Carthagienses vicerant Aoad. Romanorum antiqua juris jurandi formulaet consuetudo. de Or. Romanoram ingenia raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium prsstiterunt Snavitassemkonis Atticoram et Romanomm propiia. Tosc. Apod priscos Romanos morem honc epolaram fiijsseantor est Cato in Originibus, ut deincepi, qui aocobaient, canerent ad tibiam virorom daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. de Nat Romana  RO JaiioteIbBoa«t, <f«aUs8oif2li« $.S.Fo paU RoaiaBi ovnk religio in ftcrt etin anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn defendenda ropnb.sed Sn pUndendo cooso Bieie. Bum non nodo Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam tolerabile. Fam. Bomaoo nsoae oommendare. Romano more feqni. de Orat et Ver. Romani ladL Att. Nu Bc Romanas res aedpe. Romilla, iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se initiam esse £se-tnram. I, Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem condidit, ad deos immortales benerolentia famaqae sastulimas. de L.Roawhis post exoessum suum dixit Proculo Jolio, se deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae sibi dedicari ia eo loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac lacttntem, uberibos lopiais inhiantem fuisse meministis. OfF. Peccavit igitar, paoe vel Qoirini toI Bomali  du Eerim. de D. Romuhis  puldier. Ih, Romulus urbm auspicato oodidit Roamlus non solom aospieato Romam condidit, sed etiam optimos augur feit de N. Romnlos auspicBs, Numa sacris constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii. Off. Romulus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S. Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et Remus ambo augures fberant Roorali  stataa  decoelo taeta. Som. Ronmlo moriente deficere sd  bommibas  eatingaiqao visus est. Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva, adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia, nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra pseudophilosophos. De nominibus propriis et appellativis, tam cole&li vis quam simplicibus non cola Letivis, ac decorum proprietatibus et diferentis, contra philosophastros. s. Deus) 0 (sem (falsis. De denominativis reliquis capitibus Ante predicamentora, vel supervalaneis vel. Universalia realia etiam five raese concedantur, tamen non fuisse facienda quin. Que numeross ed velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura quam quinque hoc est, septem veloflo, adiecto communi, simils, contrario, arque substantia. De nominibus substantivis et adiectivis. De eorum proprietatibus ac diferentis, contra pseudo-philosophos. De generaliomnium rerum divisione oratoria pera et deila pseudo-philosophorum falsa, simul quede voce universi anni versalis et in summa de falsirate universaslium realium ut vocant. Universalia realia nec propter scientias artes quetradendas, nec propter syllogismos eocateras argumentations formandas, nec propler predications superiorum de inferioribus faciendas necessario ese ponenda contra pseudo-philosophos. Universalia realta vere in rerum naturaese non posse. Co propter canone c, uirea Etiffime dicunt nominales. Cintra sultam illam realium opinionem de universalibus realibus, quorum rationes omnes plusquam in aneslabefaltaneur. Um suffi.ientia, quam vocant. De toris, et corum divisionibus, compositionibus quepere, contra falsissimam dialecticorum de his omnibus doctrinam. De vere philosophico e oratorio genere et de vera eius definitione. Contra falsum genus dialecticum et falsam cius definitionem. De vera specie oratoria et vera ejus definitione, contra falsam speciem dialecticam et falsam illius definitionem. De vera diferentia et vero proprio philosophicis oratoriis do simulde eisdem adversariorum vel falfsis vel inutilibus. De accidente vero quid esmedin constanter definite et simul pauca quadam de falsis universalibus, eorum vanis questionibus in universum. De preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris et dialecticis falis. De homonymis et synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus eoru mufus, contra stultaila aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo unum et summum et verum á generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum sex autem s a transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia LIZIO et tria VALLA (si veda) falsa. Quam ob levem causam LIZIO CATEGORIAS fore predicamenta decem ponenda existima verii et quam non re et tetria tantum Vallusta rucrit, simul quo pacto nosar borem generica ma Porphyri analonge diversam, faciendam arbitramur. GENUS rerum vere in duas rantum species divide in substantias et qualitates, omnia alia accidentium dialecticorum pradicamenta sub qualitate generalitan quamo verascius specie spere contineri. Simul de falsa universali. De o sem. De qualitate generali et omnibus e iustam comparata quam absoluta speciebus, praferrimquede qualitate speciali, quantum different a speciebus accidentium dialectic corum et singularim quærario de causa diversitatis. De nominibus scientia arris quid APUD LATINOS communite rad proprie significe ne, u quormo dis virum que corum accipiatur et denique; quibus differentis attes elit entia mnter sed iftinguantur, contra falsas scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generali scientiarum do atrium divisione nostrar era, et pseudo-philosophorum. De errales LIZIO in generali philosophia divisione admflis. Dialectica minter scientias ariesnecut universalem nec ut particularem ul lum omni nolo cum habere pose sed tanquam non modo falsams ed etiam in utslem de sua pervacuam ex omni arti nm do scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias Cartesnecut universalem nec ut parricularem ul lumomn inolo, um habere pose, sed tanquam partim falsam, parlim inutlim, partim super vacuam ab omni artium scientiarum numero removendam. De comprehensione universo rufm singularium vere philosophica de oratoria et simul de abstractınoe universalium pseudo-philodophia et BARBARA contrafallam LIZIO doctrinam falso de ceniis, abstrahentiam non efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem, grammaticam sub se primo, deinde reliqua somnesarl es screntias vere continentem, ium partese jus majores breviter ex ponuntur omnes, o cidem, qua a pseudo-philosophis unique fuerunt ablatare stituuntur. De sophisticis elenchis ab LIZIO in rhetoricam non recte introductis et delio bro sophisticorum elenchorum quid senciendum, Que et quot fintea, quarequiruntur cascientise artibus, ex quibu spendetac fitomnis eorum dividio definition o distinctio, contra falfam de eisdem rebus Pseudo-philosophorum doctrinam. De utilibus et veris argumentis de que utili vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum modo, conira partim sulum purtom inutilem ipsorum doctrinam ab LIZIO traduam in libro Topicorum. De definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum veris. Pseudo-philosophorum falsis, condealis, queab LIZIO falso vel inutiliter in libro Sepienpenveids traduntur. Dentilibus et veris argumeniationibus, de queutilido vero carum usu, contrainu tolemdo vana LIZIO decudem rebus doctrinam traditam in libris analyticorum. De falsa demonstratione et falsa scientia et falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili falsoque posteriorum analyticorum libro. De vanitate eorum, qua a recentioribus dialedicis appellantur parva logicalia. Libros qus hodie sub LIZIO nomine leguntur plerosque non vere essesri Roselicos, sed subdititios con adulterinos, contra communem pseudo-philosophorum opinionem. De ACCADEMIA, LIZIO, Galeno, Porfirio. Deomnibus LIZIO interpretibus Græcis et LATINIS: reviter quid sentiendum rectte philosophaturis. De ratione philosophandi o de corrigendis instaurandisque; Philosophia studis, qua nunc maxima exparte perveriæ corruptsaunt. N. stammt aus Brescello in Reggio d’Emilia. Als Geburtsjahrà wird allgemein und als Todesjahr angegeben. Indes ist diese Berechnung nach der Untersuchung Batistellas auf Grund inschriftlicher Argumentation um ein Dezennium zu spät angesetzt. Demzufolge lebte N. Ueber seine ersten Lebensjahre und Studien ist nichts bekannt. Finden wir ihn am Hofe des Grafen Gambarra, eines eifrigen Beschützers und Pflegers der Wissenschaften. Ihm widmete auch N. seine erste, abgefasste Schrift, die Observationes in CICERONE. Nachdem er eine lange Zeit als Hauslehrer  in der gräflichen Familie tätig gewesen,  kam er als professor in Parma. Wurde er, bereits, als Leiter an die von dem Herzog Vespasiano Gonzaga neuerrichtete Universität zu Sabbioneta berufen. N. war damals ein weithin berühmter Gelehrter: un vecchio consumato negli studi dell’eloquenza e della filosofia, chiaro per molte opere, vittorioso nelle concertazioni letterarie e per lungo usu di leggere sulle cattedre delle città più cospicue praticissimo, di cui la memoria nei fasti dell’italica letteratura, non perirà giammai. Altersschwäche und ein sich immer mehr verschlimmerndes Augenleiden hemmten den Greis gewaltig in dem schweren Berufe, den er auf sich geladen hatte. Schon ereilte ihn der Tod, ob zu  Sabbioneta, oder in seiner Heimat Brescello, lässt sich nicht bestimmen. Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub N. Suppl.,  der sehr ungenau ist. Ausführl. biographische Notizen bringt Batistella: N. Batist. Bat.  Bat. Die Tätigkeit des N. erstreckte sich zunächst nur auf das Gebiet der klassischen Sprachen. Er beschäftigte sich mit der Interpretation  griechischer und lateinischer Autoren, vor allem des CICERONE. Mit rastlosem Fleiss verband er einen kritischen und vor allem natürlichen Sinn. Aus dem letzterem Umstand erklärt sich auch wohl der realistische Standpunkt, den er in philosophischer Hinsicht verfocht. Zu eigentlich philosophischen Spekulationen kam N. erst spät und zwar durch einen mehr äusseren Umstand. Während seines Aufenhaltes zu Parma geriet er in einenheftigen Streit mit MAJORAGIO (si veda), professor der Eloquenz in Mailand. Es handelte sich in der Hauptsache um zwei Fragen: Lateinischer Stil und Philosophie, CICERONE und il LIZIO. Majoragio war wie N.  ein grosser Verehrer CICERONE, jedoch zog er der eklektischen Philosophie desselben die reine Lehre des LIZIO vor und vertrat die Ansicht, dass man die Philosophie CICERONE  mit der des LIZIO  in Einklang bringen  könne. N. dagegen strebte dahin,  den LIZIO  für immer zu verbannen, indem er mit Ueberzeugung den Standpunkt von der falschen und unnützlichen Doktrin LIZIO vertrat. Diesem Streit, der auf beiden Seitem unerbittlich und unwürdig geführt wurde, machte schliesslich der Tod MAJORAGIO ein Ende. Bat. Le opere ei giudizi dei eritici. Bat. Bat. La polemica con MAJORAGIO vergl. femer Gerh. Phil. und N. in seiner Vorrede zum anti-barbarus, ad Lectores contra MAJORAGIO. Bat. Bat N. soll in Jahren nicht recht haben schlafen können!  (Jöcher  a.  a,  0.) non solum calamo et chartis venenatisimis, sed etiam putrido et fœtenti illo ore suo contra vitam et mores nostros usque in hunc diem deblateravit et deblaterat, N. ad lectores in De veris  principiis, ipse MAJORAGIO  qui licet, de magnis et obscuris philosophiæ rebus loqui conetur,  tarnen vere est acocfoc, et tantum seit de philosophia quantum asinus de musica, Vorrede. MAJORAGIO hatte auf die Angriffe des N. eine apologia erscheinen lassen, die N. mit einer anti-apologia erwiderte. Es folgte nun seitens MAJORAGIO reprehensionum  libri contra N.,  worauf  N.  mit seinem anti-barbarus philosophicus antwortete. Seine AngriflFe fasste N. dann noch einmal zusammen in seiner Schrift:  De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos In der Hauptsache war N. mehr gelehrter Humanist als philosophischer Denker oder Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer für die Beförderung der klassischen  Latinität veranlasste ihn zur Abfassung einer Reihe von Werken, die uns ein Bild geben von seiner bewunderungewürdigen Arbeitskraft. Nur die wichtigsten seien genannt. Als sein Hauptwerk ist wohl anzusehen ein Thesaurus sive latinæ linguæ Lexicon, das, wie auch die meisten der anderen Werke, zahlreiche Neuauflagen erlebte. Das genannte Werk war bereits unter dem Titel Observationes in CICERONE,  dann als Apparatus latinæ locutionis und endlich als Thesaurus CICERONE  in Venedig, und erweitert von Zanchi gedruckt wonien, erschien es zu Frankfurt und zu Padua mit beigedruckten CICERONE  Phrasen, die nicht von N. stammen. Ausserdem verfasste er die bereits erwähnte antiapologia pro CICERONE et Oratoribus contra MAJORAGIO Ciceromastigen, ferner Defensiones locorum aliquot CICERONE contra disquisitione Calcagnini,Venedig, und übersetzte aus dem Griechischen ins Lateinische Galeni explanatio obsoletarum vocum Hippocratis. Fällt  die Herausgabe des Werkes, welches das vollständige philosophische System des N. enthält und mit vollem Titel lautet: De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, in quibus statuuntur ferme omnia vera verarum ar- Bat. Bat. tium et scientiarura principia, refutatis et rejectis prope Omnibus Dialecticorum et Metaphysicorura principiis falsis, et præterea refutantur fere omnes MAJORAGIO objectationes contra eundem N. usque in hanc diem editæ. Parma apud Viottum, Schon die Titel der Werke beweisen, dass die Tätigkeit des N.  eine mehr philologische als philosophische gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft hat er daher auch stets warme Anerkennung gefunden.  Cælius Secundus, ein späterer Herausgeber seiner Observationes, nennt ihn im proœmium einen gelehrten Mann, der sich unstreitiges Verdienst um die lateinische Sprache erworben. N.  quasi Deus aliquis linguæ latinæ tanquam universitatem quandam fabricatus est, quam postea hominibus non solum ntendam, verum etiam excolendam tradidit Aehnlich äussert sich Simon Grynacus in der Vorrede zum Thesaurus CICERONE des N. Videtur hie vir in hoc uuo opere, postquam delectum latinæ dictionis, ne promiscue hauriremus, puritatemve linguæ confunderemus, optimum egit, simul et viam loquendi certam post hac et expeditam monstrasse et vim ac copiam sermonis Latii totius omnem effudisse et CICERONE libros nunc deum legendos omnibus exhibuisse. Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt das Lob des italienischen Humanisten begeistert in dem Ruhmespoem N. quem thesaurum congessit in unum, ex latiæ linguæ fönte, labore gravi: Tro)anas longe gazas superare memento, jjFortunas Crassi, divitiasque Midæ. Für die Philosophie ist N. hauptsächlich von Bedeutung, weil er der einzige Grammatiker ist, der Schule gemacht hat in der Philosophie und ferner als erster unter den filosofi razionali in Italien ausführhch gehandelt hat Ton  der Dottrina metodica. Um indes den Philosophen N. ganz nach Verdienst würdigen zu können, muss man die Zeit, in der er lebte, in Rechnung ziehen. G.  Bat. Daselbst auch die übrigen kleineren Schriften. Siehe Bat Die Renaissance ist in philosophischer Hinsicht charakterisiert durch die grosse Armut selbständiger philosophischer Spekulation und durch vorläufiges Fortwuchern der scholastischen Philosophie. Daneben kommen als positive Momente einerseits die Erneuerung antiker Systeme, vor allem ein von den humanistischen Philologen in engster Anlehnung an CICERONE gezüchteter Eklekticismus, andererseits eine mit der letzten Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Behandlung der Philosophie, speziell der Logik in Betracht. Die neologischen Humanisten mussten den Schriften CICERONE  wegen der Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber dem entstellten und verwilderten LIZIO der spätscholastischen Philosophie mit ihrer dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den Vorzug geben. Daher sehen wir alle Philosophen der Renaissance in dem Streben, durch Beseitigung der sinnlosen Auswüchse den reinen und ursprünglichen LIZIO für den literarischen Betrieb der Logik wiederherzustellen und schliesslich die logische Disziplin zu einer rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt der Scholastik LIZIO derp hilosophus xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder strittigen Sache, so bekämpfen die Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben,vor  allem die Ausschliesslichkeit, mit welcher man überhaupt nur  dem LIZIO,  den man noch dazu in entstellter Form in Händen habe, Wert beilege.  Als Massstab  und  Norm will man vielmehr den eigenen gesunden Menschen-verstand und die fünf Sinne gelten lassen. Und in diesem Gesichtspunkte haben wir die Brücke zu der sensualistisch-nominalistischen Tendenz, die gleichfalls mehr oder weniger die Philosophen der Renaissance insgesamt beherrscht. Neben dem Italiener N. kommen hier als bedeutende Vertreter der Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer VALLA (si veda), und Agricola. N.  bringt die Bestrebungen seiner Vorgänger zu einem gewissen systematischen Abschluss, sich grösstenteils an sie anschliessend, vielfach dieselben aber auch kritisierend. Von seinen Werken mass er selbst dem anti-barbarus Philosophicus die Hauptbedeutung zu, da er in ihm eine Reformatio Philosophiæ bewirkt zu haben meinte. Aber dennoch erntete er gerade durch seinen Index CICERONE seine Berühmtheit, während seine Philosophie schon beim Entstehen kaum dem Ersticken entging. Philosophia  N.  prope in ipso partu suffocationem aegre  effugit. Das Geschick des in tenui labor, at tenuis non gloria bei  N. begründet Leibniz durch den Umstand, dass N.   in  Italien  schrieb,  wo damals LIZIO und die Scholastiker in allzu tyrannischer Weise herrschten. Leibniz ist der Ansicht, dass nunmehr seine Zeit, wo man wenigstens zugebe, dass auch ein LIZIO irren könne, auch den Verdiensten eines N. gerecht werden könne. Welche  Wertschätzung  Leibniz  selbst  dem  italienischen  Philosophen  entgegenbrachte,  beweisen  ausser  der von ihm besorgten zweimaligen Herausgabe des anti-barbarus die zahlreichen Anmerkungen, dieer in den Text hineinsetzte, sowie die Abhandlungen, die er im Anschluss an die Edition des N.  Werkes  erscheinen  liess. Unter ihnen ist die ausführlichste und wichtigste die sogenannte Dissertation über den philosophischen Stil, Dissertatio  Præliminaris de alienorum operum editione, de philosophica dictione, de lapsibus N.,  wie Leibniz sie betitelt. Er schickte dieselbe nebst einer Widmung an den Baron von Boineburg, ausserdem einen Brief an Thomasius über die Versöhnung des LIZIO mit der neuen Philosophie De LIZIO recentioribus reconciliabili, sowie Exzerpte aus Briefen des Thomasius ad Editorem, Leibniz, der eigentlichen Abhandlung des N. voraus. G. Q. vel hoc saltem in confesso est, LIZIO errare posse. Renhissanoe and Philosophie. Leibniz'  üebereinstiramung  mit N. Die  philosophische Diktion. Gerade die Schrift des N. musste Leibniz besonders anziehen; war doch desselben Massstab in der Beurteilung und Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres Leibniz so durchaus ähnlich. Auch N.  knüpfte an die  Scholastik, die Alten, vor  allem  LIZIO, an, übernahm das viele Gute, das sich bei ihnen fand und besserte und reinigte, wo es ihm gut und notwendig schien. In dieser Behandlungsweise fremder Autoren sieht Leibniz ein Hauptverdienst des N.; er hält ihn daher den Philosophen seiner Zeit entgegen, die nur darauf bedacht seien,  sich ausschliesslich mit ihren eigenen Gedanken-erfindungen zu befassen. Ein gleiches Mass von Uebereinstimmung mit N. bekundet Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr Verurteilung der Scholastik. Mit Recht musste seiner Ansicht nach N. nach dem Studium des stofflich vielseitigen und stilistisch glänzenden CICERONE die scholastische Behandlungsweise, die mit ihren Finsternissen und ihrem geringen Gehalt an Nützlichem irgendwelcher Art jeglicher elegantia entbehrte, verachten. Zwar sucht Leibniz, die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre Fehler und Schwächen zu entschuldigen mit den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen. Welchen Wert er aber im Innersten seines Herzens der Scholastik beimisst, beweisen die zornigen Vorwürfe, die er denen macht, die noch jetzt, nachdem die Früchte gefunden, lieber die Eicheln essenwoll en und mehr sich versündigen durch ihren Eigensinn als durch Unwissenheit. Ihnen Gerh. Ritter G. vgl. auch G. hält er entgegen den unvergleichlichen Verulamius und die übrigen ausgezeichneten Männer unter den Neueren,  die die Philosophie ex æreis divagationibus aut etiam spatio imaginario ad terram hanc nostram et usum vitae revocaverunt. Im Zeitalter der Erneuerung der Wissenschaften,  so behauptet  Leibniz, hat es viele Gelehrte gegeben,  die gegen die barbarische Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde zogen, aber es war bei ihnen mehr ein Carpere als ein Emendare. Die einen jammerten, andere mahnten und gaben Ratschläge, wieder andere donnerten gegendie scholastischen Philosophen und nannten sich im Gegensatz zu ihnen Reales, aber sie unterliessen es, die Sache selbst in die Hand zu nehmen. Da sei es nun N. gewesen, der mit Eifer und Fleiss und, wenn man ihn läse, mit solcher efficacia wie kein anderer Schriftsteller sich wirklich damit befasst habe, den Boden der Philosophie von jenen spinæ verborum von Grund aus zu säubern. Er verdiene es daher als exemplum dictionis philosophicæ reformatæ und zwar, soweit es für die Logik, das vestibulum philosophiæ, gelte, angesehen zu werden. Leibniz knüpfthieran den Wunsch, dass in seiner an Talenten so reichen Zeit sich Männer finden möchten,  das Werk  des  N. für  die  übrigen Teile der Philosophie fortzusetzen. Er selbst würde,  wie er hinzufügt, sich dieser Aufgabe unterziehen, wenn er sich nicht teils durch andere Studien daran verhindert sähe, teils aber fürchten müsse, anderen, die dieselbe Sache besser leisten möchten, vorzugreifen. Diese Einwendungen halten ihn jedoch nicht ab, auf die N. Erörterungen wenigstens im allgemeinen einzugehen und ihnen Neues hinzuzufügen. Rühmend hebt G. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur Scholastik siehe: Jasper, Leibniz und die Scholastik, Leipzig, ferner Rintelen Leibnizens Beziehungren zur Scholastik, München, besonders G. Leibniz hervor, wie N. überall nicht nur fordere, sondern auch selbst in Anwendung bringe eine dicendi ratio naturalis et propria, simplex et perspicua, et ab omni detorsione et fuco libera, et facilis et popularis et e media sumta, et congrua rebus, et luce sua juvans potius memoriam quam Judicium inani acumine confundens. N. stellt fünf allgemeine Prinzipien des rechten Philosophierens auf, die aber, wie Leibniz bemerkt, mehr auf  die Rede als auf das Denken Bezug nehmen. Als erste Bedingung fordert er die Kenntnis des Griechischenund des Lateinischen, als zweites das Vertrautsein mit den Vorschriften und Lehren, die sich bei den Grammatikern und Rhetoren finden,  ferner drittens eine umfassende und andauernde Lektüre der besten griechischen und lateinischen Autoren und die Kenntnis des allgemeinen Sprachgebrauchs  sowohl, soweit es die obigen betriflft, als auch des Volkes,  das nach Horaz die Gewalt und Bestimmung hat  über die Norm der Redeweise. Ein viertes Prinzip ist die Freiheit und wahre Willkür im Denken und Urteilen über alle Dinge. Jeder, der richtig philosophieren will, darf keiner bestimmten philosophischen Sekte anhängen, sondern  soll vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen, seiner Intelligenz und der Erfahrung als seinen alleinigen Lehrern undAutoritäten folgen. Endlich fordert  N. als letzte und fünfte Bedingung, dass man nicht abweiche von der gewöhnlichen und bei allen  G.  N.  C.  Siehe  auch N. nemini fas est, ut Græci dieunt, ovofAaxoTto-.sIv, hoc est, nova nomina tingere, nisi populo Atque ideo dialectici non recte faciunt sed maximum committunt vitium, qui primum impudenter et barbare nominant res a se non inventas et ab aliis ante nominatas, ut exempli gratia, quæ grammatici et oratores jam inde a principio vocaverunt nomina, verba, adjectiva, substantiva, supposita, apposita, propositiones, assumptiones et plurima alia huiusmodi, ipsi prætermissis et rejectis penitus nominibus antiquis et rectis. appellant terminos, copulas, concreta, abstracta, subjecta, prædicata, maiores, minores et alia id genus sexcenta. Gelehrten üblichen Redeweise, nicht za kurz oder dunkel schreibe oder lese, keine quæstiones inconsistentes, nichts Paradoxes oder Ungebräuchliches oder Neues in die Philosophie einführe, falls letzteres nicht unbedingt nötig ist. Besonderen Nachdruck legt N. darauf,  dass ja nicht die mos scribendi et loquendi a populi ac vulgarium lo-  [N. allem den dialektischen, und metaphysischen und wo immer er handele von seinen mehr als monströsen genera, species, secundæ substantiæ, universalia realia, abstractio, demonstratio u. s. w., verdiene er den höchsten Tadel. In summa behauptet er von LIZIO: ubi bene dicit nihil melius, ubi male nihil peius posse excogitari) Auch diese Ansicht des N. teilt  Leibniz  durchaus nicht. Er behauptet im Gegenteil, dass er fest überzeugt sei von der genuitas operum LIZIO, was auch sagen mögen N., PICO (si veda), Petrus, Ramus u. a. Die Gründe, die N. angibt, sind ihm nicht durchschlagend. CICERONE,  auf  den  sich  Nizolius  in  erster  Linie  als  Gewährsmann  stütze,  könne  nicht  als  solcher  gelten. Denn es sei nichverwunderlich, dass ein Mann wie CICERONE als Politiker und Vielbeschäftigter -- infinitis  curis  obrutus -- die Gedanken gerade der feinsinnigsten Philosophen (subtilissimi cuiusdam Philosophi) flüchtig gelesen und daher nicht genügend verstanden habe CICERONE  (hie) duo dicit, primum communem esse sententiam quod sint LIZIO, deinde non negat esse LIZIO,  sed saltem conicit,  posse fortasse esse filii. Hæc vero a possibili coniectura communi illorum quoque temporum sententiae nihil præjudicare debet. Ihm, Leibniz, selbst ist die Echtheit der Schriften LIZIO  vollständig verbürgt durch jene perfecta  hypothesium inter se Harmonia et aequalis ubique methodus velocissiraæ subtilitatis. In seinem Briefe an Thomasius') De LIZIO recentioribus  reconciliabili schreibt  Leibniz: Quæ LIZIO de materia, forma, privatione, natura, loco infinito tempore, motu, ratiocinatur, pleraque certa et demonstrata sunt,  hoc uno fere demto, quæ de impossibilitate vacui et motus in vacuo  asserit. De cetero reliqua pleraque LIZIO Disputata nemo fere sanus in dubium vocabit. N. Adnotatio. Q. Nizzoli. Mario Alberto Nizolio. Nizolio. Keywords: Cicerone, lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s ‘anti-barbaro’. – Refs.: Luigi Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus ciceronianus” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Noce: l’implicatura conversazionale – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Pistoia, Toscana. Grice: “Only in Italy, philosophy and history are so connected; it would be as if we at Oxford after the war would be only concerned with understanding Churchill!” Grice: “For us, to do linguistic philosophy was to get away from post-tramautic stress disorder acquired during what Winthrop stupidly called the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s not difficult to understand why Noce’s notes on Gentile were only published posthumously!” -- essential Italian philosopher. «Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.»  (Risposte alla scristianità, da Il Sabato). Ttitolare della cattedra di "Storia delle dottrine politiche" all'Università La Sapienza di Roma.  Studioso del razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel, Marx), analizzò le radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità, ricostruendo con cura le contraddizioni interne dell'immanentismo.  Argomentò l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di pensiero che propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina cristiana (affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne tenacemente, per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e comunisti e previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del fascismo, sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il comunismo e fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità. Sostenne, inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il pensiero dei sessantottini.  Filosofo della politica, preconizzò la crisi del socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di verità e di moralità.  Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi, Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì), mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain, che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di conciliazione di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve tempo affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un istituto superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna all'insegnamento un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi periodici, tra cui Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare Dossetti.  Scrive e pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che ripubblicherà vent'anni dopo nella sua opera maggiore (Il problema dell'ateismo) e nel quale fissa i termini complessivi della sua interpretazione del marxismo. Nello stesso anno cura l'edizione italiana di Concupiscentia irresistibilis di Šestov. Inizia la collaborazione alla Enciclopedia filosofica del Centro Studi Filosofici di Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato a Bologna presso il centro di documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel capoluogo emiliano frequenta Matteucci e collabora stabilmente al neonato periodico «Il Mulino». Scrive su Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e altri alcuni saggi, uno dei quali, «Idee per l'interpretazione del fascismo», sarà all'origine delle future revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa al convegno organizzato dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure con una relazione intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella presente situazione italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un rapporto difficile con il partito cattolico (altri interventi nei convegni di San Pellegrino e di Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non ottiene il posto. Pubblica Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma cattolica e filosofia moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con una relazione intitolata Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero l'autocritica dell'ateismo negativo in Rensi, nella quale espone la sua fondamentale fenomenologia del pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso anno vince il concorso per una cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea a Trieste, dove divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca della secolarizzazione, che raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni sessanta. Si realizza il tanto atteso trasferimento a Roma, dove, all'Università "La Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine politiche e poi dal Filosofia della politica.  Si infittisce la sua collaborazione a riviste e periodici, sui quali interviene anche riguardo all'attualità politica e culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura moderna», dell'editore torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al pubblico italiano autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin. Partecipa vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni settanta inizia il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione partecipando a convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il saggio Il suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione del marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di Rodano (che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini. Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce “Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta, diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla Scolastica.  La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è -come evidenzia appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come «necessità» bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e necessario sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da qualsiasi riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro way of life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico («notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier.  Posta questa propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con la Natura impersonale e senza ordine.  In realtà però Cartesio, nel suo sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le idee dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio, quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione dell'idea se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha come punto centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico all'idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non contro Sant'Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire necessariamente la «perfezione» dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni perfezione, cioè dall'idea di Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei, già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge inoltre che proprio Cartesio, fiero avversario del libertinismo dilagante nel suo tempo, fu colui che tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico nella sua forma razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato appunto un libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi sulla persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva davvero credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il Cristianesimo, rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo un ostacolo per lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga presenta la definizione kantiana di illuminismo).  Da Cartesio in poi sono comunque due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo laicizzato che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli nota, infine, che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta cercare quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel Novecento avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi complementari allo scientismo per una completa e non riduttiva visione del mondo senza Dio, e per una definitiva «ateologizzazione» della ragione.  