CHECCO MARCONI, IL FALEGNAME DIVENUTO TENORE
Una voce dolcissima e un sentimento unico.
Sono questi i due elementi che hanno fatto la fortuna di Francesco Marconi come cantante lirico, un artista quasi senza rivali, se si fa eccezione per un "mostro sacro" come Giuliano Gayarre.
Di lui si è sempre detto che non avesse alcuna cultura musicale, ma gli bastava semplicemente l'istinto, il quale gli consentiva di cantare quasi in maniera inconsapevole, tanto che più di un critico lo paragonò addirittura a un uccello.
Non è un caso che nel 1924, a otto anni dalla sua morte, sia stato giudicato come uno dei cantanti più riconosciuti e stimati dell'ultimo mezzo secolo.
Insomma, nonostante la contemporanea concorrenza di Francesco Tamagno, riuscì a imporsi sia in Italia che all'estero.
Eppure, i primi cenni della sua biografia non facevano certo presagire una carriera del genere.
Nato a Roma nel 1855, "Checco" proveniva da una famiglia piuttosto agiata, ma lo sconvolgimento successivo dello Stato Pontificio mandò in rovina moltissimi metallari, tra cui suo padre, uno dei principali negozianti di ferramenta della città eterna.
Il bisogno e la crisi, dunque, si fecero sentire sin dalla più tenera età e Marconi fu impiegato in una falegnameria come addetto alla costruzione di bare.
Questo suo passato così umile e operaio lo inorgogliva e non c'era occasione in cui non lo ricordava.
D'altronde, la sua verve romanesca era piuttosto vivace e in molti ricordano i piccati commenti che era solito fare, quei modi un po' bruschi appresi proprio in officina.
La falegnameria lo accompagnò fino ai vent'anni, poi giunse, inaspettata, la svolta della sua vita.
In effetti, Marconi era solito uscire la sera e recarsi a Trastevere per fare qualche serenata alla ragazze che gli piacevano: questo suo canto fu notato una sera dal baritono Ottavio Bartolini che passava proprio da quelle parti e fu allora che lo prese sotto la sua protezione come maestro.
La famiglia comprese solo dopo qualche tempo quanto la voce del ragazzo fosse eccezionale.
Il debutto avvenne nel 1876 a Firenze, presso il Teatro Pagliano (l'attuale Teatro Verdi) nel Mefistofele di Arrigo Boito.
Che Faust fu Marconi al suo esordio operistico? Una bella fotografia di quella serata è stata "scattata" dall'impresario Gino Monaldi, il quale era presente: a suo dire, non poteva essere dimenticata facilmente la dolce sensazione dell'ascolto della romanza Dai campi, dai prati, quasi fosse un sogno.
Insomma, già a ventuno anni Marconi vantava un timbro soave, un suono giusto e una resistenza fenomenale ai fiati, come se al posto della laringe avesse l'arco di un violoncello. Pian piano il tenore romano riuscì a conquistare platee ben più ambiziose e non è un caso che già nel 1878 ci fu l'opportunità di volare all'estero.
L'esordio avvenne con il Faust di Gounod presso il Teatro Reale di Madrid. L'invito alla corte spagnola fu la conferma dei crescenti apprezzamenti nei suoi confronti e Marconi si sentì sempre a casa da queste parti, come ricordava, ingenuamente e con il suo tipico dialetto:
In Ispagna me sento come a Roma, a Napoli, a Bologna.
C'è un pubblico che capisce.
È un piacere sentitte dì quel bravo a tempo, quando capisci che lo meriti.
Li chiameno pubblici esiggenti, ma dì pubblici intelliggenti!
Lo stesso entusiasmo, invece, non veniva nutrito nei riguardi del pubblico inglese e americano.
I successi trionfali all'estero gli consentirono di tornare pieno di allori in Italia, dove cominciò a cantare alla Scala di Milano e all'Argentina di Roma.
Checco amava eseguire soprattutto le opere di Giuseppe Verdi, come Un ballo in maschera (cantava in modo molto fine ed senza esagerazioni), Rigoletto e Aida, ma memorabili sono state anche le sue interpretazioni della Lucrezia Borgia e dell'Elisir d'Amore di Donizetti. Inutile aggiungere come a Roma fosse letteralmente idolatrato, anche grazie alla sua affabilità e disponibilità con tutti: non era raro ascoltare dopo una sua romanza un grido molto verace:
Bravo Checco! Ammazzete come je la soni!
Purtroppo, però, la sua voce eccezionale non durò a lungo e una sera, a Roma, gli venne meno mentre si accingeva a cantare La donna è mobile.
Morì nella Capitale nel 1916, ma col rimpianto di non aver conquistato la stessa fortuna di altri colleghi, ma con la consapevolezza di aver lasciato in eredità un patrimonio spirituale senza precedenti.
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