Compimento e dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua interpretazione Del Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il suicidio della rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema dell'ateismo in quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo una delle linee filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè quella che nella storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel tentativo di trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo, materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra problematica della civiltà postmoderna.  La giustificazione epistemologica di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la «non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in modo universale.  Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore, ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera, mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica (sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario pur se negativo della storia universale.  In questo senso N. ha potuto mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo culmine. Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del secondo sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo, non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della rivoluzione politica.  In Germania invece la dialettica fra kantismo e hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la riconsiderazione hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di Dio --, secondo il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento storico un grado dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur nella sua negatività. In questo senso Hegel è colui che diede forma alla corrente tradizionalistica dell'illuminismo, ove la tradizione non è più peròcome per Tommaso d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che solcano trasversalmente la dimensione temporale mediante il passaggio delle generazioni, ma è bensì la struttura dialettica eterna che necessita l'evoluzione delle verità, e quindi la sua temporalizzazione.  Per questo N. afferma che l'idealismo hegeliano ebbe nei confronti del kantismo la medesima funzione che in Francia ebbe il positivismo comtiano nei confronti del socialismo utopistico: egli ricorda la critica di Comte nei confronti dell'illuminismo settecentesco, la sua rivalutazione della tradizione (in senso dialettico), nonché la celeberrima teoria degli stadi che costituisceancora una voltauna forma secolarizzata della teologia gioachimita. È dopo questa dettagliata analisi che Del Noce innesta il discorso sul marxismo, il quale appunto si configuròper stessa ammissione di Marxcome ripresa critica di Hegel attraverso la filtrazione di Feuerbach e della sinistra hegeliana (celebri sono le marxiane Tesi su Feuerbach) e come fusione fra la dialettica hegeliana e la politica del socialismo utopistico: alla base del cosiddetto socialismo scientifico rimane ancora il desiderio di palingenesi politica propria di Saint-Simon o di Fourier, ma onde evitare il risibile utopismo di questi ultimi ad esso Marx applicò la dialettica hegeliana con cui solamente si sarebbe potuto analizzare il capitalismo e prevederne così il necessario fallimento.  A tal punto però l'analisi marxiana di come potrà nascere la società comunista introduce l'elemento di distacco non solo dall'idealismo hegeliano ma anche dalla filosofia stessa, ovvero la necessità di tradurre il pensiero analitico in azione politica e di affidare alla storia invece che alla ragione il compito di dimostrare la verità delle tesi marxiane. In questo N. si riallaccia a una lunga storiografia socialista, uno dei cui esponenti più noti è per esempio Lukács, che afferma la stretta e necessaria continuità fra filosofia di Marx e di Engels, politica di Lenin e politica di Stalin, senza concedere alcuna differenza né alcuna opposizione fra socialismo reale e socialismo ideale (quasi a guisa di giustificazione storica). Il fattore fondamentale di continuità fra Marx e Lenin è infatti quella struttura tipicamente gnostica che equalizza il male all'ignoranza e il bene alla conoscenza e quindi divide il genere umano fra la massa degli ignoranti e la ristretta cerchia degl’lluminati, che nella riflessione leniniana erano gli intellettuali borghesi che per una non spiegata differenza dal resto della borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la rivoluzione; in questo senso la politica leniniana, poi proseguita coerentemente nella politica staliniana, sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica incarnazione possibile della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di una certa apologetica socialista- un tradimento di Marx.  Ancora una volta si rifà a una lunga storiografia critica nel considerare il marxismo non come una filosofia ma come una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione non del suo carattere di religione civile bensì di religione gnostica: in tal modo il marxismo leninista sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove quest'ultimo è inteso come gnosticismo laico, religione non di Dio ma dell'Idea/ideale che non ha bisogno dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto l'uomo stesso avrebbe potuto e dovuto far incarnare tale Idea nel mondo attraverso la sua azione. Questo è il senso dell'appellativo delnociano di «non-filosofia» per il marxismo, giacché la contemplazione metafisica in esso viene interamente assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la politica è la vera metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la morale.  Eppure è proprio questo punto a costituire secondo N. la contraddizione fondamentale interna al marxismo e quindi la causa prima del suo fallimento storico: se infatti la «riconciliazione con la realtà» iniziata da Hegel, proseguita da Feurbach a portata a compimento da Marx deve rivoltare l'intera comprensione del mondo in trasformazione del mondo, cioè in rivoluzione, allora in ciò non rimane giustificato il riferimento ideologico all'avvenire come sede immaginifica della società comunista, ovvero non rimane giustificato il carattere ancora religioso del marxismo per cui esso ha sostituito il futuro all'eternità e il lavoro dell'uomo alla redenzione del dio-uomo. Il fallimento storico del comunismo, quindi, sarebbe stato non solo la dimostrazione sperimentale della falsità delle teorie marxiane ma anche il coerente compimento del marxismo come auto-distruggersi nella sua forma di religione. Con ciò si spiegherebbe per N. l'attivismo comunista nonché la graduale decadenza del socialismo nel mondo fino alla sua profetizzata fine, simboleggiata dalla caduta del Muro di Berlino. È propria di lui infatti la teoria secondo cui il compimento e la dissoluzione del marxismo non siano due momenti separati o addirittura opposti, ma siano bensì il medesimo momento dispiegato coerentemente nel tempo.  L'interpretazione del fascismo Sul fascismo e sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue opere, partendo appunto dalle opinioni comuni e molte volte ideologiche degli storici nei confronti del fascismo e delineando una struttura paradigmatica tanto controversa quanto precisa e fondata. È a partire dalla definizione data dallo storico tedesco Nolte di ogni movimento fascista come «resistenza contro la trascendenza», intesa come trascendenza storica e non metafisica, che N. sottolinea la continuità fra questo serio giudizio e la communis opinio del fascismo come movimento reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista, e per converso di ogni forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando implicito e forse inconscio al fascismo.  Di questo fa una critica serrata, facendo notare innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del fascismo, cioè Gentile e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di politica reazionaria, tradizionalista e nazionalista e come invece affini rispetto al socialismo, del quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si noti che l'obiettivo che N. intende colpire e abbattere è quella generale concezione del fascismo come momento singolare e controcorrente rispetto all'intera storia moderna, dalla rivoluzione francese in poi, mentre ciò che intende mostrare è la continuità quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il fascismo come tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua formazione culturale, notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo spontaneo confluire nel socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo per l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in particolare sul concetto di «rivoluzione» che pone l'accento, essendo questo un concetto base del marxismo che però, attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca «filosofia dello Spirito» risorgente in Italia, dovette radicalmente trasformarsi e portarsi dal livello sociale della «classe» a quello personale del «soggetto».  È insomma l'incontro intellettuale di Mussolini con la filosofia di Gentile ad aver reso necessaria la trasformazione della rivoluzione in un senso non più finalistico o escatologico (come era nel marxismo puro, il cui fine è appunto la società comunista) ma in un senso propriamente attivistico e lato sensu solipsistico, in termini gentiliani cioè attualistico. Con ciò N. può connettere la psicologia di Mussolini con il vero e proprio formalismo pratico del fascismo, il quale non aveva in realtà alcun contenuto definito, ma proclamava bensì una forma di azione tanto vaga e generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto sociale (anche il proletariato) e di frangia ideologica, in alcuni momenti persino quella marxistica.  Il concetto di «rivoluzione» infatti contiene in sé già un termine finale ben preciso verso cui lo stato attuale del mondo andrebbe rivoluzionato, mentre nella politica fascista il termine rivoluzione deve necessariamente essere sostituito dal termine «riforma» (si pensi appunto alla riforma Gentile) in senso non più tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è stato de-formato, bensì in senso creazionale, cioè come dare una nuova forma (indefinita) alle antiche cose, perciò rimane un concetto molto affine a quello di marxistico di rivoluzione, e permette l'affiancamento ideale dell'attualismo gentiliano al modernismo teologico fiorente a quel tempo e condannato come eresia dalla Chiesa. Saggi: “Teologia della storia” (Torino, Filosofia); “La solitudine di Faggi” (Torino, Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla politica italiana, Cultura e libertà” (Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna, Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna, Mulino, Brescia); “In contra del domma cattolico-romano” (Torino, Erasmo); “Contra il domma cattolico-romano” (Milano, UIPC); “L'amore di Dio” (Torino, Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il partito comunista italiano” (Roma, Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario” (Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano, Rusconi); “L'interpretazione trans-politica della storia contemporanea,” Napoli, Guida, “Secolarizzazione e crisi della modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile: per una interpretazione FILOSOFICA del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza e libertà.” Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi, Martinetti, italiano Rensi, italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli, italiano Capograssi” (Milano, Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”; Scritti su l'Europa e altri, Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,”  Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo: errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo. N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto.  premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii. wordpress. Armellini, Razionalità e storia, in Il pensiero politico, Roma, Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti, Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e secolarizzazione nell'analisi di Samek Lodovici ed N., PUSC, (scaricabile in PDF dal sito sergiofumagalli) Gian Franco Lami, La tradizione, Angeli, Milano, Marietti, Genova-Milano. Enciclopedia ItalianaV Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ratto, Ipotesi sul fondamento dell'essenza dissolutiva del marxismo e del fascismo, in Boscoceduo. La rivoluzione comincia dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo. L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara, il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier Tilliette, Omaggi. 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Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi. «Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa» da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba, non un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione (Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato. «Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"» dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il Sabato. Le connessioni tra filosofia e politica da Il Tempo. Pci, l'impossibile conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice: “Unfortunately, Noce is a philosopher, like me. We cannot lay word on history. Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s Play Group. Being Italian, Noce thinks different. He thinks history is guided by philosophical principes. It wasn’t Mussolini’s charisma that led the populace, but Gentile’s attualismo puro. He makes a good point about the distinction between Hitler and Mussolini. Hitler is a Protestant, Mussolini ain’t! Most in Mussolini’s circle were just as heathen as those in Hitler’s circle – different heathenism, though. No Odin, but Giove. Not Siegrfied, but Enea! Noce does not know the first thing about this. He never socialized with any of the people he is philosophizing about. In any case, there’s Garibaldi, which is a stain to Italian history. Italians, and a Ligurian friend of mine can testify to this, never wanted the UNITY. It was forced ON them. So it’s only natural that Gentile and Noce regard the UNITY brought by Risorgimento (alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that was furthered by Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that his movement was ‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a little thing about Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di flosofia’!”  Non si può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di   proporre ipotesi interpretative del pensiero contemporaneo  anche in radicale antitesi con la pubblicistica corrente e con  gli intellettuali più ascoltati dal potere culturale dominante.  Come si è visto a proposito del marxismo, la nettezza del  giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai ceduto  ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale  con i suoi interlocutori.    Nel caso dell’interpretazione del fascismo N.  esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni Sessanta  (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già  la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente  argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in  questo caso, come in quello del marxismo, N.  procede da una considerazione attenta del fascismo che ne  faccia emergere le specificità culturali, lo renda  identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze  più o meno evidenti. Quest'opera di studio e di approfondimento dei  contenuti del fascismo è già un aspetto rilevante  dell’interpretazione, dal momento che, ancora oggi il fascismo è stato  rappresentato da una parte come una sorta di barbarie  irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della coalizione di  tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di interessi  particolari. In questa prospettiva il fascismo viene  identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo,  caratterizzato come male assoluto, mitizzato come un abisso  di negatività al di fuori di qualsiasi analisi critica e storica.  Da ultimo, trasformato in una sorta di essenza, il fascismo  diviene la categoria alla quale ricondurre tutti gli aspetti  legati alla tradizione, alla metafisica, al tema dell’autorità  ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare la  tradizione senza essere nel contempo, almeno  incoattivamente, fascisti e repressivi. AI contrario, per N. il fascismo è un momento di  quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli  precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e  che può essere designato più opportunamente come  secolarizzazione, per intendere quel tentativo di creare una  società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di Dio. Il  fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile in  quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha  inizio con il marxismo. È questo il punto più incandescente dell’analisi di N.: il fascismo si presenta come un tentativo  rivoluzionario di origine marxista, nel quale il marxismo  viene corretto per essere inverato, cioè per essere  effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo e  fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso  del razionalismo che porta a una progressiva  secolarizzazione del mondo, l’ideale rivoluzionario tende ad  assumere il ruolo sociale occupato precedentemente dalla religione. In questo quadro, secondo N., la  rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si  fonda, come si è visto, sul materialismo e sulla sua opera  decostruttiva; oppure quella attualista, che è una  interpretazione dell’ideale rivoluzionario da un punto di  vista soggettivo-spiritualistico, che assume le caratteristiche  di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta il  materialismo marxista. La spiegazione del fenomeno fascista trova perciò in  Gentile una figura centrale, attraverso la quale N. mette in evidenza il nesso storico e teorico tra  idealismo e fascismo. Per comprendere questo nesso, però,  occorre che venga pienamente riconosciuta la complessità e  profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato a personaggio di propaganda e di apparato. D. non  solo riconosce in Gentile una figura chiave del pensiero  italiano, ma nel suo pensiero coglie una svolta epocale,  quella del tentato inveramento del marxismo: perciò in esso  egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso razionalistico del pensiero che così fortemente ha determinato le sorti dell’epoca contemporanea. Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale e  connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò  dal quel presupposto naturalismo e materialismo che  rappresentavano ai suoi occhi un limite nella comprensione  del vero spirito idealistico. È in questa temperie culturale  che avviene l’incontro con Mussolini. N. è certo attento nel precisare che i fenomeni  storici si verificano per una complessa serie di fattori che  non possono essere ridotti a uno schema concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di incontro intende evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi  biografici e storici, ma anche il congiungersi, si potrebbe  dire fatale, di indirizzi di pensiero che per consonanza e  necessità logica danno luogo a un connubio creativo. Nel  caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime N. parla, per esempio, di armonia prestabilita, quasi a  evidenziare una sorta di attrazione fatale che ha  compenetrato traiettorie di pensiero che avevano origini  distinte. Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso una  revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo  riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più  sbiadita rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene  perciò sul terreno comune della volontà di ripresa dello  spirito rivoluzionario, in una chiave però compatibile con la  tradizione risorgimentale italiana. All’interno di questa  struttura significativa, certamente gioca poi un ruolo  determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro  molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è  tuttavia perfetta espressione  esistenziale-politica di  quell’ansia rivoluzionaria che si traduce in attivismo come  pura affermazione di potenza e in solipsismo, inteso come  soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la realtà esterna  in sé sussistente se non in funzione del proprio processo di  autoaffermazione. Si comprende dunque perché N. abbia parlato  spesso di fascismo come errore della cultura e non errore  contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante  nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come  fenomeno estemporaneo di improvviso impazzimento della  società italiana succube di forze oscurantiste, ma segna un passo decisivo di quell'epoca della secolarizzazione che  contraddistingue l'evoluzione ultima del razionalismo  moderno e che, secondo N., ha il suo inizio con  l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più  coerentemente inteso realizzare il farsi mondo della filosofia  secondo quanto prospettato da Marx. In questo senso, tra  l’altro, si comprende perché sia senz’altro errato  interpretare il fascismo come fenomeno reazionario e  conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione  dello spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il  quale la tradizione e l’identità storica rappresentano puri  strumenti per l’affermazione dell’azione trasformatrice, che  sarà perciò inevitabilmente violenta e inesorabile. Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi il  fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del  marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria  capace di realizzare effettivamente una nuova società: è Gramsci. Anche in questo caso N. dimostra  un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel  presentare le sue ipotesi. Egli infatti mette a punto una serie di studi che  confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della  rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che,  nel tentativo di riformare il marxismo, incontra in realtà  l’attualismo e trasforma l'ideale rivoluzionario marxista in  una filosofia della prassi perfettamente funzionale e coerente  con il realizzarsi del nichilismo. Gramsci, perciò, identificato  in quegli anni come il vero punto di riferimento  dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il realizzarsi  del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da N. come un autore gentiliano. Che cosa è infatti la revisione gramsciana del marxismo se non il rifiuto del suo  materialismo e del suo economicismo, per fondare una  filosofia della prassi che porti a realizzare la rivoluzione  prospettata dal marxismo a partire da una lotta per  l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali  militanti? Secondo N. non è più marxismo, ma  filosofia della prassi con tutti i caratteri dell’attualismo.    In che senso allora N. parla di suicidio della  rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire  il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della  prassi non materialista, Gramsci riduce il pensiero a  ideologia strumentale per l’affermazione del potere,  svincolandolo da qualsiasi riferimento alla verità. Pensiero  senza verità, pura affermazione di potenza, e perciò  nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario  che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il  costituirsi del predominio sociale di una classe borghese  cinica e disincantata. Diciamo che Gramsci rappresenta il  paradigma italiano di quella dissoluzione dell’idealismo e  del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è detto,  nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era proposto. Il primo testo del capitolo è una conferenza confluita in L’epoca della secolarizzazione, che propone una  definizione storica generale del fascismo e consente uno  sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione di N. delle figure di Gentile e di Mussolini. Il secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della  rivoluzione, che imposta l’assunto fondamentale del libro,  soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica tra Gentile e  Gramsci. Appunti per una definizione storica del fascismo. Il fondamento del progressismo, così nella sua forma di  illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è  un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su  una zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra  le due guerre. Ora, l'attitudine contraddittoria a cui ha  dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine di  millenarismo negativistico, porta al problema della sua  revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di  mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si  tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state  coinvolte nella sua catastrofe.    È il primo saggio che tenta un’esaustiva  comprensione storico-filosofica del fascismo come fenomeno epocale, quello di NOLTE?  Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione  rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti: quella  secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti  sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel suo  aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il  fascismo sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza  contro la trascendenza», termine con cui intende non la  trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol chiamare  «trascendenza orizzontale»,  trascendimento storico,  insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue forme, è il nemico, deve essere individuato nella libertà  verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale  nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si  conosce e si ama». Sul piano più strettamente politico  questa «resistenza contro la trascendenza» si affermerà  come lotta sino alla morte contro i movimenti che la  rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là  dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si  dovrebbe perciò parlare di un’essenza comune che si  sarebbe specificata in diverse forme nei vari paesi europei, a  seconda delle loro diverse situazioni politiche, economiche,  culturali. Le principali di queste forme costituirebbero  altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea unitaria di  sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato  dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo  dal nazismo. Come è facile osservare, una tale  interpretazione corrisponde alla veduta corrente, secondo  cui i termini ultimi dei contrasti presenti sarebbero le parti  dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore venendo  assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni  atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più  inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una  possibilità fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è  che questo giudizio non condiziona la ricerca, come  presupposto polemico, ma invece appare essere il risultato  di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la sua  importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio  corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.    Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di  un’«epoca del fascismo? Da questo: è esistito un periodo in  cui, in seguito all’arretramento e al chiudersi in se stesse delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica;  isolazionismo americano, socialismo in un solo Paese per cui  la Russia ridivenne una terra incognita ai limiti del  mondo) l'Europa, pur dopo quell’anno, in cui la  prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto  di stati nazionali, poteva nuovamente considerare se stessa  come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli  avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si deve denominare  un’epoca, caratterizzata decisamente da contese politiche,  sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli  avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo,  ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle  guerre mondiali epoca del fascismo»; termine che «presenta  il vantaggio di non esibire alcun contenuto concreto, e di  non presentarsi al pari della parola nazionalsocialismo con una pretesa contenutistica non  però giustificata. Col dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non  pretende affatto a una particolare originalità. Ha cura, anzi,  di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da  rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di  brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del  massimo suo potere. Ma, su questo punto,  avversari decisissimi si erano trovati d’accordo, con opposto  accento valutativo. Così Mann nel define il fascismo come «una malattia del nostro tempo,  che è di casa dappertutto, e dalla quale nessun paese può  dirsi immune». Così, nella nota opera La distruzione della  ragione Lukacs ha indicato «nello sviluppo spirituale e  politico tedesco null’altro che la manifestazione più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito del  mondo capitalistico. Bastano già queste citazioni per vedere il posto che  l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo.  Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso liberale,  della malattia morale e dopo quella marxista. Luk4cs  aveva parlato di una linea unitaria di processo verso  l’irrazionalismo da Schelling a Hitler», includendovi tutti i  pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel.  Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità,  Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il  prefascismo di Weber, e naturalmente il dissenso su  questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che  riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse — non ho  verificato quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito  come un rifacimento per l'Europa intera di quello che  Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato  però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di Weber. Ora, nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo  libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema — di una  definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando  però a prospettive diverse. Infatti, nel saggio di N., Il problema dell’ateismo, definie la peculiarità della storia  contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il mio  punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era  semplice: se si riconosce un carattere  genuinamente  filosofico all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la  sua frase secondo cui la sua concezione è quella di una  filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella  realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica)  opposta a quella di un mondo che diventa filosofia  nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può  essere compresa che in relazione alla rivoluzione comunista,  essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da tutta la storia  precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi. Non  soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo;   una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è  per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione  efficace a trasformare la società e il mondo; e per  riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi  parve di doverla definire come l’età dell’espansione  dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa cosa,  parlare d’epoca della secolarizzazione, servendomi di un  termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e dr O ateismo sono certamente le due facce della stessa moneta;  ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che questa  età vuol essere — processo verso una situazione in cui si  possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e  siccome qui si tratta di un’analisi interna di quest'epoca,  prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione della  mia preferenza.    Ora se l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir  definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non può  essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una  rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra  possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente  europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà  invece parlare del «momento fascista» dell’epoca della  secolarizzazione. Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti  come necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in  relazione al fenomeno delle religioni secolari, che  accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo  profano; a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria  delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la morte  di Stalin. Fascismo e nazismo appartengono interamente al  periodo sacrale; fenomeno nuovo che caratterizza in  maniera precipua il periodo «profano» è la società opulenta.  Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire  che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione  dell’Action francaise rispetto al radicalismo e quella del  nazismo rispetto al comunismo. Non vorrò negare che la  simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è  infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo  la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion frangaise che  nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più, mi  sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando  deve trattare del termine medio tra Action francaise e  nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel  considerarlo, infatti, egli accentua, molto giustamente, i  tratti segnati da un persistente influsso marxista, e le curiose  affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel  momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel  momento iniziale (Action francaise) e di nuovo scompare nel  momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è  almeno singolare definire l’intera epoca con il termine di  fascismo?   Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si  possano sussumere sotto il comune concetto di  controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro la  trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti  all’ispirazione dottrinaria dell’Action francaise, come il  fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una  stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda  delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui si  era realizzata, o se invece l’attenzione debba  prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette  in questa seconda via si delineano poi due diverse possibilità  interpretative. Si devono distinguere qualitativamente i  movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo,  riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi  fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di  nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si  vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di  affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al  fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre  altri sono proclivi a considerarlo come una semplice variante  dei regimi autoritari.  La distinzione così di fascismo come di nazismo dal  nazionalismo propriamente detto può essere stabilita  facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un  tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità,  quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a  valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli  soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò si  può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta  idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece la  nazione non più come un'eredità di valori, ma come un  divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia  non è concepita come una fedeltà, ma come una creazione  continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta, del resto, di una distinzione  su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels, che  riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il  primo movimento che avesse combattuto marxismo e  comunismo da un punto di vista non reazionario; * sta in ciò  la ragione della devozione indubbiamente sincera che Hitler  mantenne sempre per Mussolini. Assai più che i tratti comuni importano però le differenze.  In quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere  storicamente definito come la piena realizzazione e il  completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha  accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e  dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx  (o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito  rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di  Mussolini è il miglior documento per lo studio dell’idea di  rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e  connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa  nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di  De Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che  avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi  sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata  l’attenzione: che fu fondato da colui che giustamente può  essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra  mondiale, del comunismo europeo; che l’ascesa di  Mussolini ha temporalmente coinciso con quella della  cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha coinciso  con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi è  una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e  dell’altra;  che questa cultura idealistica italiana prende inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, che segna l’europeizzarsi della cultura italiana.  Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della  «misteriosa vicinanza e lontananza insieme che lo collegava  alla figura di Lenin», punto ben visto da Nolte, ma non  sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza  viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella  distinzione tra il vivo e il morto in Marx che la cultura  idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di  fatto accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità  inscindibile tra materialismo radicale e azione  rivoluzionaria, rifiutato.    La vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte:  «Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi  da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del  partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il  primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista  europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei  la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del  bolscevismo russo, formatosi, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni  caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del  comunismo italiano postbellico... egli fu anche il promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta  intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della  vittoria fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è  tentato di contrapporre alla sua ortodossia marxista, non è  che l’espressione teoretica della sua intransigenza. Tale  volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente contro la  teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto  analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del decorso spontaneo. Dove è giusto parlare di analogia,  non di ortodossia marxista. Il «volontarismo» di Mussolini  non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto del materialismo  marxista, in relazione alla generale critica allora corrente del  materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista.    Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa  l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più  rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella  liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato  dal momento materialistico e dall’utopistico? L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è  stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi  della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo  punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai  chiara. Sotto un primo riguardo il momento materialistico  significa la sconsacrazione dell’ordine che si deve abbattere;  sotto il secondo assai più importante — che implica la  conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero  utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla  finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta  all’instaurazione di una nuova idea dell’uomo, materialistica  nel senso che è separata da ogni traccia del divino, in quanto  il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva umana,  pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre la  sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale  materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo. Separato dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si  converte in una specie di mistica dell’azione, in quel che si  suol dire con un termine diventato logoro perché sciupato  nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»; tensione  verso un’azione che è voluta per sé, come semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine,  con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di  dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come  strumenti che possono promuoverla. Ma non basta: la logica  che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della  personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il  conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti  cessano di essere fini in se stessi per diventare puri  strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra  cosa dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del  disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico di  eseguire quel che la legge morale comanda; nel caso, invece,  dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli  altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso  parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di  solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che  l’unico senso preciso che si possa dare alla nozione di  solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica,  il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La  totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta a  togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra  che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che  proietto davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà  discutere; ma è comunque certo che all’azione di Mussolini  non si addicono la qualificazione di anarchica, perché resta  sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e  invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria,  perché non si può rintracciare la tradizione che Mussolini  abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e di  comunista. A me pare che partendo da una fenomenologia  dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti  contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha  giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini!  Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di  personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se  medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore  di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un  significato morale, un valore che non fosse provvisorio,  strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal personalismo.  Bene Cantimori lo ha delineato. Questo senso  della potenza, questa volontà di predominio che lo fa  identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo  fortissimo protagonismo politico, diventa, nei momenti della  lotta più aspra per un’affermazione della propria volontà,  consapevolezza e affermazione della propria individualità...  e questa consapevolezza di sé, questo esser continuamente  presente, cosciente della propria volontà e della propria  individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea  con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale  consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in  dominio, in compiacimento per la disciplina e obbedienza  ottenute». Per sé, l’identificazione con la causa del proprio  popolo caratterizza ogni politico ed è da essa che questi trae  la propria forza; ma in Mussolini si compie in una volontà di  predominio, in un protagonismo politico che è  consapevolezza e affermazione della propria personalità; che  altro può significare questo se non un’identificazione che si  opera a rovescio di quella dei grandi politici attraverso una  specie di assorbimento, per così dire, del popolo in sé? Di  qui quei caratteri che sconcertarono quegli uomini della vecchia generazione politica che furono in rapporto con lui:  l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale  energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il  male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è  da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di  Mussolini a questo semplice immoralismo, neppure si  potrebbe intendere il suo successo. In realtà, nella  disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza  di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di  autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel  disconoscimento della personalità morale degli altri. Qui è  anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista, se il  liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui persona. Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva  insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza  della finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una  disponibilità massima per ogni tatticismo e trasformismo,  ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un valore  che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra  contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che  come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva  esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa  azione distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà  dato, tra qualche decennio, nei manuali di storia: c'era una  realtà storica nuova, il Regno d’Italia, e fu  Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo  rapporto, veramente l’antiCavour.   Si intende anche l’osservazione acuta di Gramsci per cui  Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò, però, non già  perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il tipo  concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a  trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli  altri come una forza di cui disporre. Da ciò anche la  continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui  si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze  con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di  contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si  davano per tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto  che «credendo così di essere l’arbitro di tutto, non si  accorgeva che, di compromesso in compromesso, il suo  margine di autonomia si riduceva sempre più e che la logica  delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione, lo  soffoca progressivamente, e lo riduceva a un piccolo  Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i  muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di  spire che lentamente lo avrebbero soffocato. Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua  incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il  ricorso al pessimismo di MACHIAVELLI per sentire questa  solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio a MACHIAVELLI è tra le pagine che meglio illuminano  la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come  potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di  parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa, e  l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto singoli, e  di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della  Psicologia delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi che  determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella  tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi  interventi. Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’élite e di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché questi  uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro  volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo  essere le coscienze più diritte.    Questi non sono che esempi che ho addotto per proporre  un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico, in  Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con  l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei  tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la  psicologia di Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà  dalla sua iniziale scelta per l’attitudine rivoluzionaria,  pensata come contraddittoria col materialismo; dalla  irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della posizione  rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser posto il problema del  rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però  guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della  cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e  ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in  quell’ordinario ritratto che lo rappresenta come un semplice  demagogo, sia pure con qualità, in questo genere non comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento,  a seconda della possibilità di successo; di cui poi è  specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto al socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non  poté incontrare i problemi culturali che da politico; e pensò  contro certe idee che trovava incarnate in posizioni politiche,  e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre, in  relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto  questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e  quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta del  socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava;  del marxismo ripensato nella cultura positivistica di fine  Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai  rivoluzionari. Perciò anch’egli fu detto e si disse  volentieri idealista perché «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò a infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della  violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il  misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni  era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo. È  il noto giudizio di Croce, non inesatto, ma tuttavia  generico, e che per questa genericità rischia di sviare. Maggior significato si deve dare alla rievocazione,  singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustra a De Begnac il processo che l’aveva  portato più di vent'anni prima alla fondazione dei Fasci di  combattimento. Le guide spirituali erano rimaste indietro  di mille anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza della  lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una  sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un  libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma  pochissimi erano culturalmente in grado di comprendere il  suo discorso. Gli economisti riaprivano il nostro animo ad  un qualche interesse alla vita. VITI, MARCO, EINAUDI,  RICCI e, soprattutto, PANTALEONI e Pareto. Sorel sembrava  appartenere ad altra età, ormai. GENTILE preparava la strada  a chi — come me — avesse desiderato camminare su di essa. Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è difficile pensare che Mussolini abbia  guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo  Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però una veduta importante, anzitutto come  indicazione dei limiti che si devono dare all’influenza di  Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini «fascista»  succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei protagonisti  della disputa italiana sul marxismo teorico, CROCE e Sorel,  non gli parlavano più. Mentre invece la sua veduta sul  momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la  veduta affermata dal Gentile scrittore politico non si può  separare in alcun modo dalla sua filosofia; e questa a sua  volta (pongo qui una tesi che non posso ora dimostrare con  la precisione sufficiente, ma che tuttavia penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista come  l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò passare qui a definire il senso  dell'incontro di Gentile e Mussolini. Presenta certo degli  aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse per il  Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per  il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di  un’influenza di Nietzsche, come pure degli altri autori che  possono aver esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel,  Pareto, Le Bon. Genericamente possiamo dire che fu un incontro per  negazioni: per un verso l’attualismo gentiliano era  travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre per  l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a  modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel  riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le  stesse negazioni che pure pronunziava il fascismo. Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno  di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da ciò  al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata  dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e  la conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come  Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è  strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel  primo lavoro che fu dedicato, nel mondo intero, alla  filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx) non  è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può  infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato  dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo  definire il senso dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve venir vista come unica, perché  non si può ascriverla a quella dei tanti fiancheggiatori di  ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile che  aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra  storica), e meno che mai, si intende, a quella  dell’intransigentismo diciannovista. Fu egli l’unico a vedere  in Mussolini non già una forza atta a servire o per il  consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo costruito  a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace di  compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che  pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini, che decise la sua adesione alla repubblica sociale, O  l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi secoli,  debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma  ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto  indicava che il fascismo stava per concludersi in una  catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l'impegno a restar fedele  nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento  della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso converrà  prender le mosse dallo saggio su Origini e  dottrina del fascismo. La data è molto importante. Esso  appare dopo che il fascismo aveva rotto definitivamente con  il liberalismo prefascista e dopo che Croce non soltanto si  era messo all'opposizione, ma dopo che aveva ragionato i  motivi di questa nella Storsa d’Italia. Il primo paragrafo si intitola Le due anime del popolo italiano prima della guerra, e contiene un’interpretazione  estremamente significativa dell’interventismo e della  partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla  vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde  perché «c'erano nell’anima italiana due correnti affatto  diverse, e quasi due anime irreducibili, che combattevano da  quasi due decenni e si contrastavano il campo  accanitamente, per riuscire a quella conciliazione che  richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale  col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare  del vinto, quel che è conservabile». La partecipazione  italiana alla prima guerra mondiale è sentita essenzialmente  come rivoluzione; la guerra è lo strumento perché la parte  risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale: entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione,  dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la  Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e  militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero  potuto arrecare... In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi  più per fortuna che per valore dei suoi figli... Cementare la  Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti i  cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa  passione, una comune speranza... Cementarla, questa  Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di  muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed  entrare insomma nella storia, con una sua personalità, con  una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota sua  originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e  al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla  dunque davvero questa Nazione, come soltanto è possibile  che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso il  sacrifizio. Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione  democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la  libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme  del saggio è estremamente interessante per far cogliere la rottura tra l’interventismo democratico e l’interventismo  fascista; insomma, tra il fascismo e quello che  successivamente prenderà nuova forma come Partito  d’azione. Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti  stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione  morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla  bilancia. La prima parte era per Gentile quella dell’Italia  giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto  nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile il  suo incontro con Mussolini. Mazziniano (quest’ultimo) di  quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua  Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per  riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, ricca di esperienza e di meditazione, nutrita della più  recente cultura italiana, tutta l’ideologia socialista. Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla  separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che per  il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la  volontà e la personalità dell'individuo, perché concepita  come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla  coscienza dei singoli; esistente anche se questi non lavorino  a farla esistere, a crearla. L'individuo nel nazionalismo  diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il suo  antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o  condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve  vivere e deve morire; mentre per il fascismo lo stato e  l'individuo si immedesimano, o meglio sono termini  inseparabili di una sintesi necessaria». In breve, quel che  caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal  nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da  cui proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce  nello sviluppo del fascismo per contenderlo a conservatori,  nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento viene  da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel nazionalismo  essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo  di formazione storica della nazione italiana. E viceversa per  Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato  ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista,  che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo  gli autori».   Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un  puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del  Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi  scritti, espressa già nella prefazione a SERBATI e Gioberti; e SERBATI e Gioberti e La filosofia di Marx sono due  libri inseparabili. *   Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo  in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma  della dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato,  ecc.; ma il termine di riforma significava per lui non già  rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma  attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è  più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di  riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente  inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica,  continuazione in certo senso di quella riforma cattolica  giobertiana in cui già si trovano tutti i motivi del  modernismo; né ha senso per lui come puro sistema  speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è  l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea  che va da BRUNO a Gioberti, né del resto egli presentò la sua  filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir  detto l’ultimo dei risorgimentali. Gentile curiosamente ritrova la figura del filosofo  politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e  Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può  essere espresso nella formula che segue: il marxismo  separato dal materialismo e il giobertismo separato dal  platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da ciò  era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si  ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione  e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però,  per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si  stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si  può dire che come Marx pensa alla rivoluzione francese  come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al  Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal  mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità  di religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni  che coinvolgeva, oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo  stesso nazionalismo. Procedendo per accenni, è importante osservare quale  scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra  mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve segnare  il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì, in  cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale. Ebbe  allora l'impressione che le cose venissero a lui, confermando  la sua veduta filosofica e permettendone la realizzazione,  onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e la  marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e  Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi  di religione, in cui l'accento cade sull’impostazione di una  politica religiosa.    Possiamo così renderci conto della necessità  dell'incontro. Era naturale che Gentile pensasse che come  egli, a partire dalla critica teorica di Marx, aveva incontrato  il pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per  Mussolini a partire dalla critica politico-pratica del  marxismo.”   Si vede dunque come, in sede di un giudizio storico e non  moralistico e polemico sul fascismo, la questione delle  illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba esser  posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se  portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il  maggior filosofo italiano del tempo.  D'altra parte non può non essere senza significato il fatto  che le stesse critiche fondamentali mosse contro  l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come  criteri storici essenziali per intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea che  Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini  si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato  ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può  pensare che egli non abbia troppo gradito di venir  considerato come lo strumento di una riforma religioso-  politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava i  termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie.  Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da  parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del  Fascismo; così mi è sembrato molto significativo  quell’accenno nella conversazione con De Begnac, avvenuta  in un momento in cui Gentile non era certo troppo in auge.  Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così.    Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il  fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione  rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare  dopo aver accettato i risultati di quella critica del marxismo  teorico che fu svolta in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento  e di cui l’attualismo può essere considerato la conclusione  filosofica. Naturalmente, questa definizione non concerne  che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare la  sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra  mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la  trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito  della vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso,  ecc.    Come si inserisce in quella che prima si è chiamata  l’epoca della secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve  essere definito come alternativa al leninismo (al leninismo, si  badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e il  richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar  confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine  alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi:  quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in  una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura superiori alla russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se  Mussolini poté pensare a una prossima  fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo  secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la  differenza tra fascismo e nazismo. Due  uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la  vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve  riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente  sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua  giustificazione storica, nel senso di condizione della sua  possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto  realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto  arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare però che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a  dire che debba esser considerato come fenomeno  reazionario; né a giustificare i giudizi secondo cui Mussolini  avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria.  Ma la considerazione dell’esito non può servire come  criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice  che il comunismo è fallito perché ha portato a una nuova  classe, più oppressiva di ogni altra, non vuol certamente  dire con questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione  reazionaria. Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il  giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali  tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio,  il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche. Quel  che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo  propriamente detto coinvolge, è la linea dei riformatori  religioso-politici italiani, linea unitaria che è insieme  antiprotestante e in posizione eretica rispetto al  cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile,  al tentativo di inveramento idealistico del marxismo. AI solito, si risponderà che nessuno pretende realmente  affermare che la caduta del fascismo coincida con il crollo  degli ideali tradizionali; ma questo significa soltanto che  nessuno ha potuto seriamente dimostrare che l’affermazione  di tali ideali sia legata direttamente alla politica fascista; non  che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso livello,  non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la sua  caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del  nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è  sempre considerato come un fascista più o meno  consapevole, o quasi sempre inconscio; e «fascismo» è fatto  sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare a  simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono  ben certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto che la formula di resistenza contro la trascendenza facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di «spirito di  repressività. Per il significato di quanto ho detto, valga un  esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia  trovato un sostegno valido in quella parte del mondo  cattolico che più era avversa al modernismo; e in realtà, si  può ben ammettere che un'illusione vi fu, in molti dei suoi  componenti; obbedienti a quella visione cattolica  dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una condanna  globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò  la critica del modernismo, e che effettivamente e prevalente (come dimenticare che diede  anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro il fascismo  combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e il  socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,  lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se  questo è vero, occorre però aggiungere che si trattò, per  costoro, di un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo  caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché  una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la  loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto facile:  quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che  abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega  come quasi nessuna figura di rilievo della storia italiana del  nostro secolo non si sia, per un momento almeno, illusa su  di lu (anche Salvemini e Gramsci, al tempo  dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece  l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può  essere considerato come il più coerente dei modernisti (in  polemica con altri modernisti per questa sua coerenza)? sia  stata intellettualmente obbligata. È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come  interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di  qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata da  illusioni quella degli assertori dello spirito di modernità. E  proprio contro quest'idea, solidificatasi ormai come  abitudine mentale, che il presente discorso è diretto.    Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità sia  sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è  intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa  conferisce un significato magico, di parola-forza, al termine  rivoluzione; oggi quasi sempre, come perfettamente osserva  Monnerot, «la parola “rivoluzione” è presa en donne part;  quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca. Re: Gentile e Gramsci, alcune premesse sono necessarie. In che senso dico — prego intendere quanto scrivo alla  lettera — che il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di  capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso la  più importante del Novecento, e lo dico senza essere per  nulla gentiliano?    In quello che ha portato all'estremo non soltanto, come  normalmente si dice, l’idealismo o la sua forma  soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire,  chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si  trovano, portate all'estremo, tutte le possibili linee del  pensiero antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, il rapporto  di necessità che intercorre tra la coerenza rigorosa della  filosofia del divenire, e la più radicale negazione della  metafisica. Parlare perciò di una svolta gentiliana della storia della filosofia» significa questo: la sua considerazione  ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero  antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni  per cui non possono venire affermate dopo l’attualismo.  Con l'aggiunta: il suo pensiero si svolge interamente entro la  filosofia del primato del divenire; perciò, se si pensa  concluda in uno scacco, permette anche di definire,  facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea in  cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in  altre parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che condiziona, sia che si parli di successo come di scacco. Che  la mia persuasione sia la seconda, non ha ora importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile, dopo un lungo  periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime  opere che, per la loro data, possono essere considerate come i due ultimi grandi libri di filosofia apparsi  nell'Ottocento, e in cui tutto il suo pensiero successivo si  trova già virtualmente precontenuto, Rosmini e GIOBERTI e  La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta come la  sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista  nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica  giobertiana resa coerente attraverso lo hegelismo,  rappresenti il punto ultimo, soltanto ora raggiunto da coloro  che si definiscono nuovi teologi, del modernismo religioso. Per quel che riguarda la seconda ho già accennato — ma  devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era  ancora, al tempo in cui ne scrissi, sufficientemente  chiaro — alla sua definizione come punto ultimo a cui deve  giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma della  filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità di  rispondere.    Si dirà che, la sua fortuna anche qui in  Italia — e si era trattato, del resto, di un successo che aveva  avuto scarsa eco oltre frontiera — è andata costantemente  declinando rispetto a quella di Heidegger, e che  l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo, questo,  di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività. È  vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della  storia della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche,  coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma  con segno rovesciato: è, cioè, letta come processo verso il  nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire che la  filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di Gentile,  quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la filosofia  di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di  Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua  eccezionale importanza attuale; è attraverso il suo studio che  possiamo renderci conto della profondità della crisi del  pensiero teologico-metafisico e delle sue radici. D'altra  parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci) nello hegelo-  marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs.  Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di  Heidegger come versione del suo pensiero in forma di  filosofia speculativa; per sottrarsi deve tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione della sua opera  principale Storia e coscienza di classe, al materialismo  dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero  nella cui critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei  convergenti punti di partenza dell’ attualismo. Tratterò in questa occasione della questione seguente: se  la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto ultimo  dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia  della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo  per affrontarla in una posizione privilegiata in ragione  dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello  Spirito», Gramsci. Uso il termine filosofia dello spirito, invece di altre sigle — neoidealismo, neohegelismo,  eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle  negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che  genericamente viene detta idealistica, e che è la prima  filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo facendo  inizialmente i conti col marxismo, non può infatti venir  caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello Spirito»:  contro la metafisica per la negazione dell’intuizione  intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione  alla metafisica, che lo costringe a esprimersi come  naturalismo. In questo senso generale la filosofia dello spirito abbraccia così l’opera di Croce come quella di  Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo del  Marx filosofo, CROCE e GENTILE rifiutano così Platone come  Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo  naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo  assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo  del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello Spirito»  non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è  la riapertura di un problema interno al suo processo di  costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere la riaffermazione di Marx dopo la filosofia dello spirito,  correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si  rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di  vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello  hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo al massimo rigore  critico, liberandolo da tutte le incrostazioni positivistico-naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche o  neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico,  dato che la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova  della sua verità filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno  per lui tutt'uno. Si può enunciare perciò il suo problema nei  termini seguenti: come la rivoluzione mondiale, perché  totale, è possibile? È noto come su questo neomarxismo circolino due  giudizi opposti. Per il primo sarebbe la forma più rigorosa  che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica che  possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al  successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo  sarebbe una sorta di marxismo diminuito, accompagnante il  processo di dissoluzione della rivoluzione come sua  involuzione borghese, condizione dell’affermarsi della  nuova classe borghese quale che possa essere il successo del  suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze estreme  da un comunista non secondo a nessuno per integrità  morale, BORDGIA (si veda). Entrambe le vedute sono vere; ma  quel che può sembrare paradossale e curioso (ma si  dimostrerà come non lo sia) è che la prima è vera per il non  marxista e non comunista, la seconda per i marxisti e  comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il  mio punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il  marxismo contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la sola forma in cui esso può riaffermarsi dopo la «filosofia  dello Spirito»; questa posizione non può però venire  assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà storica a  cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel PRINCIPIO SPERANZA. Ma, d’altra parte, è inutile cercare  dopo Gramsci un miglior» marxismo, a cui corrisponda  una più adeguata politica. Ricordiamo per brevissimo accenno le tesi del marxismo  antigramsciano. Esse hanno a punto di partenza i giudizi di  chi prende posto nella storia contemporanea come il più  intransigente moralista in nome del marxismo letterale e del  comunismo nella sua versione ideale, BORDIGA (si veda), e  hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno  dei migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti,  quello del marxista eterodosso Riechers.  Riechers, che pure non mostra di avere una conoscenza  approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di  accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del  marxismo a quella di Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano  teorico critica Gramsci per aver sostituito al materialismo  marxiano un idealismo soggettivo di stampo kantiano-fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe  sul piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di  sinistra. Scrive, infatti: «Questi fascisti di sinistra la  maggior parte dei quali confluì dopo la fine del dominio  fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno soltanto da  sostituire l'attributo fascista con quello di democratico,  socialista o comunista, per scoprire negli scritti di Gramsci  una posizione analoga alla loro. Tolto il tono polemico, la  frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo,  di cui fascismo e postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte; e lo  stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli  antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un  errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno  studio approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del  Riechers, portandola a un altro significato che coinvolge la critica anche dell’eterodossia marxista. La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi  la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi  stupefacente. Soltanto la discussione del tema Gentile-Gramsci ci  mette in grado di formulare adeguatamente le categorie  interpretative della storia contemporanea. Con la sua discussione giungiamo al momento  conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione  transpolitica della storia contemporanea, cioè quella che  privilegia, in detta storia, come l’essenziale, il momento  filosofico; o che è attenta al parallelismo tra filosofia e  politica come tratto nuovo che la specifica. Possiamo parlare in questo senso di un paradigma  italiano, decisivo per una lettura veramente adeguata di  detta storia (dato che Gentile e Gramsci possono trovare  spiegazioni soltanto nella storia del pensiero italiano).  Si tratta, del resto, di paradossi soltanto apparenti. Il  carattere che accomuna le filosofie di Marx e di Gentile è di  essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel senso  della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il più rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe  le filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di  riaffermare il marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione  rigorosa della questione. Ma perché ho parlato altresì delle categorie interpretative  della storia contemporanea, e della possibilità di graduare,  nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento di  verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale  problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia  contemporanea non è altro che il passaggio alla realtà di  queste due filosofie della prassi. La rivoluzione  marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro, l’idea  di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione  russa, in quanto adeguata a paesi superiori per civiltà e  cultura, o per essere più esatti, per grado di  modernizzazione. Non a caso questa idea maturò  soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di riforma  dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la  guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la  filosofia di Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino alla morte (ma la lotta fino alla morte caratterizza pure le  forme divergenti sorte sull’orizzonte del marxleninismo).  Poniamo ora si riesca a dimostrare — ed è l’assunto che mi  propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è più  marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo  che la politica che esso promuove prende posto in una  rivoluzione ulteriore alla marxleninista, non già, cosa che  Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui esplicitamente  lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché il  modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi  occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che sorge è se, nonostante l'opposizione mortale, non si debba  vedere una continuità tra il periodo fascista e il postfascista,  come continuità di un processo di dissoluzione. In termini  filosofici, se la filosofia del primato del divenire, dopo aver  elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta al suo  punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di  processo verso il nichilismo.  Trasportiamo la considerazione sul piano mondiale. Se  l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della  filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia,  nel senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha  trasformato il marxismo in ideologia). Perciò la rivoluzione  che esso ha promosso ha dato luogo alla forma estrema  dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico, con  cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo  sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la  forma filosoficamente più rigorosa, non realizza la  rivoluzione, ma il suo opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve però  produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si  osserva il fatto che la contraddizione della filosofia della  prassi, come termine ultimo della filosofia del primato del  divenire, non può esplicarsi che storicamente e  praticamente. È    In dipendenza delle considerazioni sinora svolte, la  trattazione presente deve articolarsi in tre punti. Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx,  perché la filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di  ritraduzione del marxismo in forma di filosofia speculativa.  Ossia, egli pensa di aver compreso il segreto di CROCE. Questi aveva presentato l’avversario contro cui muoveva,  ora come il positivismo, ora come la filosofia teologizzante,  o anzi, come il genere filosofia senz'altro (con la proposta  della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora come  l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il  marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di  vincerlo. Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo  emergerebbe nella sua forma più rigorosa. In questa asserzione c’è del vero nel senso che la filosofia  di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia  speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la  filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si  può dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque,  nel suo lavoro di «ritraduzione storicizzante» non incontra  Marx, ma invece Gentile, pur credendo di incontrare Marx.  Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che le  novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a  Lenin — novità che nessuno può negare — non possono  trovare spiegazione come sviluppo del marxismo o del  marxleninismo, mentre invece si accordano con la forma  gentiliana della filosofia della prassi (rappresentano il  cedimento rispetto a essa. Come può dunque Gramsci essersi illuso di aver  ritrovato il marxismo, se anche un marxismo diverso dal  marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera, anche  dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre  distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana,  dall’interpretazione che lo stesso Gentile ne aveva dato e  dalla politica con cui l’aveva connessa. Effettivamente anche  un’altra ne è possibile, quella svolta da Gramsci. Si tratta  quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e più precisamente nella veduta attualista della storia della  filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il  risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al  rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione  che si rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione  che si rovescia in dissoluzione è: «contestazione. Non è un  caso che Gramsci sia forse l’unico filosofo marxista la cui  fama abbia resistito alla contestazione nelle sue forme  anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata. Se dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la  filosofia del Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò  non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è  tutta la trascendenza e la teologia, ha poi storicamente  torto nell’identificare col marxismo la filosofia della prassi  che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea  dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario  sempre presente alla mente di Croce, anche se ossessione  quasi sempre sottaciuta; perché la tentazione rivoluzionario-  marxista era stata accesa in Croce da Labriola, e poi criticata  senza troppa difficoltà in questa forma labrioliana, e i motivi  della critica rivoluzionaria si erano rovesciati nella critica  della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto, con  Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo  Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al  moralista che nella prima gioventù gli aveva fornito un  purismo etico, giovevole come un’armatura, onde egli mi  rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato  dall’associazionismo, dallo psicologismo e dall’evoluzionismo e dall’utilitarismo che stava sempre nel  fondo di questi tentativi, ma al filosofo che aveva sentito  l’importanza della distinzione; e affermato una linea che  porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia del  momento economico alla hegeliana riconciliazione con la  realtà. Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata,  ma che la corrispondenza rende chiara — del Gentile de La  filosofia di Marx è di portarlo al suo pensiero attraverso una  considerazione del marxismo più profonda di quella di  Labriola, condizionante una critica più rigorosa di quella di  Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda di  quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si  atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle  esigenze spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da  spiegare perché questo tentativo doveva andare fallito;  separando Croce le accettate critica dell’intuito metafisico e  affermazione del formalismo — che rendono possibile  anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un tempo  dalla metafisica e dal naturalismo — dalla filosofia della  prassi. In quegli anni Labriola e Gentile  si contendono CROCE, senza riuscire completamente né l’uno  né l’altro nel loro intento; e senza intendere appieno, né  l’uno né l’altro, le ragioni della resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se  rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce  e di Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua  ritraduzione, avrebbe dovuto ritrovare Gentile, o ripensare  in forma attualistica il marxismo, dato che la filosofia di  Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia speculativa,  non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile. Avrebbe  dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo detto non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. Potrebbe infatti darsi che Gramsci avesse condotto un  parallelo tra lo storicismo marxiano e il crociano, mostrando  la superiorità del primo, e avesse poi voluto far coincidere  questa ricerca con la dimostrazione che il ripensamento  italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere con  la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero  essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della  seconda non inciderebbe sulla valutazione della prima. Non  è tuttavia così, e realmente quel che Gramsci chiama  marxismo è il risultato coerente della ritraduzione di Croce,  così coerente da ricostruire dopo il crocianesimo  l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al testo  originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La  prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana  dello storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la  formulazione nuova che in Gramsci trova il concetto  marxiano di società civile, con le sue implicazioni, tra cui  quella dell'abbandono dell’economismo e del materialismo  marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola, #  inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire  che l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece  recepito da Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il  blocco storico. La quinta è il giudizio sulla funzione capitale  accordata alla filosofia italiana nel processo di  modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza da  Lenin rispetto alla nozione di egemonia.   Per gli ultimi cinque di questi punti, se ne trova la miglior  conferma in uno scritto che Norberto Bobbio ha dedicato a  Gramsci e la concezione della società civile e che è il più  penetrante nella linea, per dir così, gramsciano-azionista, che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto riforma  del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo,  dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la  scarsissima simpatia per Gentile e che non pone infatti la  domanda essenziale: se quella che pur chiama «la profonda  innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione  marxista possa essere considerata uno sviluppo del  pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della  critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato  l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero  speculativo di Croce. È piccante osservare come le  precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano più  avverso a Gentile rappresentino le tappe per la  dimostrazione rigorosa del cedimento in Gramsci della  filosofia della prassi marxiana rispetto alla gentiliana.    Cominciamo con l’osservare come la critica gramsciana  dello storicismo crociano coincida puntualmente con quella  svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al  divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che  questa sostituzione coincide con quella del divenire reale  con un divenire dipinto; che la «non definitività» della  filosofia ricopre di fatto la definitività della società  liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in realtà  chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per  usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente  sostituito all’apologetica diretta dell'ordine esistente  un’apologetica indiretta. Che lo storicismo di CROCE,  come storicismo separato dalla filosofia della prassi e  dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo chiuso al  futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui Gentile  conclude definitivamente i suoi conti con CROCE, Storicismo e Storicismo, riscontriamo una corrispondenza  perfetta. Gentile parla dello storicismo crociano come  appoggiato a fondamenta semplicemente dipinte, perché  all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti;  così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il  futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque  possibile futuro, è logicamente un passato rispetto al  pensiero che lo raffigura nel sistema necessario della logica. Passiamo ora all’innovazione profonda che Gramsci  introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in  questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società  civile vista come appartenente non al momento della  struttura, ma a quello della sovrastruttura; cioè per Marx la  società civile, intesa come «il vero focolare, il teatro di ogni  storia», comprende secondo la definizione dell’Ideologia  tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica, tutto  il complesso delle relazioni materiali fra gli individui  all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze  produttive.& Affermazioni che sono la premessa della  celebre definizione della Critica dell'economia politica. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la  struttura economica della società, ossia la base reale sulla  quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla quale  corrispondono forze determinanti della coscienza sociale. Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca  tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della  struttura, con la teoria materialistica del riflesso (le idee  come riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per  «società civile» tutto il complesso delle relazioni ideologico-  culturali della vita spirituale, si rimette la dialettica sulla  testa, sia pure in modo diverso da quello che aveva fatto Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia  economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia  della filosofia. È quel che attesta il passo gramsciano così  frequentemente citato, secondo cui «la filosofia della prassi  è il coronamento di tutto questo movimento di riforma  intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura  popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma  protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è  anche una politica e una politica che è anche filosofia».&  Detto questo, le altre novità gramsciane che BOBBIO mette in  luce con tanta precisione non possono servire ad altro che a  illuminare meglio la coincidenza tra il distacco di Gramsci  da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la sua,  certamente non voluta né consapevole, subordinazione  all’attualismo. Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero di GENTILE da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana sul concetto di storia della filosofia, in cui la storia,  in obbedienza, per così dire, al mondo rimesso sulla testa  nel giovanile libro su Marx, viene risolta nella storia della  filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci, che il concetto  «borghese» di «modernità» si sostituisce alla versione  rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla base  della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente  gramsciano tra la borghesia progressiva e il comunismo,  quell’incontro così severamente giudicato da BORDIGA (si veda), ma  non da Bordiga soltanto.   La novità rispetto all’idea della società civile è correlativa  all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure BOBBIO acutamente avverte, senza però osservare che  avviene esattamente nei termini che Gentile auspicava. Per LABRIOLA la tesi che «le idee non nascono dal cielo» era  equivalente alla loro spiegazione a partire dalla struttura  economica, secondo la notissima sua frase per cui la  struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i  modi di regolazione e di soggezione degli uomini verso gli  uomini (il diritto, la morale, lo stato), 1 secondo luogo e per  indiretto gli obiettivi della fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della scienza». Le idee non  nascono dal cielo neanche per Gentile e per Gramsci; ma le  concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni una  funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un  potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era  appunto il senso del congedo del materialismo marxiano —  dell’ antDibring in nome dell’elemento più positivo e  rigorosamente critico delle tesi — proposto dal Gentile anti-Labriola. La concezione gramsciana della società civile porta  alla critica dell’economismo a cui consegue quella del  materialismo. Marxismo dissociato da materialismo e da  economismo; ma non è una definizione che vale esattamente  per l’attualismo? Con un paradosso soltanto apparente si  potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a Croce  da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato    Gentile. Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di blocco  storico, in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti  gramsciani siano scarsissimi, si suol riconoscere il nucleo  fondamentale» del gramscismo. Ebbene, in due di questi  pochi passi si dice che nel «blocco storico» le forze materiali  sono il contenuto e le ideologie la forma, affermazione a cui  Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che la  distinzione di forma e di contenuto è meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero  concepibili storicamente senza forma e le ideologie  sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali;  così che l’unità-distinzione tra la struttura e la sovrastruttura  viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito. Frasi di  cui è inutile sottolineare l'accento attualistico. Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana sul  primato italiano nella promozione della rivoluzione  comunista a rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del  popolo italiano è nella ripresa «del cosmopolitismo romano  e medioevale, ma nella forma più moderna e avanzata» non  in quella nazionalistica rivolta al passato. Quanto a dire è  nella continuazione, nella forma che si è detto, della filosofia  dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più alto  sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla  sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere  mondiale della rivoluzione. Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi  al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di  società civile ha tra l’altro la funzione di permettere,  attraverso una giustificazione filosofica, la fondazione in  linea di diritto della novità del leninismo rispetto a Marx: la  nozione di egemonia, ossia l’idea del partito come  strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva  parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in  ciò oltre al marxismo nella direzione volontaristica e  partitica; per Gramsci bisogna subordinare questa direzione  politica alla direzione culturale. Si potrebbe dire che il  progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente  per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può  trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima alla seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto  che meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione.  Anche se non si possono trovare citazioni precise, credo si  possa considerare pensiero centrale di Gramsci quello che la  riforma teorica del marxismo conseguente alla riforma  italiana del pensiero classico tedesco rende anche possibile  la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti — non  sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si  va fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella  di Stalin e quella di Trockij. Perché si può dire che in  entrambe egli dovesse vedere la conseguenza del non risolto  problema leninista; nello stalinismo prendeva la forma della  subordinazione della teoria alla pratica, con la conseguenza  della trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere  che doveva, in definitiva, portare al social-imperialismo. Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non troncare il  processo rivoluzionario non poteva trovare soddisfazione  sino a che non si fosse elaborata una filosofia rivoluzionaria  con significato veramente mondiale.    La priorità della direzione politica poteva cioè portare alla  formazione di una volontà collettiva, nel senso di volontà  universale, solo a condizione che fosse subordinata a una  concezione del mondo, non più usata strumentalmente, ma  valida perché vera, tale da imporsi agli intellettuali. Ciò  aveva portato alla delusione degli stessi intellettuali marxisti  occidentali rispetto al comunismo russo, e alla loro  solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici  nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse  fenomeno russo e non inizio della rivoluzione mondiale. Come reazione di Gramsci a questa impressione deve essere  inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione del popolo italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere  dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente  critica del marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr  ewig [per sempre] a cui egli si accinge dopo la sconfitta  politica e a cui lavora negli anni del carcere. Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole,  alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso  sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può  confessare, e che non può confessare perché è insuperabile.  Ora, soltanto #/ necessario cedimento di Gramsci rispetto a  Gentile ci permette di definire questa insuperabilità.  Davanti alla filosofia dello spirito italiana non ci sono per  il marxismo filosofico che due vie: o respingere  assolutamente tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o  trasformarsi nel senso gramsciano. Finché si porti  l’attenzione sul solo Croce, la tesi del marxismo di Gramsci  può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà, essere  sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere  sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di  soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la  forma più liberale che il marxismo sia suscettibile di  assumere. Le cose cambiano completamente, come si è  visto, quando si ponga il problema del rapporto con  l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile  perché sia marxismo che attualismo si presentano come  l’esito della filosofia classica tedesca. Bisognerebbe  dimostrare che l’attualismo è un’involuzione, ma dove  ravvisare l'elemento involgente? La considerazione del modo con cui Gentile incontra il punto nodale del pensiero  marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso  sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo,  nell’ideologia italiana, eccetera; tutti i discorsi del  cattaneismo oggi corrente. A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche  definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano.  Ha ragione quando afferma che il neomarxismo di Gramsci  non è effettivamente più marxismo; non però perché  contagiato da influenze che avrebbe subito, in qualche  modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il  modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si  deve invece dire che rappresenta esattamente quel che il  marxismo deve diventare quando vuol prendere posizione  rispetto alla «filosofia dello Spirito» italiana. Meglio ancora:  come già si è visto, l’originalità incontestabile del pensiero  gramsciano, quel che ne fa il più notevole tra i commenti  filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che, richiamandosi a LABRIOLA (si veda), ha posto il problema dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché la rivoluzione non venga  riassorbita nel vecchio mondo; da ciò l’eccezionale  importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica  di sinistra non può procedere oltre dopo il rilievo del  nonmarxismo di Gramsci: la sua verità rispetto a giudizi di  fatto abbisogna di una diversa giustificazione teorica.  Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat come  ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio,  le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che  riguarda le conseguenze pratico-politiche del gramscismo. Non sa tuttavia indicare la forma di marxismo critico che  possa venir sostituita alla posizione di GRAMSCI; ed è dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione nel  senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare  tutte le forme in cui sinora si è realizzata o si propone.  Quanto si è detto porta al non piccolo risultato del  riconoscimento di un’impotenza non superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile del  marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto  nello scacco dell’attualismo, da intendere non come scacco-  fallimento, ma come scacco-occasione di una svolta nella  storia del pensiero. Ogni altra critica appare esterna rispetto  a questa: che mostra come, percorrendo lo svolgimento  dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non si  possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale  portata sia questa critica ci accorgiamo considerando come  quella che si potrebbe chiamare «prigionia gramsciana del  marxismo nell’attualismo» porti a rovesciare la rivoluzione,  nel senso marxiano del termine, in dissoluzione. Non è  senza significato che oggi si affacci l’idea che la  contestazione (definibile appunto come rovesciamento della  rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera  selettiva tra i teorici del marxismo, risparmiando il solo  Gramsci come elaboratore dell’unica strategia capace di  render possibile il passaggio al comunismo nei Paesi  occidentali. Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di GENTILE e di GRAMSCI? Analizzare così il particolare fascismo  di GENTILE come il comunismo di Gramsci può portare a una  visione della storia contemporanea diversa dalle abituali.  Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di sentire una  certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi si  trattasse di un tema su cui fosse preferibile non insistere. Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere nella  funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini,  nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque,  data la prossimità di posizioni filosofiche, il fascismo di  Gentile e l’antifascismo di Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità  politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al  riscontro testuale. Tali possibilità sono due, la  risorgimentale” e la rivoluzionaria. La prima si imparenta  alla sua interpretazione in termini di «filosofia cristiana». La  grande cesura nella storia sarebbe rappresentata dal  cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo al  soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,  in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da  questo e in relazione alla sua critica del materialismo  marxiano, da lui associato con l’idea rivoluzionaria, GENTILE  può pensare a un Marx oltrepassato in GIOBERTI (si veda), e all’idea di  rivoluzione oltrepassata in quella di Risorgimento, elevata a  vera e propria categoria filosofica. Risorgimento che viene  conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale alle  posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti  al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e  amoralismo, spirito rivoluzionario, negazione della  tradizione. Da ciò lo sganciamento totale del Risorgimento  dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione francese e  la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di vera  restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non  come semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa  e affinamento di una tradizione, dopo che essa era stata  messa in crisi, così che potremmo complessivamente dire  che per Gentile spirito risorgimentale ha il significato di riaffermata religione di SPIRITO (si veda), come spiritualismo  purificato da ogni traccia di naturalismo e di  soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo  per lui, per così dire, una forma di naturalismo iperuranico. Se separiamo però l’attualismo dal suo carattere  «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo autore  gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per  quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia  (particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione  pisana L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia:  tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono  mosse nell'orizzonte di una realtà e di una verità  presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di un  processo di erosione della concezione oggettivistica e  trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»;  ciò non toglie però il salto tra esse, e il rigoroso  immanentismo. L’attualismo non è soltanto il punto d’arrivo  di un processo millenario, ma una rivoluzione; e il passo  ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi vedesse  questo; la rivoluzione filosofica attualista, perfezionamento  del marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione  comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o  evoluzionistiche del marxismo. Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da  Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la  domanda inversa: l’interpretazione in termini di attualismo,  di soggettivistica filosofia della prassi, non porta al  rovesciamento dell’idea di rivoluzione in quella di  dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto per  indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo  non può non venire in mente la diagnosi di Nietzsche: l'avventura della rivoluzione a contatto con l’attualismo può servire a mostrare che l’idea rivoluzionaria non riesce a  sormontare il nichilismo. È qui che si manifesta  massimamente quell’enorme potere di negatività, che è il  proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che  l’attualismo è oggi attuale, o torna a esserlo, proprio per  questo motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette  in primo piano la figura dell’intellettuale; e si sa quanta  importanza la sua definizione abbia assunto per GRAMSCI. Ora, si consideri: l'influenza gramsciana nell’ultimo quarto  del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a quella  della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di intellettuale  che oggi prevalgono sono quello del dissacratore o demistificatore e quello dell’esperto o del tecnico;  quale rapporto hanno con la figura gramsciana  dell’intellettuale organico? Rispondo che sono il frutto  della sua decomposizione. All’intellettuale era assegnata da GRAMSCI una funzione un po’ simile a quella che Marx  assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso,  libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in  funzionario dell’industria culturale, dipendente da una  classe di potere che ha bisogno così dell’intellettuale  dissacratore (quale custode del nichilismo) come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è  del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si  configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte  l’economismo, l'opposizione diventerà quella tra intellettuali  tradizionali e intellettuali progressivi. Come storicisti, questi  non potranno più parlare in nome di un socialismo  utopistico; neppure però di un socialismo scientifico, dato  l’abbandono dell’aspetto materialistico-economicistico, oggettivistico, del marxismo. Semplicemente in nome della  storia come processo di autotrascendimento. L’interpretazione dell’attualismo in chiave illuministica  porterà a una sorta d’illuminismo dopo il marxismo,  dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la  conseguenza che l’intellettuale progressivo prenderà la  figura dell’intellettuale dissacratore: del devalorizzatore dei  valori finora considerati come supremi. Quella rivoluzione  per erosione, e non per rottura brusca, che è poi la «guerra  di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica  rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una  dissoluzione entro l'ordine dato, che viene privato dei  valori ideali che lo fondano, così che viene chiusa la via a  una loro riaffermazione purificata. GRAMSCI, naturalmente, non ha il minimo sospetto di  questo possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che  avrebbe detestato gli intellettuali profittatori dei connubi tra  marxismo, psicanalisi di sinistra e decadentismo sadico. Ci si  può render conto di questa assenza di previsione, se si pensa  alle circostanze politiche che furono l’occasione della sua  riflessione filosofica. In GRAMSCI ordinovista c’è la  persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la  rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto  attuarsi in Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto  imprevisto del fascismo che attrae a sé il consenso della  maggior parte di questa cultura; in diversi gradi, ma  praticamente è sufficiente il giudizio della sua minore  pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo. Per  il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare  all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso  l’unica via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo coerente del suo motivo più originale deve portarla  all'incontro col marxismo autentico, o, per dir meglio, alla  sua scoperta. SPIRITO dice che GENTILE è il  creatore del fascismo. Si tratta di una frase forse un po’ a  punta, ma che è vera, quando venga bene intesa. Senza la  cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prender  forma. Ebbene, si deve dire che GRAMSCI e il creatore  dell’antifascismo, quando lo si distingua dall’opposizione  mossa in nome del prefascismo (quella di CROCE, per  esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del  fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi  naturale che, trasportato in una situazione in cui il fascismo  non sussiste più, l’antifascismo non possa esplicarsi che  come fenomeno dissolutivo. Per esprimere tutto in una  rapida formula, direi che, visti nella loro radice filosofica,  fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui quella  filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel farsi  mondo. Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo necessario  che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della  rivoluzione totale. Il pensiero di GRAMSCI, in quanto vuole  assegnare al termine materialismo un significato soltanto  metaforico (al di là del mondo storico non c’è nulla), ne è la  completa riprova: la funzione primaria data agli intellettuali  come all'elemento attivo e unificante e al partito moderno Principe come intellettuale collettivo porta in realtà alla  captazione borghese-illuministico-modernista.   Osserviamo infatti. In questa concezione storicistica gli  intellettuali possono operare soltanto come dissolutori delle  verità eterne, svolgenti perciò una critica che include quella  dell'aspetto escatologico del marxismo. Il momento negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal  positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente,  dei valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione  dissolutiva che non distrugge le classi, ma porta al dominio  di una nuova classe, che tratta ogni idea come strumento di  potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro, più  razionalmente organizzato, del dominio di classe. Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta  attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte  negli ultimi anni, così su GRAMSCI come su GENTILE. Così, è  stato giustamente osservato da Riechers come il socialismo si  riduca fondamentalmente per GRAMSCI a un modo di  produzione capitalistica separato dalla figura  dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è  controllato dagl’intellettuali organici (la nuova classe);  e che per lui sembra esistere un’economia indifferente alle  classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova impedito  da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione è scissione completa col vecchio mondo, e tutto il suo  lavoro è svolto a definire l’idea, in questo significato  scissionistico; di fatto, questa purificata idea rivoluzionaria è  destinata a rovesciarsi nel senso che si è detto.  [sal Si potrebbe dire che negli atteggiamenti storico-politici  opposti di GENTILE e di GRAMSCI si conclude la polemica tra MAZZINI e Marx. Si conclude però nel modo più singolare,  estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come  per il politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia  della prassi, rivoluzione totale e materialismo; l’approfondimento gentiliano della filosofia della prassi  porta alla cancellazione del materialismo; GRAMSCI tenta  vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale  dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi. CROCE pensa che nelle discussioni italiane il marxismo teorico avesse subito la sua critica  decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero  italiano di portarsi al livello più alto del pensiero mondiale.  È un giudizio da rettificare piuttosto che da escludere; a  parte la consapevolezza che egli stesso o altri abbiano  potuto averne, il protagonista della grande e insolubile crisi  del marxismo teorico è GENTILE. E la crisi avviene  effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile  tra l’opera rigorosamente teorica di GRAMSCI e quella di  BORDIGA (si veda), che è costretta al marxismo letterale, e non può  raggiungere una formulazione teorica seria, proprio perché  non ha affrontato Gentile, ma che è nonostante ciò  sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo di  GRAMSCI. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica,  all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea  marxiana della rivoluzione totale, autocritica che si esprime  nella forma di rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di  GRAMSCI ne è la decisiva conferma. Se è vera la prospettiva  che ho enunciato nel mio libro su I/ problema dell’ateismo,  secondo cui il razionalismo, inteso come negazione senza  prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della  rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In  ciò il senso della svolta decisiva che la filosofia di GENTILE  rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords: saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi, Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e del Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Noferi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della setta di Firenze – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Important Italian philosopher, especially influential at what Grice called Italy’s Oxford, i. e. Firenze“Palla Strozzi was more a mentor than a philosopher, but I would consider him both a Grecian and Griceian in spirit.” alla Strozzi   Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Grazie alla ricchezza accumulata nelle ultime generazioni dalla sua famiglia, il padre puo far istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse e all'intelligenza, divenne di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini. Ricco e colto, commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella Basilica di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con uomini chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a lui solo due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato o lo scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura, e a capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile, Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate, cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della “liberta”. In questo e diverso d’Albizi.  Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi conquistare. Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di filosofi, nel periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali più notevoli della penisola italiana, per certi risultati artistici più importante della stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due fiorentini come Giotto o Donatello.  Lascia la sua raccolta di libri rari, arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno padovano, al monastero di Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso il Prato della Valle. Sepolto nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere dello Speron d'oro nastrino per uniforme ordinaria cavaliere dello speron d'oro  Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather philosophers, since what’s the good of knowing the classics if you cannot converse? He never touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! Strozzi-Noferi. Noferi. Keywords: “Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very Italian in an exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Nola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’urina – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. Gice: “At Oxford, we are proud of our philosophy, at Bologna, and in Italy in general, they are proud of their physicians, as they call them – students of nature!”. Di origini napoletane e zio di Molisi, insegna per lungo tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto per suo saggio, “Quod sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem speciei adversus Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli, Elementi dell'arte di ragionare in medicina” (Napoli, Gabinetto); S.  Renzi, “Storia della medicina” (Napoli, Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, Roma); Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio storico di Crotone.  1, quem ad modum Ciuitates tunc optime gubernātur, (vt inquit Platoin lib. de Philo. cùm iniustidant pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor, & scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, Auctore. Med. Doctore scientias ac artes perfetè, et breui cuns et isaffequiliceret: at queitaetia muerè scientes, acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso contradicentibus statuta nullafit, no immeritòe inoptimosuiros, arbitror, impurissimum quen queac in eruditum iuuenem inuehiandere et admodum paucos vere scientes, artifices quereperiri, cum& passim scribere omnibus liceat, & unicuique sententiam ferre apud vulgus. Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam fit quibusdam, easdem docere artes, ac publicè profiter i , qui uel omnino inertes fint, aut parumeas intelligant: cùm ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non est fidgeipfierrent, & alios aberrarecogant. Quandoquidem oporteret (utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere, fix OVOD SANORVM AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et bique   fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria, ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint, pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent. Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint. Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem, nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector, liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum Plusquam commentatoris, tum etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile, longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM ægrorumý; corp. biqueconsentire, e nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto ses utipfeait. quod sita fieretnequehic incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus male eruditusac impulsus, eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas. Quas omnes passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor, quod huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque reliquiin posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. virisindies utilia, Artisg; medicæ apprimè necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim dicam, universam pene medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem, uteaquæa doctissimoac Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta sunttuear, sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et reliquaomniaque hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et rationibus comprobata, ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis etiam aliorum do tiffimorum, si quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea; primus omnium quosuiderim, propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo iudicio, ueritate mattigerint, et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores calumniasset, quorumnca quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret cunéta quaibitemerenarrat cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam desedimentosentit, quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et Gal. sententia demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag. conscriptos, manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis modă. Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords: Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig, brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ – universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e Nola” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Noto: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di IVPITER – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pollina). Filosofo italiano. Pollina, Palermo, Sicilia. Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter, who DIED there – are obsessed with God – Noto wrote his thesis on that, evidence and lack thereof for God – the part concerining the refutation for those who deny evidence is fascinating! And typically of an Italian philosopher, he narrows down his research to ‘secolo XIII,’ where we at England and Oxford hardly existed!”Fa gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e al Convento del Bosco ai Frati. Vestì il saio francescano a Fucecchio e professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai Frati, il Convento di San Vivaldo, Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano. Emise i voti a Fiesole e fu ordinato sacerdote a Siena. Andò a Parigi e frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e il Collège de France. Conseguì il Dottorato in filosofia e il Diploma di studi superiori alla Sorbona. Essendo andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma di lingua inglese che in seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel periodo estivo. Pubblicò la tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia" (Ed. MILANI, Padova). Si imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove insegnò. Lì ricoprì gli incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in Italia e fu per un anno direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si trasfere a Figline Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse alla Università Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in Italia. Aveva iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per infermieri dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un laboratorio linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle lingue. Deceduto nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da miocardite in diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male nella notte dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva tenuto lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi. Alle 18 andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua inglese per adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico cardiologo che ordinò il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata stroncata da un complesso attacco cardiaco polmonare.  Ai funerali, presieduti dal Padre Provinciale nella Chiesa di San Francesco in Figline erano presenti tanti religiosi e sacerdoti, i parenti, molte suore oltre che un grande pubblico di studenti e popolo che riempiva la chiesa. È stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento di Giaccherino Convento del Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di Sargiano Montemurlo  L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo XIII. Grice: “Noto is playing with his surname. There’s no ‘significare’ in Italian. They use ‘notare’ – Now, how is God signified? When Cicero said ‘god’ he meant Jupiter. Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede was killed in self-inflicted accidental with a boomerang. Her mother said: “His corpse is here, but he was raped by Giove --. Taking this narrative literally – Ganymede was RAPED, so the rape is the way the god gets ‘noted’. Noto. Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Novara: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Euclide – filosofia piemontese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Novara).  Filosofo italianao. Novara, Piemonte. m. Viterbo.  matematico, astronomo e astrologo italiano. Tra i più importanti scienziati e matematic (anche Bacone lo cita come uno dei più grandi matematici a lui contemporanei), Campano è conosciuto anche come Johannes Campanus (che è tuttavia anche il nome di un Johannes Campanus anabattista belga del Cinquecento).   Elementa geometriae, Campano da Novara Tetragonismus idest circuli quadratura. Pubblicato un'edizione degl’Elementa geometriae d’Euclide ed un importante commento all'opera, introducendo un sistema di calcolo degli angoli del pentagono. Il testo e utilizzato per circa due secoli e sarà stampato a Venezia (Preclarissimus liber elementorum Euclidis). L'opera si basa su una traduzione in lingua araba dell'originale testo greco. N. ha inoltre probabilmente presente la traduzione latina eseguita da Bath. Cappellano di papa Urbano IV (in un documento delle Curia pontificia se ne attesta la presenza e se ne parla come di uno dei quattro migliori matematici viventi) e medico personale di papa Bonifacio VIII e viaggia in Arabia e in Spagna. Su ordine dello stesso Urbano IV egli si occupa anche di astronomia e realizzerà la Theorica Planetarum, nella quale descrisse geometricamente i moti dei pianeti e il modo per realizzare un planetario. I dati sui pianeti sono tratti dall'Almagesto e dalle Tavole Toledane dell'astronomo arabo Azarquiel (al-Zarqālī).  Dopo trent'anni di presenza nella curia pontificia a contatto con i maggiori filosofi naturali dell'epoca, raccolse un enorme patrimonio immobiliare, stimato alla morte da un ambasciatore aragonese in più di 12 000 fiorini: una ricchezza legata con ogni probabilità alla sua attività di medico. Negli ambienti curiali fu assai fortunata una benefica pillola da lui fabbricata, di cui poi si lesse la ricetta nel Breviarium Praticae. Si ricorda anche una sua splendida dimora presso Viterbo, in una zona di bagni termali, nella quale abitò negli ultimi anni della sua vita.  Di lui ci restano l'Abbreviatio equatorii planetarum, il Canon pro minutionibus et purgationibus, il Computus maior, il Tractatus de sphera, il De computo ecclesiastico, un Calendarium, i commenti ad Euclide e all'Almagesto. Secondo una recente ipotesi sarebbe a lui attribuibile anche lo Speculum astronomiae, importantissimo catalogo di opere astrologiche, che distingueva magia lecita dall'illecita. Da lui prende il nome un sistema di domificazione in astrologia. Gli è inoltre stato intitolato il cratere Campano, all'estremo sud-occidentale del Mare Nubium, sulla Luna.  Parte di questo testo proviene dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Francis S.Benjamin Jr., G.J. Toomer, N. and Medieval Platenary Theory, The University of Wisconsin Press, N. (et alii), Tetragonismus idest circuli quadratura, Impressum Venetiis, per Ioan. Bapti. Sessa, Agostino Paravicini Bagliani, N., Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Campanus, su Enciclopedia Britannica, ALCUIN, Università di Ratisbona. Modifica su Wikidata (EN) Campano da Novara, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Portale Astrologia   Portale Astronomia   Portale Biografie   Portale Matematica Categorie: Matematici italiani Astronomi italiani Astrologi italiani Nati a Novara Morti a Viterbo Astronomi medievali [altre]. Giovanni Campano da Novara.

 

Grice e Novaro: la ragione conversazionale e implicatura conversazionale ligure -- l’infinito del ponente – filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Maria). Filosofo italiano. Grice: “Novaro comes from my favourite area in Italy, “La riviera ligure”!” Grice: “Novaro wrote a nice little treatise on the nature of the infinite – a concept which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da famiglia economicamente agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi liceali, ottenendo la laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore comunale per il partito socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel locale liceo, con i fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla madre Paolina Sasso.  Pur dedito all'attività imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo anni del Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino alla sua cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli, Roccatagliata, Jahier, Boine e Sbarbaro.  Scrisse saggi di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie, che hanno come tema principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume intitolato Murmuri ed echi che vide le stampe. Fu anche il curatore dell'edizione delle opere di Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto di carattere etico.  Saggi: “Finito ed iinfinito” (Roma, Balbi), “Murmuro ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura ecoica” --; “All'insegna del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure Nicolas Malebranche. Tra Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro, su parchiculturali. Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Scheda biografica nel sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Se il concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana, uno degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una definitiva soluzione delle difficoltà che esso presenta non e tuttavia che straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il rilegare, come a priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e si considera il regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando si ammette senz’altro che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere eh' esso arrivi a comprendere l’infinito. Hobbes, De corpore; Descartes, Principien, ediz. Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano); Locke, Essay on humane Underslaning, ediz. Ward, World Library, Hume, Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons, Principia of Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la posta. S’è lasciato intatto il mistero che sembra  involgerla. Già tutti i concetti che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti ontologici dovettero per questo attendere a lungo prima di venir  trattati in corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo, l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti secoli prima della ripresa della questione per  Locke, trattarono il problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i tropi  dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht  werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut, und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge, welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati  della estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a riconoscere evidentemente per tali. E più  d’uno nel confutarli à seguito, come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche  Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa  &  i matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni  svelate dai veliani avevano dovuto per forza rinunciare  a far uso del concetto di “infinito” e lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di Antifontem continuarono a  lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare alla rigorosa esattezza delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito” non compare mai esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha seguaci anche dopo che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i suoi  cosi fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non  avere l’autore stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente giustificarlo, nè dargli  un denotato preciso, si che egli molte volte ha a espri supposizione che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio Èrtovi  come se la critica del velino non valesse indifferentemente tanto per  il continuo dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr. Cantor. Er (Aristotele) lòst das Paradoxon der Duschlaufung dieser unendlich vielen Raum-punkte in endlicher Zeit, durch das neue Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit unendlich viele Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul concetto di “infinito” in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo. Il LIZIO dà una divisione dei vari generi di infinito, che come sempre  0 spessissimo presso lui è più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre è la sua trattazione oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che l’infinito *potenziale*, il quale nasce dal non trovar la  nostra immaginazione alcun limite così nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta l’infinito attuale. L’infinito, dice Aristotele, non è grandezza  nè à parti così, come il suono è per sò invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non  esiste dunque in realtà, perchè non v’ è grandezza cui possa attribuirsi. Ma la contraddizione che Aristotele crede dover evitare rigettando il  concetto dell’infinito attuale è appunto nascosta invece in quello del continuo. Altrimenti Aristotele non avrebbe così leggermente creduto di aver superate le difficoltà dei veliani. li Montucla, Histoire cles recherches sur la quadrature du eercìe. Paris, Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi Alterthum und Mitelaltcr.] juersi sulla sua nozione in modo affatto contradittorio. E se i filosofi non riuscirono a chiarire i loro concetti  riguardanti l’infinito trascurando la maggior parte di  aiutarsi con un esame accurato dalle difficoltà che incontrano anche i matematici, questi dal canto loro si  sono del pari in grau parte appagati dei risultati, senza sentire troppo acuto il bisogno di rendersi conto esatto dei concetti dei quali hanno a fare un continuo uso. Che anzi per le difficoltà, oscurità o contraddizioni dell infinito tranquillamente si rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più razionalmente intorno ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in fondo una evidente ambiguità sulla natura generale del concetto d’“infinito”. Lascia infatti  alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se si diano  propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene pure per indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e Schriften, Gerhardt  I' , dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo  ivi. Infatti dopo l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di Berlino, presieduta  da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en mathcmati jue. On sait que la haute geometrie fait un usage  continuel des infiniment grands et des infiniinent petits. Cependant les  geomètres et meme les analystes anciens, ont eviti* soicneusement tòut  ce qui approche de l’infini, et des grands analystes modernes avouent  que les termes grawleur infmie sont contradictoires. L’Acad^mie sou-  haitc donc qu’ on explique comment on a déduit tant de theorèmes  vrais d une supposition contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad.  des Sciences. Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico filosofo dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche  dilucidazione definitiva, Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse à dato una cosi  bella e tuttora insuperata sistematica trattazion generale,  non solo non fa fare un passo alla questione, ma neppure seppe bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di Carnot, il quale prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono cosi i filosofi che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si direbbè che lo fa in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente cangiato  li suo metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come egli in realtà è qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli stesso còlto 1’ultimo futto della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito di  Locke, oltre aver risolto l’infinitamente piccolo e grande  nel processo formale dell’animo, l’aver dimostrato come  un tale concetto sia solo propriamente applicabile a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con ciò ogni  nebuloso abuso scolastico e metafisico di esso, era reso impossibile, e ogni sua applicazione ad altro che a concetti di grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi da Locke e approfittando della luce che Carnot getta sulla natura dell’infinitesimo, il  Duhnng à finalmente completata la razionalizzazione di  [ Leibniz, passo citato, Gerhardt e Montucla, Histoire  des mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia può  sollevare sul concetto dell’infinito, il matematico “a droit de ne  s en pas plus embarasser que des disputes des physiciens sur la naure de 1 etendue et du movement.” Locke, On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring  costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi filosofici. Soltanto-  nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo. La  sua dimostrazione è però geometrica, e non  insieme algebraica. Manca quindi di generalità. Cosi si  spiega come Diihring ritenga ancor ora inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito  non viene dapprima reso chiaro e incontradittorio nella  matematica, la rocca in apparenza più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno comuni le radici o i principi e la matematica e la logica. La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa, ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*, sia  che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non   [Nat Uri iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo, malgrado il viro desiderio di molti  suoi ammiratori, quali per un esempio v. Gizicky e Riebl. Vedi  specialmente dello stesso, nei “ Xeue Grundmitteln u. Erfindungen zur  Analysis, ecc. il capitolo terzo. L’analisi critica dell’infinitesimo ivi  data riassumiamo noi brevemente nel numero seguente, modificandola  però nel senso della corretta legge del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und KVssenschaftstheorie, è un differente problema quello di Senone di Velia, da  quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal seicento in poi. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”, le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito* stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima  l’indisivibile di CAVALIERI, e pensato assurdamente quale  risultato di una infinita divisione, o come l’elemento più  piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra  ogni grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità  data e pensato l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni  data grandezza l’infinitamente grande, arrivando anche  qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque  piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di  intermedio. Questa ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero. Minore d’ogni quantità assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di “momento”, già Hobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il fondamento  della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di qualsiasi  assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti  a essenziale relatività. V. De Corpore.  Delimemus CONATUM esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn  bile è però soltanto lo zero; una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile grandezza. Tra  la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda finzione.  A meno che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod datar, id est determinatur, sine expositione vel numero assignatur  ìaest per punctum. Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet  per punctum non intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod  nulla ratione potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura)  sed id cuius quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque pars ulta inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non  habeatur prò IN-DIVISIBILI. Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO non prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita  mtelhgendus est, ut sit quidem motus sed ita ut neque tempori in quo fìt  neque lineai per quam fit quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis vel line cuius ipsa est pars. Quanquam  sicut punctum cura puncto, ita conatus cum Canata comparaci potest et  unus altero maior vel minor reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur moindre que toute grandcur donnée de  la meme nature. On est conduit naturellement a ridde des infiniment  petits, lorsqu’on considère les variations successives d’une grandeur  soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par des degrés  mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque petit  quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un corps  croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne peut  fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les positions  intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance, aussi petite  qu on voudrn, entre deux positions successives. Les infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione non pochi matematici, quali Bernouille  “oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo. Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il  continuo esteso in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar  poi il modo di farlo generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi Lasswitz, Galileis Thieorie der  Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph.,  a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni qualunque piccola quantità data.  Come nella serie dei numeri noi possiamo (prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità, cosi  possiamo farcene uno della possibile divisione dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn.  edizione Kirchmann. Sohald etwas als quantum discretum  angenommen wird, so ist die Menge der Einheiten darin bestimmt,  daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring però, e qui sta  il grave errore della sua teoria dell’infinito, à tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come diciamo  noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una qualunque data comunque già piccola per  sè. La illimitatezza riposa sul concetto della infinita  possibilità della ripetizione, non è dunque un concetto di effettività, ma di mera possibilità.  Il moto nevi realizza come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità di parti nel  finito. Moto non è che il concetto di ciò che la stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo, ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere senza limite alcuno. Ma effettivamente  nè la natura nè noi possiamo fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro  punto fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente, se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o coincidono,  o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa illusione  è nel dire che una quantità cresce per gradi minori di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m  matematica le quantità continue crescono per gradi e che  ogni nuovo incremento elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà  bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che  è solo della facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le  quantità non constano di elementi per sè esistenti, e che  invece noi solo distinguiamo in esse delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude solo la possibilità di un infinito porre di limiti,  ma non una infinità di limiti posti. Esso è quindi come  quello dell’infiuitamente piccolo un concetto di pura posibilità.  La illimitatezza nella scomponibilità in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una  qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di  razionale s’ à a sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di azione  del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di  ogni altra assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma pur reale di una  infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo o  infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di rimpicciolimento.  1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza finita relativamente piccola, la quale nel complesso delle operazioni può e deve rappresentare  ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta per eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa, come  infinitamente piccolo, essere secondo le circostanze un  milionesimo di millimetro ovvero una distanza solare.  L’essenziale non istà in queste eventuali determinazioni,  ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza, scelta in relazione a un tutto come parte insignificante, possano  nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza limite  alcuno sempre più piccole verso lo zero. L’ infinito  o la illimitatezza non è dunque ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel nostro animo che questa grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza oltre il suo. Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del  calcolo, non à più ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre sentito per quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma si noti bene-  non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità  insignificanti che loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti  più acuti procederebbero del pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che nelle   [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr. Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte: Cours de philosophie positive] loro funzioni darebbero in ultimo per risultato una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza  alcuna. Accanto a quantità finite si trascura nel risultato  e con ragione, un infinitamente piccolo, poiché è nella  sna natura di poter venire senza fine rimpicciolito verso  lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo  e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito  rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà sempre finite, comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più piccole verso  di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente grande si à analogamente a distinguere tra   [Non altro significa il luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non arriva a dar l’ultima chiarezza alla  nozione dell’infinitesimo. Infatti non avrebbe altrimenti creduto vi fosse  bisogno (per dimostrare come i risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale, anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi frantese affatto ciò che  di veramente importante e duraturo conteneva lo scritto di Carnot,  e ravvisa così il merito di lui appunto nella dimostrazione della compensazione degli errori (Cours de philosophie positive), la  teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile che solida. l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però  non venne schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli  dispute a cui diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo. Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta strada nelle menti dei matematici. Ma non  basta questo a razionalizzare l’infinitesimo. Dove colla relatività di  esso si ammette però ancora (v. ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.  questo e 1’ infinito assoluto o transfinito. Qui cometa si à una differenza qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro il concetto  proprio di grandezza è scomparso.  Il non aver distinto questi due concetti non à forse  meno contribuito della contraddizione di un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del  differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza  fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi  i casi ci è data la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come compiuta, poiché essa  deve rispondere alla illimitata possibilità di ripetizione-  del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per quanto piccola o grande di cui non si possa  sempre raggiungere un’altra ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già grande, può senza fine venir considerata  ancor sempre più grande secondo il bisogno. In ogni  aso non sarà però ella mai altro che finite. Come la  nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può  -- Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione dell't/t/unVo  relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui Wundt e Lasswitz  chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”, lasciando al contesto conversazionale l’ulteriore  specificazione. mai esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente grande  è un concetto di mera possibilità e non mai di effettività. Non è quindi propriamente applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie progressiva dei numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro esempio dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare  ad un ultimo membro delle serie, perchè la possibilità  di aggiungerne altri riman sempre la medesima. E nella  natura dell’infinitamente grande di non poter venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data oggettivamente, ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande può rappresentare ad arbitrio una  grandezza sempre maggiore oltre la sua. Inteso cosi è senz’altro chiaro che rinfinitamente  grande non è un infinito in atto e non può senza contraddizione venir scambiato con questo. L’aver confuse l’infinito assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente grande  è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto [Locke, On bum. Underst, Our idea of infinity  being, as I think, an endless growing idea, biit the idea of any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be it  as great as it will, it can be no greater than it is), to join infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say, a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless  progression that can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that of number always to be added. But  thereby never amounts to any distinct idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of division, as often as we will  think of it. But thereby we have no more a clear idea of infinite parts  in matter than we have a clear idea of an infinite number, by  being able still to add numbers to any assigned nember we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a rifiutare risolutamente  il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla nozione  di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività compiuta cui l’infinitamente grande non arriva  mai. Nel transfinito o trasfinito ogni grado di ingrandimento è già  anticipatamente dato. Esso è realmente maggiore di ogni  assegnabile grandezza, e dal finito non c’è modo di farlo  originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè  le possono sempre venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE IRRAZIONALE  dell’infinitamente grande, partendo ella da un falso concetto  del transfinito o tras-finito, secondo il quale si avrebbe questo a lasciar  pensare come un tutto, ossia, contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione per rifiutarne  il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue  parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da un  capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto  tale, ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea of an actually infinite number, both  being only in a power stili of increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è  quella che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo abbia  raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso e con ciò  di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito  non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile. Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più  possibilità di rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o tras-finito. Questo è la negazione della  grandezza misurata nel grande, e lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della grandezza  nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un continuo flusso,  lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il principio generativo dei primi non è applicabile ai secondi.  Dall’infìnitamente piccolo allo zero e dall’infinitamente  grande all’infinito assoluto c’è, a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra  «quindi Lasswitz che nega esserci qualcosa di corrispondente a que-  [Nel primo caso il passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto risolutivo col quale si sottrae interamente  il resto stesso. Nell’un caso si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene  mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del sempre nuovo resto. Bsogna  togliere in ima volta l’intero resto altrimenti si avrà  una convergenza continua verso l’irraggiungibile zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe veramente esaurita la grandezza. Non  bisogna prender per esaustione reale una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un infinitamente piccolo. Ma  questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero  passaggio. La inter-polabilità infinita di posizioni tra  punto e punto non toglie che da posizione a posizione  il passaggio debba rimanere E come v’è un salto da un  punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al  punto ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col   st’ultimo. (Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats -  hcfte); come pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants Kosmologische Antinomien u. das Problem der  Unendlichke.it Philos. Studien: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits vollzogenen Processes-  dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt niimlich ein wesen-  tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten vollig hinweg. -- passaggio allo zero si à però un risultato differente non tanto per quantità quanto per qualità dagli altri. D’altra parte lo stesso risultato qualitativamente differente si à nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente grande al transfinito o tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero dal caso dell’incoutro di due rette a distanza infinitamente grande al caso delle parallele, in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo, e si  pone come identico il risultato solo infinitamente approssimativo. In realtà però mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi delle due rette al  parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo le farebbe finite. Ed à luogo  allora quella illimitatezza od infinità assoluta della retta,  la quale è la negazione della grandezza misurata nel  grande, come lo zero è la negazione della grandezza in  generale. Un indubitabile significato si lascia dare al  transfinito o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della realtà, poiché esso trova  e suppone necessariamente come dati sempre piu membri  della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione reale del nostro conti) Diihring , luogo citato.  «etto ; ma rimanendo insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO  o il numero dei stelle sia o no infinita, non si à che l’applicazione di esso  allo spazio puro. Ed ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La tangente di un angolo che differisce da 90°  di una infinitamente piccola differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si tagliano si fa sempre più  lontano. Rimane però sempre dato un incontro reale delle  linee fin che sia data una per quanto piccola divergenza  da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più  propriamente una SECANTE nè una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la  CO-SECANTE e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna  grandezza, allo stesso modo che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte  corrisponde dall'altra l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso dell’infinitamente grande  si distingue da quello dell’infinito assoluto per questo, che  la possibilità (della illimitata estensibilità) non figura  come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività.Di pio quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di un’altra, in modo che dall’infinito  rimpicciolimento e dal grado di questo dipende l’infinito  ingrandimento e rispettivo grado costantemente corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à  fatto in riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene con qualche riserva,  da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di Diihring. Crede Cantor che la serie dei  numeri si lasci pensare non solo come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che si  lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo. L’aver sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o tras-finito è la cagione dell’assurda  nozione che s’è fatto Cantor di questo. Infatti perciò  à e Cantor potuto credere che il transfinito o trasfinito pnssa trovarsi  nel finito stesso quasi come suo sostrato, e servire cosi  alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento della reale serie dei numeri intieri  Duhrinq. Logik. Cantor: Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre;  Zur Lehre vom Transfinite.] oltre l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico  numero intiero infinito, si bene una infinita serie di tali  numeri come benissimo tra loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe sarebbe la  serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla  3 a e alla 4 a classe e cosi all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das eigentlicbe  Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal guisa non si arriverà  mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo  è un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito, quantunque determinato e maggiore d'ogni finito,  avrebbe assurdamente comune col finito il carattere della  illimitata aumentabilità. Cantor dà per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti, confessa però  non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito  non poter venir concepito, quantunque necessariamente  postulato. Qui dunque ritorna la difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari  numeri della nuova serie al  DI là DELL INFINITO. Cosi il non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p)  è una evidente ASSURDITà che rivela una inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente  in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere, come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità. Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa assai più facilmente rannodarsi a  quella del Locke e di Ivant da una parte, e dall’altra  a quella di Carnot, che non si lasci questa sua nuova  distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci) Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische” und die “synkathetische”. “Katlietisch” oder  einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende hat.” Syn-kathetisch”  unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine endliche Gròsse giebt  und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder Eines gròsser als  jenes Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb fiinde, welckes den  Abschluss bildete; aucli dieses ist immer eine Gròsse, aber nickt wenn  es mit Gròsserem verglicken wird. Man erkennt leicht dass das kathe-  tisck Unendliclie Bradwardinus das Ueberendliche oder Transfinite  ‘mente l’INFINITO POSITIVO di Descartes, di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce un’origine quasi del tutto-  ancora scolastica. L’infinito inteso coinè attributi necessario dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra chiara la sua derivazione da un altro concetto. Quantunque esso non ha in BRUNO questa sola origine ‘divino’.   unserer neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt, wàhrcnd  das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa-  chsen hervorgelit.  BRUNO capovolge la dottrina di Aristotele. Risolve arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde liberarsi dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi anche ma meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la infinità del mondo. (V. Acrotismus, citato dal TOCCO, Le opere di  BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità  dell’animo, mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito, -- dum non promere subiectae credat con-  formia rei. — Intìnitae progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus usus ARTI-FICIALIS obsecundat.  De Min. Tuttavia anche alla matematica vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del corpo  matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo anzi  non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili  o atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d.  Griech. Philosoph. dove ne è anche data la traduzione)  Della dottrina atomistica di BRUNO riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico infinito in riguardo  al quale non possa esservi divisione possibile uè disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti. L’infinito assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici, esempio  ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come è impossibile che  la materia mossa tra due cerchi possa realmente dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata  dalla relazione di quelli. Poiché data questa infinità non  è nè può essere. Altrimenti la potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea da’suoi  punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non può esser che un caso di infinita possibilità  come lo è quello dell'infinitamente grande. Philos.): “BRUNO hat darci» (lcn erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc Verdienst erworben,  den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt zu haben. So  lange das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass  es ein Krfordcrniss dcs Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung  zn liaben, macht den Atombegriff za einem nothwendigen.  Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne aveva rifiutato  il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo non  può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi  però mai esaurire da successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio pensare come raggiunto  il risultato d’una operazione infinita ossia da ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito  relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in realtà l’infinito assoluto. Esso è  soltanto lo stesso infinito relativo nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo. Ammette inoltre Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli altrove che  SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel trova la  distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti che ei dice  avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo  notato del transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il complesso della serie dei numeri intieri positivi.  Etica, I, prop. XV.  è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di  un altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una grande acutezza soltanto  le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito, non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO coll’illimitato progresso, riempiva  tanto l’infinito del tempo che quello dello spazio. Ed  è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra (2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke nell’esame dello spazio, e fissa  l’idealità di questo. Una idealità che se è conseguenza  delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga superiore. Ma quanto al concetto  proprio di infinito Kant non fa un passo oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di  quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella trattazione lockiana dell’infinito,  in cui la funzione SINTETICA dell’animo trovava una cosi Locke: Essay on Human Under ai.  giusta e importante bencliè non del tutto consapevole  applicazione. Hume, senza esaminare particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a considerare  l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo, confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”) ; e il tempo della  somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli  non dare una grandezza infinitamente grande? o, come  può un tal numero esser compreso allo stesso modo in  una data grandezza che in una doppia di quella? Come  può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il non aver più acutamente  esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World Library. Exsai/s  (4; Hume: Essai/s.  meno sino a Diiliring, che segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla  natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot,  e con Cauchy, in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è  ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss  poi, e dietro a lui con Riemann e con Steiner e con  tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi quale  indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale  non sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza  che cosi grande aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il notato  carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al secolo  precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata di  tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo mo¬  derno la questione della reale estensione dell’universo si  è fatta essenzialmente empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si lascia  dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo;  È chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La nostra rappresentazione dello spazio  il la sua spiegazione nella costante unità della coscienza e nella sua  libertà del porre e dell’oltrepassare continuamente il posto. Ora a  questa funzione de nostro ANIMO non si deve attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino infinito il mondo appunto perchè  è infinito lo spazio, ritenendo che la materia stia allo spazio come  questo a quella: “ e se non v’ha differenza tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto occupato dal nostro  sistema planetario sia pieno e tutto il resto dell’immenso spazio vuoto. „  Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.). il quale commenta  gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe farli servire a  dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il finito noi non possiamo raggiungere e non  possiamo mai giudicare se altro non vi sia più oltre da  raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o no dei  limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della forza  non basta, come crede Rielil, a dimostrare la finitezza della massa dell'universo. Seia massa si fa infinita,  dice Riehl, verrebbe a mancarle con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe però naturalmente se considerata solo nella sua trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di  masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande  principio della costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza della materia infinita come  tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus.  non è (lata analiticamente colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è toccato da  addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al tempo concorrono invece necessità  dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come  può senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il cangiamento abbia una volta cominciato è, per  il principio di causalità, impossibile ammettere. La ausa  di un cangiamento deve cercarsi a priori in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento  assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono nell’essere ultime ragioni dei processi, ma  non ultime cause. In ogni punto del tempo è esistita la  serie delle variazioni. Non che nel concetto di sostanza  si trovi unita necessariamente coll’esistenza l’azione, come  crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi  disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga  ad esser perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal  cangiaménto. Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla essenza. La forza potrebbe  però concepirsi ovunque come in equilibrio stabile, e con  ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una condizione del divenire cbe non entra mai  come membro nella serie causale -- è questa il fondamento  ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro possibilità. Un tal fondamento riman quindi come fuori del tempo ossia veramente ETERNO, senza origine nè fine. Non è cosi dei cangiamenti o degli stati momentanei dell’essere. Lo stato precedente a un DATO momento nella serie molteplice dei cangiamenti, se fosse sempre esistito, non avrebbe  mai prodotto un effetto cbe si origina solo nel tempo;  auche quello deve dunque aver avuto una causa, e cosi  all’infinito. Delle cause non ve ne può essere una cbe da  sè inizi assolutamente una serie; ogni causa di cangia¬  mento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò  un’altra causa, un altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e un principio assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per cui avvenga qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a  connettersi coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere senza una causa che la faccia cessare è  un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non  possiamo accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto), cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono soltanto la sostanza  e le sue qualità originarie, ossia in generale gli elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è  applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa  di un cangiamento non può mai esser che un altro cangiamento, non una cosa come tale. E quindi unicamente  l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO che non  à nè causa nè ragione, se non quella almeno che con Schopenhauer potremmo chiamare la ragione dell’essere,  o di identita. La medesimezza con sè stesso è infatti la  ragione della sua eterna esistenza. Dove non c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché causa non è  che la ragion reale del cangiamento. Una variazione che  non procedesse in base a qualcosa di stabile è un assurdo.  Degli elementi non si dà quindi nè generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che  la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la  uniformità e costanza del loro succedersi. Tanto l’essere  universale quanto la materia e la forza sono fuori della  catena causale. Nn sono per sè causa, si bene la ragione  della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si  può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il  più remoto fenomeno immaginabile quanto il presente  presupponendo l’essere, il fare dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da un sistema STATICO, come neminanco può a  questo passare. Sempre le forze si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed altri ànno  prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e lavoro sono sempre stati necessari da una parte  per conservare i cangiamenti lenti concretatisi, ossia in  generale le forme durevoli, e d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il voler dunque trovare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che  credere che la materia una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a un dato momento nell'universo,  che il momento innanzi noi possiamo immaginare come  affatto privo di vita conscia, non è uua creazione assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi  non l’abbiamo a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come occasionata  dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale  non à causa; ad essa come agli elementi ultimi d’ogni  realtà è applicabile soltanto ciò che s’è detta la ragione  dell’essere. Altra è però la questione della sua fenomenologia- In questa come nella fenomenologia generale la  causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si  presenta come originata dal NULLA, gli è perchè le sue  cause, nella loro natura oggettiva materiale, non possono  in essa evidentemente comparire. Gli elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella realtà  inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data  combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del cangiamento in generale implicherebbe  invece una derogazione alla legge fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire, e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile non è per sè stesso intelligibile senza  un identico a sostrato. La identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi contenuto della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica. Ammesso che cangiamenti  potessero avvenire senza conseguire ad altri, verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento. Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro che come l’animo è la condizione inevitabile  della esperienza, e con ciò del nostro mondo fenomenico,  cosi le sue leggi o funzioni generali devono anche di  quello esser leggi a priori, o assolutamente valide indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria delle cose, ossia  non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè nelle  cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi  in riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi  necessario di veder nelle leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un riverbero o meglio null’altro che l’espressione soggettiva delle determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un principio del tempo reale e con ciò un  cominciamento delle causalità non si sfugge d’ altronde  alla domanda. E perchè non prima? Se il primo cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco si dice che qualche cosa l’abhia impedito di  nascere prima. Per questo, per quanto lo si allontani dal  presente, esso riesce sempre troppo vicino. Richiamarsi  alla originarietà dell'essere come fa Duliring, alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni  ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero non può mai ricevere completamente in  sè stesso, mai fondare in senso assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto alla  stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente si contraddice. Si contraddice, dico, poiché,  lasciando da parte l'analogia del pensiero che ammesso  il cangiamento non sa vedere come esso possa originarsi  in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà conoscenza  alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni cangiamento che apparentemente si presenta come  tale — il nuovo nell’evoluzione — noi lo riduciamo è  vero alle forze o forme, agli elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il perchè della  loro manifestazione appunto in un tale momento e non  in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della realtà, che  nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi, quando  diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del  perchè quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia  già stato in passato o non abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo suo essere  Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza stessa universale : dacché  come questa non à inai avuta fuori di sè la ragione del  suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire interno.   In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,  non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non c’ è  un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno  in cui esso non abbia un suo stato determinato. E cosi  che del divenire v’ è sempre la ragione in un divenire  anteriore, ma del divenire in senso assoluto, v’è tanto  poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi. In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò  che à esistito la ragione di ciò che esiste. Nella origina¬  ria nebulosa è la ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri processi cosmici ebbe  essa stessa la sua origine, i quali se la scienza non può  oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile  che un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il cangiamento non à dunque avuto principio. Ed  ecco appunto dove sorgono specialmente gravi, e a molti  filosofi son parse insormontabili, le difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato, e  Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si  enim numerare possumus decem revolutiones praeteritas, et centum,  et mille, et omnes. Si quis dixerit non omnes esse numcrabiles, sed  practeriisse infinitas, et dixerit imam futuram revolutionem in futuro  anno, essent igitur tunc infinitae et una, quod est impossibile.  Bacone, Novum Organimi , odi/.. Fcllow, Ne-  Kant è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che  ponendo la mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una infinità  di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma anche, tra gli altri, il più  acuto forse dei filosofi post-kantiani, Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi casualmente senza ragione  alcuna avuto un assoluto principio nell’essere, cosa evi-   quc. cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia  inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale  dichiara insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema  cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel  passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella supposta  contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex co  quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse conclu-  deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est pares  et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o, secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella sua  dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie, Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è sur  un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente, assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi  alla infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale applicazione sia necessaria, egli  à fatto invece quella ingiustificata della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato sin’ora. I cangiamenti infiniti di cui si discorre non involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un principio del cangiamento. Di  fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque?  Si pensa con un tratto indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre in-   -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera  filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u. Paralipomena: Wenn  cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die jetzige reale  Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou liingst gewesen,  dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir irgend einen.  jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der min aber,  wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic hinaufruckén,  mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino sempre alla medesima distanza. Qualunque punto del tempo si scelga, anche milioni di  milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi  per quanto risalghiatno addietro non possiamo esaurire  l’infinito che fu, cosi non dobbiamo inavvertentemente  ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti partito  da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà  ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti  dietro a sè una stessa infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è assolutamente  infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri sta  nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto, e non ammette quindi  alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè ogni  numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring,  l'assurdo di una contata (o percorsa , come direbbe Kant) serie infinita (“den Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò  egli ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo reale? In verità è quella  serie non contata, ma innumerata e innumcrabile, ciò  che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto non à principio nel tempo, e: sino a un  punto qualunque del tempo è trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente. Con  è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò  che è impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione  scompare subito che si dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die  i cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa senza contraddire al concetto di ogni  assenza di principio. Una infinità di cangiamenti, una infinità  di momenti del tempo non è trascorsa, sibbene l’infinito  trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la serie dei  processi. La successione perpetua è appunto la forma  della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo  in vece sua quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti. Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita nel  passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua  natura non può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti del passato è infinita — quale  contraddizione nel pensare che ogni cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo  di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni per sè non suppongono se non  i fenomeni che immediatamente li precedono ; e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere all’ora  presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito  perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che quello dal  quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve solo  avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva  e che il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di sciogliere il sofisma Kantiano  con un altro sofisma, distinguendo tra assenza di principio e infinità  del tempo. Schopenhauer cosi infatti obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin, dass statt der Anfangslosigkeit der  Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die Rede, plutzlich die Endlosigkeit  (Unendliclikeit) derselben untergeschoben und nun bewiesen wird, was  Xiemand bezweifelt, dass dieser das Vollendetsein logisch widerspreclie  und dennocb jede Gegenwart das Ende de Vergangenheit sei. Das Ende  einer anfangslosen Reilic làsst sich aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik der reinen Venunft”, ed.  Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G  sentanone della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il concetto di totalità  non esser applicabile ad una serie infinita. Tuttavia per  dimostrare che le cose coesistenti non possono essere infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco  nel rigettare quindi un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir pensato tale dovrebbe  lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive. Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque  una totalità infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant : una infinità  non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser  finita, dunque non può esser data; vien rigettato  l’infinito semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo l’infinito nel finito è realmente  un assurdo, poiché come tale dovrebbe esser necessariamente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò contenere soltanto un numero finito di elementi numerabili. Ma  quanto al temilo non c’è ragione di negarne la infinità ;  numerabili sono i processi da un punto a un altro della  serie, non la serie stessa in senso assoluto, perchè ella  non è mai data come un tutto,   Is eli infinito assoluto o transfinito che è proprio del  tempo, non abbiamo più veramente una grandezza ma  1 assenza di essa, poiché è data la necessità della mancanza di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza  è oggettivamente mallevata come nello schema spaziale  della mente essa lo è soggettivamente. La ragione della  infinità dello schema spaziale, come di quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà  estramentale. E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente attuare un significato  reale del transfinito. Poiché una simile illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio ideale o matematico, in quanto questo viene ogget-  tivato e lo possibilità che realmente è solo nella funzione  mentale vien naturalmente considerata come oggettiva e  per sé esistente indipendentemente da noi. L’infinità del  passato non à, come tale, determinazione alcuna quantitativa, non si lascia esprimere col numero ; in essa è  invece ogni numero e può porsi ogni determinazione rimanendo ella assolutamente indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per quanto grande la si  immagini, se si à riguardo alla sua relazione all’infinito  del tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto essendo propriamente la  negazione di ogni grandezza nel grande non può venir  posto in relazione con altre grandezze. La nostra fantasia non può correre che all’ infinitamente grande del  passato. SOLO L’ANIMO ne intende la infinità assoluta.  Della seriedel tempo non possiamo ottenere una assurda totalità; per padroneggiare quella bisogna uscire dal cangiamento e volgersi al fondamento della infinità  temporale, ossia all’essere come presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile.  Meravigliarsi che la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina all’infinito assoluto che la più  piccola, è analogo al meravigliarsi che la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in  sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si tratta  di una differenza qualitativa che nou si lascia esaurire  pei aiiazioni di quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande grandezza non s’è mai più  vicini che con altra infinitamente minore al transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite  a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma  consideiandolo invece come una quantità determinata;  nel qual caso sarebbe veramente un assurdo dire che da  esso disti ugualmente un dato punto e un altro che fosse  prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato  non c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo; dunque tutte le grandezze  sono per riguardo ad esso insignificanti. Parimenti è un  assurdo credere di poter addizionare una unità al transfinito o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento esisterà pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in riguardo alla retta stessa nella  sua infinità. In una retta infinita nelle due direzioni è  indifferente il far la divisione più in un punto che in un  altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti sono  sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B   ossia ( co’A-H AB ) — B oo uguale cioè (A oo — AB).  Si vede cosi contrariamente alla dottrina di Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie als  bestimmt und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche hinzu-  gelugt und mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch eine  Aufhebung der letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang, die  llinzufugung einer unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J— 1 secondo la sua notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da essendo   co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro infinito: tanto sarebbe infinito il tempo ritroso se la  serie dei cangiamenti fosse terminata migliaia di secoli  fa, quanto se esso continui all’infinito a trascorrere ancora. Il passato si può misurare tanto a minuti che a  secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così esprimersi, a  numero infinito di minuti o a uno infinito di secoli; non  pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più nè  meno. E la ragione di ciò è che la quantità transfinita  non è misurabile. La immensità supera ogni numero,  come direbbe Spinoza.   Nella infinita serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può chiamarsi), maggiore di ogni  numero assegnabile ; oltre ogni raggiungibile anello la  natura ne offre costantemente altri ulteriori. Nella natura la contraddizione non può esistere ella non ef¬  fettua il passaggio che da un momento a un altro; e  questo passaggio non può farsi attraverso l’infinito. Per  quanto noi risalghiamo all’indietro nella serie causale,  come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi non la troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un   ziierst, gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass eine  Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre: “Ist co die erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat man:  1+01=10, dagegen u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene Zahl ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also alles an. Una tale inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe per Cantor servire inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e pari e dispari insieme o anche nè pari  nè dispari. . 5dato cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la totalità della serie delle  cause anteriori, si bene soltanto la causa immediatamente antecedente; e il principio di ragione domanda unicamente la immediata condizione e non una totalità di  condizioni. In quanto la stessa richiesta si rivolge successivamente alla causa della causa e cosi via all’infinito, si viene a domandare costantemente una nuova condizione e questa è un nuovo membro della serie e niente  di più. Al tempo è essenziale la posizione in atto di un  solo momento.   Fatta astrazione dai cangiamenti, e supposto l’essere  affatto immoto in una rigida stabilità assoluta, noi lo  poniamo però sempre in qualunque punto del tempo ideale  che noi fissiamo ; la sua esistenza la poniamo cosi necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere  la contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti  pensiamo invece l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un tutto infinito,  quale non può qui esser dato, poiché la successione perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo  qui una serie che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno è infinitamente  grande, e per sé è transfinita come la tangente dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione  de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico  del tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è  e cosi gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1 eternità del processo della natura. Il concetto limite del     in.   Kant crede che la sua dottrina della idealità  del tempo e dello spazio o della transcendentalità in  generale, spiegasse la supposta antinomia del problema  cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la ricerca  di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo  spazio al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione  se questo, che Kant non può a meno di accettare, si  abbia a pensai’e come fondamento di un mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere  che la serie regressiva delle percezioni nostre non può  essere realmente infinita perchè come tale impossibile, e  neppure finita perchè nessun limite dei fenomeni può venir  concepito come assoluto, e dichiarare con ciò insolubile  la questione. Dacché l’oggetto trascendentale condiziona  realmente, come egli ammette un determinato regresso  empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ;  doveva Kant pur ammettere che rimaneva sempre a ve-  regresso infinito (o a dir proprio infinitamente grande) non è già un  concetto trascendente della creazione quale dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della natura (v. Wundt,  “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.); quel suo  concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito assoluto  del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità  del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per cui Wundt concepì il tempo passato  sotto il concetto dell’infinitamente grande concordando in fondo col  Kant, come il Lasswitz si trova in questo d’accordo con lui. (Ein  Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der reinen Vermnft.  dere se l’oggetto trascendentale determinasse un possibile  regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii  processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la possibilità deirallungamento della  catena dell’esperienza dalla percezione attuale indietro  alle condizioni che la determinano nel tempo; pure egli,  per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile regresso delle nostre percezioni secondo le soggettive leggi della mente, non supponga un regresso oggettivo determinato dalla realtà inconscia indipendentemente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita  distanza dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre  ancora nuove percezioni? E cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi necessariamente  sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra necessaria  produzione dello schema dello spazio e del tempo, non  potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni  dove l’oggetto trascendentale non le condizionasse e si  mostrasse con ciò finito. Lo spazio e il tempo ideali non  sono per sè garanti di una corrispondente possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del  tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità  della serie regressiva dei cangiamenti. Poiché non si  può conchiudere la mancanza di un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg gegeben ; sie sind aber ftir mieli  nur Gegenstànde und in der vergangenen Zeit wicklich, sofern als  ich ecc.). Saranno però dunque sempre non null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della possibilità  dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente percezione  indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da questo, che ogni limite è necessariamente da noi  pensato come relativo. La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in cui comprendiamo il  reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in sè della  cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e  limitante non può evidentemente mettere nella realtà il  suo secondo termine se nella realtà non è dato. Questo  secondo termine, il limitante, rimane, se si astrae da  ogni altra considerazione, un puro complemento ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa contraddizione che Kant e Dtihring, per  non dir che di loro, credettero inchiusa nella concezione  di una serie regressiva infinita di cangiamenti. Visto  che la contraddizione stava nel concetto di una infinità  la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente   [Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo all’infinito del tempo e dello spazio,  che se la ragione non ci fa piegare necessariamente nè da una parte  nè dall’altra, pure in realtà il tempo e lo spazio dehban essere o  finiti o infiniti. (Cfr. del resto l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL). Spencer  poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del tempo e dello  spazio che quella della divisibilità della materia e altre ancora. Egli  pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di moto, di  materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First Principles”, la quale io stimo  certo l’opera più infelice del filosofo inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare  la numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle cause e delle variazioni.  Numerabili, dice egli, sono le cose, non i processi. In  quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,  deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come  legge del numero determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione non vale per i  processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per sé  stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione mentale che essi ottengono una tale determinatezza. Un argomento dunque che vale per il numero non  può senz’altro venir applicato al tempo, poiché mancano  in questo per sé considerato e non riferito allo spazio,  degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dall’altro, o posti insomma come numerabili. Noi possiamo  distinguere dei processi nel tempo soltanto in determinato numero finito, nessun processo è però indipendente  [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava dapprima decisamente a porre con Duhring un principio del cangiamento. Soltanto nella seconda parte del secondo tomo, tormentato dalla necessità del principio di causalità cangiò opinione (quantunque non lo abbia fatto notare egli stesso esplicitamente);  ma per uscire dalla presunta contraddizione dell’ infinito regresso,  pensò, al contrario di prima, i processi come assolutamente, e con ciò  assurdamente continui. Si vede del resto evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato  di parere, non ò nemmanco ancor ora troppo certo della sua nuova teoria; poiché la tratta troppo brevemente e troppo alla larga, come se  gli scottasse di dover render più minuto conto di ragioni che a lui  stesso non possono parere troppo convincenti Ciononostante l'opera  sua e specialmente la seconda parte del secondo tomo è un lavoro  filosofico non solo di grande valore, ma anche molto attraente, il che  è una cosa assai rara.  1C  e distinto da quello che immediatamente lo precede o  segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta contraddizione à dunque rinunciato a concetti di  cui l’esatto pensiero scientifico non sa nè può lare a meno,  senza che ciò del resto gli abbia giovato per la eliminazione della temuta assurdità come più innanzi vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che  lo spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza  loro ideale ; cioè il loro schema mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi solo pensare  lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché  estensione reale è coesistenza, e la continuità assoluta  non può essere reale ma soltanto ideale ; altrimenti essa  inchioderebbe la contraddizione dell’infinito compiuto nel  finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione. Porre la continuità assoluta come effettiva è  non spiegar nulla e mettere il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo dobbiamo  soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del  tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo che contro quello dello spazio;  non meno contro lo spazio percorso da un pendolo in  una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In parti ultime non si può dividere il tempo nè  lo spazio ideale, perchè essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti non possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi  semplici, e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi del tempo e dello spazio  leali, dove la natura viene necessariamente aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone  l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo  per ciò ci appaiono indipendenti, che partono da cose  spaziali e si trasmettono ad altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può  aver indipendenza solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo unicamente. Ma è naturale  che tutti i processi siano nel mondo materiale (e non  vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello  spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della  realtà spaziale, e unicamente i processi della coscienza  in sè considerati possono venir riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente  continua come lo spazio mentale, ossia non costituita  da atomi? Anche  della materia allora si dovrebbe dire che gli elementi  distinti solo la nostra mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la riferenza dei  processi temporali allo spazio ci faccia considerar questi  come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe  al contrario anche secondo il Riehl esser lo stesso che  negare nello spazio gli atomi o le cose ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi.   Ogni grandezza nella realtà à parti elementari, non  esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di cangiamento è  una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il  pensiero come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di nebuloso  E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e per  cui la mente non avverte o avverte assai meno la inintelligibilità di quello. Colla posizione dell'atomo o minimo,  la natura non più oltre scrutabile del tempo si affaccia  bruscamente all’intelletto. Il tempo come rappresentazione rimane naturalmente strettamente continuo pur essendo discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta ideale è una proprietà necessaria dipendente dalla  natura della coscienza, la quale tra due processi per  quanto infinitamente vicini interpola pur sempre la sua  unità. Non c’è un minimo concettuale del tempo come  c’è invece e si richiede il minimo reale. I n minimo nella  rappresentazione del tempo sarebbe un punto inesteso, e  considerarlo come elemento della durata tanto varrebbe  quanto rendere impossibile il concetto di questa.   Non deve più urtarci l’accettar gli atomi, o meglio  la concessione atomistica, per la materia, che accettarla  in riguardo alla forza e al cangiamento. Non crediamo  siano più intelligibili gli elementi materiali che quelli  del divenire. La facoltà nostra mentale di pensare gli Schopenhauer trattando nella quadruplice radice del principio di ragione del tempo del cangiamento, mette in piena  e con ciò stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità  assoluta del tempo, quale egli trova acutamente espresso presso il LIZIO. “ Come tra due punti v’ è ancor sempre una linea, dice egli,  così tra due ora vi è ancor sempre del tempo. È questo il tempo del  cangiamento ; esso è come ogni tempo divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento percorre in esso un numero infinito di gradi  per i quali dal primo stato nasce a poco a poco il secondo. Egli  conchiude con Aristotele dalla infinita divisibilità del tempo, che ogni  contenuto di esso e con ciò ogni cangiamento, o il passaggio da uno  stato all’altro deve essere infinitamente divisibile, e che dunque tutto-  ciò che diviene s’origina in fatti da punti infiniti.  atomi come ulteriormente divisibili vale per tutti e due  gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la  mente di ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio  clic par darci questa necessità, non è in fondo che ca¬  gionato da quella nostra come ripugnanza a riconoscere  che l’analisi mentale della realtà deve a un dato punto  arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad elementi  i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il  reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale  non porta con sè una reale divisione. Solo il tempo ideale  può venir diviso a piacere all' infinito, e non à quindi  elementi numerabili, ma il tempo reale col suo vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque noi, come ci accade per gli atomi della materia, non  arriviamo direttamente a’ suoi elementi. Non meno delle  cose o degli elementi delle cose sono anche i processi numericamente distinti. E se in astratto la grandezza non  à divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir  esattamente concepita che come risultante di una immediata ripetizione numerica d’uno stesso identico. L’assenza  di elementi reali è solo nel nostro pensiero che può a-  strarre da ogni divisione nel considerare una grandezza,  ed è pienamente libero di dividerla o accrescerla all’ infinito, allo stesso modo che esso procede co’ numeri. Tanto la natura che il pensiero ànno del resto la possibilità dell’infinito accrescere e interpolare ; ma ne’ loro  prodotti non possono dare che il determinato: l’infinito  si riferisce solo al loro operare, non al loro operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al tempo  reale sarebbe del resto affatto inutile anche quando fosse giustificato. Poiché empiricamente un tal continuo noi  non lo incontreremmo mai. Il fatto che noi della sintesi  della natura (come dice Diihring in qualche luogo della “Dialettica”), non abbiamo altro che rappresentazioni di  effettività, non ci dà il diritto di fare delle possibilità  del nostro pensiero la misura della realtà. Come in sé  sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’ altro,  non può venir inteso. Tanto varrebbe domandare perché  esiste il tempo o magari l’essere stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi del tempo è uno sconoscere la natura del pensiero; noi non li  possiamo ridurre ad altro perchè il tempo non è un prodotto della mente, è condizione anzi dell’esperienza, e  non à una natura puramente logica. Il passaggio è una  determinazione della realtà che noi non possiamo che  riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi della  materia; noi non possiamo che ammetterli o riconoscerli;  una pretesa spiegazione di essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà, ma vien confinato da qualcosa  che se pò dare ad esso un contenuto formale, non può  però dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del cangiamento si fa il passaggio in quanto il cangia¬  mento stesso ci si mostra come fatto compiuto. Noi  non dobbiamo quindi illuderci col concetto misterioso del  continuo assoluto di penetrare più addentro nel fare della  natura, nel divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai  altro che constatare gli avvenuti cangiamenti, nuH’altro  possiamo. E cosi in realtà non conosciamo come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è fatto. Tornando ora alla soluzione di Riehl, nemmanco col fare la serie dei cangiamenti assolutamente continua  sfugge egli, secondo crede, alla temuta e presunta contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1' errore suo si fa più stridente e palese quando egli sostiene che la infinità del tempo si mostrerebbe esaurita  se si dovesse pensare ad un suo fine nel futuro. Ei  crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione, si dovrebbe ammettere un principio assoluto del  tempo. E così fa dipendere, cosa enorme, la infinità del  regresso dalla infinità del progresso nel futuro. Ma la fine  del tempo non è invece punto contradditoria. É questa  una questione di natura empirica; e cosi secondo lui non  dovrebbe esser allora inconcepibile e contraddittorio neppure un principio del tempo. Il tempo reale, ove fossero  date le condizioni di un equilibrio universale, potrebbe  finire ad ogni momento senza assurdità alcuna. Poiché  ad ogni modo nella natura ogni fine non è della serie  infinita ma dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure,  ammettiamo che i processi non siano per sé distinti e  numerabili, ma siano invece assolutamente continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo sono  senza dubbio determinate numericamente. Ora come risponderebbe egli alla domanda — nè vi può  in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare che insieme sommate le oscillazioni dei pendoli che possono  dall’eternità esser mai esistiti in infiniti mondi, possano  venir compresi da un numero finito? E se no sotto quale  concetto una tale somma o regola di somma dovrà venir  pensata? A ciò non à egli risposta.  E più ancora come risponde Riehl a quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità ad ora nate e morte è egli infinito o finito? Poiché qui manifestamente  abbiamo delle esistenze separate, indipendenti, numerabili  anche secondo lui. L’unica giusta risposta è che un tal  numero è necessarianente infinito, o, propriamente, transfinito. Nel corso perpetuo del tempo non solo non è contraddittorio, sibbene è necessario che un infinito numero di corpi celesti (dato che le moderne teorie cosmiche  siano, come pare, inevitabili) abbia gradatamente avuto  nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo cangiamento, nemmanco vi fu una prima terra. Il concetto dell’infinito assoluto o transfinito è applicabile solo alla serie regressiva dei cangiamenti, non  alla progressiva. La natura di questa consistendo appunto nel crescere suo continuo verso il futuro non può  cadere, se infinita, che sotto il concetto dell’infinitamenfe  grande. Poiché in nessun punto iminaginabi'e del futuro  non si sarà compiuta, a partire da un punto qualunque  del tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E ciò che si avrà sarà solo la continua possibilità  di sempre nuove mutazioni. La questione però se realmente nella natura dell’essere sia la disposizione a qnes'.o infinito futuro è affatto empirica, non essendoci, come s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a priori ci impedisca di pensare possibile un termine d’ogni cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il concetto del tempo per sé non ci dà alcuna soluzione; la questione  è puramente di fatto. La soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello schema spaziale non porta seco  necessariamente un infinito riscontro nella esistenza materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza del tempo ideale porta con sè quella del tempo  reale ossia una serie infinita di reali cangiamenti. Essa  non ci impedisce in modo alcuno di considerare come possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati di pensare ad un tempo vuoto non è però il pensiero  di esso che gli dà un contenuto reale in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata tanto è  del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane  mai nel nostro pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza dell’essere, indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può mai mancare di  farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza tra la rappresentazione dello spazio e quella del  tempo. Mentre a niun punto arbitrario del tempo viene  a mancare il contenuto materiale, non così necessaria¬  mente ad ogni punto dello spazio. A parte i cangiamenti  in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad.  esso venir applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre quello che è, cosi il tempo non  à a suo riguardo significato alcuno. In un qualunque  momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è  tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse realmente a mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo impropriamente  venir considerato come nel tempo; la durata dal punto  in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso  perchè noi la immaginiamo misurata da quella piena di  cangiamenti della nostra coscienza.  Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità del passaggio di un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza  fine – V. anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le due infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale inchiude la realtà eterna,  la realtà che fu e che sarà. La pienezza dell’essere non  ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita sua  fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è  elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia a  originarsi. Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo ci si svela la sua natura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che  per la coscienza l’essere immoto in una rigida inerzia  non avrebbe valore alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in un qualunque  punto matematico del tempo. E cosi T importanza del  tempo finito non si perde di contro alla infinità passata  e futura del processso: ogni momento del tempo ci  dà l’essere sub specie aeternitacis, nè altra mai è stata  la esistenza della realtà che quella del momento.  Solo in questa considerazione della permanenza  eterna del reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi. Giova quindi, per  la concezione universale dell’esistenza, oltre che aver  riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel  tempo considerare gli altri sistemi parziali del cosmo  nel loro coesistente diverso grado di svolgimento, per  cui si lascia forse quasi pensare come in ogni momento  attuata nello spazio la evoluzione temporale dei singoli  mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da processo  a processo, per il filo della causalità materiale spiega  l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella rappresentazione non  basterebbero per sè a escludere una radicale disparità  nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente  forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà  non possa dare origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si riconosce che l’unità  stessa del reale è che crea quella dello spazio e del  tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬  tura meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della  natura esprimersi in relazioni di spazio; nelle necessità  spaziali è la logica immanente delle forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo avuto  riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà materiale. Il pensiero per sè non trova alcun  impedimento a riunire ogni spazio in uno spazio unico  nel vuoto schema spaziale e non può trovar quindi ragione di considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi  la pluralità degli spazi vorrebbe dire pluralità di  esseri. Ora una tale pluralità non solo non può mai  venir oggetto del nostro pensiero e per noi non può quindi   assolutamente esistere, ma è dalla realtà smentita, perchè anche l’esperienza colla omogeneità universale della  materia mostra esser l’essere uno. Le posizioni delle  distanze nello spazio reale non sono che rapporti di  forza. Ogni elemento dell’ esistenza materiale è quindi  nello stesso unico spazio. Non esistendo cosi elemento alcuno fuori d’ogni relazione cogli altri. Analogamente è del tempo reale ; la sua unità suppone quella  dello spazio materiale e dipende insieme dalla universalità del cangiamento. Per la natura radicalmente omogenea delle cose e per la temporalità d’ogni cangiamento  è uno anche il tempo oggettivo. E cosi che i principii meccanici si estendono presumibilmente e con sempre maggior certezza ad ogni massa  dell’universo, a ogni sistema di stelle fisse e gruppo di sistemi. Poiché la base dell’esistenza è di natura meccanica. Solo la sensazione come tale o il campo della coscienza ne resta fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una eterogenea sebbene costante e parallela illustrazione. L’unità dell’essere non à riscontro in una fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale; rifrange invece per dir cosi la sua unità in quella di molteplici  coscienze individuali. L’unità oggettiva estramentale e la  unità della coscienza: due abissi del pari inscrutabili ma  rispondentisi. Albana e all’altra sta a base e direi quasi  a tergo quella che noi non possiamo concepire che col  concetto formale di ragione o di fondamento unitivo e  subfenomenico dei due fatti. Non è meno inscrutabile  l’una unità dell’altra, sebbene quella della coscienza implica per sé quella materiale oggettiva. Infatti che cosà  di meno oltre analizzabile dell’unità radicale che con la  mutazione si appalesa esistere negli elementi dell’essere? Come spiegare la effettiva comunione delle sostanze, il  fatto che lo stalo di un atomo porti seco un dato altro  stato di un altro? Queste riflessioni ci richiamano alla  infondata originarietà delle cose, e alla natura per così  dire superficiale della conoscenza e del pensiero. Quelli  sono resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già per difetto del nostro istrumento, ma per la necessaria natura stessa del conoscere, chè altrimenti la realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta dal pensiero. La  analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno  però bisogno d’esser limiti della conoscenza nel modo in  cui falsamente per lo più vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia pur solo logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è incondizionatamente applicabile al reale  il principio di ragione, tanto meno lo sono altri concetti  essenzialmente relativi quali quelli di grandezza e di  scopo. Se l’universo è infinito, non à evidentemente per  ciò stesso determinazione alcuna quantitativa; se finito  è vero però che in relazione ad una sua parte esso à  una grandezza determinata, sebbene nell’estenzione variabile da un momento all’altro. E che possiamo quindi  dirlo più piccolo di una grandezza posta mentalmente  superiore alla sua ; che anzi possiamo anche considerarlo  infinitamente piccolo in relazione all’infinito assoluto dello  spazio ideale. Ma in sè non si potrebbe dirlo propriamente nè grande nè piccolo, perchè fuori di esso non vi  è nulla che possa darci una unità di misura. E del pari  è affatto relativo il concetto di durata e inapplicabile  perciò in modo incondizionato all’essere. Questo non  dura nè tanto nè poco; e la ragione di ciò è che esso  non è nel tempo. Considerando però la serie dei cangiamenti, al contrario di quanto ci accade per lo spazio,  lo schema ideale del tempo riceve necessariamente un  contenuto reale perfettamente corrispondente. E sciogliendo la difficoltà che più che tale a molti filosofi è  parsa sinora una stridente contraddizione, abbiamo visto  che come per mezzo del tempo si fa possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe contraddittorio, cosi  per il cangiamento trova una necessaria applicazione alla  realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario Novaro. Novaro. Keywords: implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice echoing Kant, echo, implicature ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth, Strawson’s echoic theory of truth, Skinner on echo – ecoico, eco, implicature ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi Speranza, “Grice e Novaro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera Ligure.

 

Grice e Novato: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Seneca’s brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates two of his philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that if Novato was not a follower of the Porch, he was a the very least a sympathiser.  Lucio Anneo Novato. Novato.

 

Grice e Numa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la logica del regno – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Cures). Filosofo italiano. Cures, Fara in Sabina, Rieti, Lazio. The second king of Rome. A book was discovered. It wasn’t written by Numa, but the Romans said it was. It was very philosophical. The Roman senate ordered that it should be burned. It was! But most Italians can recite by heart all the indiscriminate teachings it contained. The big polemic came from Cicero. He didn’t want Roman philosophy to have a start other than in Rome, so he denied the school of Crotone and much more any Etrurian influence via N. Still…  N.dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume Rouillé 2º Re di Roma Predecessore Romolo Successore Tullo Ostilio Nascita Cures Dinastia Re latino-sabini ConiugeTazia Figli Pompilia N., Cures Sabini, -- è stato il secondo re di Roma, e il suo regno durò 42 anni. Numa Pompilio, di origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci grazie soprattutto a Tito Livio e a Plutarco, che ne scrive anche una biografia, era noto per la sua pietà religiosa  e regna succedendo, come re di Roma, a Romolo. N. e un re pio, e in tutto il suo regno non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di N. non avvenne immediatamente dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo, i senatori governarono Roma a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo di sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno, i senatori furono costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa delle tensioni fra i senatori romani che proponevano il senatore Proculo ed i senatori sabini che proponevano il senatore Velesio. Per trovare un accordo si decise che i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella a Cures ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che N. fosse nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. N., concittadino di Tazio, e noto a Roma come uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di ‘pio.’  I Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini, per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, N. vi acconsente solo dopo aver preso gl’auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli. N. fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. La leggenda afferma che il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da N. fu a lui dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A N. viene attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii N. o libri N., che andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. N.stabilì di unificare ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani per eliminare le divisioni e le tensioni, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nomina, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, gli dei più importanti dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni. Numa proibe ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini. Durante il regno di N. non furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestal, sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città. Le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio ne aggiunse altre due. Istituì anche il collegio dei Feziali, i guardiani della pace, che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i conflitti e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra -- per i romani il periodo per le guerre anda da marzo ad ottobre. Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti di Roma, perché sanciva, nel corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a milites -- militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Numa migliora anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia assieme ai loro padroni. La tradizione romana rimanda a N. la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fa costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno -- Secondo Marco Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo, il re N., ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto N. e un convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già in voga in quei lontani tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re N. poi incluse a Roma il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura. A N. e ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre, ottobre, novembre, dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e ne-fasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta che il re N. segue i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Atque omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desuntque sex dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat. Anzitutto divise l'anno in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano, tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo ventennale del calendario. Egli fissa pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe condita)  L'anno così suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche. Floro racconta che N. insegna i sacrifici, le cerimonie ed il culto del sacro ai Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri ed i salii. La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la festa di Quirino e la festa di Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio. La festa dedicata a Marte si celebra a marzo, e venne officiata dai salii. N. partecipa di persona a tutte le feste religiose, durante le quali e proibito lavorare.  A queste riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il regno di Numa le porte del tempio di Giano non furono mai aperte. N. muore ottantenne e non di morte improvvisa, ma consunto dagl’anni (per malattia secondo Livio), quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, ha solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, N. seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città. Durante il consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti di filosofia. Per decreto del senato, i primi furono conservati con cura. I secondi furono pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e si lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e Marcio e nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo matrimonio di N. con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci. L’esistenza di N., come accade per quella di Romolo, è discussa. Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo alcuni N. viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua figura. Strabone, Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio: Ab Urbe condita. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere. Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito, Annali, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione. Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di N. Antonio Brancati, Civiltà a confronto, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae, Livio, Ab Urbe condita libri; Periochae. Plutarco, Vita di N.. Fonti storiografiche moderne, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, Milano, Einaudi, Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron, Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, Gabba, Dionigi e la storia di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, Matyszak, Chronicle of the roman republic: the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra, Thames and Hudson, Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli, Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie Età regia di Roma Rex (storia romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia romana). N. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sanctis., N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. sapere.it, De Agostini. N. Enciclopedia Britannica, Goodreads. Predecessore Re di Roma Successore Romolo a.C. Tullo Ostilio Storia romana Plutarco  Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Mitologia Categorie: Sovrani Sovrani Romani Nati a Cures Sabini Personaggi della mitologia romana Re di Roma Oracoli classici [altre] Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in quarto libro tradit Cneum Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua N., qui Romae regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse libros a rege Numa scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta N. libros Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam tradit libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a scriba senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos, permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos non tetigerant. Tamen, lectis libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica philosophia et propter hoc a praetore ussi sunt. Hoc idem tradit Piso quoque in libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris pontificii, totidem Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera sua etiam senatus consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico autore di annali, nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio avesse disseppellito nel Gianicolo il sarcofago, nel quale N., che aveva regnato a Roma, era stato sepolto. Aggiunge inoltre che nel sarcofago erano stati trovati i libri scritti dal re Numa cinquecentotrenta anni prima. Cassio scrive anche che i libri di N. erano di carta, pieni di molte cose misteriose. Cassio tramanda anche che i libri nel sarcofago fossero stati trovati integri con grande stupore di tutti e che fossero stati portati dallo scrivano al senato. Poiché tutti notavano che i libri, sepolti sotto terra, erano rimasti integri, Cassio Emina stesso fornisce la sua spiegazione.  Dice, in effetti, che questi libri erano stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e per questo erano rimasti integri.  Inoltre, poiché i libri erano stati cosparsi con grande cura di olio di cedro, i tarli non li avevano toccati. Tuttavia, letti i libri, furono trovati molti scritti sulla filosofia pitagorica e per questo furono bruciati dal pretore.  Questa stessa notizia la tramanda anche Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette libri del diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di Anzio inoltre nella sua opera tramanda anche la consultazione del senato nella quale fu ordinato che essi fossero bruciati. The original Romans are the ones who did the choosing part. They don’t select anyone from the Sabine senators but find a man in the Sabine city of Cures, the birthplace of the former king Titus Tatius, famous for his justice, wisdom, and piety. His name was N.. The people, happy with this choice, accepted their new king quickly. Only one small problem now occurred – the man who was chosen to rule after so much effort and such a lengthy and difficult process was not really keen on reigning at all. When a delegation from Rome approached him, he humbly refused. It required much much persuasion from his father and brothers with arguments about honour too great to refuse, but in the end, N. finally agreed and became the king of Rome. Numa Pompilio. Numa.

 

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